Diari di Cineclub

Diari di Cineclub
Rivista Cinematografica online e gratuita

mercoledì 28 novembre 2012

LETTERA APERTA ALLA LEGA DEI SOCIALISTI





LETTERA APERTA ALLA LEGA DEI SOCIALISTI



Care compagne e cari compagni,

il precipitare degli eventi economici e politici nel nostro Paese rende le prossime elezioni politiche un vero e proprio spartiacque storico, per il Paese ed ovviamente per la sinistra. Si schiera un centrosinistra, con probabilità di governare ma, a prescindere dalla legge elettorale che sarà utilizzata, certamente con la necessità di un appoggio perlomeno esterno dei centristi, peraltro esplicitamente invitati a partecipare dalla Carta di Intenti del principale azionista di tale coalizione, ovvero il Pd. Tale schieramento accetta esplicitamente, come da Carta di Intenti Comune firmata da tutti i partecipanti alle primarie, Vendola compreso, l'attuale impostazione neo-liberista e monetarista dettata dalla Trojka (Commissione europea, FMI, BCE) in nome e per conto del capitale finanziario globale e dei suoi interessi. Impostazione che di fatto azzera qualsiasi margine di discrezionalità di politica economica, poiché impone il pareggio di bilancio, ed il ritmo di riduzione di un ventesimo di debito pubblico ogni anno per i prossimi vent'anni. Cioè, approssimativamente ed in termini grezzi, manovre finanziarie restrittive dell'ordine di 40-50 miliardi ogni anno per il prossimo ventennio.

Tale impostazione, fatta propria dal centrosinistra, si coniuga perfettamente con una pesante ristrutturazione sociale, volta a smantellare tutti i sistemi di protezione sociale e di tutela della nobiltà del lavoro, conquistati con il sangue di oltre un secolo di lotte sociali dei nostri padri, dei nostri nonni. Ci consegnerà, alla fine, non una fantomatica ripresa “dentro di noi”, ma uno scenario sudamericano di povertà diffusa, ceti medi immiseriti, enormi ingiustizie distributive e di eguaglianza sostanziale, centri urbani fatiscenti circondati da bidonvilles, autoritarismi oligarchici di aristocrazie tecnocratiche chiuse, che salderanno interessi economici, finanziari, ecclesiastici e malavitosi ai danni del popolo, crescente repressione politica.

Tale impostazione è imposta a tutti i soci del centrosinistra, quale che sia la loro visione ideologica originaria, da un partito democratico che nasce come piattaforma interclassista con l'ambizione di esaurire la dinamica sociale in un compromesso che lo collochi al centro di un ipotetico, ed inesistente, equilibrio di forze di una società sempre più diseguale, polarizzata e tesa, come risultato delle politiche montiane dallo stesso Partito Democratico sostenute, dall'inizio alla fine della apocalittica esperienza del Governo tecnico.

Contrariamente a quanto teorizzano alcuni compagni, una polarizzazione di sinistra interna al centrosinistra, costituita cioè da SEL, dal PDCI, dal PSI, da Salvi-Patta e dai Verdi, non ha alcuna possibilità di influenzare e muovere l'asse politico del centrosinistra. Sia per motivi numerici, perché il bacino elettorale dei soggetti del Triciclo a sinistra del PD non è minimamente comparabile con quello del PD, sia perché l'aver stipulato la Carta Comune di Intenti collocherà tali soggetti nello stesso dilemma che ha distrutto Rifondazione comunista e la Sinistra Arcobaleno, ovvero l'incudine di essere accusati di non rispettare i patti ed essere inaffidabili, finendo per riconsegnare la prossima legislatura ad un governo tecnico di larga coalizione, e il martello di seguire gli indirizzi della Trojka marchiati a fuoco nel programma del centrosinistra. Esattamente come il proverbiale asino di Buridano, tale dilemma distruggerà i partiti del triciclo a sinistra del PD, intrappolati fra l'impossibilità di uscire dalla coalizione, e consegnare di conseguenza il governo ad una nuova tornata di Tecnici, e l'impossibilità di sostenere un programma di continuità con il montismo, tranne alcuni piccoli cuscinetti solidaristici, purché non onerosi per la finanza pubblica, quindi sostanzialmente inefficaci. Il futuro dei partiti più a sinistra dello schieramento di centrosinistra è del tutto analogo a quanto avvenuto a RC nel 1997 o alla Sinistra Arcobaleno, a meno che non accettino di diventare meri satelliti del PD.

E chi crede che tali partiti possano rappresentare un incubatore di unità a sinistra ignora, da un lato, l'influenza che le ambizioni carrieristiche ed il personalismo dei singoli leader ed esponenti (i cosiddetti Forchettoni Rossi di Massari) possono avere sulla capacità di manovra di tali partiti, e dall'altro la perdita di bacino elettorale che sarà conseguente alla loro partecipazione ad un governo non dissimile sostanzialmente da quello di Monti. E che già si appalesa nella fine del processo espansivo della SEL, il cui consenso elettorale mostra segni di stabilizzazione, se non di regresso.

Infatti i risultati elettorali delle primarie del PD che si sono svolte questa domenica (25 novembre) hanno segnato una pesante sconfitta di Vendola. Infatti SeL non è riuscita ad intercettare i voti di protesta esterni (quelli del Movimento 5 Stelle, della sinistra del Pd e tantomeno del Pdci, Verdi o Rifondazione o chi ormai ha scleto la strada dell’astensionismo) e soltanto un terzo del suo elettorato si è presentato al voto. Questo dimostra che il progetto politico di SeL di riuscire ad influenzare il centrosinistra dall’interno è fallito prima ancora di iniziare.

D'altro canto, lo scontento sociale viene raccolto quasi esclusivamente da un movimento, come quello di Grillo, incapace di fare il salto da una sorta di supermarket della frustrazione e della rabbia, in direzione di una forza politica in grado di realizzare una sintesi politico-programmatica capace di influenzare l'asse politico in una direzione compatibile con gli interessi di classe. La crescita di Grillo non è frutto di un destino cinico e baro, o di oscure manovre di palazzo, ma è principalmente favorita dall'assenza di una sinistra in grado di rimanere in contatto con il suo popolo, piuttosto che con il Palazzo e le conseguenti manovre elettorali e di coalizione.

La sinistra, se vuole sopravvivere anche in chiave riformista, deve stare con il popolo, con i lavoratori, i precari ed i disoccupati, non coltivare alchimie di coalizione e di tipo parlamentarista. Dobbiamo dare risposte alla richiesta di crescita, lavoro, sviluppo! E non le daremo stando dentro il centrosinistra genuflesso al fiscal compact!

A maggior ragione quando una nuova generazione di giovani a cui non viene più garantito un futuro scende in piazza accolta dallo Stato con pesantissime cariche di polizia e lacrimogeni ad altezza d’uomo, infatti a Roma nelle recenti manifestazioni studentesche è stato dispiegato un apparato repressivo impressionante. E dobbiamo altresì considerare che tutta una serie di lavoratori specialmente immigrati e precari non dispongono di nessun diritto sindacale e vengono completamente sfruttati da questo Stato.

Per quanto sopra, e considerata la gravità del momento attuale, che non consente più né ambiguità politiche né confusioni organizzative a chi vuole opporsi alla tragica deriva del nostro Paese, come Bandiera Rossa, componente a pieno titolo della Lega dei Socialisti, che ha partecipato attivamente all'elaborazione programmatica ed alla strutturazione organizzativa del movimento, chiediamo:

ñ che si chiarisca in modo definitivo che la Lega dei Socialisti, in questa fase di medio periodo contraddistinta dalle elezioni politiche 2013, non parteciperà in alcun modo alla coalizione di centro-sinistra costruita attorno al baricentro del PD;

ñ che il processo riaggregativo della sinistra socialista, di cui giustamente la Lega dei Socialisti si fa portabandiera, sia il primo passo per un più ampio processo di aggregazione unitaria della sinistra contraria all'impostazione neoliberista e monetarista delle politiche economiche e sociali condotte in Italia ed in tutta Europa;

ñ che si persegua in modo trasparente l'obiettivo di continuare a essere parte integrante di quella sinistra che è scesa in piazza il 27 ottobre nel “No Monti day”, senza indugi, senza pregiudizi negativi sui principali esponenti di tale raggruppamento, lavorando attivamente, da dentro tale schieramento, per evitare derive verso il centrosinistra;
     
  ñ l'esperienza storica della sinistra degli ultimi 15 anni dimostra che il tatticismo elettoralistico e di geometrie di coalizione è la malattia infantile, ed anche mortale, del socialismo. La recentissima rude sconfitta di Vendola è soltanto l'ultimo episodio di una sinistra che, privilegiando il dibattito sulle alleanze, le coalizioni e le percentuali, e trascurando il confronto con la società sulle questioni reali, che interessano il cittadino, si è autodistrutta. Chiediamo quindi di posticipare il dibattito sul posizionamento della LDS rispetto alle alleanze ed alle coalizioni a quando il quadro politico sarà più stabilizzato, per concentrare tutte le nostre energie sulla costruzione di un programma politico tramite il più ampio e sistematico confronto con la società civile;

ñ che si stabiliscano statutariamente le regole di funzionamento degli organismi politici ed organizzativi interni alla Lega, garantendo la democrazia interna ed una direzione quanto più possibile collegiale;

ñ che si conoscano i dati reali del tesseramento, a livello nazionale e per regione;

ñ che eventi importanti per la Lega dei Socialisti, quali quello del Primo dicembre, dove incomprensibilmente è mancato un punto sulla politica estera, così come anche proposte programmatiche provenienti da militanti o dirigenti del movimento, vengano preliminarmente discussi maggiormente, su base democratica e trasparente.


Tutti questi motivi ci costringono a costituirci come Bandiera Rossa - Frazione pubblica della Lega dei Socialisti


giovedì 29 Novembre

                                                         Riccardo Achilli
                                                         Giuseppe Angiuli
                                                         Antonio Di Pasquale
                                                         Norberto Fragiacomo
                                                         Stefano Santarelli

martedì 27 novembre 2012

PRODUTTIVITA': UN IMBROGLIO REAZIONARIO di Giorgio Cremaschi



PRODUTTIVITA': UN IMBROGLIO REAZIONARIO
di Giorgio Cremaschi

Il patto sulla produttività rappresenta un concentrato delle ideologie reazionarie e della programmata iniquità che è alla base della agenda Monti.
La tesi di fondo che l’ispira è un brutale imbroglio di classe.
La produttività italiana ha toccato il massimo negli anni 70, quando il potere dei lavoratori nelle imprese e nel mercato del lavoro era al massimo. Da allora è sempre declinata, fino a crollare quando il sistema economico è stato strangolato dai vincoli dell’euro e del liberismo europeo.In tutti questi anni il salario ha solo perso posizioni, sia rispetto ai profitti sia nel confronto con gli altri paesi Ocse. Un operaio italiano in un anno lavora due mesi in più del suo equivalente tedesco, eppure la produttività della Germania è ai vertici.
Allora perché in Italia si fa un accordo che chiede a chi lavora ancora più orario in cambio di ancor meno salario? Per la stessa ragione per la quale Monti vanta oggi il più feroce sistema pensionistico europeo, la massima flessibilità del lavoro, i più brutali tagli alla scuola pubblica e allo stato sociale, e allo stesso tempo proclama che questo è solo l’inizio e pretende che i suoi successori di centrosinistra continuino sulla stessa strada.
Perché c’é un metodo in questa follia. Se l’Italia deve sottostare ai drastici vincoli dei patti di stabilità europea, delle banche e della finanza, della moneta unica, dei governi conservatori, se il sistema delle imprese vuole incrementare i margini di profitto nonostante la crisi, allora è chiaro che l’unica leva che rimane , l’unica reale flessibilità è quella che viene dal supersfruttamento del lavoro.
Il patto sulla produttività estende ovunque il sistema Marchionne: i pochi che ancora lavorano devono accettare di farlo ai prezzi del mercato globale, altro che contratti e diritti.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la difesa dell’occupazione ma solo con quella dei profitti. Anzi la disoccupazione di massa è indispensabile per costringere i lavoratori a piegarsi al supersfruttamento . La disoccupazione deve restare e crescere, altrimenti il modello non funziona.
A tale fine il governo mette a disposizione la riduzione delle tasse solo per il salario flessibile. Mentre alla maggioranza dei lavoratori viene calata la paga, una minoranza può mantenere il potere d’acquisto se lavora di più in una azienda che va bene, e solo questa minoranza avrà meno tasse sulla busta paga. Questo mentre non si trovano più i fondi per la cassa integrazione o per l’indennità di disoccupazione.
Questo non è solo un accordo sindacale è un progetto di selezione sociale. Ed è la vera risposta alla crisi di Monti e degli interessi di classe che rappresenta. Interessi che impongono una svalutazione sociale del lavoro sempre più brutale, visto che quella che dura da trent’anni non è stata sufficiente.
Questo modello sociale reazionario si appoggia su un sistema corporativo di caste e interessi burocratici organizzati. Tutto il sistema delle imprese, comprese naturalmente le cooperative e le piccole aziende strettamente legate a partito democratico, ha sottoscritto con entusiasmo il testo. Tra i sindacati, i firmatari sono tutti coloro che hanno già sottoscritto le stesse condizioni alla Fiat, ricevendone in cambio la facoltà di sopravvivere protetti dal padrone.
La Cgil finora non ha aderito all’accordo, ma annaspando in un mare di contraddizioni e incertezze.
Il patto sulla produttività è in pochi anni il terzo accordo interconfederale che devasta il contratto nazionale e tutto il potere di contrattazione del lavoro. Il primo nel gennaio 2009 non è stato sottoscritto dalla Cgil. Il secondo, in pura continuità con il precedente, il 28 giugno del 2011 è invece stato firmato dalla stessa Cgil, che anzi con la Fiom oggi ne rivendica la piena applicazione. Ora il patto sulla produttività scioglie ai danni dei lavoratori alcune formule ambigue dell’accordo precedente, demolendo definitivamente il contratto nazionale.
Ma firmare una volta sì e una no non costruisce un’alternativa al cedimento, a maggior ragione poi quando i principali contratti sottoscritti in questa stagione già dispensano un’orgia di flessibilità e solo nei meccanici la contrattazione è separata.
Il no della Cgil è dunque di fronte al solito bivio ove da tempo si dividono tutte le posizioni critiche verso il liberismo. Si fa sul serio, oppure si testimonia il dissenso e poi ci si adatta alle nuove schiavitù ricercando il male minore?
Il bivio dei contratti è lo stesso della politica.
Il centrosinistra ha già deciso di far finta di superare Monti, mentre sottoscrive tutte gli impegni assunti dall’attuale governo. La Cgil seguirà la stessa strada, cedendo con adeguata fermezza alla cancellazione di ogni solidarietà contrattuale tra i lavoratori?
Se non si vuole seguire un copione già recitato tante volte, non basta non firmare l’accordo. Se non si è d’accordo con il patto sulla produttività, bisogna combatterlo, disobbedire alle sue regole, scontrarsi con chi invece le accetta.
O si sta, anche solo passivamente, con Monti, la sua politica , i suoi accordi, o si sta contro di essi e contro chi li sostiene, in mezzo ci sono solo impotenza e ipocrisia.


25 novembre 2012


dal sito http://antoniomoscato.altervista.org/


lunedì 26 novembre 2012

L'UNICO VERO SCONFITTO SI CHIAMA NICHI VENDOLA di Matteo Pucciarelli




L'UNICO VERO SCONFITTO SI CHIAMA NICHI VENDOLA
di Matteo Pucciarelli




Tocca ammetterlo, e dispiace soprattutto se almeno idealmente ci si sente vicini alle proposte e alla cultura di Nichi Vendola: ma l’unico vero sconfitto di queste primarie-concorso è proprio lui. La sua strategia – come tanti del suo mondo gli avevano già fatto notare – si è dimostrata un fallimento. E il misero 15 per cento era in realtà una storia già scritta.
Praticamente da tre anni a questa parte il leader di Sel ha fatto fuoco e fiamme giorno per giorno: voleva le primarie, le voleva a tutti i costi. Perché le primarie erano il rumore del mare che un bambino ascolta dentro la conchiglia, e roba del genere, raccontava lui.
Pareva quasi che il futuro della sinistra, che il riscatto dei lavoratori, degli studenti, della Fiom, degli sfruttati di tutto il mondo stesse lì: nelle primarie. Un modo un po’ edulcorato per rappresentare la realtà di un Paese, e soprattutto di una coalizione sorretta dal Pd, che nel frattempo ha votato tutti i provvedimenti del governo Monti (che a parole Vendola combatte).

«Vedrai, alle primarie scorrerà il sangue», mi giurò un amico-compagno di Sinistra e Libertà molto vicino al presidente pugliese quando in tanti gli facemmo notare che il progetto di Bersani era centrosinistra più Udc, quindi cambiare tutto per non cambiare nulla. Non solo nessuno ha visto metaforicamente scorrere sangue (cioè una campagna realmente alternativa, forte, autonoma sia sul piano politico che simbolico), ma addirittura il popolo di sinistra si è dovuto sorbire il peana sul cardinale, risposte tiepide sulla futura alleanza con il centro e un totale appiattimento su Bersani. Vendola ne è uscito fuori come candidato del Pd, anzi, della sinistra Pd. E allora verrebbe da solidarizzare con quei poveri cristi che nel 2008 uscirono dal Pd perché non volevano morire democristiani e quindi fondarono Sel con Vendola e che cinque anni dopo rientrano silenziosi e sconfitti, facendo trattando posti in lista un po’ qui e un po’ là da Gennaro Migliore e simili.

Infine, la tanto decantata unità della sinistra. Sel nacque col proposito di unire, e già la cosa faceva un po’ ridere perché cercò di farlo cominciando da una scissione all’interno dell’allora partito più grande della sinistra, cioè Rifondazione. La cosa gli venne perdonata da molti perché l’idea di lavorare a una sinistra radicale nei contenuti ma liberata dagli orpelli ideologico-vintage poteva avere pure un senso. Però è andata a finire che Vendola ha partecipato alle primarie perdendo per strada pezzi consistenti di Fiom, prima di aver scaricato Di Pietro dall’oggi al domani e umiliando gli ex compagni del Prc; è riuscito a perdere l’appoggio di Fausto Bertinotti, suo padre politico; non ha avuto il sostegno di Luigi De Magistris né di Alba, Giuliano Pisapia ha dichiarato il suo voto per lui solo il giorno prima. Perché Vendola e il suo gruppo dirigente hanno pensato – a torto – che bastasse la poesia dei comizi e un po’ di web-marketing per vincere, superando a pie’ pari tutte le relazioni e i rapporti necessari per mobilitare in primis il “proprio” popolo.

Vendola è arrivato alle primarie con il fiatone, appannato, confidando solo e semplicemente sulla propria attrattiva personale e sul clan dei fedelissimi, molti dei quali con evidente e preoccupante tendenza culto della personalità. No, per vincere non basta. Per cambiare il Paese non basta.
Per riuscire ad andare al governo e amministrare l’esistente senza creare troppi problemi e senza cambiare i rapporti di forza, per quello sì, basta e avanza. E allora auguri.

PS. Chi ha la disgrazia e la fortuna di ritrovarsi spesso su questo spazio, sa benissimo che questo non è un commento facile emesso a risultato avvenuto. Era una previsione. Azzeccata.

dal sito  http://temi.repubblica.it/micromega-online/




domenica 25 novembre 2012

LETTERA APERTA AI DIRIGENTI CGIL E FIOM CHE VANNO ALLE PRIMARIE di Giorgio Cremaschi




LETTERA APERTA AI DIRIGENTI CGIL E FIOM CHE VANNO ALLE PRIMARIE
di Giorgio Cremaschi

Care compagne, cari compagni in questi ultimi giorni mi è capitato di leggere molti 
appelli e prese di posizione da parte vostra a sostegno di Bersani o Vendola nelle primarie del centrosinistra.
Naturalmente non è mia intenzione mettere in discussione la legittimità della vostra scelta di cittadini. Come dirigenti sindacali però trovo necessario rivolgervi alcune domande.
Siete a conoscenza del testo ‘Italia bene comune’? Quel documento viene sottoscritto dai candidati alle primarie ed è vincolante per i loro futuri comportamenti. Ebbene in quel testo è seccamente affermata la volontà di mantenere il fiscal compact e tutti gli impegni assunti da Monti. Cioè l’austerità, si proprio quell’austerità contro la quale siamo scesi in piazza il 14 novembre, non si tocca. Altro che ridiscutere le pensioni!

Anche nel testo che firmate per votare, questi impegni sono richiamati come vincolo per tutti i vostri candidati.
Un dirigente sindacale della FIOM e della CGIL è abituato per storia ed esperienza a valutare con grande rigore i testi che sottoscrive, è parte fondamentale della funzione svolta.
Allora mi chiedo quale sia la ragione che vi fa trascurare un vincolo così rilevante per il paese e in particolare proprio per l’iniziativa sindacale.
La più semplice delle risposte è che anche voi alla fine siate d’accordo di mantenere gli impegni di Monti e ciò che ne deriva sul piano del rigore e dell’austerità.
In fondo e vero che le posizioni formalmente assunte dalla CGIL e anche dalla FIOM su questi temi non sono chiare. Si dice no a questa o quella decisione di Monti che ci colpisce, ma non all’impianto complessivo della sua politica e ancor meno a chi a sinistra la sostiene e la fa passare in parlamento.
Si potrebbe quindi concludere che anche voi consideriate immodificabili i capisaldi di quella politica e pensiate di attenuarne solo gli impatti sociali. Insomma, se vi siete convinti che il fiscal compact vada accettato, per favore ditelo.

Se invece siete ancora fermamente avversi all’austerità italiana ed europea, allora sarebbe giusto sapere perché sostenete chi, naturalmente con diverso entusiasmo, si vincola ad essa.
Pensate che il vostro candidato non manterrà gli impegni? Che quegli accordi salteranno da soli e quindi non ci sarà più niente da rispettare? Che la rivoluzione europea cambi tutto? Che Obama dichiari guerra alla Merkel?
Io credo che dovreste spiegarci perché siete contro il fiscal compact e sostenete chi lo ha votato e si impegna a difenderlo, per favore ditelo.
E se invece la banale ragione della vostra scelta di partecipare alle primarie fosse che non ritenete opportuno star fuori da un evento così valorizzato nel palazzo, che bisogna stare nella politica che conta senza guardare troppo per il sottile?

La CGIL non ha firmato il catastrofico accordo sulla produttività voluto dal governo. Solo Vendola tra i candidati è stato critico, ma si è ben guardato dal dire: se vinco lo cancello. Perché non può, perché gli impegni del governo Monti vanno mantenuti.

E allora perché tanto entusiasmo per queste primarie a sovranità limitata? Non sarà che di fronte alle difficoltà e alle sconfitte subite, alla fine il buon vecchio collateralismo al centro sinistra vi sia apparso come un ancora di salvezza?
Ditelo per favore.




24 novembre 2012

dal sito  http://temi.repubblica.it/micromega-online/




venerdì 23 novembre 2012

"RELIGIOUS DIVIDE" E CRISI DEL DEBITO IN EUROPA di Paolo Naso




NON PRENDETEVELA CON DIO SE CESARE SCAPPA CON LA CASSA

“Religious divide” e crisi del debito in Europa
di Paolo Naso


La storia è quella vecchia della formica e della cicala: previdente e laboriosa la prima, pigra e scanzonata la seconda che però – de te fabula narratur – con l’arrivo dei rigori invernali non sa come nutrirsi. La novità è che più di qualche voce si leva ad applicare la morale di Esopo all’economia dell’eurozona: “In Nord Europa molti pensano che lo spread alto sia il frutto di un peccato cattolico” ha scritto Massimo Franco su Corriere della sera (1) riprendendo ed amplificando tesi come quelle di Stephan Richter, direttore del sito politico economico  The Globalist, il quale senza  mezzi  termini ha affermato che “un eccesso di cattolicesimo danneggia la salute fiscale delle nazioni, anche adesso nel XXI secolo” (2). “Alla base della ‘colpa’ delle nazioni indebitate – aggiunge Franco – ci sarebbe l’incapacità di emanciparsi dal cattolicesimo: un modo di vivere prima ancora che una fede, passato dalla pratica delle indulgenze per farsi perdonare i peccati a un’eccessiva  tolleranza  in  materia  di  ‘peccati  fiscali’”.  Caduta  la  “cortina  di  ferro”  si  sarebbe  così nuovamente alzato il “muro di Augusta”, la città tedesca dove nel 1555 si firmò la famosa pace del “cuis regio eius religio” con il suo noto, stringente dispositivo: mentre ai sovrani si lasciava la libertà di scegliere la propria religione secondo ragioni di coscienza teologica o di convenienza politica, ai sudditi si imponeva di seguirli nei loro percorsi di fede o – misera alternativa - di incamminarsi lungo la via dell’esilio. Quando poco meno di un secolo dopo, nel 1648 a Westfalia alcuni grandi stati europei raggiunsero un nuovo accordo“di stabilità”, la mappa georeligiosa del continente era già consolidata e alcune “chiese di Stato” erano saldamente  insediate  nell’establishment  degli  apparati  di  governo.  La  misurata  tolleranza  che  veniva introdotta a favore di alcune minoranze religiose escludeva, ad esempio, i territori degli Asburgo, e i precari equilibri tra i principi tedeschi in un tempo di grave crisi economica sconsigliavano ulteriori cambiamenti di fronte, sia pure  ecclesiastico; in realtà come  quella italiana, la Controriforma  aveva ormai sradicato o neutralizzato i pochi insediamenti luterani o calvinisti che erano riusciti a consolidarsi.



Ciò che oggi possiamo chiamare “Europa protestante”, quindi, sostanzialmente ricalca i confini fissatisi quasi cinquecento anni tra aree culturali caratterizzate da un “mercato religioso”sostanzialmente chiuso, nel quale i privilegi  e riconoscimenti garantiti alla religione “di Stato” o comunque prevalente tendono a confermare le appartenenze storiche e tradizionali.

Il “muro di Augusta”

Al fondo, il religious divide tra l’Europa e gli Stati Uniti sta in questa storica polarità tra confessionalismo e pluralismo confessionale che ha avuto non poche conseguenze sul piano dei comportamenti individuali in materia di fede e di libertà di coscienza: secondo alcuni studi circa la metà degli americani avrebbe “cambiato” la propria affiliazione religiosa almeno una volta nella propria vita e il 44% oggi appartiene a una confessione religiosa diversa da quella in cui era stato educato da bambino (3); altri, adottando un criterio di “conversione” più rigido indicano percentuali  assai inferiori  –  16%  - ma comunque eccezionalmente superiori a quelle dei paesi europei ferme ad esempio in Finlandia e Romania allo 0,2, in Italia allo 0,5, in Polonia allo 0,8 (4).
Il “muro di Augusta” avrebbe quindi retto per secoli e ci consegna un’Europa a diverse “gradazioni di protestantesimo”, dalla massima intensità di Finlandia, Norvegia, Danimarca, Svezia, Regno Unito con una presenza evangelica ancora superiore al 70% della popolazione, alla minima intensità di paesi come la Spagna, l’Italia, il Portogallo o la Grecia che registrano presenze riformate inferiori al 2% (5).



Il dato si riferisce alle “affiliazioni religiose” e non alla partecipazione più o meno attiva a una comunità di fede che, come attestano unanimi gli studi sociologici sul campo, è eccezionalmente bassa proprio dove più elevata è la concentrazione protestante. Non è questa la sede per analizzare le cause di questo gap tra “appartenenza” e  “pratica” e ci limitiamo pertanto a  registrare il dato di questa  relazione  di  inversa proporzionalità.. La carta che segue indica come i paesi più “protestanti” siano quelli nei quali la pratica religiosa settimanale è inferiore, attestandosi al 3% in Danimarca, al 4% in Estonia e Lettonia, al 5% in Svezia e in Finlandia, intorno al 10% in Germania. In leggera controtendenza solo il Regno Unito, Belgio e Paesi bassi, poco sopra il 10%. Quasi paradossalmente, nonostante dati di pratica religiosa così modesti, nei paesi “protestanti” le chiese continuano a godere di un solido credito sociale che in paesi come la Finlandia o la Danimarca supera il 70%6: come rilevano i ricercatori Gallup nel loro contributo allo European Social Survey “ la partecipazione attiva alle comunità di fede, in larga misura non è funzione del livello di fiducia in esse da parte di una società (7)”.
Decisamente più frequentate le chiese nei paesi a solida tradizione cattolica come Spagna (21%), Portogallo (20%), Italia (31%), Slovacchia (33%), Irlanda (54%), Polonia (63).




Sulla scorta di questi dati posti a premessa, possiamo definire “Europa protestante” quell’area dell’Europa centrale e settentrionale che comprende sia paesi i cui abitanti a maggioranza si riferiscono ancora alla tradizione culturale della Riforma (Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Regno unito), sia quelli in cui cattolici e protestanti sostanzialmente si equivalgono (Germania), sia quelli in cui consistenti presenze protestanti in contesti in maggioranza cattolici (Belgio, Olanda, Estonia, Lettonia). Per analogia possiamo definire “Europa cattolica” quella vasta area dell’Europa meridionale che ha il suo baricentro tra Italia e Spagna e che però comprende, con caratteristiche peculiari dovute sia alla tradizione laica che al peso sociale della minoranza riformata, anche la Francia.
Analizzando i dati relativi all’incidenza del debito pubblico sul prodotto interno lordo (8), emerge un quadro più  articolato  di  quello  suggerito  dal  paradigma  della  “cicala  cattolica” e della “formica  protestante”.
Inghilterra e Germania hanno un debito pubblico intorno alla media europea e il Belgio, a maggioranza cattolica ma con una minoranza protestante che supera il 25% finisce nella casella delle “cicale”. D’altra parte, nel 2011 la “cattolicissima” Spagna aveva un debito pubblico decisamente al di sotto della media europea e le previsioni, pur pessime sul 2012, indicano un rapporto debito/PIL intorno all’80% secondo la Banca di Spagna e intorno al 90% secondo l’agenzia Moody’s  (9): dato pesante ma ancora ancorato alla media europea.
E che la tradizione protestante non implichi necessariamente e automaticamente il rigore nei conti economici è ampiamente confermato dal debito pubblico degli Stati Uniti che oggi veleggia oltre il 70% del PIL: un dato non propriamente brillante né coerente con l’etica del rigore e della sobrietà che Weber attribuiva ai calvinisti europei come a quelli d’Oltreoceano (10). D’altra parte un personaggio come Monti che ben interpreta la politica del rigore, non è certo riconducibile ai cenacoli protestanti di Ginevra o di Heidelberg.

L’etica protestante della sobrietà, del lavoro e del risparmio che secondo lo schema weberiano avrebbe favorito lo start up del sistema capitalistico, è quindi irrilevante, giunta al capolinea della sua capacitàpropulsiva? Non lo pensiamo e, tra i tanti indici che suggeriscono una relazione tra culture tradizionali – anche religiose – e etica pubblica vi sono quelli relativi all’economia sommersa.


La propensione a pagare o a non pagare le tasse, a dichiarare o a non dichiarare un reddito, infatti, si iscrive all’interno di un habitus anche etico in cui la tradizione religiosa può avere un suo peso.
E possiamo anche spingerci ad affermare che il rapporto diretto tra il credente e Dio tipico del protestantesimo – nessuna mediazione sacerdotale, nessuna confessione auricolare ma solo il dialogo con il Creatore – plasmino una persona più responsabile e consapevole del risultato delle proprie azioni. Nulla di più. Spingersi oltre questo riconoscimento del peso delle tradizioni culturali e religiose significa ignorare almeno due elementi.

Il  primo  è  il dato della secolarizzazione. L’etica virtuosa dell’uomo calvinista su cui scriveva  Weber appartiene a una società in cui Dio è ancora al centro della vita degli individui e delle comunità. Quel mondo è tramontato e il presunto “ritorno di dio” sulla scena pubblica – se mai confermato anche in Europa – si esprime in forme assolutamente diverse da quelle del puritanesimo del tardo ottocento.

Il secondo dato attiene al ruolo e al peso della politica. In Europa molto più che negli USA, gli stati dispongono di leve potenti per promuovere o scoraggiare i comportamenti civici. Se per ragioni storiche e politiche alcuni di essi hanno utilizzato la spesa pubblica in funzione dell’esercizio del potere piuttosto che del servizio alla comunità, questa è stata una scelta politica e non il portato di una cultura della grazia, della misericordia o del perdono. A Dio quel che è di Dio, insomma, e a Cesare e alla sua politica le responsabilità che gli competono.

La voce delle chiese




D’altra parte, pur assumendo la tesi che a muovere la cancelliera Merkel sia la sua autobiografia di figlia di un pastore luterano e che la ricetta del “rigore” dei conti a qualsiasi prezzo sociale sia un portato necessario della Riforma, tra le voci critiche e preoccupate nei confronti di questa impostazione vi è proprio quella di molte personalità ecclesiastiche. “Al centro della nostra attenzione bisogna mettere la gente, non i mercati” ha  dichiarato al Parlamento  Europeo il vescovo  luterano Nikolaus  Schneider, presidente  della Chiesa evangelica di Germania (EKD) (11). Nessuna frattura con la Cancelliera – difficilmente pensabile data la storia tedesca dei rapporti tra Stato e Chiesa - ma la posizione è chiara e sottolinea che le politiche di austerità “devono essere accompagnate da iniziative sociali”, anche per evitare “riflessi antieuropei”. Il vescovo luterano non ha paura di evocare misure come il “salario minimo come strumento per combattere la povertà”, evidentemente incompatibili con il rigore a tutti i costi che impone tagli alle politiche sociali e che, nella vulgata corrente, non consente alcuna deroga. Ma va anche oltre mettendo in guardia contro il pericolo di “sospendere le regole democratiche nel corso di questa lotta alla crisi determinata dal debito”: nel linguaggio prudente del massimo esponente della Chiesa luterana di Germania significa che le pressioni esercitate direttamente sulla Grecia e indirettamente su altri Paesi dell’eurozona con i conti in rosso, costituiscono una violazione democratica.

La posizione di Schneider non è nuova né isolata.
Il suo predecessore, il vescovo Wolfgang Huber che qualche mese fa sembrava candidarsi alla presidenza federale e di cui è nota la simpatia verso l’SPD, aveva una linea analoga: solo tre anni fa, infatti, aveva messo la sua firma in calce a un altro documento di notevole peso politico che indicava una strada diversa da quella del semplice rigore economico. Il riferimento biblico era una drammatica citazione del profeta Isaia:
"Questa iniquità sarà per voi
come una breccia che minaccia rovina,
che sporge in un alto muro,
il cui crollo avviene a un tratto, in un istante,
e che si spezza come si spezza un vaso del vasaio
che uno frantuma senza pietà,
e tra i rottami del quale non si trova frammento
che serva a prendere fuoco dal focolare
o ad attingere acqua dalla cisterna" (30:13-15)

A partire da queste taglienti parole, nel 2009 l’EKD aveva quindi pubblicato un testo significativamente intitolato "Come in un alto muro,  crepato e pericolante" (12) in cui si affrontava di petto il tema della crisi globale. Il documento invocava "un completo cambiamento nel pensiero e nell'azione [politica], che vada al di lá di una gestione della crisi a breve termine Le chiese non intendono intraprendere un'azione politica – affermava  - ma  vogliono renderla possibile".  Lo sguardo  della  Chiesa  si  allungava quindi oltre la contingenza affermando che “superare la crisi significa andare oltre un semplice cambiamento delle regole del  mercato  finanziario  internazionale”  per  arrivare  a  “accordi  internazionali  a  beneficio  del  ritardato sviluppo dei paesi del Sud, della sicurezza sociale, di un freno e quindi della riduzione delle conseguenze del cambiamento climatico, della sicurezza alimentare e delle risorse naturali. Se questo è possibile – concludeva il testo della chiesa luterana tedesca – la crisi sarà un’opportunità per sviluppare la cornice di un ordine economico libero che ci consenta di oltrepassare i limiti nazionali per garantire una spinta per allineare l’economia a una modello di sviluppo sostenibile”.
Il modello ipotizzato era quello di una “economia di mercato sociale”, una sorta di “terza via” in grado di coniugare libero mercato e solidarietà, liberalismo e protezione sociale.
Parole difficili a pronunciarsi in tempo di crisi, ma che hanno fatto breccia anche nelle strutture regionali dell’EKD: la politica del rigore senza se e senza ma “produce effetti preoccupanti nella stessa Germania”,denuncia Uwe Becker, esperto di politiche sociali e membro  del Consiglio Diaconale della EKD della Renania,  Land  in  cui  la  Chiesa  vanta  un  profondo  radicamento  sociale.  “Anche  se  la  situazione occupazionale tedesca resta buona rispetto ad altri paesi europei [il tasso di disoccupazione è al 5,6%, ndr] – afferma - si deve prendere atto della spaventosa miseria sociale del Paese”: in pochi mesi “è salito a 1,5 milioni il numero di coloro che mangiano presso istituti di assistenza” e in molti casi si tratta di persone che formalmente “hanno un lavoro” (13). Lavoratori poveri, insomma, che non riescono ad arrivare alla quarta settimana.
Il dibattito si allarga a livello europeo e coinvolge la Comunione delle chiese protestanti europee, un network che raccoglie oltre cento denominazioni delle varie tradizioni riformate: luterani, calvinisti, metodisti, battisti e così via. “La crisi del debito sta allontanando molte società europee dai loro obiettivi economici. Il sistema sociale si deve aggiustare di nuovo. Sembra inevitabile. E comunque ha già spinto molte persone verso la povertà e la disoccupazione. E’ importante, allora, ricordare che richiamarsi all’Europa significa richiamarsi al modello sociale europeo, che prevede solidarietà e sussidiarietà. Questa connessione deve essere ben tenuta presente in tutte le misure che si vogliono prendere: chi è forte può portare i pesi di chi è debole. Vale nelle società ma vale anche tra le nazioni dell’Europa” (14). Proviamo a esplicitare: la Germania, il paese più forte, non può imporre misure insostenibili al più debole, ad esempio la Grecia. E a firmare questo testo, tra gli altri, anche i rappresentanti delle chiese protestanti tedesche.
In questo dibattito si inseriscono anche alcune voci cattoliche: tra le altre quella di Elmar Nass, un teologo esperto di etica sociale che, in un lungo articolo sulla Frankfurter Allgemeine, esprime viva preoccupazione che la politica del rigore oscuri l’etica sociale cristiana e che, di fronte a una situazione difficile e rischiosa, le chiese finiscano per tacere. “Il rigore non è nemico della solidarietà”, scrive riproponendo politiche di sussidiarietà e di fiducia “tra il forte e il debole. Il primo può stare sicuro che il secondo darà il suo contributo, come il debole sa che in caso di  difficoltà potrà trovare il sostegno del forte, aiutandosi reciprocamente.  E’ l’idea base della ‘terza  via‘  -  si spinge ad affermare Nass  –  tra liberalismo e collettivismo”. Il concetto che delinea è quello di una “solidarietà responsabile’ – scrive - che, al di là delle suggestioni neosocialiste, indica una strada liberale e cristiana all’etica sociale cattolica”. Nass, il teologo cattolico che non fa mancare i sui consigli alla CDU, ha ben chiaro che occorre costruire una nuova sensibilità e cambiare la rotta del governo imposta dalla Cancelliera: in testa ha un modello e un precedente, quello degli incontri internazionali e dei gruppi ecclesiali locali che in passato “hanno contribuito alla riconciliazione tra la Germania e i suoi vicini”. Vale “molto di più – afferma polemico - che tenersi strette certe idee della tradizione popolare che stanno perdendo senso”.
Il linguaggio non è troppo diverso da quello dei protestanti tedeschi ed europei. Non deve sorprendere perché in tempi più ecumenici di oggi, cattolici e riformati di Germania riuscivano ad esprimere una posizione comune su temi sociali e politici di primaria importanza (15).
Oggi tendenzialmente ogni chiesa parla per sé ma analisi e proposte circolano ecumenicamente da una confessione all’altra. Chi prova a rialzare il “muro di Agusta” non trova né formiche né cicale ma tradizioni culturali, chiese e credenti impegnati – talvolta insieme - a cercare una via d’uscita alla crisi che non si riduca al taglio delle protezioni sociali nel nome dei “conti a posto”. Il divide europeo non passa lungo la linea tracciata da Calvino, Lutero e dalla Controriforma ma da quella della struttura economica e politica dei singoli paesi. In un contesto di prepotente secolarizzazione come quello europeo e nel tempo di una crisi di portata globale, sia le religioni propriamente dette che le tradizioni religiose in senso più ampio possono molto poco: i costumi, gli abiti sociali, la cultura della legalità, la propensione al reato fiscale hanno ormai una fisionomia secolare e profana centrata su valori e modelli puramente mercantili e di potere. In questo scenario di crisi, coesione civile, pesi e contrappesi nel controllo della spesa pubblica, autorevolezza morale della classe dirigente contano sui destini delle economie nazionali molto più delle 95 tesi affisse sul portone della cattedrale di Wittenberg nel 1517.



__________________________________________________________


NOTE


1) Massimo Franco, Protestanti “rigorosi” del Nord contro cattolci “lassisti” del Sud, Corriere della sera, 5 settembre 2012. p. 6; cfr. anche la replica di Franco Cardini: “Non furono solo la riforma calvinista (non quella luterana) a instradare l’Europa sulla via del rigore: la controriforma cattolica lo fece in modo non meno deciso”, L’Europa divisa dai pregiudizi, Quotidiano nazionale 10 settembre 1012

2) Martin Luther and the Eurozone: Theology as an Economic Destiny?, The Globalist, 14 maggio 2012, www.theglobalist.com 2,


3) The Pew Forum on religion and Public Life, Faith in Flux. Changes in Religious Affiliation in the U.S. aprile 2009, p. 1, www.pewforum.org

4) Robert J. Barro, Jason Hwang, Religious conversion in 40 Countries, National Bureau of Economic research, Working Paper, Cambridge, MA, dicembre 2007, www.nber.org/papers/w13689

5) CIA, The World Factbook, Religions, www.cia.gov


6) Robert Manchin, Religion in Europe: Trust Not Filling the Pews, 21 settembre 2004, www.gallup.com

7) Ibidem


8) Fonte: Eurostat 2012, http://epp.eurostat.ec.europa.eu

9) Spain public debt rises to 72.1% of GDP in Q1: Bank of Spain, The Economic Times, 15 giugno 2012

10) Paolo Naso, L’Etica protestante e la crisi del capitalismo, Limes n. 6/2011


11) EKD Press Releases, 9 maggio 2012


12) Like a High Wall,Cracked and Bulging. Statement by the Council of the Evangelical Church in Germany on the global financial and economic crisis, 2009, www.ekd.de

13)  Uwe Becker, EKD News 6 settembre 2012

14) Communion of Protestant Churches in Europe, Meeting the Crisis, 7 dicembre 2011, http://csc.ceceurope.org


15) In un testo congiunto dell’EKD e della Conferenza episcopale tedesca del 1997 sui temi dell’economia si legge: il rinnovamento dell’ordine economico deve fondamentalmente mirare a una economia di mercato che sia socialmente, economicamente e globalmente responsabile… Proprio per la loro intrinseca natura, la solidarietà e la giustizia non possono essere confinate nell singole società ma devono essere interpretate in termini globali…” , For a Future founded on Solidarity and Justice, A Statement of the Council of the Evangelical Church in Germany and the German Bishops’ Conference on the Economic and Social Situation in Germany, 1997, §11




Tratto da “i quaderni speciali di Limes” del 9 ottobre 2012

dal sito http://www.chiesavaldese.org/




lunedì 19 novembre 2012

IMPRESSIONI SU GAZA di Noam Chomsky



IMPRESSIONI SU GAZA
di Noam Chomsky




Anche una sola notte in cella è abbastanza per assaggiare cosa vuol dire essere sotto il totale controllo di una forza esterna. E ci vuole poco più di un giorno a Gaza per iniziare a rendersi conto di come dev’essere cercare di sopravvivere nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, in cui un milione e mezzo di persone, nell’area più densamente popolata del mondo, sono costantemente assoggettate al terrore casuale e spesso selvaggio e ad una punizione arbitraria, senza nessun’altro scopo che quello di umiliare e degradare, e con l’ulteriore obiettivo di assicurarsi che le speranze dei palestinesi per un futuro decente verranno schiacciate e che il crescente appoggio mondiale per una soluzione diplomatica che garantisca i loro diritti venga annullato.

L’intensità di questo impegno da parte della leadership politica israeliana è stato drammaticamente illustrato negli ultimi giorni, quando ci hanno avvisato che “impazziranno” se ai diritti dei palestinesi verrà dato anche solo un parziale riconoscimento alle Nazioni Unite. Non è un nuovo inizio. La minaccia di “diventare pazzi” (“nishtagea”) è profondamente radicata, fin dai  governi laburisti degli anni ’50, insieme al relativo “Complesso di Sansone”: raderemo al suolo il muro del Tempio se attraversato. Era una minaccia risibile, allora; non oggi.
Nemmeno l’umiliazione intenzionale è una novità, anche se prende sempre nuove forme. Trent’anni fa i leader politici, compresi alcuni tra i più noti “falchi”, hanno sottoposto al Primo Ministro Begin un racconto sconvolgente e dettagliato di come i coloni maltrattano regolarmente i palestinesi nel modo più depravato e nella totale impunità. L’importante studioso politico-militare Yoram Peri ha scritto con disgusto che il compito dell’esercito non è difendere lo stato, ma “demolire i diritti di un popolo innocente solo perché sono Araboushim (termine dispregiativo per indicare gli Arabi, n.d.t.; come dire “negri”, “giudei”) che vivono in territori che Dio ha promesso a noi”.
I Gazawi sono stati selezionati per una punizione particolarmente crudele. E’ quasi un miracolo che la popolazione possa sopportare un tale tipo di esistenza. Come ci riescano è stato descritto trent’anni fa in un’eloquente memoria di Raja Shehadeh (The Third Way – La Terza Via), basata sul suo lavoro di avvocato ingaggiato nelle battaglie senza speranza di cercare di proteggere i diritti fondamentali restando all’interno del sistema giuridico studiato per assicurare il fallimento, e la sua personale esperienza come Samid, “perseverante”, che vede casa sua diventare una prigione a causa dei brutali occupanti e non può fare niente ma in qualche modo “resiste”.

Da quando Shehadeh ha scritto, la situazione è peggiorata. Gli Accordi di Oslo, celebrati in pompa magna nel 1993, hanno determinato che Gaza e la Cisgiordania siano singole entità territoriali. Da allora, gli Stati Uniti e Israele hanno dato il via al loro programma di separarli completamente uno dall’altro, così come di bloccare gli accordi diplomatici e punire gli arabi in entrambi i territori.
La punizione dei Gazawi si è fatta ancor più severa nel gennaio del 2006, quando hanno commesso il crimine maggiore; hanno votato “nel modo sbagliato” alle prime elezioni del mondo arabo, eleggendo Hamas. Dando dimostrazione della loro appassionata “bramosia per la democrazia”, gli Stati Uniti e Israele, seguiti dalla timida Unione Europea, imposero immediatamente un assediobrutale, insieme a pesanti attacchi militari. Gli Stati Uniti, inoltre, ripristinarono immediatamente la procedura operativa di quando qualche popolo disobbediente elegge il governo sbagliato: preparare un golpe militare per restaurare l’ordine.
I Gazawi commisero un crimine ancora maggiore un anno dopo, fermando il colpo di stato, il che portò ad una rapida intensificazione dell’assedio e degli attacchi militari. Questi hanno raggiunto il culmine nell’inverno 2008 – 2009, con l’operazione Piombo Fuso, uno dei più codardi e ferociesempi di forza militare nella storia recente, dal momento che una popolazione indifesa, rinchiusa e senza via di fuga, fu vittima di un attacco implacabile operato da uno dei più avanzati sistemi militari del mondo, basato su armi statunitensi e protetto dalla diplomazia USA. Un’indimenticabile testimonianza diretta del massacro – “infanticidio”, per usare le loro parole – viene dai due coraggiosi medici norvegesi che lavorarono nel principale ospedale di Gaza durante l’attacco spietato, Mads Gilbert e Erik Fosse, nel loro notevole libro “Eyes in Gaza – Occhi a Gaza”.

Il neo Presidente Obama non fu in grado di dire una parola, a parte il reiterare la sua sincera vicinanza ai bambini sotto attacco – nella città israeliana di Sderot. L’assalto attentamente preparato giunse a un termine prima della sua nomina, in modo che poi ha potuto dire che “adesso è il momento di guardare avanti, non indietro”, il rifugio abituale per i criminali.
Ovviamente c’erano dei pretesti – ce ne sono sempre. Quello solito, rispolverato quando serve, è la “sicurezza”: in questo caso, razzi “fatti in casa” da Gaza.
Come sempre succede, il pretesto mancava di qualsiasi credibilità. Nel 2008 era stata stabilita una tregua tra Israele e Hamas. Il governo israeliano formalmente aveva riconosciuto che Hamas l’aveva completamente osservata. Non un solo razzo di Hamas era stato sparato prima che Israele rompesse la tregua sotto la copertura delle elezioni USA del 4 novembre 2008, invadendo Gaza con motivazioni ridicole e ammazzando mezza dozzina di membri di Hamas. Il governo israeliano era stato avvertito dagli alti funzionari dei suoi servizi segreti che la tregua avrebbe potuto essere rinnovata ammorbidendo il blocco criminale e mettendo fine agli attacchi militari. Ma il governo di Ehud Olmert, conosciuto come una colomba, scelse di rifiutare queste opzioni, preferendo ricorrere al proprio enorme vantaggio in violenza: l’Operazione Piombo Fuso.
I fatti salienti sono riportati nuovamente dall’esperto in politica estera Jerome Slater nella recente pubblicazione sull’Harvard MIT Journal “International Security – Sicurezza Internazionale”.
La metodologia di bombardamento utilizzata in Piombo Fuso è stata attentamente analizzata da Raji Sourani, avvocato per i diritti umani profondamente informato e internazionalmente stimato.
Sourani osserva che il bombardamento si concentrava a nord, colpendo civili indifesi nelle aree maggiormente popolate, con nessun possibile pretesto militare. L’obiettivo, suggerisce, potrebbe essere stato quello di spingere la popolazione spaventata verso sud, vicino alla frontiera con l’Egitto. Ma i Samidin sono rimasti, nonostante la valanga di terrore israelo-statunitense.
Un ulteriore obiettivo è stato quello di spingerli indietro. Tornando ai primi giorni della colonizzazione sionista, si argomentava da ogni parte che gli Arabi non avessero motivi per stare in Palestina; avrebbero potuto essere ugualmente felici da qualche altra parte, e avrebbero dovuto andarsene – “essere trasferiti”, come educatamente suggerirono le colombe. Questa non è una preoccupazione di poco conto per l’Egitto, e forse è una ragione per cui l’Egitto non apre liberamente la frontiera ai civili o anche ai materiali di cui c’è disperato bisogno.
Sourani e altre fonti ben informate sottolineano che la disciplina dei Samidin nasconde una polveriera che potrebbe esplodere in qualsiasi momento, inaspettatamente, come fece la prima Intifada a Gaza nel 1989 dopo anni di miserabile repressione che non aveva suscitato alcuna avvisaglia o motivo di preoccupazione.
Per citare solo uno degli innumerevoli casi, poco prima che scoppiasse la prima Intifada, una ragazza palestinese, Intissar al-Atar, fu colpita a morte in un cortile scolastico da un residente della vicina colonia israeliana. Era uno delle varie migliaia di coloni israeliani portati a Gaza in violazione del diritto internazionale e protetti da una forte presenza dell’esercito, che stanno rubando la maggior parte della terra e delle scarse risorse idriche della Striscia e che vivono “agiatamente in 22 colonie in mezzo a un milione e 400mila palestinesi indigenti” come viene descritto il crimine dalla studiosa israeliana Avi Raz. L’assassino della studentessa, Shimon Yifrah, è stato arrestato, ma rapidamente rilasciato su cauzione quando la Corte ha determinato che “il reato non è abbastanza grave” da giustificare la detenzione. Il giudice ha commentato che Yifrah voleva solo spaventare la ragazza sparandole contro nel giardino della scuola, ma non voleva ucciderla, quindi “non è il caso di un criminale che debba essere punito, scoraggiato, e ha imparato la lezione attraverso l’arresto”. Yifrah venne condannato a 7 mesi con pena sospesa, mentre i coloni in aula esplodevano in canti e danze. E poi regnò il solito silenzio. Dopotutto, è routine.

E quindi così. Quando Yifrah venne rilasciato, la stampa israeliana riportò che una pattuglia dell’esercito aveva aperto il fuoco nel cortile di una scuola di ragazzini di età compresa tra i 6 e i 12 anni in un campo profughi della Cisgiordania, ferendo cinque bambini, presumibilmente con l’intenzione di “spaventarli” solamente. Non ci furono processi, e l’accaduto, di nuovo, non attirò nessuna attenzione. Era semplicemente un altro episodio nel programma di “analfabetismo e punizione”, disse la stampa israeliana, che comprendeva la chiusura delle scuole, l’uso di lacrimogeni, il picchiare gli studenti con i calci dei fucili, l’impedire il soccorso sanitario alle vittime; e oltre alle scuole, un regno di brutalità ancor più dura, che diventava ancora più selvaggio durante l’Intifada, sotto il comando del Ministro della Difesa Yitzhak Rabin, altra stimata colomba.
La mia prima impressione, dopo una visita di qualche giorno, è stata di stupore, non solo per la capacità di andare avanti con la vita, ma anche per la vibrante vitalità tra i giovani, specialmente all’università, dove ho passato la maggior parte del mio tempo in una conferenza internazionale. Ma anche lì si possono scovare segnali che la pressione potrebbe diventare troppo dura da sopportare.
Studi dicono che tra i giovani uomini c’è una frustrazione che ribolle, un riconoscere che sotto l’occupazione israelo-statunitense il futuro non riserva niente per loro. E’ solo che ce n’è così tanta che gli animali in gabbia possono sopportare, e può esserci un’eruzione, magari in forme orribili – il che offre un’opportunità per gli apologeti israeliani e occidentali di condannare in modo ipocrita le persone che sono culturalmente arretrate, come ha spiegato acutamente Mitt Romney.

Gaza ha l’aspetto di una tipica società del terzo mondo, con sacche di ricchezza circondate da mostruosa povertà. Non è, comunque, “sottosviluppata”. Piuttosto è “de-sviluppata”, e in modo sistematico, per usare le parole di Sara Roy, la principale esperta accademica di Gaza. La Striscia di Gaza avrebbe potuto diventare una prospera regione mediterranea, con una ricca agricoltura e una fiorente industria ittica, spiagge meravigliose e, come scoperto una decina di anni fa, buone prospettive di risorse estensive di gas naturale all’interno delle sue acque territoriali. Per coincidenza o meno, fu proprio quando Israele ha intensificato il blocco navale, spingendo i pescherecci verso le coste, da quel momento entro le 3 miglia marittime.
Le prospettive favorevoli sono state abortite nel 1948, quando la Striscia ha dovuto assorbire un flusso di profughi palestinesi che scapparono in preda al terrore o furono espulse con la forza da quello che poi diventò Israele, in alcuni casi espulsi mesi dopo il formale “cessate il fuoco”.
Di fatto, sono stati espulsi anche quattro anni dopo, come riportato su Ha’aretz (25.12.2008),
in  uno studio ragionato di Beni Tziper sulla storia dell’israeliana Ashkelon dall’epoca dei Cananei. Nel 1953, dice, c’era un “freddo calcolo secondo cui era necessario ripulire la regione dagli Arabi”. Anche il nome originario, Majdal, è stato “giudaizzato” all’odierno Ashkelon, normale amministrazione.
Questo è successo nel 1953, quando non c’era nemmeno l’ombra di necessità militari. Tziper stesso è nato nel 1953, e mentre passeggia tra le rovine dell’antico settore arabo, pensa che “è molto difficile per me, molto difficile, realizzare che mentre i miei genitori stavano festeggiando la mia nascita, altre persone stavano venendo caricate su camion e venivano espulse dalle loro case”.
Le conquiste israeliane del 1967 e le loro conseguenze diedero ulteriori scossoni. Quindi arrivarono i terribili crimini già menzionati, fino al giorno d’oggi. I segnali sono facili da vedere, anche con una visita veloce. Seduto in un hotel vicino alla costa, si può sentire il rumore degli spari delle navi da guerra israeliane che spingono i pescatori dalle acque territoriali di Gaza verso la costa, così sono costretti a pescare in acque fortemente inquinate a causa del rifiuto statunitense-israeliano di
permettere la ricostruzione dei sistemi fognari e della rete elettrica che loro stessi hanno distrutto.

Gli Accordi di Oslo stabilirono i piani per due impianti di desalinizzazione, una cosa
necessaria  in questa regione. Uno, un’infrastruttura avanzata, fu costruito: in Israele. Il secondo a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. L’ingegnere incaricato di tentare di ottenere acqua potabile per la popolazione spiegò che questo impianto era stato progettato in modo da non poter utilizzare acqua di mare, ma doveva basarsi su falde sotterranee, un procedimento più economico, che impoverisce ulteriormente la già misera falda, garantendo problemi seri in futuro. Anche in presenza di tale impianto, l’acqua è veramente scarsa. L’UNRWA, che si prende cura dei rifugiati (ma non di altri Gazawi), ha recentemente pubblicato un report lanciando l’allarme sul fatto che il danno alle falde acquifere potrebbe presto diventare “irreversibile”, e che, senza una rapida misura correttiva, dal 2020 Gaza potrebbe non essere più un “posto vivibile”.
Israele permette l’ingresso del cemento per i progetti dell’UNRWA, ma non per i gazawi coinvolti dall’urgente necessità di ricostruzione. La limitata attrezzatura pesante è ridotta al minimo, visto che Israele non ammette l’ingresso di materiali per la ricostruzione. Tutto ciò fa parte del programma generale descritto dal funzionario israeliano Dov Weisglass, consigliere del Primo Ministro Ehud Olmert, dopo che i Palestinesi non obbedirono agli ordini nelle elezioni del 2006: “L’idea” ha detto “è di mettere a dieta i Palestinesi, ma non fino a farli morire di fame”. Non è una bella cosa.
E il piano si sta seguendo scrupolosamente. Sara Roy ne ha data ampia dimostrazione nei suoi studi accademici. Recentemente, dopo diversi anni di sforzi, l’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha è riuscita ad ottenere un provvedimento giudiziario perché il governo consegni la documentazione contenente i dettagli dei piani di dieta, e le modalità di esecuzione. Jonathan Cook, giornalista israeliano, li ha riassunti: “Funzionari del Ministero della Salute hanno fornito calcoli del numero minimo di calorie di cui ha bisogno il milione e mezzo di abitanti di Gaza per evitare la malnutrizione. Questi valori sono stati trasformati in camion di cibo a cui Israele dovrebbe permettere l’ingresso ogni giorno… una media di soli 67 camion – molto meno della metà del fabbisogno minimo – sono entrati quotidianamente a Gaza. Questo paragonato agli oltre 400 camion che entravano prima dell’inizio del blocco”. E anche questa stima è oltremodo generosa, riportano i funzionari delle Nazioni Unite.
Il risultato dell’imposizione della dieta, osserva l’esperto di Medio Oriente Juan Cole, è che “circa il 10% dei bambini palestinesi di Gaza sotto i 5 anni soffrono di un blocco della crescita a causa della malnutrizione… in più, è diffusa l’anemia, che colpisce più dei 2/3 dei neonati, il 58,6% dei bambini in età scolare e più di 1/3 delle donne incinte”. Gli Stati Uniti e Israele vogliono assicurare che non sia possibile nulla più che la sopravvivenza.

Ciò che dev’essere tenuto a mente” osserva Raji Sourani, “è che l’occupazione e la chiusura totale costituiscono un prolungato attacco alla dignità umana della popolazione di Gaza in particolare e di tutti i palestinesi in generale. Si tratta di degradazione sistematica, umiliazione, isolamento e frammentazione del popolo palestinese”. La conclusione viene confermata da molte altre fonti. In una delle principali riviste di medicina del mondo, The Lancet, un medico ospite di Stanford, inorridito da ciò che aveva visto, descrive Gaza come “qualcosa di simile ad un laboratorio per osservare l’assenza di dignità”, una condizione che ha effetti “devastanti” sul benessere fisico, psicologico e sociale. Il costante controllo dal cielo, le punizioni collettive attraverso il blocco e l’isolamento, l’irruzione nelle case e nelle comunicazioni e le restrizioni poste a chi cerca di viaggiare, o di sposarsi, o di lavorare, rendono difficile vivere una vita dignitosa a Gaza.
All’Araboushim dev’essere insegnato a non alzare la testa.
C’era la speranza che il nuovo governo Morsi in Egitto, meno schiavo di Israele rispetto alla dittatura di Mubarak sostenuta dall’occidente, potesse aprire il valico di Rafah, unico accesso verso l’esterno per i gazawi intrappolati a non essere sottoposto al diretto controllo israeliano. C’è stata una lieve apertura, ma non molto. La giornalista Laila el-Haddad scrive che la riapertura sotto Morsi “è semplicemente un ritorno dello status-quo degli anni passati: solo i palestinesi in possesso di un documento di identità di Gaza approvato da Israele possono utilizzare il valico di Rafah” il che esclude la maggioranza dei palestinesi, compresa la famiglia el-Haddad, in cui solo una moglie ha il documento.
Inoltre, continua, “il valico non conduce alla Cisgiordania, né permette il passaggio di beni, che sono limitati ai valichi sotto controllo israeliano e soggetti a divieti per materiali di costruzione e esportazioni”. Il valico ristretto di Rafah non cambia il fatto che “Gaza resta sotto stretto assedio marittimo e aereo, e continua ad essere chiusa al capitale culturale, economico, e accademico nel resto dei territori occupati, in violazione degli obblighi israelo-statunitensi degli Accordi di Oslo”.
Gli effetti sono dolorosamente evidenti. All’ospedale di Khan Younis, il direttore, che è anche primario di chirurgia, descrive con rabbia e passione come anche le medicine per alleviare le sofferenze dei pazienti scarseggiano, così come la semplice attrezzatura chirurgica, lasciando i medici senza supporto e i pazienti in agonia. Le storie personali aggiungono una vivida base al generale disgusto che si prova davanti all’oscenità della pesante occupazione.
Un esempio è la testimonianza di una giovane donna che è disperata per il fatto che suo padre, che sarebbe stato orgoglioso che lei fosse la prima donna nel campo profughi ad avere una laurea, è “morto dopo 6 mesi di lotta contro il cancro, all’età di 60 anni. L’occupazione israeliana gli ha impedito di recarsi in un ospedale israeliano per curarsi. Ho dovuto interrompere i miei studi, il lavoro e la mia vita e restare seduta accanto al suo letto. 
Ci sedemmo tutti, compresi mio fratello medico e mia sorella farmacista, tutti impotenti e senza speranza guardando la sua sofferenza. 
E’ morto durante l’inumano blocco di Gaza del 2006 con un quasi inesistente accesso al servizio sanitario. Penso che sentirsi impotenti e senza speranza sia il sentimento più letale che un essere umano possa provare.
Ammazza lo spirito e spacca il cuore. Puoi combattere contro l’occupazione ma non puoi combattere il tuo sentirti impotente. Non riesci a cancellare quel sentimento”.
Disgusto davanti all’oscenità, aggravato dal senso di colpa: noi possiamo porre fine a questa sofferenza e permettere ai Samidin di godersi le vite di pace e dignità che meritano.

Noam Chomsky ha visitato la Striscia di Gaza dal 25 al 30 ottobre 2012.


19 novembre 2012

dal sito  http://www.lavorincorsoasinistra.it/wordpress/?p=2847

Gaza -

domenica 18 novembre 2012

PER NON DIMENTICARE: I MARTIRI DI “BANDIERA ROSSA” di Stefano Santarelli






PER NON DIMENTICARE:
I MARTIRI DI “BANDIERA ROSSA”
di Stefano Santarelli



Passeggiando nello storico quartiere romano di San Lorenzo e per la precisione nella celebre, politicamente parlando, via dei Volsci verso l’incrocio con via degli Equi il viandante non distratto potrà osservare una lapide dedicata ad Orfeo Mucci morto recentemente e che in modo sintetico ci ricorda che fu il comandante della formazione partigiana “Bandiera Rossa”.
A molti compagni questa formazione partigiana dirà poco o nulla, infatti il nome di questa organizzazione non viene mai menzionata nei discorsi ufficiali dedicati alla resistenza e questo nonostante libri ed articoli (in verità relativamente pochi) dedicati a questa organizzazione.
Il più celebre di tutti è il saggio di Silverio Corvisieri “Bandiera Rossa nella 
Resistenza romana”. Mi sembra quindi necessario e doveroso in un sito intitolato immeritatamente con il nome prestigioso e glorioso di “Bandiera Rossa” dedicare queste poche righe alla memoria degli eroici compagni romani che furono tra i più importanti protagonisti della Resistenza contro i nazisti ed i fascisti nella città eterna.
In realtà il nome di “Bandiera Rossa” è quello del giornale del Movimento Comunista d’Italia una formazione di sinistra in pieno dissenso con lo stalinismo di cui il Partito Comunista Italiano era la sua emanazione e che è stata protagonista della Resistenza romana oltre che laziale. Come ci ricorda Corvisieri è stata la formazione partigiana più attiva a Roma e che ha pagato pesantemente i nove mesi dell’occupazione nazista con 186 caduti vale a dire il triplo di quelli subiti dal PCI, cinque volte quelli del Partito d’Azione e 137 arrestati e deportati.
I combattenti riconosciuti da Bandiera Rossa furono 1.183 cinque in più di quelli del PCI e 481 più del Partito socialista. Il contributo di sangue che Bandiera Rossa ha offerto nella Resistenza romana è pari al 34% del totale per quanto riguarda i morti.
Questa formazione partigiana è stata in prima fila nell’eroica battaglia di Porta S.Paolo (8-10 settembre 1943) e sui 335 martiri delle Fosse Ardeatine ben 52 erano membri di Bandiera Rossa.
Nonostante che i nomi dei martiri di questa formazione figurano su molte lapidi delle strade romane la storia di questa formazione politica che ha svolto un ruolo così importante nella resistenza romana è caduta molto presto in preda all’oblio nonostante libri e studi come quello di Corvisieri. Ciò è facilmente spiegabile perché si tratta di una storia scomoda e non del tutto confacente all’iconografia ufficiale della Resistenza, proprio perché si tratta di una formazione che certamente fu la più combattiva nella difesa romana contro l’invasore nazista, ma che aveva anche la caratteristica di essere quella più proletaria presente attivamente nelle borgate più popolari della città (San Lorenzo, Centocelle, Tor Pignattara, ecc.).
Erano allora queste borgate veri e propri ghetti dove il fascismo aveva messo, in condizioni assolutamente incivili, tutti i vecchi abitanti del centro cittadino sventrato con lo scopo di ricreare il mito defunto della Roma imperiale distruggendo tra l’altro la celebre Piazza Montanara, uno degli ambienti popolari più famosi della capitale. Lo sventramento principale ricordiamo fu quello che fece nascere la Via dell’Impero, l’attuale via dei Fori imperiali.
I vecchi abitanti, quasi 4.000 persone si ritrovarono in queste borgate insieme agli immigrati provenienti dalle campagne laziali e dal Meridione arrivati per costruire la “Nuova Roma”. Queste borgate costruite in condizioni igieniche ben peggiori di quelle dei quartieri rasi al suolo erano nettamente separate dalla città da alcuni chilometri di campagna abbandonata.
Ed è proprio in queste borgate veramente proletarie con un’alta percentuale di operai (circa il 60%) che Bandiera Rossa troverà i suoi migliori militanti e combattenti ed il Governo Badoglio temeva che le masse che abitavano in questi luoghi potessero travolgere la Monarchia aprendo quindi una crisi prerivoluzionaria con sviluppi fatalmente imprevisti.

Il gruppo Scintilla che diede origine al MCdI era nato nel 1935 (il suo nome era un chiaro riferimento all’Iskra di Lenin) ed i suoi rappresentanti più significativi erano l’avvocato Raffaele De Luca che era stato il sindaco socialista di Paola, Francesco Cretara proveniente dai Cristiani-Sociali e che negli anni ’50 aderirà alla IV Internazionale ed il leggendario Orfeo Mucci figlio di un anarchico del quartiere di San Lorenzo e che terminerà la sua carriera politica come collaboratore di Radio Onda Rossa.
Ed è partendo dal nucleo di Scintilla che nella seconda metà dell’agosto del 1943 viene fondato il MCdI unificando altri nuclei di comunisti e socialisti, tra cui ricordiamo Matteo Matteotti, e ben presto questo movimento disporrà di una forza superiore a quelle di tutte le formazioni partigiane romane compreso lo stesso PCI con forti cellule tra i postelelegrafonici, TETI cioè l’azienda telefonica, Vigili del fuoco, Ferrovieri, Anagrafe, EIAR (la Rai del tempo) e una rete informativa guidata da due ufficiali della Guardia della Finanza (il capitano Gialma Previtera e il maggiore Giacomo Tranfo) che svolgeranno un importante lavoro di sabotaggio nei confronti delle truppe naziste. Disponendo anche di infiltrati nella Polizia e nello stesso Partito Fascista.
Ma è nelle borgate romane che Bandiera Rossa raccoglierà i massimi consensi riuscendo a capitalizzare il profondo odio di classe degli abitanti nei confronti del fascismo.

Bisogna a questo punto notare che il PCI alla vigilia dell’8 settembre del ’43 era costituito da vari raggruppamenti che possiamo sintetizzare in questa maniera:
1) i comunisti che si trovavano in carcere o al confino (ed erano un migliaio dei migliori quadri di cui disponeva il PCI);
2) i comunisti che si trovavano all’estero (Francia, URSS, USA) tra cui Togliatti vice presidente dell’Internazionale Comunista;
3) altri gruppi che si trovavano in Italia diretti da vecchi compagni che il partito aveva “sganciato” o perché troppo conosciuti dalla polizia o perché non conformi alla linea della direzione e quindi sospettati di bordighismo/trotskismo;
4) giovani intellettuali che dall’antifascismo erano passati al marxismo ed operai e contadini che mantenevano un legame con l’ideale socialista e comunista di cui molti di questi aderiranno a Bandiera Rossa.

Bandiera Rossa non si fece trovare impreparata al vergognoso tradimento di Badoglio e di Vittorio Emanuele III dell’8 settembre e anzi riesce a moltiplicare la sua forza militante e la sua importante influenza nelle borgate.
Alcuni dati possono meglio di altri evidenziare la notevole influenza di questa organizzazione durante la Resistenza romana. Nel novembre ’43 il PCI a Roma contava 1.700-1.800 iscritti di cui l’85% aveva aderito al partito dopo il 25 luglio. In questo periodo di tempo Bandiera Rossa disponeva di una consistenza superiore ai 2.000 iscritti.
E questo lo si può desumere anche dalla tiratura di “Bandiera rossa” che era superiore a quella dell’Unità. Infatti il giornale del MCdI uscì regolarmente nei suoi primi tre mesi di vita (sette numeri l’ultimo dei quali pubblicato il 27 dicembre), per riapparire soltanto altre quattro volte prima della liberazione. Da notare che uno di questi numeri ebbe addirittura una tiratura di ben 12.000 copie e dobbiamo sempre considerare che la pubblicazione e la diffusione di questi giornali avveniva in piena clandestinità.

L’Unità aveva invece una tiratura di circa 8.000 copie mentre gli altri fogli clandestini andavano dalle 1.000 e 2.000 copie.
Per cui si può tranquillamente affermare che il comunismo romano durante l’occupazione nazista era diviso in due tronconi pressoché equivalenti dal punto di vista numerico. E queste due formazioni comuniste erano la maggioranza assoluta di tutte le forze impegnate nella Resistenza romana.

Le operazioni militari, gli atti di sabotaggio e le iniziative politiche di Bandiera Rossa durante l’occupazione nazista sono talmente tante che non possono essere sintetizzate in questo articolo.
Costituiscono atti eroici di cui tutta la sinistra non può che essere orgogliosa e riconoscente.
Ne citiamo soltanto uno che sembra tratto da un film di Quentin Tarantino: il 30 novembre un pugno di partigiani dotati di grande coraggio e determinazione guidati da Vincenzo Guarnera, ex maresciallo dell’aereonautica, libera undici suoi uomini che il Tribunale di Guerra nazista aveva arrestato e condannato a morte tramite fucilazione a Forte Bravetta.
Il plotone di esecuzione era composto dalla milizia fascista, ma al posto di questo plotone si presentano armati e con la divisa fascista Guarnera con altri dieci partigiani di Bandiera Rossa.
Quando all’alba sbuca il camion con i prigionieri, Guarnera con i suoi partigiani si avvicina ai tedeschi e freddamente e rapidamente li uccidono per poi scappare tutti quanti insieme sul camion.
Guarnera riceverà per questa azione la Medaglia d’oro.
Ma queste azioni vengono duramente contrastate dalla Gestapo e dalla polizia fascista e questo anche grazie all’opera di infiltrati. Ricordiamo che gli aderenti a Bandiera Rossa erano regolarmente tesserati il che dimostra una ingenuità notevole da parte di una organizzazione clandestina. Infatti a Vignanello (Viterbo) un militante di Bandiera Rossa, Filippo Fochetti, venne impiccato perché trovato in possesso proprio di una tessera del MCdI.
Nel famigerato carcere delle SS di Via Tasso i partigiani catturati vengono violentemente torturati prima di essere fucilati a Forte Bravetta e anche Bandiera Rossa, come gli altri gruppi antifascisti, ne paga un prezzo estremamente pesante. Ma l’organizzazione di Bandiera Rossa riesce comunque a continuare la sua missione e non passa praticamente giorno senza che i nazifascisti non subissero un attentato, piccolo o grande che fosse.
Ovviamente tutta questa coraggiosa attività costò a Bandiera Rossa nuove ondate d’arresti  che colpirono i quadri dirigenti del movimento. E proprio per aiutare le famiglie degli arrestati e dei caduti che questa formazione fa nascere l’organizzazione del Soccorso Rosso. I pochi soldi possibili che si potevano raggranellare, i viveri, gli abiti ed altro ancora sono cura di questi compagni.
Oltretutto a Roma le condizioni di vita erano divenute estremamente difficili. I bombardamenti uccidono almeno 5.300 persone e la carenza di cibo era gravissima tanto da fare dire che Roma “fu assediata non soltanto dai tedeschi e dai fascisti, ma dalla fame”.



Il 23 marzo il Gruppo di Azione Patriottica fa esplodere a via Rasella un carretto pieno di dinamite al passaggio di un battaglione di SS causando la morte di 42 soldati nazisti e non è un caso che tra i 6 civili italiani vengono uccisi dall'immediata rappresaglia tedesca anche due militanti di Bandiera Rossa (Antonio Chiaretti ed Enrico Pascucci).
La repressione nazista è feroce: dalle carceri di Regina Coeli, Via Tasso e la Pensione Jaccarino vengono prelevati 335 prigionieri e massacrati il giorno dopo alle Fosse Ardeatine e anche Bandiera Rossa paga un pesante contributo di sangue.
Ma tutto questo non ferma l’attività di questa formazione che riprende la sua incessante opera di sabotaggio ed attentati. E dobbiamo ricordare tra l’altro che proprio la cellula dei Vigili del fuoco di Bandiera Rossa sarà la prima a fotografare e quindi a denunciare il massacro delle Fosse Ardeatine.
Ma alla durezza della repressione nazista si abbina un aggravamento dei rapporti con il PCI.
L’Unità del 15 marzo attacca violentemente il MCdI condannando l’attività di “sparuti gruppetti cosiddetti di ‘sinistra’ la cui irresponsabilità politica che si sfoga nell’assumere gli atteggiamenti estremistici più astratti e inconcludenti” andava incontro “alla propaganda hitleriana” finendo “con l’assumere una funzione obiettivamente provocatrice”. E questo proprio nel momento più duro coincidente con la strage delle Fosse Ardeatine.
Il vergognoso attacco dell’Unità, (inutile ricordare che stiamo in un contesto di
completa clandestinità), continua con il numero del 6 aprile: “… eppure c’è ancora qualche sciocco che si presta a questo gioco infame se, come pare, un cosiddetto Comitato Militare Unificato dei Comunisti (una delle formazioni di Bandiera Rossa) prolifico autore di manifestini in una lingua
che sembra preso a prestito dal dr. Goebbels, non è costituito da agenti al servizio dei prussiani, ma da un gruppo di irresponsabili che abusando del simbolo della bandiera rossa, persistono con ostinazione nel gioco che ogni giorno di più si svela come una vera e propria manovra 
provocatoria ai danni della classe operaia e del comunismo”.
E quest’aggravamento dei rapporti tra le due formazioni comuniste presenti a Roma, ma anche con la sinistra socialista, peggiorano con l’arrivo di Togliatti e la svolta di Salerno.
Nel numero dell’11 maggio “Bandiera Rossa” di fronte al nuovo governo si esprime in maniera netta: “la politica di guerra dei lavoratori deve essere: trasformare la guerra contro il nazismo in guerra contro tutto il capitalismo. La parola d’ordine è: fino a che vi sarà nel mondo anche un solo paese borghese, non vi sarà né pane sufficiente, né pace duratura, né libertà per nessuno.
Negli ultimi due mesi dell’occupazione nazista aumentano quindi le difficoltà politiche ed organizzative di Bandiera Rossa: i suoi migliori quadri erano stati duramente colpiti durante le rappresaglie tedesche mentre come si è visto i rapporti politici con il PCI erano nettamente peggiorati. Tale quadro viene così sintetizzato in un bollettino interno del 30 aprile: “Con le fucilazioni, gli arresti e le deportazioni, le file dei nostri compagni migliori si sono assottigliate; il timore e lo sconforto si insinuano fra le nostre file. Aggiungetevi la mancanza del giornale, unico sostegno dei deboli, e potrete misurare quanto sia necessario piuttosto approfittare di ogni occasione per consolidare la fede, ammonire e indirizzare gli sperduti sulla giusta via. I comunisti di oggi o hanno rinnegato il passato per abbandonarsi alla comoda democrazia progressivanon lo conoscono e non lo apprezzano tanto da sentirne la potenza energetica”.
E’ un quadro certamente realistico che però non induce questi compagni a restare fermi anzi tutt’altro. E già il 2 aprile Bandiera Rossa celebra coraggiosamente per la prima volta, con un gruppo armato composto da nove uomini e due donne, i martiri delle Fosse Ardeatine nel luogo del massacro mettendo fiori rossi ed un cartello commemorativo. Un gesto che viene ripetuto il primo maggio da un altro gruppo guidato da Orfeo Mucci ed il 5 maggio al terzo tentativo un altro gruppo di Bandiera Rossa nel compiere questo omaggio è costretto a difendersi in un violento conflitto a fuoco contro i nazisti.
I nazisti, insieme alla polizia fascista, decidono di fronte ai sabotaggi e a questi gesti dimostrativi che erano continuati nonostante il massacro delle Fosse Ardeatine di dare un duro colpo alla resistenza romana. E nella borgata del Quadraro il 17 aprile effettuano una violenta rappresaglia: più di 2.000 uomini tra nazisti e repubblichini bloccano le vie d’accesso al Quadraro e casa per casa avviene una violenta retata che colpisce ben 740 uomini appartenenti a Bandiera Rossa, al PCI e ad altre formazioni politiche.
Il clima di ostilità della popolazione romana nei confronti dei nazisti aumenta e ciò aiuta Bandiera rossa a continuare nelle sue azioni di sabotaggio per tutto il mese di maggio. Da ricordare tra le sue tante operazioni che Bandiera Rossa riesce a scoprire e ad informare gli americani dell’esistenza di un aereoporto tedesco con 250 aerei, nei pressi di Viterbo, che verrà bombardato il giorno dopo (17 maggio).

Il 4 giugno Roma viene finalmente liberata dagli americani restando quindi l’unica città, da Napoli in su, a non liberarsi con una sollevazione popolare e questo grazie all’ostilità vaticana e degli alleati.
La liberazione procura una giusta euforia. Vengono finalmente liberati da Regina Coeli i militanti politici che erano ancora rinchiusi tra cui due dei fondatori di Bandiera Rossa l’anziano avvocato Raffaele De Luca e Antonino Poce.
Il MCdI si era fatto promotore durante l’occupazione di Roma della costruzione di un raggruppamento militare chiamato l’Armata Rossa e che raggruppava centinaia di combattenti molti dei quali iscritti al PCI. Immediatamente dopo la liberazione Bandiera Rossa insieme alla Brigata Matteotti del Partito socialista e alla Pilo Albertelli del Partito d’Azione lancia una campagna di reclutamento che in una sola settimana ottiene uno straordinario successo con 40/50.000 giovani che si iscrivono.
Il comando alleato è giustamente preoccupato di questa iniziativa come lo stesso PCI che vuole un esercito regolare e non brigate partigiane indipendenti.
Antonino Poce che dopo la sua liberazione era divenuto il vicequestore di Roma viene di nuovo arrestato restando in carcere per due mesi mentre il PCI lo calunniava con l'accusa di avere ceduto alla polizia fascista.

Il 4 luglio l’Armata Rossa si scioglie e l’Unità benedice questa sconfitta del MCdI:
“… Il desiderio di unificazione delle forze proletarie antifasciste ha portato questi compagni ad un errata collaborazione col movimento di Bandiera Rossa, il quale è notoriamente un movimento che ha non pochi elementi irresponsabili nei suoi ranghi, ha messo alla base della sua attività la denigrazione del nostro partito e del CLN nella vana speranza di riuscire a disgregare le fila della classe operaia e il fronte comune delle forze nazionali realizzate nei CLN. Ma quel che doveva accadere è accaduto. A contatto con Bandiera Rossa, i nostri compagni si sono resi conto del carattere disgregatore di questo movimento ed hanno deciso di rompere definitivamente con esso, sciogliendo l’Armata Rossa”.

Il MCdI si trova a questo punto ad un bivio: trasformarsi in un partito o aderire al PCI o al PSIUP (la denominazione che aveva il PSI in quel tempo). E per complicare le cose il giornale “Bandiera Rossa” dopo la liberazione viene colpita da un provvedimento di censura per quasi un anno. Umorismo della vita: pubblicato durante l’occupazione nazista e vietato dopo la liberazione.
E’ una situazione veramente difficile quella in cui si viene a trovare Bandiera Rossa. Il PCI sull’onda della liberazione dai 17/18.000 iscritti nel dicembre del ’44 tessera ben 39.000 comunisti mentre come abbiamo visto Bandiera Rossa vive una profonda crisi organizzativa.
La lotta contro l’invasore nazista ha procurata la perdita di quadri importantissimi che non sono facilmente sostituibili, infatti il grosso del movimento manca di esperienza politica e così molti dei loro militanti vengono fagocitati dal PCI il quale ovviamente dispone non solo del grande prestigio dell'URSS stalinista, ma anche di enormi mezzi economici e materiali mentre alcuni dirigenti del movimento entrano nel PSI.
Bandiera Rossa riprende a pubblicare il suo giornale nel febbraio del ’45 senza autorizzazione arrivando a contare 6.000 iscritti di cui 1.000 nella sola sezione di Tor Pignattara. Un nucleo di Bandiera Rossa che pubblica il giornale Il militante aderisce formalmente alla IV Internazionale anche se bisogna ricordare che allora la maggior parte dei pochi trotskisti militavano dentro il Partito Socialista.
Il declino di questa organizzazione è comunque ormai inevitabile e l’avventura di Bandiera Rossa terminerà formalmente nel 1949 nonostante che si fosse estesa anche in 13 regioni italiane.
Il PCI rifiuta a molti dei loro dirigenti la tessera: il vecchio De Luca ormai settantenne, scampato alla fucilazione dopo una lunga carcerazione a Regina Coeli, chiede l’iscrizione al Partito. La Federazione Romana la accetta, ma la Direzione la respinge nettamente.
Profondamente amareggiato in una lettera al suo vecchio compagno Volpini confessa:
“… Oggi con rinnovata esperienza, sospingendomi nostalgicamente verso la fonte battesimale della mia vita politica, quando alla scuola libertaria di Bakunin si formavano apostoli come Carlo Cafiero, grandi anime ideali come Pietro Gori,lottatori come Amilcare Cipriani e Enrico Malatesta, martiri come Michele Angiolillo e Sante Caserio, concludo che i partiti politici e lo stato come potere politico, malversano le grandi idee e soffocano la vera democrazia che è figlia naturale della libertà…”.

Si conclude così tristemente la storia di Bandiera Rossa, un movimento certamente
eterogeneo che è riuscito a mettere insieme intellettuali come Guido Piovene ed un bandito come Giuseppe Albani più noto come il gobbo del Quarticciolo, ma che più di ogni altro ha espresso la vera anima popolare di Roma.

Il nome glorioso di Bandiera Rossa verrà poi ripreso come titolo del giornale della sezione italiana della IV Internazionale e sarà poi anche il nome della corrente trotskista diretta da Livio Maitan dentro Rifondazione Comunista la quale ha preso oggi il nome di Sinistra critica.

Rimane la nostra eterna gratitudine per questa organizzazione, per la sua eroica lotta e per i suoi martiri come: Giuseppe Cinelli, Nicola Stame, Tigrino Sabatini, Eusebio Troiani, Romolo Jacopini, Ezio Malatesta, Giulio Roncacci e purtroppo molti altri ancora, i quali non sono soltanto, e non resteranno mai per noi, dei nomi scritti su delle lapidi ormai annerite dal tempo.




Bibliografia:

S.CORVISIERI – Bandiera rossa nella resistenza romana – ODRADEK edizioni-2005


Copyright©Il marxismo libertario. Riproduzione riservata



Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF