CINEMA

sabato 30 ottobre 2010

ROSA LUXEMBURG E LA RIVOLUZIONE RUSSA di Roberto Massari




















ROSA LUXEMBURG E LA RIVOLUZIONE RUSSA
di Roberto Massari




Pubblichiamo per gentile concessione l'introduzione di Roberto Massari a La Rivoluzione russa Rosa Luxemburg  -Massari editore 2004.



“...in così fatali condizioni, anche il più gigantesco idealismo e la più incrollabile energia rivoluzionaria non sono stati in grado di realizzare né democrazia né socialismo, ma solo dei primi rudimenti impotenti e deformati di entrambi”.


E' in questi termini che Rosa Luxemburg valuta il primo fondamentale insegnamento della Rivoluzione d'Ottobre. Ed è la stessa Luxemburg che una certa tradizione “ultrasinistra” ha invece voluto presentare come antesignana dello spontaneismo nel campo dell'organizzazione, attribuendole uno spirito antileninista e antibolscevico.
L'idea di un'ostilità luxemburghiana al gruppo dirigente che instaurò la prima Repubblica dei soviet non regge alla benchè minima verifica storica. Basterebbe richiamare un brano del suo celebre scritto su La Rivoluzione russa, in cui essa premette all'analisi critica dell'esperienza bolscevica una descrizione molto umana e politicamente ultrafavorevole del ruolo della direzione che rese l'Ottobre possibile:

“E' anche indubbio che le menti lucide che stanno alla guida della Rivoluzione russa, Lenin e Trotsky, abbiano compiuto numerosi passi decisivi sulla loro strada disseminata di spine e circondata di ostacoli di ogni specie solo con la maggiore esitazione intima e la più violenta ripugnanza (…) Un esame critico della Rivoluzione russa in tutte le sue connessioni storiche non può essere che la migliore scuola della massa lavoratrice, sia tedesca che internazionale, per i compitiche le pone la presente situazione.”

L'esame critico dell'esperienza bolscevica -compiuto da una Luxemburg contemporanea rispetto agli avvenimenti descritti, con spirito fraterno, all'interno di posizioni marxiste rivoluzionarie e con grande lungimiranza- poneva il dito sulla piaga del processo iniziato con la conquista del potere: esso affrontava in particolare il rapporto fra democrazia e socialismo, fra istituzioni di rappresentanza delle masse e contenuti del programma rivoluzionario, fra democrazia diretta e dittatura proletaria.
Su questi temi la storia ha ormai definitivamente dimostrato la fondatezza delle precoci preoccupazioni di Rosa, così come la giustezza di quanti dopo di lei hanno sollevato la bandiera della democrazia operaia contro la burocrazia. Quel problema -chiaramente non risolto dai pochi anni di dittatura proletaria esistiti in Russia, bene o male, fino alla morte di Lenin- è più che mai al centro della problematica rivoluzionaria su scala mondiale. E per come è andata la vicenda delle burocrazie totalitarie di origine staliniana, non si esagera nel dire che dalla soluzione del nodo democrazia/socialismo dipende il futuro dell'umanità.
Lo scoglio della democrazia operaia (o del suo sinonimo che nella tradizione del marxismo rivoluzionario si definiva un tempo “dittatura del proletariato”), sul piano storico si è dimostrato l'ostacolo principale per avviare il processo di costruzione del socialismo in quei paesi in cui era stata espropriata la borghesia, ma senza che il proletariato arrivasse al potere (come in Cina, nell'ex Jugoslavia ecc.), o per avviarlo nuovamente nell'ex Urss, dove tale processo era stato bloccato dal trionfo della controrivoluzione staliniana.
Cogliamo quindi l'occasione per fare alcune considerazioni su tale tema, convinti che anche la più perfetta elaborazione teorica dovrà necessariamente fare i conti con la pratica (storica), così come accadde ai bolscevichi e così come ha ricordato la Luxemburg, dalle cui critiche vogliamo partire.

Le “coordinate” storiche del problema

Vediamo innanzitutto e per sommi capi quali sono le coordinate del problema: il novembre del 1917 vede la conquista del potere da parte di un fronte di alleanze sociali, raccolto intorno al proletariato russo. Quest'ultimo è fragile, di recente formazione e concentrato solo in alcuni punti (strategici) dell'enorme impero russo. La sua debolezza oggettiva non rappresenta un ostacolo insormontabile sulla via della presa del potere per due ragioni, ognuna delle quali rinvia a un contributo specifico e determinante del marxismo rivoluzionario russo (divenuto poi patrimonio dell'intero movimento mondiale) e su cui non ci soffermeremo, perchè noti: 1) il carattere ineguale e combinato dello sviluppo capitalistico russo che poneva il proletariato nelle condizioni oggettive di poter togliere il potere alla fragile borghesia, di assumersi il ruolo di quest'ultima sul terreno della democrazia e della riforma agraria e di iniziare il processo di costruzione del socialismo (Trotsky: la teoria della “rivoluzione permanente”); 2) la possibilità soggettiva di moltiplicare qualitativamente la forza oggettiva (sociale) del proletariato tramite la concentrazione e l'organizzazione politica dei suoi settori interni più avanzati, per portarlo al livello di consapevolezza storica richiesto dallo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo russo, dalla situazione internazionale ecc. (Lenin: la teoria del partito come “avanguardia della classe”).
Entrambe le teorie si svilupparono perchè rispondevano a problemi che il proletariato era in grado di porsi e in grado di risolvere, e il loro “felice” incontro (“felice” sta per “storicamente determinato in senso progressivo”) -su cui pure si potrebbero scrivere dei volumi- permise la “rottura rivoluzionaria”.
Questa interpretazione era condivisa generalmente dalla Terza internazionale dei primi anni (e in Italia dallo stesso Gramsci, che così si espresse nelle sue lettere da Vienna del 1924). (1)
Ed essa anche se non presente in Marx dal punto di vista di un'esplicita strumentazione teorica, si può facilmente ricavare dalle sue osservazioni sulla rivoluzione tedesca, dalle sue intuizioni sulla natura del processo di transizione e della sua teoria dell'organizzazione operaia (non da una sua “teoria del partito”, si badi bene, ma dell'”organizzazione operaia”, intesa nel suo senso più generale, politico e sociale allo stesso tempo).
Fin qui l'Ottobre avrebbe sfondato, quindi, delle porte aperte dal punto di vista teorico, anche se dietro quelle porte c'erano menscevichi, socialrivoluzionari, Kornilov, eserciti tedeschi ecc., e anche se purtroppo questo modo marxista di leggere la Rivoluzione russa è diventato oggi patrimonio di pochi.

Le “coordinate” teoriche più generali

Grave errore, tuttavia sarebbe limitare la descrizione delle “coordinate” del problema alla situazione sovietica del 1917 al contributo teorico di Lenin e Trotsky, senza tenere conto delle caratteristiche più generali del processo rivoluzionario, valide nella fase di decadenza dell'imperialismo e che operavano anche sul processo sovietico, al di là di questo o quel momento specifico.

1. La prima e fondamentale tra queste, è la natura particolare della rivoluzione proletaria in rapporto al modello classico della rivoluzione borghese. Mentre la rivoluzione politica della borghesia, vale a dire la conquista del potere contro le forze dell'assolutismo tradizionale, avveniva al culmine di un processo di crescita economica all'interno della vecchia società, il proletariato non può incarnare il nuovo modo di produzione (socialista) prima della presa del potere: anzi nemmeno nella fase immediatamente successiva a tale evento.
E se quindi la rivoluzione borghese (come appropriazione della sovrastruttura statale, sulla base di un processo oggettivo di trasformazione sociale già avvenuta o in corso di svolgimento) può effettivamente postulare con storica precisione principi di uguaglianza e libertà puramente formali, giuridici e istuzionali, il proletariato è invece costretto a introdurre un forte elemento di squilibrio nella struttura sociale, per il fatto di conquistare il potere politico senza aver prima dimostrato storicamente di essere in grado di costruire un nuovo modo sociale di produzione.
E' la rottura l'elemento caratterizzante della rivoluzione proletaria, come lo fu nella Comune di Parigi, come in Russia all'indomani dell'Ottobre o nella Cuba dei primi anni '60, e come dovrà essere inevitabilmente al culmine di qualsiasi altro processo rivoluzionario. Certo tutto ciò va inteso come un processo dialettico, ricordando che l'atto soggiettivo con cui il proletariato impone la fine di un modo di produzione (e l'avvio della costruzione di un altro), è richiesto dalla maturità della crisi del sistema precedente (che racchiude nel suo seno la propria critica e la potenzialità della ricostruzione), e ricordando anche che la transizione al socialismo inizia là dove la vecchia società è morta, ereditandone tutto il patrimonio positivo e negativo.

2). Una seconda “coordinata” rilevante per la nostra discussione è il fatto che il "modo di produzione socialista" non esiste: a) non è racchiuso embrionalmente nella vecchia società, come credono i prefiguratori alla Bernstein (e tutti coloro che si sono posti sulla sua scia: da Rossana Rossanda nelle Tesi del Manifesto del 1970, ai teorici del cosidetto “quarto settore” o della “rete del volontariato” ecc. come Marco Revelli nel volume collattaneo Appuntamenti di fine secolo); b) non compare immediatamente all'atto della distruzione del potere della borghesia come classe proprietaria dei mezzi di produzione (come credevano gli esponenti dell'ultrasinistra che protestarono all'epoca contro le diseguaglianze sociali introdotte dalla Nep, senza cogliere la sostanza dei mutamenti ben più profondi in atto nella dinamica della Rivoluzione russa); c) non è definibile in termini di “modello economico”, come credono invece gli utopisti più ingennui e sprovveduti.
Esso può solo essere costruito: la sua principale caratteristica storica -che lo rende superiore a tutti i modi di produzione precedenti- è che per la prima volta un sistema economico non risponde alle leggi dell'economia politica, non conose automatismi o “leggi naturali”, ma può essere prodotto solo dall'azione cosciente della collettività dei produttori associati (vale a dire della classe operaia al potere, secondo le esperienze storiche finora conosciute).
Alla passività strutturale e fisiologica della borghesia classica, che in quanto classe si limitava ad assecondare in forme e modi diversi le leggi di funzionamento del mercato e dell'accumulazione capitalistica (e ciò che il marxismo chiama l'”anarchia del modo di produzione capitalistico”), il proletariato contrappome la scelta soggettiva, l'organizzazione cosciente: in termini tecnici, la pianificazione. All'arbitrio delle leggi economiche, camuffato dall'eguaglianza formale del diritto borghese, la dittatura proletaria contrappone “l'arbitrio” della propria azione soggettiva, sia nel campo della produzione sia sul complesso delle sovrastrutture indispensabili al funzionamento del nuovo modo di produzione in costruzione.
Partita da una profonda rottura tra i due momenti (il vecchio modo di produzione e il nuovo modo in fieri), la collettività dei produttori associati potrà realizzare il proprio fine non riuficandone le caratteristiche strutturali (nell'illusione di costruire in tal modo un'economia politica “socialista”), ma togliendo a entrambi la propria specificità, la propria separatezza, la propria ragione di esistere.
Le leggi dell'economia non avranno una loro validità in sé, ma verranno adottate, abrogate o alterate sulla base delle esigenze sociali degli individui riuniti in collettività (e non in base a criteri oggettivi a loro estranei). Fino alla realizzazione del famoso regime dell'abbondanza, in cui l'eguaglianza economico-sociale abbraccierà anche il mondo della distribuzione, dopo aver permeato di sé quello della distrubuzione.
Le sovrastrutture politiche -sappiamo da Marx (ma anche dal Lenin di Stato e rivoluzione)- non avranno allora più motivo di sopravvivere in quanto strumenti di coercizione: esse cederanno il posto ad altre forme di azione e rappresentanza, sulle quali al momento non siamo in grado di fantasticare.

Ai fini del ragionamento teorico che qui ci interessa, rimangono la forte caratterizzazione soggettiva del processo di transizione al socialismo e la continuità con l'atto di rottura (la violenza di massa) con cui si è conquistato il potere politico e si è cominciato a demolire il vecchio modo di produzione, con dei decenni e forse dei secoli di anticipo sulla completa realizzazione del nuovo modo di produzione.

3. La terza “coordinata” da prendere in considerazione è il carattere tendenziale del processo di transizione: per la prima volta nella storia delle classi, tutta la forza soggettiva della collettività dei produttori associati (classe operaia al potere o la variante politico-sociale che sarà), deve tendere non a perpetuare se stessa come classe (sfruttata), ma alla propria estinzione (tramite l'abolizione del rapporto salariale e dei meccanismi dello sfruttamento). A questo fine è rivolto l'importantissimo concetto marxiano di “autosfruttamento”, di cui mai si parla, ma che sta alla base invece di qualsiasi concezione realistica di rivoluzione, costruzione del socialismo ecc.
Il marxismo rivoluzionario ha chiamato il frutto di questo autosfruttamento “surplus socialista” (il cui utilizzo e le cui finalità sociali saranno oggetto della più aspra contesa nella società di transizione), ben sapendo che esso non è prodotto dalle stesse leggi dell'accumulazione capitalistica (non è quindi plusvalore). Ma è vero anche che esso rappresenta pur sempre un elemento fondamentale di squilibrio all'interno della società di transizione: qualcosa che rende inverosimile l'adozione di criteri di eguaglianza giuridica, dipendendo tale “surplus” -per definizione- da criteri di diseguaglianza economica.
Nella Russia dei soviet furono in particolare i contadini a dimostrare storicamente questo dato di fatto; ma lo avrebbero dimostrato ampiamente anche i lavoratori salariati nella successiva fase di industrializzazione accelerata, se alla fine degli anni '20 al potere dell'Urss vi fosse stata ancora la dittatura del proletariato e non la dittatura della burocrazia, vale a dire della casta dei parassiti prodotta dalla vittoria dello stalinismo e dalla sconfitta dei soviet.

Le nostre tre “coordinate” -1) priorità del politico sul sociale e divario che ne consegue dopo la “rottura”; 2) egemonia della soggettività a discapito del funzionamento oggetivo, “spontaneo” delle leggi del mercato, a partire da una base determinata della transizione al socialismo; 3) tendenziale deperimento della classe dei salariati al potere che si autosfrutta, in rapporto proporzionale all'aumento del surplus disponibile per la collettività -erano presenti embrionalmente nel Marx della Critica al Programma di Gotha e, più estensivamente nel Lenin di Stato e rivoluzione, oltre che nelle parti più lucide di una celebre e discutibile opera di Trotsky, Terrorismo e comunismo (per altri versi datata e incompatibile con la sua più matura concezione della transizione al socialismo, quale si evince, per es. da La nostra morale e la loro). (2)
In questa qualificata tradizione del marxismo rivoluzionario possiamo ora inserire anche la Luxemburg de La Rivoluzione russa. Si dovrà tener conto che ognuno di questi grandi pensatori ha un proprio modo specifico di affrontare la problematica sintonizzata nelle tre coordinate di cui sopra. E non si dovrà dimenticare il salto di qualità sul terreno teorico-metodologico rappresentato dall'esistenza di un'esperienza storica come quella dell'Ottobre e di quei primi, pochi, preziosissimi anni di dittatura proletaria (1917-1923), di cosciente azione rivoluzionaria volta all'avvio del processo di transizione al socialismo in Russia e nel mondo.
La rivoluzione d'Ottobre ha rappresentato da questo punto di vista una “rottura” nella tradizione teorica del marxismo, perchè ha introdotto nel precedente metodo di elaborazione -svolto fondamentalmente per astrazioni- un'esperienza pratica storicamente determinata e a sua volta determinante.
Arrivati a una distanza ormai epocale dall'Ottobre si può dire, comunque, che il marxismo non ha certo peccato di sottovalutazione nei confronti dell'esperienza sovietica, ma anzi ha commesso l'errore opposto, di ridurre se stesso a quell'esperienza, entrando nel famoso bosco di cui si possono vedere solo gli alberi, ma non l'insieme.
In quel bosco stiamo ancora brancolando, sia detto per inciso, anche se volta a volta, c'è stato chi ha creduto di trovare una radura sicura e consolatrice in Jugoslavia, in Cina, in Nicaragua, in Chiapas, a Porto Alegre e ormai per quanto incredibile nella stessa Unione Europea.

Le premesse della Luxemburg

Le critiche della Luxemburg ai bolscevichi partivano implicitamente dalla piena comprensione delle tre coordinate citate. Non si ponevano affatto da un punto di vista “democratico-borghese”, come si disse all'epoca, come lascierà intendere Lukàcs in Storia e coscienza di classe, come riprenderà la tradizione socialdemocratica di sinistra (rappresentata in Italia da un grande studioso della Luxemburg, come Lelio Basso) e come ha pontificato, per una certa fase, lo stalinismo sovietico (ma non quello della Rdt).
La prova principale è data forse dalle osservazioni -per quanto sbrigative- che Rosa dedicò alla presunta necessità di conquistare la “maggioranza del popolo”, da lei considerata già all'epoca un “incubo... del cretinismo parlamentare”.
Una rivoluzione, secondo la Luxemburg, non diventa possibile solo quando è la maggioranza del popolo a seguirla; non deve cioè fare i conti col meccanismo elettorale delle istituzioni della democrazia borghese; al contrario, essa dipende a) dal grado di completezza del programma, di rispondenza reale ai bisogni delle masse, e b) della risolutezza del partito d'avanguardia.
La conquista della maggioranza del popolo non è per la Luxemburg una condizione preliminare per la rottura rivoluzionaria, ma una conseguenza diretta, quasi automatica, del modo in cui viene preparata e sopratutto si svolge tale rottura. Maggioranza non si diventa né prima né dopo la crisi rivoluzionaria, ma durante, conclude la Luxemburg.
Questa concezione profondamente dinamica del rapporto fra “democrazia” (conquista della maggioranza) e “dittatura proletaria” (rottura nell'”ora storica”) è per la Luxemburg il sostrato politico che ha reso possibile l'Ottobre e che ha spostato su un diverso piano storico anche il discorso sulla democrazia: in Russia, nelle sue stesse parole, si sarebbe realizzato

“non un qualche consolidamento della democrazia borghese, ma dittatura del proletariato, al fine di realizzare il socialismo”.

La fine della falsa democrazia borghese (avvenuta per l'appunto col passaggio delle masse, nel corso della crisi, dalla parte dei bolscevichi) e l'impossibilità di praticare immediatamente la democrazia socialista non devono significare la fine di ogni democrazia: al contrario è proprio quella democrazia di massa, non più borghese, ma non ancora socialista (tuttavia rivoluzionaria, perchè ha prodotto il passaggio del potere nelle mani del proletariato), che può assicurare il proseguimento dell'esperienza soviettista, avviando il processo di transizione al socialismo.
In sostanza, sostiene la Luxemburg, il fatto che dopo l'Ottobre le inevitabili difficoltà interne ed esterne abbiano impedito dei passi in avanti sul piano della trasformazione socialista della società non deve significare un ritorno indietro, per giunta a una democrazia borghese non più praticabile: deve significare invece un approfondimento della “democrazia rivoluzionaria” sperimentata con l'Ottobre

“E' compito storico del proletariato, una volta giunto al potere, creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non abolire ogni democrazia”.
“La realizzazione pratica del socialismo come sistema economico, sociale e giuridico, è una faccenda completamente immersa nelle nebbie del futuro”,


afferma la Luxemburg con un'immagine molto più bella del nostro discorso sulla coordinata n.1.

“Questa non è una mancanza, bensì proprio il vantaggio del socialismo scientifico, su quello utopistico” (coordinata n.2) e

“sarebbe pretendere il sovraumano da Lenin e compagni, attendersi ancora da loro in tali circostanze che sappiano creare quasi per incanto la più bella democrazia”.

vale a dire la fine della dittatura proletaria, l'estinzione dello stato soviettista repressivo, la fine del terrore (coordinata n.3)

“L'ordinamento socialista è attuabile solo internazionalmente”,

conclude la Luxemburg. In mancanza di un tale evento, ne discende logicamente che “la dittatura del proletariato” dovrà prepararsi a esistere per un numero indeterminato di anni.
Saranno proprio gli anni dopo l'Ottobre, non più borghesi nei rapporti di produzione russi, ma non ancora socialisti. Non più capitalismo, ma non ancora collettivismo: un sitema sociale che i menscevichi, oltre a Kautsky da un lato e l'ultrasinistra dall'altro, definiranno “capitalismo di stato” e che invece Lenin, Trotsky e il bolscevismo prestaliniano avevano definito di avvio del processo di “transizione al socialismo” adottando la terminologia classica di Marx, ripresa da Lenin in Stato e rivoluzione e altri scritti.
(Con il risultato che mentre Trotsky potrà cogliere nella controrivoluzione politica staliniana un effetto decisivo anche sul piano sociale -la fine del processo di transizione, il suo arresto e parziale arretramento- l'ultrasinistra si troverà priva di ulteriori strumenti teorici e sarà costretta ad ammettere che tra il sistema sociale della Nep, varato dai bolscevichi, e il regime di collettivismo forzato di Stalin, non è esistita alcuna differenza: entrambi a capitalismo di Stato, enzi, entrambi capitalisti, come all'epoca dello Zar. I più intraprendenti -vedi Chaulieu e il gruppo di Socialisme ou barbarie- cercheranno addirittura di trascinare la Luxemburg in questo guazzabuglio teorico, strumentalizzando alcune frasi del suo celebre scritto sulla Rivoluzione russa che, avulse dal quadro di riferimento che noi gli abbiamo preposto, possono diventare ingrediente piccante di qualsiasi minestra).

La “democrazia rivoluzionaria”

Ma questa democrazia rivoluzionaria -non più borghese e non ancora vera democrazia socialista: non più dittatura borghese, ma dittatura proletaria; non più maggioranza parlamentare, ma maggioranza reale- come si misura? Che rapporto ha con le istituzioni precedenti, visto che quelle future sono al di là da venire o sono solo nella testa degli utopisti? Sfugge essa alle leggi della storia e della lotta di classe?
No di certo. E l'esempio dell'Assemblea costituente russa è utilizzato dalla Luxemburg per esemplificare le proprie idee.
Fase 1: contro l'incapacità o la non-volontà della borghesia russa di alzare la bandiera della democrazia borghese, i bolscevichi si battono in prima fila per l'Assemblea Costituente.
Fase 2: il rafforzamento dei soviet tende a trasformare la rivoluzione democratico-borghese in proletaria e quindi spinge in primo piano gli organi di rappresenza delle masse; l'enfasi si sposta a questa nuova democrazia di classe emergente, senza contrapporsi però all'Assemblea costituente.
Questa passa in secondo piano (“Tutto il potere ai soviet”), ma viene ancora difesa contro gli attacchi della reazione.
Fase 3: i soviet hanno vinto, la “maggioranza del popolo” è dalla parte dei bolscevichi e l'Assemblea costituente, non riflettendo più la composizione politica reale delle masse, viene sciolta, a novembre del 1917. Fin qui la Luxemburg plaude all'operato dei bolscevichi, ivi compreso lo scioglimento delle istituzioni democratico-borghesi su cui poggiava il potere precedente, dal momento che non esprimevano le nuove superiori esigenze di libertà delle masse e continuavano ad essere semplici articolazioni dello Stato borghese.

Manca però, nel suo giudizio, un indispensabile Fase 4: il superamento nell'esperienza delle masse di quell'Assemblea “che rifletteva la Russia kerenskiana di ieri” con “un'assemblea scaturita dalla Russia rinnovata e più avanzata” di oggi, o più in generale un ampliamento delle libertà democratico-borghesi tramite la costruzione di nuovi istituti più rappresentativi di quello decaduti.
La Luxemburg richiamava in tal modo un principio della politica rivoluzionaria che formalmente Lenin, Trotsky e i bolscevichi non avevano mai negato: il fatto che le illusioni delle masse non si aboliscono per decreto, ma si estinguono per superamento dialettico, con l'esperienza concreta e l'educazione politica. Quest'ultima afferma la Luxemburg, “per la dittatura proletaria è l'elemento vitale, l'aria senza la quale non può sussistere”.
Le libertà democratico-borghesi non si aboliscono, ma si superano ampliandole: dalle più antiche dell'89 fino alle conquiste più recenti che la lotta delle masse strappa alla borghesia o difende contro quest'ultima. Il diritto di voto, per esempio, da arma della borghesia deve diventare arma del proletariato, fino a quando condizioni di produzioni e di vita superiori non renderanno inutile e ridicolo questo ricorso al calcolo di anonime schede. Idem per la libertà di stampa, di parola, di riunione, di sciopero: tutte condizioni preliminari per una crescita politica delle masse che solo dividendosi, discutendo e scontrandosi potranno crescere politicamente, e solo commettendo degli errori potranno imparare a correggerli.
Volendo riassumere schematicamente, potremmo dire che per la Luxemburg le istituzioni democratico-borghesi che non soddisfano, ma sfruttano le esigenze delle masse, vanno distrutte: ma non vanno distrutte quelle esigenze, e quindi dovranno essere create delle nuove istituzioni al posto delle vecchie che mentre restringono la libertà delle vecchie classi possidenti, ampliano e aumentano in continuazione la libertà delle masse, della classe operaia in primo luogo.
Per le sue caratteristiche di soggettività di classe, per l'impossibilità di realizzare in tempi brevi il socialismo, per il ruolo transitorio che la classe operaia al potere assegna a se stessa, non ci si può attendere alcun risultato positivo dal soffocamento delle illusioni democratiche delle masse (da considerare come il soggetto in prima persona della trasformazione sociale e non un settore a sé, distinto dall'avanguardia proletaria.
L'aver sciolto i partiti operai piccolo-borghesi (per quanto opportunisti e nemici del socialismo), l'aver eliminato come logica conseguenza anche le correnti in seno al partito -in cui avrebbero potuto esprimersi le linee dei partiti disciolti (oltre che le critiche più corrette alla linea maggioritaria)- l'aver trasformato la dittatura del proletariato da dittatura contro le vecchie classi, tendenzialmente in dittatura sul proletariato, ha fatto sì che al momento decisivo dello scontro tra rivoluzione operaia (Trotsky e l'Opposizione di sinistra) e controrivoluzione burocratica (Stalin), quest'ultima fosse avvantaggiata sul piano politico, nonostante la povertà e l'erroneità delle sue tesi economiche.
La restrizione delle libertà democratiche -che nelle intenzioni rivoluzionarie di Lenin e di Trotsky doveva servire a rafforzare lo Stato operaio -a partire dalla denuncia che ne fece lo stesso Trotsky in Nuovo corso (1923), si rivelò invece una minaccia per la rivoluzione stessa: anzi, ne fu la tomba.

Fiumi d'inchiostro sono stati versati per descrivere il processo che produsse la morte della democrazia all'interno della dinamica rivoluzionaria dell'Ottobre e per fornire spiegazioni storicamente plausibili. Alcune di tali indagini, storicamente rigorose, hanno avuto il merito di squarciare il velo di menzogne che gli ideologici dello stalinismo -spesso intellettuali e artisti di grande valore e di prestigio mondiale- avevano contribuito a tessere nel corso dei decenni. Il fatto che questi intellettuali lo abbiano fatto per una qualche delirante patologia interiore o per convenienza pratica o per entrambe non ha più alcuna rilevanza storica.
E questo perchè l'Imperatore, a furia d'essere nudo -come si poteva vedere già dal Patto con Hitler nel '39 o dalle rivolte di Berlino Est del 1953 e di Budapest del 1956- è ormai morto. Molte passioni si sono placate (purtroppo) e lo studio dell'apparato mentale di chi si ostina a contrabbandare come “democrazia socialista” il defunto regime della dittatura burocratica sovietica è ormai competenza di specialisti di psichiatria, più che studiosi delle ideologie del Novecento.

Eppure, a leggere e rileggere le analisi che ancora oggi vengono prodotte per giustificare l'assenza di struttute di democrazia diretta -in questa o quella diversa esperienza rivoluzionaria- si ritrova sempre lo stesso limite, lo stesso ritornello: “La violazione della democrazia operaia o della democrazia diretta non è un fatto grave se finalizzata a una migliore efficacia nella lotta contro il padronato o contrro altre correnti politiche che potrebbero indebolire le conquiste sociali della rivoluzione”.
E' la base ricorrente e ostinata di ogni giustificazionismo antidemocratico che anora viene ripetuta da soggetti politici-progressisti (di “sinistra”): spesso proprio da coloro che si trovano impegnati in prima fila nella difesa di paesi aggrediti dall'imperialismo, come Cuba, il Nicaragua. il Venezuela o,in altri contesti, la Serbia, l'Iran, l'Afghanistan e così via. E' il ritornello del “fine che giustifica i mezzi” portato alla sua massima espressione ideologica, statocratica dallo stalinismo russo e dei suoi accoliti in campo internazionale (con il Pci di Togliatti in prima fila).
Ebbene, alla doppia morale ipocrita di costoro la Luxemburg si contrappose assai precocemente, dimostrando sul piano teorico che si poteva stare dalla parte di Lenin e Trotsky, pur criticando i loro errori in tempo reale (cioè mentre li commettevano). E dimostrando sul piano pratico (storico) che insistendo su quegli errori si sarebbe prima o poi distrutta la natura rivoluzionaria della prima grande Repubblica dei soviet.
Se non avessimo altri (immensi) debiti teorici con Rosa, basterebbe questo suo ultimo decisivo contributo teorico per farcela ricordare con affetto e ammirazione.
La storia le ha dato ragione in maniera incontrovertibile e il suo celebre testo volto a prevenire la degenerazione della Rivoluzione russa è da tempo diventato uno strumento formativo indispensabile per chi voglia capire come sia stato possibile la tragica vittoria dello stalinismo -la più grave e la più duratura nelle conseguenze tra le altre grandi tragedie che hanno contraddistinto il Novecento.
 
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Note
1) si veda la nostra introduzione all'edizione in volume del Bollettino dell'Opposizione comunista italiana (1931-33), pubblicata con il titolo All'opposizione nek Pci con Trotsky e Gramsci Roma 1977 (e ora Bolsena 2004).
 
2) Il nostro giudizio molto critico sulla filosofia ispiratrice di Terrorismo e comunismo è sviluppato ampiamente nella monografia che abbiamo dedicato a Trotsky e la ragione rivoluzionaria, Roma 1990 (e Bolsena 2004), pp. 197-203

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