La postdemocrazia internazionale e la crisi di legittimità strisciante del sistema dei partiti in Italia
di Michele Nobile
In questo post pubblichiamo i primi due capitoli di questo saggio di Michele Nobile. Gli ultimi tre verranno pubblicati nei prossimi giorni.
La tesi fondamentale del saggio è che l’istituzione parlamentare sia entrata in una fase di obsolescenza che la priva di ogni residuo di progressività storica. Ciò sia per l’evoluzione di lungo periodo dei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, sia in forza, e questo è il dato nuovo e decisivo, della fine programmatica ed etico-politica dei partiti socialdemocratici e comunisti la cui matrice originaria risiedeva nella storia del movimento operaio del XX secolo.
Tutto ciò delinea un’evoluzione dei sistemi politici degli Stati a capitalismo avanzato in senso post-democratico: una situazione ben distinta dalla dittatura, giacché in essa si conservano i diritti politici formali, ma nella quale cadono anche le ultime condizioni per le quali i partiti, in particolare quelli di «sinistra» e di «centro-sinistra», possano essere considerati in qualche modo «rappresentativi» della classe dei salariati e delle sue lotte. Se la tendenza è internazionale, essa trova il suo luogo più avanzato proprio in Italia, il paese dove si era sviluppato il più forte e agguerrito Partito comunista «occidentale», poi convertitosi integralmente a un orizzonte borghese e liberale, e dove si trova tuttora una componente derivata dal Pci, in questo momento de-strutturata in ben tre partiti (Prc, Pdci, Sel, ai quali si possono aggiungere i Verdi), la cui ragione di esistenza è, al di là della retorica, delle intenzioni e degli ideali della base militante, dei riferimenti ideologici (sbiaditissimi) e dei richiami nostalgici e identitari, la presenza istituzionale e la partecipazione subordinata a coalizioni elettorali ed a governi di «centro-sinistra». La sua «strategia politica» si riduce, in definitiva, a quella del «meno peggio», cioè a lottare contro Berlusconi e il «centro-destra», e per un governo di «centro-sinistra», rispetto al quale si vorrebbe fare da «ponte» tra «popolo di sinstra» e Palazzo. Quest’ultima componente della sinistra italiana è dunque egemonizzata dal «centro-sinistra» e priva di ogni seria prospettiva storica anticapitalistica, indipendentemente dai risultati elettorali e della persistenza degli apparati.
Le conseguenze politiche sono:
a) il rifiuto di partecipare al teatrino delle campagne elettorali.
b) l’assunzione di una prospettiva consiliare e autogestionaria come alternativa al parlamentarismo ed alla «liberal-democrazia», da far vivere concretamente nelle lotte e nella battaglia politica.
Alla base del saggio è una ricerca empirica sull’evoluzione dei partiti e delle politiche economiche (in particolare, dei partiti e dei governi di «sinistra» e «centro-sinistra» europei nell’ultimo trentennio), sull’andamento ed i livelli della partecipazione elettorale, e sui rapporti tra governi e parlamenti (fonte originaria dell’iniziativa legislativa, caratteri delle leggi e delle deleghe all’esecutivo).
La seconda parte del saggio costituisce un’interpretazione della dinamica recente del sistema dei partiti italiano e, in particolare, del cosiddetto «berlusconismo», del quale si contesta la ipotetica natura di «regime» e la stabilità. Scritto subito dopo le elezioni regionali del 2010, l’argomento di fondo trova conferma nelle vicende ultime del teatrino politico nazionale.
INDICE: I. Un sommario delle questioni. II. La prospettiva internazionale: l’avvento della postdemocrazia e la tendenza alla riduzione della partecipazione elettorale. III. Gattopardi e trasformisti. Il sistema dei partiti italiano.IV. Analisi delle tendenze elettorali reali in Italia: una crisi strisciante di rappresentatività e di legittimazione. V. Parole al vento: populismo, bonapartismo, carisma. L’interpretazione del berlusconismo.
Bibliografia.
Allegato. Dati e grafici sugli iscritti ai partiti e la partecipazione elettorale. Europa, Giappone, Stati Uniti.
I. Un sommario delle questioni.
Tra tanti esempi possibili, ritengo che questo giudizio di Valentino Parlato sui risultati delle recenti elezioni regionali italiane abbia il merito di esprimere, in poche parole, una visione della politica e del sistema politico italiano dal quale occorre liberarsi, se si vuole costruire una prospettiva anticapitalista all’altezza della realtà del XXI secolo:
«Queste elezioni provano che non si batte Berlusconi con gli scandali e i processi. Il paese è cambiato, viviamo in una società largamente berlusconizzata, privatizzata, e senza più fiducia nella politica, come prova la forte crescita dell'astensionismo: a destra e anche a sinistra» (il Manifesto, 31 marzo 2010).
Sul primo periodo concordo pienamente. Implicitamente esso solleva diverse questioni: del perché qualcuno possa essersi illuso della possibilità di battere un governo, per giunta detto «videocratico», con manifestazioni-spettacolo dell’opinione pubblica anti-berlusconiana; ma anche del perché in Italia, come negli altri paesi colpiti dalla crisi, con l’eccezione della Grecia, non si siano avute mobilitazioni di massa tali da costringere i governi ad affrontare direttamente il montare della disoccupazione, rovesciando un orientamento della politica economica e sociale che, oramai, data da circa trenta anni.
Il secondo periodo in parte è una constatazione ovvia: da tre decenni il baricentro politico italiano si è spostato a destra. Ma, quel che è più importante è che si tratta dell’applicazione di stereotipi ampiamente diffusi. Parlato afferma tre cose di grande momento:
a) una tesi sulla società italiana, derivante o esemplificata dai risultati elettorali, che fa pensare ad una situazione di egemonia politico-culturale o a un «regime» berlusconiano;
b) una connotazione negativa del fenomeno astensionistico, in definitiva risultante dalla tesi precedente;
c) da a) e b) consegue, ma solo implicitamente e tenendo conto della fonte del messaggio, una certa idea della politica e del regime detto di «democrazia rappresentativa».
Sulla base di questi tre punti, nel campo dell’opposizione al governo in carica si possono delineare due posizioni.
La prima, ampiamente maggioritaria, assume che Berlusconi e il centrodestra italiano costituiscano un fenomeno patologico o deviante nel quadro dei regimi parlamentari; di questa posizione sono possibili due varianti, una che insiste sulla particolarità nazionale, l’altra sull’affinità tra Berlusconi ed altri esponenti della new right «neo liberista» internazionale. In questa prospettiva il regime parlamentare va difeso rafforzando i partiti di sinistra anche, o essenzialmente, accrescendone il peso elettorale e iniettando nuova linfa nella coalizione di centrosinistra che, perlomeno, è intesa come un «male minore» rispetto alla destra. Si intende, allora, il perché della connotazione negativa dell’astensionismo, assimilato tout court alla spoliticizzazione e alla chiusura nel «privato». Alla base di questa posizione direi che è l’interpretazione del «berlusconismo» come «regime», compiuto o in fieri, «populistico» o «bonapartistico» o «videocratico»: il modello è quello del rapporto diretto tra un leader carismatico e la massa atomizzata (privatizzata) dei seguaci.
Ritengo che questo modello non vada oltre la fenomenologia descrittiva e l’enfasi sulla peculiarità nazionale (la posizione oligopolistica di Berlusconi nel campo della comunicazione di massa) di processi che interessano tutti i paesi a capitalismo avanzato.
Ma si può anche sostenere che, malgrado la specificità di Berlusconi, il centrodestra italiano non sia un fenomeno patologico o deviante, bensì congruo al quadro dell’involuzione dei moderni sistemi di «democrazia rappresentativa» dei paesi a capitalismo avanzato.
In questo caso il «berlusconismo» non può essere inteso come tendenza a un regime di eccezione, quale il bonapartismo, ma come espressione nazionale di un processo internazionale. Si tratta dell’avvento di regimi politici che possono dirsi postdemocratici, nel quadro dell’evoluzione del capitalismo come società dello spettacolo: «lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» (Guy-Ernest Debord, La société du spectacle, Buchet/Castel, Paris 1967; La società dello spettacolo, Massari editore, Bolsena 2002, p. 54, corsivo mio).
Inoltre, e questo è un punto fondamentale della tesi che sostengo, la trasformazione in senso postdemocratico dei sistemi politici non può essere compresa indipendentemente dalla trasformazione dei partiti scaturiti dal movimento operaio, verso la fine del XIX secolo (i partiti socialdemocratici) o nei primi decenni del XX secolo (i partiti comunisti). Dell’involuzione postdemocratica della «democrazia rappresentativa» è parte integrante e determinante l’involuzione politica, ideale, etica, dei partiti di sinistra e delle organizzazioni sindacali. Queste organizzazioni sono parte del problema, non della soluzione. Se non si comprende questo non si può né rendere conto storiograficamente dell’involuzione dei sistemi politici, né attrezzarsi politicamente contro di essa.
In questa seconda prospettiva la lotta per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche e dei diritti economico-sociali può essere dissociata dall’appoggio elettorale ai partiti di sinistra o di centrosinistra. Questo perché si è spezzata la dialettica tra lotta extraparlamentare e parlamentare che ha caratterizzato gran parte della storia dei secoli XIX e XX, e grazie alla quale furono «iniettate» dosi di democrazia politica e sociale nei regimi parlamentari liberali. Ciò vale, essenzialmente, per i paesi a capitalismo avanzato (e con intensità, tempi e modi diversi tra essi); né, in linea di principio, si può escludere che il movimento involutivo delle istituzioni «rappresentative» possa essere bloccato o invertito. E’ però ragionevole presupporre, a fronte della trasformazione strutturale dei rapporti tra Stati ed economia, che l’eventuale rivitalizzazione dei regimi «liberaldemocratici» richieda situazioni di grave ed immediato pericolo per la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico, un contesto internazionale eccezionale, e, comunque, soggettività politiche profondamente diverse da quelle ora esistenti. Va da sé che gli sbocchi di situazioni di crisi acuta sono imprevedibili: sono possibili soluzioni riformiste, come durante la crisi delle dittature europee a metà degli anni Settanta del secolo scorso, o esiti autoritari o, ancora, esiti socialisti ed anti-burocratici, che estendano lo spazio delle libertà e della liberazione su basi diverse da quelle dei regimi parlamentari ma postdemocratici attuali.
Se questa osservazione appare esagerata, si deve allora ricordare che la «liberaldemocrazia» fu il risultato di un’epoca nella quale si combinarono due guerre mondiali, crisi rivoluzionarie e dittature, e la più grave depressione nella storia dell’economia mondiale.
Tutto ciò equivale a dire che la lotta contro le tendenze postdemocratiche non può che essere extraparlamentare e volta contro i partiti che occupano la scena politica come candidati al governo. Ed intendo proprio tutti i partiti, compresi quelli a denominazione «comunista», «arcobaleno» ecc., secondo una discriminante elementare: la partecipazione o la ricerca di partecipazione a coalizioni di governo.
E’ interesse di coloro che si ritengono legati alla storia ed agli ideali del movimento operaio guardare in faccia l’«arido vero» e mettere da parte il voto per la «bandiera» o per il «meno peggio»: in un caso si tratta di gratificazione ideologica nel senso peggiore, nell’altro di rinuncia all’autonomia ed alla coerenza tra i mezzi e il fine. Questo quando, se un bisogno storico e confusamente sentito da milioni di persone esiste, è la necessità di mettere la politica e l’etica politica al primo posto nel trattare i grandi problemi sociali. Un bisogno che si esprime anche nel disgusto per la politica istituzionale.
In ultimo, a decidere tra i due orientamenti fondamentali è, appunto, la valutazione del percorso storico dei regimi parlamentari e dei partiti di sinistra e di centrosinistra, vecchi e nuovi. Insisto sul fatto che le implicazioni politiche della seconda posizione si basano su una valutazione del percorso storico dei regimi parlamentari e del parlamentarismo.
Si intende da questo che della spiccata tendenza alla riduzione della partecipazione elettorale, che non è solo italiana, sarà possibile una interpretazione diversa dalla precedente: non specularmente opposta, ma più complessa, in quanto orientata non tanto sugli elettori e le loro motivazioni soggettive («apatia», «privatizzazione»), ma sull’involuzione strutturale e di lungo periodo delle istituzioni e dei partiti della «democrazia rappresentativa». Bisogna fare attenzione a non invertire causa (l’involuzione) e conseguenza (l’astensionismo).
Nella seconda sezione tratto delle tendenze internazionali alla postdemocrazia e dell’interpretazione dell’astensionismo. Nella terza tratto il sistema politico italiano, caratterizzato dal trasformismo e dalla formazione di un unico blocco capitalista e imperialista, articolato in due ali complementari di centrosinistra e di centrodestra. Nella quarta sezione sono discusse le tendenze elettorali reali, quali risultano dalle percentuali calcolate non sui voti validi ma sull’insieme del corpo elettorale: ciò misura il consenso effettivo per i partiti e le coalizioni. Oltre a considerazioni complessive sulle recenti elezioni regionali, svolgo una breve analisi di tre consultazioni elettorali regionali, in Lombardia, Puglia e Lazio.
L’ultima sezione tratta della possibilità e della caratterizzazione di un regime «berlusconiano»: la conclusione è che, piuttosto che della tendenza all’affermazione di un tale «regime», siamo in presenza di una crisi strisciante di rappresentatività e di legittimazione di entrambe le aree politiche, espressione della crisi del parlamentarismo e degli istituti della «democrazia rappresentativa».
II. Una prospettiva internazionale: l’avvento della postdemocrazia e la tendenza alla riduzione della partecipazione elettorale
1. Innanzitutto occorre precisare cosa sia la «democrazia rappresentativa» e in qual senso si possa parlare di una sua involuzione.
Almeno dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, passando attraverso i teorici classici della «classe politica» e della burocrazia (Mosca e Pareto, Michels e Weber), e poi fino a Kelsen, Schumpeter, Downs, Dahl, Bobbio e Sartori, nella filosofia politica e nella politologia è chiaro che i sistemi «democratici» moderni sono cosa qualitativamente diversa da ciò che per democrazia si intendeva nell’antichità, ovvero una «costituzione» nella quale ad essere signori del potere sono «i liberi e poveri» (Aristotele, La politica, IV, 3). Nella definizione antica, si noterà, entra in gioco in modo determinante la caratterizzazione sociale della maggioranza che costituisce la politeía, la comunità politica: effetto conseguente ad un tipo di rapporto sociale di produzione nel quale non si poteva distinguere una sfera autonoma dell’economia poiché strettissima era l’ unità tra rapporti di potere economici e rapporti di potere politici.
E, sempre almeno da Rousseau, è pure chiaro che la democrazia non può essere «rappresentativa». Il presupposto delle moderne «democrazie rappresentative», ed è un presupposto reale, è che gli eletti non rappresentano affatto i loro elettori: tanto che il mandato imperativo è, esplicitamente o implicitamente, vietato nelle costituzioni. Con ovvie differenze di accenti e preoccupazioni, si tratta di un concetto che accomuna un uomo di sinistra come Bobbio e un’economista «grande borghese» come Schumpeter:
«Joseph Schumpeter, aveva colto perfettamente nel segno quando sostenne che la caratteristica di un governo democratico non è l’assenza di élites ma la presenza di più élites in concorrenza tra loro per la conquista del voto popolare» (Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984).
La moderna «democrazia» liberale non è altro che la procedura attraverso la quale il «popolo» è chiamato a scegliere i governanti da un determinato menù. Sperando che i cuochi cucinino proprio le pietanze promesse. In questo consiste il carattere procedurale o formale dei regimi di «democrazia rappresentativa»: non si tratta di una forma adattabile a qualsiasi materia sociale.
La «rappresentatività» delle «democrazie» parlamentari è, piuttosto, la forma nella quale, sulla base del carattere indirettamente sociale del lavoro, si riproducono la non-socializzazione del potere politico e l’autonomia degli organi politici elettivi rispetto alla «società» e ad una sfera economica relativamente «autonoma», la divisione politica tra dirigenti e diretti che è complementare alla divisione sociale tra capitalisti e salariati, tra dirigenti del processo di valorizzazione del capitale ed esecutori eterodiretti del processo di lavoro, sulla base dell’eguaglianza formale davanti alla legge.
Ciò detto, la lotta per i diritti democratici, per l’estensione e l’eguaglianza del voto, la libertà di organizzazione partitica e sindacale, di riunione e manifestazione, di espressione, e per l’estensione e l’approfondimento dei diritti socio-economici, è parte integrante della storia del movimento operaio e socialista, contro l’élite politica liberale. Per la conquista di quei diritti molto sangue venne versato, e non solo a causa del fascismo e di dittature militari. Ma non bisogna confondere la conquista di diritti democratici e sociali con l’ordinamento dello Stato capitalistico «liberaldemocratico», ed ancor meno con lo Stato dittatoriale diretto dalle caste burocratiche «comuniste».
La lunga lotta per la democrazia politica e l’uguaglianza sociale è stata «tradita» dalle burocrazie dei partiti operai, nella forma più feroce in Unione sovietica e nei sedicenti «socialismi di Stato»: ma il futuro dell’umanità risiede nella possibilità che, in modo analogo eppure diverso che nell’antica Atene, potere politico e potere economico vengano a ricomporsi, non sulla base di una società di piccoli produttori indipendenti e liberi, ma della socializzazione dell’economia e delle decisioni politiche. In una società nella quale l’autogestione sia la norma, e la legge del valore, il mercato e il profitto non siano più i «regolatori» degli scambi sociali, è possibile superare la discussione astratta e sterile tra democrazia diretta e indiretta (o delegata) come alternative, o che la prima sia nel migliore dei casi relegata solo al livello microsociale della gestione delle briciole concesse dall’alto. In una società basata sull’autogestione a tutti i livelli (il che implica coordinamento orizzontale e verticale), modi diversi di democrazia e rappresentanza, anche territoriale, possono intrecciarsi, riducendo i rischi dell’autonomizzarsi delle istituzioni politiche.
2. A partire dalle riforme dell’«era progressista» l’élite statunitense è stata all’avanguardia dei tentativi di «spoliticizzazione» di massa, tanto che quello nordamericano» resta un modello, vagheggiato o temuto (si veda, ad es., a cura di Maurizio Vaudagna, Il partito politico americano e l'Europa, Feltrinelli, Milano 1991, i lavori di Testi, di F. Fox Piven, E. Meiksins Wood; e la discussione tra Duverger e Kirchheimer sul futuro dei partiti); ma, bisogna pur ricordare questo, quel modello non è riuscito a impedire l’emergere di forme nuove e radicali di mobilitazione e politicizzazione di massa, dagli Industrial workers of the wordl, tra le più belle esperienze del movimento operaio mondiale, alle lotte di massa degli anni Trenta durante la depressione, fino a ai movimenti per la liberazione degli afroamericani, delle donne, contro la guerra in Vietnam, ecologisti. Tutti movimenti sociali e politici che hanno avuto rilevanza mondiale.
Il fatto è che il regime liberaldemocratico è un ossimoro e una contraddizione vivente. «Rappresentatività» e legittimità dei partiti governanti, o che possono candidarsi a tale ruolo, sono condizioni essenziali della riproduzione del sistema e della sua trasformazione all’interno delle coordinate poste dall’accumulazione di capitale; ma, e in ciò è la contraddizione, quel tipo di «rappresentanza» richiede che la partecipazione politica rimanga contenuta nei canali istituzionali e burocratici, avversando la politicizzazione come autonoma mobilitazione di settori di società in quanto questa comporta il rischio che, a partire dai loro obiettivi concreti e specifici, più movimenti possano convergere proprio sulle e contro le istituzioni del potere economico e politico.
Nel complesso gli statisti nordamericani hanno saputo muoversi piuttosto abilmente all’interno di questa contraddizione, anche grazie alla posizione eccezionale del capitalismo statunitense nell’economia mondiale: da qui la riduzione della partecipazione elettorale. Ma per gli altri paesi a capitalismo avanzato l’equilibrismo tra processi di integrazione sociale e di integrazione politica, tra legittimazione attraverso i benefici materiali e legittimazione mediante la politica e il mantenimento delle fedeltà ideologiche, è stato ed è ben più complesso e difficile.
Se la democrazia è intesa in senso procedurale-formale, inevitabilmente si tenderà a vedere le differenze tra regimi a suffragio ristretto, censitario e solo maschile, e regimi a suffragio universale, e tra i sistemi parlamentari precedenti e seguenti la Seconda guerra mondiale, come questione di grado piuttosto che di qualità, a disporli secondo una linea continua.
Posta in termini di graduale progresso evolutivo, nella sua definizione «minima» ma essenziale, la democrazia può ridursi a numero, benché sia poi problematico stabilire quale sia la giusta soglia di elettori in percentuale della popolazione che consente di dire che un regime è democratico. Ad esempio, si può forse dire che quando nel 1882 l’elettorato italiano aumentò dal 2,5% al 6,9% della popolazione si sia anche triplicato il tasso di democraticità del sistema?
Ma, se mettiamo da parte questo genere di narrazione whig della storia dei diritti e delle istituzioni, si può invece osservare che prima della Seconda guerra mondiale le istanze di libertà politica e di liberazione sociale si combinavano contro lo Stato liberale, che quasi ovunque limitava i diritti politici in base a criteri di censo, culturali, sessuali e razziali. In Italia e in Germania si trattava dello stesso Stato liberale che nella fase terminale della sua crisi, e prima di venire da essi definitivamente liquidato, riuscì a far accedere al governo Benito Mussolini e Adolf Hitler.
Se si prende sul serio il principio dell’eguaglianza dei diritti politici e se ci si pone la questione di quali fossero le condizioni minime d’ordine socio-economico e politico perché il diritto di voto divenisse realmente universale, allora si deve dire che in Europa occidentale e in Giappone i sistemi di «democrazia rappresentativa» effettivamente nacquero dopo la Seconda guerra mondiale, e che tra questi sistemi e quelli «rappresentativi» liberali d’anteguerra c’è una differenza qualitativa, offuscata dalla continuità d’esistenza della forma-Stato e dal loro essere regimi diversi dello stesso Stato capitalistico. Questo è evidente per l’Europa meridionale; ma vale certamente anche per la Germania e l’Austria e, se si considerano le date dell’estensione del diritto di voto anche alle donne e dell’eliminazione di discriminazioni razziali e barriere istituzionali, anche per gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia ed altri paesi.
Inoltre, solo con i primi tentativi eterodossi di fronteggiare la grande depressione si può dire che nasca teoricamente (la «rivoluzione keynesiana») e, a tentoni, nella pratica una vera «politica economica», volta a gestire i rapporti tra moneta e forza-lavoro, affrontando direttamente la disoccupazione, e a concepire in un quadro macroeconomico la regolazione statale della crescita della domanda aggregata (si vedano, ad es., i lavori di Suzanne de Brunhoff). Cambiamenti strutturali, questi, di fondamentale importanza per integrare e saldamente « ancorare» socialmente la classe dei salariati e le loro organizzazioni sindacali alla dinamica del regime rappresentativo.
In modi e tempi diversi, sulla base dei nuovi rapporti tra politica statale e accumulazione del capitale emersi durante la crisi dello Stato liberale, le guerre mondiali e la depressione, e sotto la pressione delle lotte operaie (e non solo), il discorso dei diritti socio-economici entrò a pieno titolo nell’ambito della politica statale e della competizione tra i partiti.
E specialmente in Europa i partiti ed i sindacati di sinistra hanno svolto una fondamentale funzione di legittimazione, insostituibile specialmente nei momenti di crisi acuta. Nel primo dopo guerra o negli anni Settanta nella crisi delle dittature (in Spagna, Grecia e Portogallo) i partiti di matrice operaia sono stati protagonisti della riforma dello Stato capitalistico nel senso della «democrazia rappresentativa».
In termini molto sintetici: nella prima epoca post bellica i partiti socialdemocratici poterono tentare la «quadratura del cerchio»: la combinazione del sostegno della riproduzione allargata del capitale e di politiche redistributive, più o meno egualitarie quando non apparentemente «socialiste». Questa prospettiva di fondo non era qualitativamente diversa dalla prassi reale dei partiti comunisti. Tanto che in Italia questa prassi reale continua a vivere nel richiamo all’articolo 3 della Costituzione, nel comma che sostiene
«E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Era nell’essenza della politica di Togliatti intendere la Costituzione non come «patto» tra popolo e sovrano, ma «tra le diverse correnti politiche e i diversi gruppi sociali» al fine di ricostruire e rinnovare «la Patria», quindi come un documento programmatico (si vedano i Discorsi alla Costituente di Palmiro Togliatti, Editori riuniti, Roma 1973). E’ la concezione della «democrazia progressiva»: che è la forma «operaia» di legittimazione sostanziale dell’ordinamento complessivo dello Stato capitalistico, attraverso la promessa di quel che si dovrà realizzare in futuro nell’azione comune dei grandi partiti «popolari», Pci, Psi e Dc. Tutto ciò, e lo si è ben visto quando il futuro divennne presente, cozzava con potere e interessi del capitalismo realmente esistente in Italia, oltre che col potere di quel grande partito «popolare» e statale che era la Democrazia cristiana.
Quel che ora interessa non è però la critica della «democrazia progressiva» togliattiana, che ancora vive ideologicamente nei suoi epigoni «rifondatori del comunismo», bensì sottolineare come, nella prima epoca della «democrazia rappresentativa» italiana, e con argomenti diversi anche in altri paesi europei, i soggetti sociali di riferimento del riformismo politico fossero le classi (almeno come aggregati basati sul reddito e particolari condizioni di vita), non semplicemente i cittadini-elettori, che la finalità fosse la trasformazione sociale attraverso la «rappresentazione» sul piano istituzionale dei lavoratori. Questa osservazione è di capitale importanza per capire come e perché, tenendo fermo quanto detto prima sui limiti intrinseci del regime liberaldemocratico, si possa parlare di involuzione dello stesso.
3. Sottolineando la differenza tra i regimi di «democrazia rappresentativa» postbellici e i precedenti regimi liberali si pone la questione della loro nascita, maturità e morte. Sarà spiacevole, ma non si può affatto escludere la morte dalla storia; e se questa è parola troppo drammatica, almeno non si può affatto escludere che il tipo di regimi liberaldemocratici emersi dalla fornace della guerra mondiale possano ora trasformarsi, meno tragicamente, in qualcosa di diverso.
Per regime postdemocratico (mutuo il termine da Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003) non si deve intendere un regime d’eccezione, autoritario, fascisteggiante, illiberale. Certamente, in questi anni è stato prodotto un diritto penale d’emergenza, la xenofobia razzista prolifera, il centralismo aumenta, non fosse altro che nel razionamento di risorse che si vogliono scarse, la guerra si afferma come soluzione di problemi politici, le armi nucleari e le questioni ecologiche globali in ultima istanza, rendono la «sovranità» degli Stati qualcosa di obsoleto. Senza dimenticare il declino terminale della «giustizia economica».
Non a caso parlo di involuzione della «democrazia rappresentativa», e ciò pone anche la questione della lotta per la difesa e per l’ampliamento dei diritti democratici e socio-economici. Ma non si tratta affatto di regimi illiberali: semmai, si può dire che in quell’ossimoro che è l’idea di liberaldemocrazia il pendolo si sia bloccato sul lato destro del liberalismo, ma pur sempre dentro un sistema capitalistico nel quale i rapporti tra Stato e accumulazione del capitale sono irreversibilmente diversi da quelli dello Stato liberale. Le garanzie costituzionali e dello Stato di diritto, le libere elezioni e le libertà d’associazione e d’opinione, la divisione dei poteri, rimangono in vigore, nonostante le lesioni. Il nocciolo del problema non è la repressione: e pure su questo si potrebbe discutere, ricordando che nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta sotto il ministro Scelba, il «manganellatore», le «forze dell’ordine» effettuarono svariate migliaia di arresti e uccisero molte decine di manifestanti. Abbastanza da far apparire il tragico G8 genovese una bazzeccola.
Il punto cruciale è un altro, ed è da cercarsi in una direzione ben nota: nel progressivo slittamento delle funzioni normative dagli organi elettivi alla burocrazia statale e, inseparabile dal primo, nel pluridecennale percorso di integrazione dei partiti nello Stato.
Questi sono processi di lunga durata, che si profilavano già durante la crisi dello Stato liberale e nella politica economica durante la depressione, ma che si svilupparono proprio a causa dell’estensione dell’intervento economico e sociale dello Stato nel dopo guerra.
L’accelerazione del processo ebbe luogo, a livello europeo, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Allora iniziò un processo di trasformazione qualitativa dei sistemi di partito, i cui risultati si sono fatti generali e tangibili nei primi anni Novanta. Fattore scatenante e comune ai diversi paesi fu la crisi della configurazione dell’economia mondiale costruitasi nel secondo dopo guerra, conseguente al successo dello sviluppo nei paesi a capitalismo avanzato nell’«inseguimento» dell’economia statunitense (Robert Brenner, The economics of global turbulence. The advanced capitalist economies from long boom to long downturn, 1945-2005, Verso, London e New York, 2006): ciò significò l’inizio della fine per quello che si indica, semplicisticamente, come «keynesismo». Così come nell’epoca del boom tutti i partiti candidati al governo, borghesi e socialdemocratici, sostenevano forme di attivo intervento statale nell’economia, di cui faceva parte (e fa tuttora parte, anche se in modo diverso) la regolazione della riproduzione della forza-lavoro (il welfare state), nell’epoca successiva la principale preoccupazione è diventata, pure per tutti i partiti, sostenere la competitività dell’azienda-paese nel quadro di un’economia mondiale estremamente competitiva (o, come si suole dire, con termine fuorviante, globalizzata).
La questione scottante è questa: e cioè che i partiti di sinistra, in particolare quelli socialdemocratici, non hanno semplicemente subito una controffensiva «liberista» ma ne sono stati anche, con tensioni e contraddizioni interne, artefici. E’ vero che ad essere determinante su scala mondiale fu l’offensiva reganiana, ma già prima elementi del «neoliberismo» si presentarono nelle politiche di «austerità» gestite da socialdemocratici, laburisti o appoggiate dal Pci, in Germania, nel Regno Unito e in Italia. Per la totalità o per gran parte degli anni Ottanta del secolo scorso vi furono governi di sinistra in Austria, Francia, Grecia, Norvegia, Spagna e Svezia: non si tratta di un decennio leggibile semplicemente come trionfo della «destra». Il fatto è, scrive un intelligente simpatizzante della socialdemocrazia, che
«I socialisti avevano esaurito le idee. Se negli anni ’60 avevano abbandonato l’obiettivo di abolire il capitalismo, negli anni ’70 e ’80 se ne proclamarono i manager ideali. Nel 1989, allorché crollò il muro di Berlino, la tradizionale idea riformista che occorresse un vasto settore pubblico per contrastare le tendenze negative del settore privato era scomparsa dal programma di tutti i partiti socialisti. La privatizzazione del settore pubblico, ritenuta in passato inconcepibile anche dai più conservatori, finì con l’essere accettata da molti socialisti (...) La nozione di politica di classe era messa sempre più in discussione. L’unico futuro possibile, sosteneva qualcuno, era la creazione di coalizioni volte a ottimizzare il sostegno elettorale, in modo da offrire cose diverse a gruppi diversi e su una base ad hoc, nella consapevolezza che ciascuno di tali gruppi fosse l’effimero frutto di un complicato processo dialettico» (Donald Sassoon, Cento anni di socialismo. La sinistra nell'Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 752).
La crisi in corso è la prova sia dello svuotamento politico di quel che era la sinistra riformista sia dell’ancoramento della sua involuzione alla realtà dei rapporti contemporanei tra lo Stato e l’economia.
Ricordo anche che all’inizio di questa crisi economica a destra e a sinistra molti paventavano, o speravano, la fine del cosiddetto «neoliberismo» in una sorta di apocalissi rigeneratrice. Eppure, nonostante per i paesi a capitalismo avanzato questa sia la crisi più grave dagli anni Trenta, non si sono verificati né un «crollo economico» prolungato né il collasso istituzionale. Questo per la stessa ragione per cui una nuova grande depressione non è iniziata nel 1980-82, nel 1987, nel 1990, nel 1997-98, nel 2001-2002, così che, nonostante la forte instabilità finanziaria, l’epoca cosiddetta «neoliberista» risulta più lunga di quella detta «keynesiana».
Perché? Perché l’articolazione contemporanea dei rapporti tra Stato ed economia non è affatto del tipo degli anni Venti del secolo scorso o dello «Stato minimo» soggiogato dai «mercati globali» (e trova espressione politico-economica nell’ultimo imbastardimento neoclassico di Keynes, il new keynesianism, che calza come un guanto alla «terza via»). La capacità di tenuta delle istituzioni statali dei paesi a capitalismo avanzato è ora di gran lunga superiore a quella degli anni Venti, al contrario di quanto sostenuto da un paio di decenni dai sostenitori della tendenziale o compiuta obsolescenza delle capacità di intervento economico degli Stati imperialisti, a causa della de-territorializzazione del capitale e della formazione di un unico mercato «globale».
Ne consegue, innanzitutto, che invece di una depressione (con caduta verticale e prolungata della produzione, dell’investimento e dell’occupazione) si abbia una fase di stagnazione. E’ il risultato degli «stabilizzatori» che fanno accrescere automaticamente la spesa pubblica durante una recessione, a cui si aggiungono gli interventi discrezionali: nei paesi a capitalismo avanzato il sistema non può evitare le crisi, ma l’innescarsi di una depressione è ora più difficile.
Ovviamente sulla carta si possono ipotizzare alternative basate sul rilancio della domanda attraverso la correzione della distribuzione del reddito, la crescita dell’occupazione nei servizi sociali e in produzioni e servizi ambientali, il coordinamento delle politiche macroeconomiche e la correzione degli squilibri tra il polo importatore e i poli esportatori dell’economia mondiale (rispettivamente gli Stati Uniti, la Germania e la Cina), la sostituzione del dollaro come moneta chiave del sistema monetario internazionale con una unità di conto sovranazionale e una Unione di compensazione multilaterale, come propose Keynes alla conferenza di Bretton Woods.
Ma queste ragionevoli soluzioni urtano contro ostacoli potenti: la struttura e il funzionamento dell’economia mondiale odierna, la realtà dei rapporti di forza tra gli Stati e tra le classi, la soggettività delle élites politiche dei partiti di governo, non solo di centrodestra ma di centrosinistra, per quello che è la loro integrazione nello Stato.
Una possibilità, sempre sulla carta ma più realistica delle ipotesi di riforma organica, è che si attui qualcosa di simile all’accordo del Plaza Hotel del 1985 tra Usa, Germania e Giappone: una svalutazione pilotata del dollaro che consenta di aumentare le esportazioni statunitensi, riducendo nello stesso tempo il deficit pubblico in percentuale del Pil (che non è la stessa cosa di una riduzione del valore assoluto del debito o del pareggio di bilancio). A una ripresa dell’investimento statunitense potrebbe far seguito, come negli anni Novanta, una crescita dei consumi supportati dal credito e, quindi, di nuovo, delle importazioni dal resto del mondo.
Ma anche questa possibilità del tutto «ortodossa» si scontra, al momento, con l’asimmetria esistente tra gli Stati Uniti e i paesi di «eurolandia», Germania compresa, quanto alla possibilità di praticare politiche espansive. Gli Stati Uniti sono un singolo Stato che può perseguire una politica monetaria (e di bilancio) pienamente sovrana. In effetti, poiché oltre ad essere monetariamente sovrani gli Usa detengono anche la moneta-chiave del sistema monetario internazionale, essi possono espandere debito pubblico e deficit di bilancio in modo da compensare la caduta della spesa privata. I paesi di «eurolandia», al contrario, non sono più monetariamente sovrani, ma non costituiscono né un’area socialmente omogenea né un unico Stato con un unico bilancio pubblico. Il risultato lo si vede bene: la vulnerabilità dei paesi mediterranei dell’area dell’euro, l’imposizione di un generale orientamento restrittivo, in prospettiva la possibilità di una crisi dell’unione monetaria. Lo spettro è quello di uno stallo prolungato alla giapponese, che dura dai primi anni Novanta. In ogni caso, tempi e modi di una eventuale e lenta ripresa dipendono non dai «mercati globali» e dai «capitali nomadi» ma, essenzialmente, dalla politica statunitense.
Da qui un paradosso: la capacità di intervento degli Stati capitalisti più avanzati permette ad essi di evitare, a caro prezzo, la depressione, ma, nello stesso tempo, e specialmente in Europa, anche di rilanciare politiche di aggressione contro i salariati, che possono prolungare la stagnazione. Si deve fare attenzione a distinguere le misure d’emergenza e a breve termine, che considerate in sé stesse invalidano l’ideologia corrente dell’efficienza dei «mercati», dalla prospettiva a medio e a lungo termine. Quest’ultima è rimasta invariata: proprio in forza della capacità di intervento statale, le caste politiche, anche di «terza via», possono riprodurre l’orientamento politico-economico prevalente da tre decenni. Tanto è vero che, non solo in questa crisi i sistemi politici non hanno espresso nessuna alternativa di sinistra riformista o interventista orientata a correggere gli squilibri internazionali e interni, ma si stanno già attuando e preparando misure per scaricare il costo fiscale della crisi sulle spalle dei salariati. Questa la soluzione della crisi per il capitalismo realmente esistente.
In assenza di un crollo catastrofico, di una rottura dell’unità monetaria europea, o della mobilitazione e radicalizzazione delle classi dominate, non esistono indicazioni che possa esserci una uscita dal «neoliberismo» per evoluzione interna ai partiti di governo.
La rinuncia alla pretesa di riformare il capitalismo in senso favorevole ai salariati, l’abbandono del tentativo di far «quadrare il cerchio» del sostegno all’accumulazione e della redistribuzione del reddito, oltre che della velleità di una graduale trasformazione socialista del sistema capitalistico e, inversamente, l’adozione esplicita del punto di vista capitalistico, o meglio degli interessi immediati del capitale, è la sostanza della «terza via», come declinata nelle varie lingue (per la comparazione internazionale delle politiche economiche e sociali di «terza via» si vedano: a cura di Philip Arestis e Malcolm Sawyer, The economics of the Third way. Experiences around the world, Edward Elgar, Chelenham (Uk), Northampton (Usa); e a cura di Andrew Glyn, Social Democracy in Neoliberal times. The Left and economic policy since 1980, Oxford University Press, Oxford, 2001).
Al di là della retorica della «democrazia» e della «responsabilità», l’orientamento concreto della leadership e dell’apparato dei partiti di «terza via» al rafforzamento della «governabilità», sia nello Stato che nel partito stesso, sono in linea con lo storico rapporto della Commissione trilaterale (The governability of democracies, Trilateral commission, New York 1975, di Crozier, Huntington e Watanuki, La crisi della democrazia, Angeli, Milano 1977), al cui centro era proprio la necessità di ridurre la pressione popolare sul sistema politico, in altri termini di renderlo meno «democratico» e meno «rappresentativo».
Le sinistre hanno infine realizzato la loro vocazione all’integrazione, e a tal punto da superarsi, «dialetticamente», in qualcosa d’altro: il significato storico di questo processo è infatti il completamento della rottura tra i partiti «di sinistra» e le loro origini sociali e ideologiche nel movimento operaio. E’ la combinazione di tutti questi fenomeni che rientra nella formazione di regimi postdemocratici: ma quel che li caratterizza in modo peculiare è la conclusione ideale di un secolo di storia del movimento operaio organizzat
Con questo, però, viene meno ogni residua possibilità che nelle elezioni e in parlamento possa «rappresentarsi», proprio perché volto al «compromesso di classe» e alla mediazione, un punto di vista che non riduca immediatamente gli interessi dei lavoratori a quelli del capitale, mentre questi ultimi sono ora posti come tali come «interesse generale», e nel quale si esprimano, sia pure in forma mediata e distorta, le tensioni ed i rapporti di forza tra le classi.
Nei regimi postdemocratici la procedura elettorale sanziona scelte all’interno di una casta sostanzialmente unitaria negli indirizzi politici di fondo. E’ anche per questo che non è necessaria alcuna soluzione autoritaria tradizionale
Quanto sopra è il paradossale inveramento della politica di collaborazione di classe, in italiano della prospettiva togliattiana, e poi berlingueriana e, sempre più smunta, cossuttiana, ingraiana e bertinottiana, della «democrazia progressiva». Eppure, se sul piano della causalità storica si deve cogliere la continuità di una logica politica, occorre pure prendere atto, al di là delle dichiarazioni di principio e dei proclami retorici, della discontinuità reale, profonda e irreversibile. Si tratta di una discontinuità da assumere coscientemente, ma che è tanto forte e dolorosa, quasi come un parricidio, che essa viene o è stata rimossa da una parte importante della militanza e dell’elettorato che si richiama alla tradizione «comunista», del Pci e della vecchia «nuova sinistra».
Ora non siamo più chiamati ad elezioni nelle quali si confrontino partiti che, in qualche misura, esprimano opposti interessi di classe, i cui risultati elettorali rendano, in qualche misura, la temperatura del rapporto tra le classi sociali e possano effettivamente retroagire su quei rapporti.
Oggi, l’unico argomento sostenibile da sinistra per votare il Pd o una coalizione di centrosinistra è quello del «meno peggio»: non una sia pur vaga speranza di trasformazione sociale ma di «temperamento» del potere capitalistico, di arginamento degli effetti del mercato. Il che equivale ad accettare, silenziosamente ma non per questo in modo meno concreto, la politica come scelta del personale di governo all’interno dell’èlite politica.
4. Confrontando i dati storici della partecipazione elettorale dei paesi europei, degli Stati Uniti e del Giappone, degli iscritti ai partiti e dell’instabilità elettorale, per i quali si rimanda alla documentazione allegata, si palesa chiaramente un problema crescente di «rappresentatività» del sistema dei partiti che è espressione, o risultato ultimo, di tendenze di lungo periodo, quali il carattere sempre più «pigliatutti» dei partiti scaturiti dal movimento operaio. Non ritengo che la spiegazione di tempi e modi di questo complesso e multidimensionale fenomeno possa ridursi ad argomenti macrosociologici, quali l’avvento della «società post-industriale», la rivoluzione informatica o la «globalizzazione economica». Queste letture si basano sul determinismo tecnologico e/o del «mercato», con ciò semplificando meccanicisticamente i rapporti tra lotta tra le classi, decisioni e orientamenti politici di fondo dei partiti e dei sindacati, trasformazioni socio-economici e culturali, e, quindi, l’articolazione tra tendenze più o meno «spontanee» di lungo periodo e l’azione sociale nella congiuntura. Ne risulta una visione di sapore evoluzionistico e «naturalizzante» quindi, in certa misura, fatalista. Direi, invece, che le flessioni della militanza e della partecipazione elettorale all’inizio degli anni Ottanta possono spiegarsi con l’effetto della grave recessione scatenata dalla politica monetaria della Federal reserve, che era parte della controffensiva capitalistica totale e su scala mondiale avviata sotto la presidenza Reagan (con segnali già nella seconda parte della presidenza Carter). Ma il successo di quella controffensiva politica e dei processi di ristrutturazione industriale e, in alcuni casi, de-industrializzazione e rilocazione internazionale, non sono comprensibili se si trascura il ruolo che nel precedente decennio partiti e sindacati di sinistra avevano svolto nella neutralizzazione del conflitto sociale e nel «dissodare» il terreno con politiche ispirate alla logica dei «sacrifici» e della «austerità». Il caso italiano nel periodo dei governi di «unità nazionale» è, a questo proposito, esemplare.
Inoltre, le flessioni più gravi e un trend veramente generale al calo della partecipazione elettorale si manifestarono negli anni Novanta, proprio quando in molti paesi le elezioni furono vinte dai partiti della «terza via». Dagli Stati Uniti all’Europa, alla tendenza preesistente si sovrappose, nell’ultimo decennio del XX secolo, l’effetto delle politiche attuate dai governi di centrosinistra: in Europa era la fase della «convergenza» intorno ai parametri vincolanti stabiliti dal Trattato di Maastricht. E, non meno dell’élite politica tedesca solidale con la linea restrittiva della Bundesbank, i socialisti francesi furono protagonisti del processo di unificazione monetaria.
Non è difficile cogliere il nesso tra declino della partecipazione elettorale e declino dei diritti economico-sociali, né il nesso tra l’ultimo e processi di spostamento delle decisioni politicamente rilevanti al di fuori del parlamento e perfino al di fuori dei governi, verso apparati burocratici non elettivi. Si tratta, specialmente, della centralità delle banche centrali e degli istituti finanziari internazionali nel determinare il quadro entro il quale deve muoversi la politica economica e sociale. In Italia ciò si è palesato nel ruolo politico dei governatori della Banca d’Italia e negli incarichi politici conferiti a ex governatori quali Ciampi e Dini; ma, anche, nella leadership di un grand commis d’état quale Romano Prodi, il cui principale merito era stato la svendita dell’Iri.
Il manifestarsi di una tendenza simultanea, anche se con intensità diversa, alla riduzione della partecipazione elettorale in quasi tutti i paesi a capitalismo avanzato non può essere «scaricato» moralisticamente sulla soggettività degli elettori; e neanche si possono correttamente interpretare e valutare le tendenze elettorali italiane e, in particolare, della partecipazione alle elezioni, prescindendo dal più ampio contesto internazionale, trattandole come se fossero un qualcosa di eccezionale, riconducibili alla peculiarità berlusconiana ed a una speciale e perversa «privatizzazione» indotta da Sua Emittenza.
La crescita dell’astensionismo elettorale esprime la crescente alienazione nei confronti del sistema politico. Formalmente l’exit è diversa dalla voice e, quindi è ambigua; ma non esiste motivo per identificare una ridotta partecipazione elettorale al rifiuto di qualsiasi politica e, in particolare, all’estinguersi dell’aspirazione a più democrazia. Dovremmo, altrimenti, valutare il tasso di partecipazione superiore al 90% delle «democrazie popolari» come un sicuro segno di democraticità delle stesse e non come un dovere imposto dallo Stato? Viceversa, sono più politicamente alienati quei cittadini statunitensi che votano per uno dei due partiti maggiori, entrambi colonne del capitalismo e dell’imperialismo statunitense, o coloro che, non votando, esprimono, sia pure silenziosamente, insoddisfazione nei confronti delle condizioni di vita e della politica dei governi nordamericani?
Non si può invece pensare che la crescita dell’astensionismo sia frutto di un «istinto di classe» che, sia pur confusamente, avverte che sulla scena politica non esistano partiti che possano fare gli interessi dei lavoratori?
5. In un documento a commento delle elezioni del 2008, per Utopia rossa (Ancora una volta: ¡que se vayan todos!), scrissi:
«A partire dal 1979 il trend della partecipazione elettorale è discendente: dalla media del 93% nel periodo dal 1948 al 1976 la partecipazione elettorale scese nel 2001 all’81%.
Queste elezioni [2008] hanno visto un ulteriore balzo dell’astensione, di ben tre punti di percentuale (senza contare nulle e bianche): analoghi incrementi di ca. 3 punti dell’astensione si verificarono nel 1979 e nel 1996, cioè dopo il «compromesso storico» e il primo governo Prodi. Si può ragionevolmente pensare che la crescita dell’astensionismo sia legata, in particolare, alla disillusione nei confronti dell’opportunismo politico di “sinistra”, ieri del Pci oggi dell’Arcobaleno. L’astensionismo è, inoltre, effetto più che causa della crisi del parlamentarismo: esprime, sia pur confusamente, la sensazione che le grandi battaglie ideali e sociali non passino più dentro il Parlamento. Non si tratta né di un fatto recente né circoscritto all’Italia.
Respingiamo la semplicistica etichetta di “qualunquismo” e di “antipolitica” data genericamente all’astensionismo. Al contrario, a fronte di un sistema bipartitico oligarchico, al degrado programmatico e al cinismo del personale politico, all’opportunismo della Sinistra arcobaleno, ai ricatti stupidi e ignobili del “meno peggio” e del “voto utile”, l’astensionismo è oggi una elementare misura di difesa della propria autonomia di giudizio etico e politico. E’ una sana reazione alla reale antipolitica della politica parlamentare e istituzionale».
Come il «voto di protesta» per liste come quelle facenti capo a Beppe Grillo, l’astensione non può essere compresa in termini semplicemente negativi, come mera rinuncia o o «antipolitica» intesa come variante contemporanea del «qualunquismo» (anche perché il Fronte dell'uomo qualunque aveva una chiara connotazione di destra). Questo è tanto più vero quando si consideri una «legge», ben nota in letteratura, del comportamento elettorale italiano: che gli elettori rimangono fedeli allo schieramento al quale sentono di appartenere e che possono spostare il voto tra partiti interni allo schieramento oppure astenersi, ma non votare per l’altra coalizione. Siamo in presenza di un «astensionismo asimmetrico», che colpisce ora una ora l’altra delle coalizioni. Se così è, allora l’astensione non è frutto di mero «qualunquismo» ma è una deliberata decisione politica. A sinistra si stanno astenendo un paio di milioni di elettori della cd. «sinistra arcobaleno», e non si venga a dire che sono i meno «politicizzati»; a «destra» si stanno pure astenendo elettori che, presumibilmente, avvertono che entrambi gli schieramenti non si curano dei loro bisogni vitali: ed è su queste contraddizioni che dovrebbe vertere una strategia di massa anticapitalista, piuttosto che sull’unità tra dirigenti «ministerialisti» perché possano tornare a sedersi sugli agognati scranni.
Ritengo anacronistica l’assimilazione dell’astensionismo contemporaneo alla mera spoliticizzazione, per il semplice motivo che il quadro politico e sociale degli anni Novanta del secolo scorso o di questo inizio del XXI secolo non è quello del 1948 o del 1953 o degli anni Sessanta.
La crescita dell’astensionismo è in parte il prodotto del più grave attacco «di massa» portato ai diritti democratici in Italia, ovvero l’introduzione di meccanismi «premianti» partiti e coalizioni di maggioranza relativa, secondo la pretesa di rafforzare la «governabilità» a danno del corretto rispecchiamento proporzionale della volontà degli elettori. Si deve ricordare che l’attacco al sistema proporzionale non sarebbe riuscito senza l’appoggio pieno e determinante della «sinistra» ex Pci, del Pds.
Ma la crescita dell’astensionismo è anche, e specialmente, risultato di una trasformazione qualitativa del sistema dei partiti, che è il vero «sovrano» della gestione dello Stato e che, in tutti i paesi capitalistici avanzati, è in osmosi strutturale con gli apparati burocratici amministrativi. In Italia il sistema politico è stato sconvolto da «tangentopoli», ma per valutare lo stato della «democrazia rappresentativa» italiana, oltre e più che la crisi del «regime democristiano», è decisivo tener conto della compiuta mutazione del Pci (con le seguenti ri-denominazioni e alchimie correntizie) da partito riformista di matrice staliniana-togliattiana, in partito organicamente inserito nello Stato capitalistico italiano e, quindi, in partito organico del capitalismo e dell’imperialismo italiani.
Questa trasformazione si esprime concretamente nella convergenza (che non è identità) delle pratiche reali di governo delle coalizioni e dei partiti di centrosinistra e di centrodestra.
6. In termini generali, fare della partecipazione alle elezioni il principale indicatore del livello di «politicità» dei cittadini è coerente con la concezione della politica come campo della formazione del consenso e della selezione dei candidati al governo. Questa idea della politica «democratica» e delle elezioni è il minimo denominatore comune alle moderne teorie politologiche «realiste» e non è mera ideologia: è la razionalizzazione della funzione di legittimazione e del funzionamento reale del regime di «democrazia rappresentativa» in condizioni di normalità, ciò che distingue la rappresentanza politica da quella legale. E’ la riduzione della politica alla procedura elettorale e ai modi e condizioni della stessa: è la feticizzazione delle procedure e delle istituzioni del regime «liberaldemocratico».
A sinistra, e tanto più ci si sposta verso sinistra, si sostiene che la politica non si riduce alla partecipazione alle elezioni per gli organi elettivi dello Stato, e che nella scelta elettorale può esprimersi una rappresentanza reale, se i lavoratori votano per il partito che ne cura gli interessi, che se ne fa «portavoce» nelle istituzioni. Si insisterà con forza sull’ideale della «sovranità popolare», che si concretizza nella mobilitazione sociale ai fini della «giustizia economica», con gli obiettivi di conferire sostanzialità socio-economica alla democrazia politica e di promuovere la più ampia la democratizzazione degli apparati statali, anche attraverso la diffusione nella società di organi di «partecipazione» di massa.
Il modello rimane, però, quello parlamentare della «rappresentanza» entro uno Stato capitalistico, sia pure in vista della «democrazia progressiva»: il risultato elettorale è lo sbocco necessario che, in definitiva, dà senso e valore utile all’attivismo politico e alla conflittualità sociale. I partiti intendono essere «rappresentanti» e mediatori di interessi e conflitti sociali nelle istituzioni (per quanto i rapporti tra mobilitazione sociale e risultati elettorali non siano affatto semplici e lineari).
Si tratta di una visione molto più ideologica e arretrata di quella della politologia «borghese» e accademica, in contrasto con la migliore produzione teorica marxista e radicale.
Come già detto, nelle teorie elitiste della «democrazia rappresentativa» è chiaro che i rappresentanti politici nelle istituzioni elettive non possono rappresentare i loro elettori ma solo l’entità astratta della Nazione o del Popolo (come corpo elettorale complessivo) e che la democrazia propriamente detta non può essere rappresentativa o fondarsi su un mandato imperativo come nella rappresentanza legale privatistica.
I partiti operai hanno invece fondato la loro pretesa «rappresentatività» su una corrispondenza sociologica (derivante dall’origine di classe del partito e dei deputati) o ideale, intendendo con questo che l’«interesse storico» della classe è «incarnato» dal partito. Ma nella realtà, e quale sia la loro origine familiare, funzionari e deputati costituiscono un gruppo sociale di politici di professione che sono altra cosa dai lavoratori salariati; quanto all’«interesse storico», si tratta di qualcosa di abbastanza astratto che può essere concretamente definito nei modi più diversi.
Gran parte della storia dei partiti operai, sia programmaticamente riformisti e socialdemocratici sia a denominazione «comunista» e ideologicamente «anti-sistemici», consiste nei modi e nei tempi della penetrazione e dell’affermazione del feticismo elettorale e parlamentare.
In questo caso il feticismo elettorale e istituzionale nasce e si consolida attraverso il feticismo dell’organizzazione: la crescita dell’organizzazione e dell’influenza sociale del partito è funzionale alla crescita del successo elettorale e del potere nelle istituzioni, e questa va assicurata contro le fluttuazioni della lotta tra le classi e, specialmente, contro l’inasprirsi, anzitempo, della stessa.
Fin dai primi anni del XX secolo è chiaro che il feticismo del partito e l’elettoralismo si sviluppano parallelamente alla costruzione di un apparato burocratico professionale ed alla divaricazione tra mezzi e fine ideale asserito. Quest’ultima è massima nei partiti più «ideologicizzati» e, se si vuole, più «politicizzati», ovvero in quelli a denominazione comunista, con culmine nei partiti al potere negli Stati «socialisti» che, paradossalmente, possono essere interpretati come perfette incarnazioni dell’ideale della «rappresentatività» fattasi autonoma dai «rappresentati» nelle vesti del partito unico. E’ sintomatico che chi intenda sostenere il carattere in qualche modo «democratico» e «popolare» di questi Stati debba far riferimento, se non al canone della religione di Stato degli stessi, almeno alle loro «conquiste sociali», reali o più spesso presunte, ovvero a «prove» indirette: come se la questione della natura sociale e dei modi di esercizio del potere politico possa ridursi a quella del miglioramento delle condizioni di vita (al processo di miglioramento, il cui eterno protrarsi sarà giustificato dalle iniziali condizioni di arretratezza, dalla pressione del nemico esterno, dal sabotaggio dei «nemici del popolo» ecc.). Con questa logica potrebbero giustificarsi anche il dispotismo illuminato del XVIII secolo e, ancor più, gli stessi regimi politici dei paesi a capitalismo avanzato e consumistico.
Il partito politico di massa (distinto dai comitati elettorali e dal raggruppamento parlamentare dei notabili) come stabile organizzatore e mediatore degli interessi è lo specifico contributo «operaio» alla «modernizzazione» del sistema politico dello Stato capitalistico: da tempo la «democrazia rappresentativa» si identifica non solo con l’esistenza di più partiti (almeno due) ma con il «sistema dei partiti» quali autentici detentori della «sovranità».
7. Infine, un’osservazione di metodo, che è anche di sostanza. Si sta ampliando, e ha già raggiunto una larghezza considerevole, lo iato tra «paese reale» e «paese legale», nozioni metaforiche sociologicamente vaghe ma che rendono l’idea della contraddizione dei discorsi che, a «destra» come a «sinistra», sono centrati sulla rappresentanza politica istituzionale.
Quantitativamente, lo iato tra «paese reale» e «paese legale» si misura nella tendenza alla riduzione della partecipazione elettorale e nella risultante crescente differenza tra il calcolo delle percentuali dei partiti o delle coalizioni sulla base dei voti validi oppure sulla base dei cittadini con diritto di voto (adv), che comprende anche astenuti, schede bianche e nulle. Se il primo metodo di calcolo è decisivo per l’attribuzione delle «spoglie» istituzionali tra coalizioni e partiti, il secondo è invece quello che conta se si vuole usare la consultazione elettorale come una sorta di sondaggio d’opinione, per sviluppare una fotografia, seppure parziale e non bene a fuoco, degli orientamenti politici nazionali.
Quanto più ampia la differenza tra «paese reale» e «paese legale», tanto più è fuorviante ragionare sulle tendenze politiche nazionali prescindendo dal calcolo delle percentuali di voto sulla base dell’intero corpo elettorale. Eppure, questo metodo di calcolo è rara eccezione piuttosto che norma; e, comunque, non pare avere alcuno spazio nella definizione dell’orientamento politico, se non nel senso di tentare di «recuperare» l’astensione.
Si intende bene perché politici e giornalisti ragionino solo sulle percentuali che si traducono direttamente in presidenze, consiglieri e deputati, quelle che contano, in prima battuta, per la distribuzione degli incarichi di potere nella casta politica e per l’auto-legittimazione del sistema dei partiti; ma è invece sorprendente che chi pretende di essere contro, o alternativo, alla casta politica, e addirittura sostiene un’«alternativa di sistema», si fermi al metodo di calcolo funzionale alla distribuzione delle cariche istituzionali.
Come se non bastasse, si impostano «epocali» ragionamenti sullo stato della società italiana e sulle grandi tendenze della cittadinanza prescindendo dalla valutazione del comportamento dell’intero corpo elettorale.
L’ampliarsi dello iato tra «paese reale» e «paese legale» è parte della crisi latente delle istituzioni rappresentative dello Stato italiano, delle istituzioni «liberaldemocratiche». Sottolineo che si tratta di tendenze presenti, con ritmi e intensità diverse, in tutti i paesi a capitalismo avanzato, di un fatto strutturale e di lungo periodo, non riducibile a una «eccezionalità» italiana anche se in Italia presenta aspetti particolari e, per così dire, d’avanguardia.
Anche la dimensione internazionale, comparativa e strutturale, è assente dalla discussione politica pre e post-elettorale.
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