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martedì 15 marzo 2016

Françafrique: LO STILE FRANCESE DELL'IMPERIALISMO di Paul Martial




Françafrique: 
LO STILE FRANCESE DELL'IMPERIALISMO 
di Paul Martial


La “Françafrique”, il sistema di dominazione francese sulle sue ex colonie dell’Africa nera, continua ad essere ben presente, anche se le sue forme hanno conosciuto una serie di sviluppi.

All’inizio, si trattava soltanto di un rifiuto, quello di ammettere l’idea stessa di indipendenza delle colonie africane. Nel gennaio del 1944, nel Congo Brazzaville, mentre centinaia di migliaia di africani venivano mobilitati contro l’occupante nazista in Francia, de Gaulle respinse esplicitamente la prospettiva dell’indipendenza per le colonie africane: «qualunque idea di autonomia, ogni possibilità di sviluppo fuori del blocco francese dell’Impero, l’eventuale costituzione anche solo remota dell’autogoverno nelle colonie va esclusa».[1]

Dopo la guerra, Parigi si aggrapperà disperatamente alla sua politica di “Union Française” [Unità Francese], proclamata nel 1946. Il nuovo orpello dell’impero coloniale avrà fine nel 1958, sotto la pressione delle lotte anticoloniali che si sviluppano in Indocina, ma anche in Africa con la sollevazione del Madagascar, ferocemente repressa: «La repressione è quella tipica delle guerre coloniali: numerosi massacri che colpiscono ampiamente la popolazione civile, tra cui donne e bambini. Un alto funzionario evocherà un “Oradour malgascio” [in riferimento al massacro di Oradour-sur-Glane commesso dalle SS il 10 giugno 1944], a proposito del massacro perpetrato nella cittadina di Moramanga (nel centro-Est)».

In risposta, il governo gaullista proporrà il progetto di “Comunità francese”, accolto dall’insieme degli strati dirigenti africani. Solo Sékou Touré lo rifiutò e il suo paese, la Guinea, sarebbe stata oggetto di un sabotaggio, in cui i coloni distrussero archivi, scuole e ospedali. L’unico vantaggio di questo progetto nato-morto di Comunità francese sarà quello di guadagnare tempo per elaborare un piano di una efficacia spaventosa. L’idea è semplice: cambiare tutto perché niente cambi. Era nata la Franciafrica.

L’indipendenza neocoloniale

Per funzionare, dapprima - e soprattutto - il progetto si appoggerà sulle élites africane, che erediteranno quell’indipendenza dei loro paesi che esse non volevano. Queste élites (de)formate dall’amministrazione coloniale sono prima di ogni altra cosa debitrici e fedeli a Parigi. L’ivoriano Houphouët-Boigny resterà nella storia come il grande organizzatore della Franciafrica. Del resto, è stato lui a inventare questo neologismo, all’epoca per niente negativo. Servirà in primo luogo la Francia, a danno del proprio paese e dell’Africa. Sarà sempre con Foccart [2] a lottare contro il comunismo, contro i dirigenti nazionalisti africani, o semplicemente contro paesi che potevano dar fastidio alla Francia. Di qui il sostegno di Parigi alla guerra, persa in partenza, dei secessionisti del Biafra contro la Nigeria, che provocò 2 milioni di morti.

Accanto a Houphouet-Boigny, troviamo gli altri “padri dell’indipendenza” che hanno tutti chiamato a votare “Sì” al referendum di de Gaulle. Nel Congo Brazzaville, Fulbert Youlou era già considerato, nel 1947, il “candidato dei bianchi” e perse le elezioni nella regione di Pool. Beneficerà in seguito del sostegno dell’Unione del Medio Congo, raggruppamento dei coloni bianchi.

Il centrafricano Boganda era deputato all’Assemblea Nazionale nella lista del partito democratico-cristiano MRP, e anche lui avrebbe ottenuto il sostegno dei coloni bianchi. Maurice Yameogo, primo Presidente dell’Alto Volta (l’attuale Burkina Faso) era un arrivista affascinato dagli “evoluti”.[3] Dirigente del ramo locale del CFTC, fonderà più tardi l’Unione Africana e Malgascia, un’organizzazione africana anticomunista che funzionava sul modello della NATO con un patto di difesa.

Hamani Diori nel Niger, artefice della “francofonia” [Organizzazione di paesi, comunità e individui che usavano abitualmente il francese], salirà al potere con l’appoggio dell’amministrazione coloniale, dei capi dei clan tradizionali e dei paracadutisti francesi. Da parte sua, Léon Mba, Primo ministro del Gabon, si batté per fare del suo paese un dipartimento francese. In definitiva, come vediamo, hanno tutti in comune la fedeltà alla Francia, la lotta ai nazionalisti e un anticomunismo viscerale, a tal punto che Houfouët-Boigny richiese una base dell’esercito USA nell’Alto Volta per prevenire l’eventuale invasione comunista cinese.[4] Pericolo che a lui sembrava venisse sottovalutato da…Foccart. Davvero una bella prodezza: essere più anticomunista del fondatore del SAC [Servizio di Azione Civica, una sorta di polizia parallela al servizio di de Gaulle]!

Coloro che avessero rigettato questo quadro coloniale sarebbero stati eliminati. In Togo, Sylvanus Olympio verrà assassinato da Eyadema. Nel Mali, Modibo Keita verrà rovesciato e troverà la morte nella sua cella, avvelenato. Nello Zaire (ora Repubblica democratica del Congo), Lumumba verrà assassinato da Mobutu, grande amico della Francia. Quanto al Camerun, sarà una vera e propria guerra quella in cui si lancerà la Francia, che non esiterà a servirsi del napalm contro i partigiani nazionalisti.

L’indipendenza della bandiera

La Francia aiuterà questi “padri della nazione”, tutti diventati dittatori, ad assassinare gli oppositori. L’accesso all’indipendenza non è ormai un pericolo per Parigi. L’amministrazione coloniale verrà mantenuta e gli accordi bilaterali con ciascun paese contratteranno lo sfruttamento e la sottomissione che c’erano prima.

Il rapporto di vassallaggio si costruirà intorno a quattro assi principali:

1) Economico – I dirigenti francesi ci tengono a conservare a ogni costo la loro indipendenza energetica: il gas per l’Algeria, il petrolio nel Gabon e, più tardi, nel Congo Brazzaville, e l’Uranio nel Gabon e in seguito nel Niger. La Francia creerà a questo scopo complessi industrial-statali per realizzare il saccheggio.

2) Finanziario – La conservazione del franco CFA, inizialmente chiamato “franco delle colonie francesi d’Africa”, il cui nome è ormai per l’Africa occidentale, il “franco della comunità finanziaria d’Africa” e, per l’Africa centrale, il “franco della cooperazione finanziaria d’Africa centrale”. Per dirla chiaramente, il complesso della politica monetaria dei paesi africani della zona CFA è direttamente gestito dal ministero francese del Bilancio.

3) Militare – La continuità della permanenza delle basi dell’esercito francese, che era di 30.000 uomini negli anni 1960, diminuirà ma sarà compensata dalla presenza dei vari consiglieri francesi della Difesa. Gli accordi di collaborazione militare, alcune delle cui clausole rimarranno segrete, prevedevano esplicitamente un intervento contro le destabilizzazioni dei poteri presenti sul posto. Venivano prese di mira soprattutto le sollevazioni popolari contro le dittature, che cominciavano a nascere.

4) Diplomatico e politico - .La Francia avrebbe conservato il proprio peso di Impero nel “concerto delle nazioni” - per riprendere l’espressione consacrata - grazie ai voti ottenuti tramite le sue ex colonie africane e la sua presenza al Consiglio di sicurezza dell’ONU. L’istituzione della francofonia le avrebbe consentito di legittimare la propria presenza in Africa. Infine, Foccart, incaricato degli affari africani e malgasci, creerà una vera e propria rete di consiglieri francesi delle presidenze africane, che gli permetteranno di orientare le decisioni delle vecchie colonie.

Siamo onesti, due elementi cambieranno effettivamente per i paesi africani divenuti indipendenti: i colori della bandiera e l’inno nazionale.

La fine della Seconda guerra mondiale inaugura l’era della guerra fredda, con l’ossessione della lotta contro il comunismo. Rispetto alla dottrina Monroe, che fa dell’insieme del continente americano la riserva di caccia degli Stati Uniti, la Francia svilupperà una politica identica per quanto riguarda l’Arica. Questa divisione del lavoro tra Francia e USA contribuirà a mantenere la repressione dei movimenti popolari in entrambi i continenti. Questo però non impedirà agli USA di intervenire in Africa, ad esempio in Congo con l’assassinio di Patrice Lumumba, esattamente come la Francia parteciperà al Piano Condor di sterminio della sinistra latinoamericana.

Sviluppo e trasformazione

Questa politica iniziata con l’indipendenza dei paesi africani consentirà alle grandi imprese francesi di raccogliere formidabili profitti connessi alla loro situazione di quasi monopolio. La politica africana della Francia si differenzierà a seconda dei paesi. In Costa d’Avorio, Houphouët-Boigny ha la completa fiducia della Francia nella gestione del proprio paese, che combina l’ottenimento della pace sociale connessa allo sfruttamento del cacao e del caffè con la repressione delle opposizioni. La stessa fiducia ha il dirigente ivoriano per regolare i conflitti nell’Africa orientale in favore della Francia, esattamente come il gabonese Omar Bongo, ex appartenente ai servizi segreti francesi, farà per l’Africa centrale. Per altri paesi è diverso; ad esempio, in Centrafrica è un colonnello francese, Jean-Claude Mantion, a gestire il paese al posto del presidente Kolingba. Ecco cosa ne dice il congolese Sassou Nguesso: « Lui non faceva neanche finta di dirigere. Quando noi, capi di Stati vicini, arrivavamo all’aeroporto, ad accoglierci era un certo comandante francese, Mantion, che si presentava in pantaloni corti e camicia».

La Franciafrica conoscerà una maggiore evoluzione con il crollo del Muro di Berlino, che apre una nuova fase. Diventa difficile per la Francia celebrare i popoli che recuperano la libertà nei paesi dell’Est e continuare a sostenere apertamente le peggiori dittature in Africa. Tanto più che questi dittatori hanno smesso di assolvere il loro ruolo storico di baluardo contro la minaccia comunista. L’imperialismo francese imporrà un cambiamento a tutti i governi africani al momento del discorso di Mitterrand a la Baule, nel 1990. Questa risposta ai grandi cambiamenti storici e ai movimenti di massa per la democrazia in Africa avverrà tramite le conferenze sovrane, che non cambieranno le cose radicalmente, salvo introdurre spazi di libertà, spesso precari. Sindacati e partiti politici vi si inseriranno grazie all’emergere della società civile che, in taluni casi, avrà un ruolo decisivo nelle lotte sociali e politiche.

Quale politica della Francia in Africa

Si assiste, dopo questa svolta degli anni Novanta, a un cambiamento profondo della politica francese di fronte a due elementi di fondo: la concorrenza dei paesi emergenti e la minaccia del jihadismo.

A livello economico, vale la pena di sottolineare la volontà del governo francese di operare una svolta verso paesi africani anglofoni il cui peso economico resta determinante, ad esempio il Sudafrica, la Nigeria e, in minor misura, alcuni paesi dell’Africa orientale. L’Africa francofona, in effetti «ha un’incidenza relativamente debole, di circa 240 miliardi di dollari di PIL globale, per una popolazione inferiore a 300 milioni di abitanti».[5] Per alcuni gruppi, come Total, Bolloré, Orange o Castel, l’Africa resta un mercato importante: «nel 2014, le esportazioni francesi verso l’Africa subsahariana nel suo complesso hanno rappresentato 12 miliardi di euro, 7 miliardi dei quali a destinazione di paesi francofoni (…) permettendo di realizzare un invidiabile eccedente di 1 miliardo di euro sull’insieme dell’Africa subsahariana e, considerando solo i paesi francofoni, di 4,5 miliardi di euro».

Queste cifre vanno tuttavia relativizzate, perché l’Africa rappresenta soltanto l’1% del commercio estero francese, ben lontano da quello che c’era negli anni Settanta, e il sopraggiungere di paesi quali Cina e India ne hanno modificato profondamente l’andamento: «la quota di mercato della Cina in Africa è passata da meno del 2% del 1990 a oltre il 16% nel 2011, mentre quella della Francia è scesa dal 10,1% nel 2000 al 4,7% nel 2011».

Il cambiamento della Franciafrica non è percepibile solo dalla riduzione della rilevanza economica della Francia, ma soprattutto dalla sua politica, che punta a liberalizzare completamente il mercato in Africa tramite gli accordi di partenariato economico (APE). A ciò si aggiunga la finanziarizzazione dell’economia, che imperversa nel continente in termini di fuga di capitali e di evasione fiscale. «Il movimento ha assunto proporzioni inedite; l’Africa avrebbe perso quasi 54 miliardi di dollari l’anno in media durante questo periodo (2001-2008), e addirittura 90 miliardi nel 2007 e 2008». Si aggiunga a questo la massiccia corruzione dei gruppi dirigenti, messa in luce dalle inchieste giudiziarie, a lungo ostacolate dai governi francesi, sui beni mal acquisiti delle dittature africane.

A livello militare, si assiste all’autonomizzazione dello Stato Maggiore, così descritta da Laurent Bigot, ex responsabile dell’Africa orientale al Quai d’Orsay, nella sua deposizione al parlamento: «Ci sarebbe attualmente una sovra-rappresentanza di militari, nel prendere decisioni sui problemi africani, che hanno occupato un posto lasciato vacante dai diplomatici del Quai d’Orsay, o dello stesso Eliseo. Anche lo Stato Maggiore particolare del presidente della Repubblica occupa uno spazio ininterrottamente crescente e molte decisioni vengono prese da soggetti esterni alla sfera diplomatica».

Questo crescente potere dei militari sulla politica ha avuto conseguenze catastrofiche, la peggiore delle quali è certamente la partecipazione della Francia al genocidio dei Tutsi in Ruanda (aprile 1994). Totalmente implicato nell’appoggio al governo Habyarimana, lo Stato Maggiore si è appropriato in certo qual modo questa guerra contro il FPR di Kagame, fino al punto di sostenere i peggiori estremisti della dittatura ruandese (questo va detto, senza nulla togliere alle tremende responsabilità di dirigenti come Mitterrand e Juppé). Fino al punto che la Francia ha avuto difficoltà a ottenere l’avallo dell’ONU per l’operazione “Turquoise” (giugno 1994).[6] Due giornalisti di Le Figaro, Isabelle Lasserre e Thierry Oberlé,[7] mettono in risalto il peso della gerarchia militare nell’“operazione Serval” nel Mali. Prevista fin dal 2009 con nome in codice “Requin” [squalo], venne rifiutata da Nicolas Sarkozy e alla fine accettata da François Hollande. La continuità di questa politica è tanto più facilitata in quanto Hollande ha confermato il capo di Stato Maggiore di Sarkozy, Benoît Puga, un ex direttore del servizio di Informazione militare.

Per capire l’imperialismo francese in Africa

Gli interventi militari francesi in Africa non sono motivati fondamentalmente dalla difesa degli interessi economici della Francia. Certo, ci possono essere “vantaggi collaterali”; ad esempio è chiaro che le imprese francesi sono particolarmente ben rappresentate nella ricostruzione della Costa d’Avorio. È chiaro anche che l’intervento in Mali aveva sicuramente un risvolto: garantire importanti investimenti consentiti ad Areva per lo sfruttamento dell’uranio nel Vicino Niger.

Ma i costi delle operazioni all’estero (OPEX) salgono a 1,25 miliardi di euro nel 2013, 1,13 miliardi nel 2014. Siamo ben lontani dai 340 milioni di euro di eccedenti commerciali che la Francia realizza nel Mali. L’esempio della Repubblica Centroafricana, dove si svolge l’operazione Sangaris, è ancor più significativo. Questo paese, sull’orlo del baratro, non produce quasi più niente e le sue uniche ricchezze, l’estrazione di diamanti e la produzione di legname in tronchi, prendono strade mafiose. Per ammissione del suo stesso ministro degli Esteri: «gli scambi commerciali (55 milioni di dollari) sono di scarsa rilevanza e le imprese francesi poco numerose».

L’esempio del Ciad è altrettanto illuminante: ecco un paese esportatore di petrolio dove la Francia è intervenuta a più riprese per preservare i vari regimi in carica. Tanto che l’operazione militare “Sparviero”, scatenata nel febbraio del 1986 contro le truppe libiche, è ancora in corso. L’ultimo intervento risale al 2008 e puntava a salvare il dittatore Idriss Deby. Tuttavia, gli interventi francesi non sono connessi al petrolio, perché nessuna impresa francese sfrutta l’oro nero di quel paese. La imprese sono americane (ExxonMobil e Chevron) e malese (Patronas). In altri termini, l’intervento militare francese in Ciad ha lo scopo non di preservare i propri interessi economici, ma quelli degli Stati Uniti!

La Francia continua a svolgere il proprio ruolo: ieri contro il comunismo, all’epoca della guerra fredda, oggi contro le minacce jihadiste o i sussulti di Stati falliti, per salvaguardare l’ordine mondiale che consente lo sfruttamento e la rapina dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi. Certo, ci sono concorrenze, differenze e magari divergenze, che si manifestano tra i vari imperialismi rispetto all’Africa. Ma quando si tratta di garantirne la stabilità e di proteggere l’Africa utile per gli affari, il consenso si raggiunge. Credere che vi sia una contrapposizione tra imperialismo USA e francese in Mali, cosa che ha spinto alcuni a sostenere l’intervento francese, è sbagliato. Prova ne sia l’operazione “Serval”, oggetto di congratulazioni da parte dell’amministrazione americana, che si è trasformata in operazione “Barkhane” permettendo così all’esercito francese di intervenire su tutta la fascia sahelo-sahariana, ridendosela dei confini della Mauritania, del Mali, del Burkina Faso e del Ciad, come un tempo delle colonie.

Se la Franciafrica crea consenso ufficiale contro di sé, le concrete manifestazioni della sua politica sono poco o niente combattute dalle organizzazioni della sinistra. Gli interventi vengono spesso giustificati con l’urgenza umanitaria, con la solidarietà in nome della “nostra comune storia” che consente di assolvere la politica francese in Africa che, pure, è causa principale delle crisi che colpiscono duramente quel continente. Nell’urgenza, i principali partiti di sinistra accettano gli interventi militari in Africa con il pretesto di salvare le vite, senza mai porsi la domanda: come mai siamo arrivati a questo punto?

Il caso del Centrafrica è significativo, per questo aspetto: otto interventi militari, l’appoggio a tutti i governi, con a volte la gestione diretta del paese per più di un decennio e, alla fine, il naufragio di un paese con conseguenze drammatiche e dolorose per la popolazione. Difficile in questa situazione spiegare che la Francia non c’entra. L’esempio dimostra come la debolezza di un’attività antimperialista in Francia lasci totale libertà ai decisori, soprattutto all’esercito, di continuare la loro politica, senza esserne realmente preoccupati.


Traduzione di Titti Pierini

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 NOTE

[1] Atti conclusivi della Conferenza di Brazzaville (gennaio-febbraio 1944).

[2] È stato segretario generale dell’Eliseo per l’Africa dal 1960 al 1974.

[3] Così si chiamavano coloro, meticci o africani, che vivevano all’occidentale, occupando perlopiù posti nell’amministrazione coloniale.

[4] Pierre-Michel Durand, L’Afrique et les relations franco-américaines des années soixante, Ed. l’Harmattan, Parigi 2007, pp. 307.

[5] La fonte dei dati in cifre di questo paragrafo è il Rapporto della Commissione parlamentare istituita “Sulla stabilità e lo sviluppo dell’Africa francofona”.

[6] Si sono astenuti 5 membri del Consiglio di Sicurezza : Cina, Nigeria, Nuova Zelanda, Pakistan e Brasile.

[7] Isabelle Lasserre, Thierry Oberlé, Notre guerre secrète au Mali (Fayard)



 da L’Anticapitaliste, settimanale del NPA


dal sito Movimento Operaio

 

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