UNA RIFORMA PER VECCHI
intervista al fisico Francesco Sylos Labini a cura di Federico Tulli
"Si tratta di un evento epocale che rivoluziona i nostri atenei. L’università sarà più meritocratica, trasparente, competitiva e internazionale. Il disegno di legge di riforma dell’universita` segna la fine delle vecchie logiche corporative: sarà premiato solo chi se lo merita". Era il 29 luglio scorso quando il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, salutava cosi` il via libera del Senato al ddl che porta il suo nome. Crisi politica permettendo, entro pochi giorni il testo sara` sottoposto al vaglio della Camera. Secondo il ministro, la sua approvazione "scostituisce la base per il rilancio del sistema universitario italiano e finalmente si potra` competere con le grandi realta` internazionali". A giudicare dalle vibranti proteste di chi in primis dovrebbe beneficiare del riassetto esaltato dal ministro (vale a dire studenti e giovani ricercatori), non si direbbe. L’ultima manifestazione (iniziata il 3 settembre) a fine mese potrebbe bloccare
l’avvio dell’anno accademico al dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma. Con il taglio indiscriminato di risorse, economiche e umane, stabilito dal ddl, i ricercatori si troverebbero infatti a dover insegnare in aule composte da oltre 100 studenti, contro i 75 previsti dalle direttive ministeriali. Per questo
motivo hanno deciso di non fare lezione se il ddl non sara` cambiato. Una “situazione” didattica che, penalizzando contemporaneamente gli allievi e la qualita` dell’insegnamento, fa pensare a tutto tranne che "all’universita` piu` competitiva e internazionale" annunciata dal ministro. E questa e` solo una delle tante discrepanze tra gli annunci della Gelmini e la realta` dell’universita` che sta per nascere. Con Francesco Sylos Labini, fisico ricercatore all’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma e autore insieme con il collega Stefano Zapperi del libro I ricercatori non crescono sugli alberi, facciamo il punto sul provvedimento targato Gelmini.
Proprio mentre il ddl Gelmini entrava in Senato, in Francia il governo di Sarkozy investiva lo 0,5 per cento del Pil per potenziare i settori di base e rilanciare il Paese. Stanziando 11 miliardi di euro per l’università e 8 per la ricerca, Parigi ha provocato ricadute positive nell’immediato e posto le condizioni per cruciali modifiche strutturali dell’intero sistema del “sapere”. Possiamo dire la stessa cosa della riforma italiana?
Certamente no. Quelle del ministro sono solo parole. Il suo ddl completa l’opera di distruzione dell’universita` pubblica iniziata con il dl 133 “Gelmini-Tremonti” del 2008. Tutti siamo d’accordo che occorre fare delle riforme strutturali, purche siano serie e non delle prese in giro. Questa e` una presa in giro.
Perché?
Per tanti motivi. Anzitutto perche il taglio “orizzontale” del 20 per cento al finanziamento ordinario delle universita` e` una mannaia che si abbatte in maniera indiscriminata su tutto e su tutti.
Chi ne pagherà il prezzo?
Inevitabilmente gli anelli deboli della catena: gli studenti, chi sta per entrare nel mondo della ricerca e i giovani ricercatori. E` una riforma del tutto insensata fatta da vecchi per vecchi. Del resto piace ai professori ordinari, cioe` a chi ha gia` potere. Ed e` sostenuta dalla conferenza dei rettori, perche li trasforma in dei piccoli satrapi universitari.
Quegli anelli deboli, ovunque sono considerati punti di forza. È noto che gran parte delle scoperte si fanno prima dei 40 anni.
L’investimento va fatto su chi puo` trainare lo sviluppo in maniera piu` efficace. Accade in tutta Europa. Non parliamo degli Stati Uniti. Una riforma seria metterebbe al centro del progetto il reclutamento dei ricercatori e i fondi per consentire loro di programmare l’attivita`. Invece col ddl Gelmini e` un punto trattato in maniera insensata.
Ci spieghi meglio.
In pratica si vuole abolire il ruolo del ricercatore, che e` una delle poche “valvole di sfogo” per l’assunzione di chi esce dall’universita`, e sostituirlo con la tenure track americana. Questa, negli Usa, prevede l’assunzione a tempo determinato di 3 o 4 anni. Al termine, chi ha prodotto dei risultati viene nominato
professore. Mentre il posto di chi non ha avuto un rendimento soddisfacente viene ribandito.
Sembra un buon metodo.
Purtroppo la versione italiana della tenure track non ha nulla a che vedere con quella americana. L’uso delle parole a sproposito testimonia una certa confusione se non malafede. Da noi e` previsto un contratto temporaneo di tre anni e stop. Si e` fuori dall’universita`, poco importa dei risultati prodotti.
La questione delle assunzioni è legata a doppio filo con i pensionamenti. Il ddl prevede un limite di età di 70 anni per i professori ordinari. Cosa ne pensa?
Come proposta in se e` del tutto condivisibile. Ma anche qui e` una questione di metodo. Il corpo docente italiano e` il piu` anziano al mondo. Gli over 60 sono il 30 per cento. Con Zapperi proponiamo da tempo di abbassare l’eta` del pensionamento a 65 anni. Un’idea che e` stata rilanciata di recente anche dal Pd.
Del resto non ci inventiamo nulla: ovunque si va in pensione a 65-67 anni. Ma un intervento cosi` delicato va contestualizzato. Un semplice emendamento al testo Gelmini creerebbe danni maggiori di quelli che gia` fa.
Come mai?
Perché sono tanti i problemi che vengono insieme all’eta` pensionabile. Nei prossimi 10 anni, tra il 40 e il 50 per cento del corpo docente attuale andra` in pensione. Diminuendo improvvisamente, l’eta` pensionabile aumenterebbe al 60-70 per cento. Se poi pensiamo che nel ddl c’e` il blocco del turn over al 20 per cento, ecco che un intervento estemporaneo svuoterebbe l’universita`. Tra 10 anni non ci sara` piu` nessuno a insegnare e a fare ricerca. Un altro esempio: oggi si viene assunti in ruolo mediamente intorno ai 40 anni. Dopo 25 anni di lavoro che cosa rimane in tasca? E poi c’e` il costo del pensionamento in blocco di 15mila professori: circa 500 milioni di euro. Insomma, la norma e` giusta ma va inserita in una riforma basata sullo svecchiamento del sistema. Una misura da programmare con criterio.
Per rilanciare l’università italiana occorrono tempo e denaro.
Non solo. Per sviluppare un sistema di qualita` vanno create le condizioni “sociali”. Invece da anni c’e` una campagna mediatica che propone una visione distorta della ricerca e caricaturale dell’universita`. Questa sarebbe composta solo da baroni mafiosi e da mediocri nullafacenti. Ma il successo all’estero di chi si e` formato in Italia dimostra la presenza di numerosi centri d’eccellenza. Questa percezione e` stata persa dall’opinione pubblica. Eppure la prima a essere danneggiata dal taglio delle risorse statali e` proprio la comunita`. Solo lo Stato puo` finanziare i tempi lunghi che una ricerca di qualita` richiede. Ma e` solo questa che puo` avere delle ricadute positive sulla societa`.
pubblicato da Left-Avvenimenti (10.9.2010)
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