CINEMA

sabato 6 novembre 2010





L’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI,
L’ULTIMA BATTAGLIA DI LENIN E IL TIBET

di Roberto Massari







Lenin si pronuncia per la prima volta in maniera sistematica sulla «questione nazionale» a luglio del 1903, due settimane prima che inizi a Bruxelles il celebre Secondo congresso del Posdr (quello che si concluderà a Londra con la separazione dai menscevichi). La posizione non è chiarissima (anche alla luce di come lo stesso Lenin la richiamerà molti anni dopo), ma la si può sintetizzare più o meno come un riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, purché «subordinato» a determinate condizioni politiche. È una posizione sostanzialmente settaria (all’epoca indotta da necessità di polemica con altri settori della socialdemocrazia russa: i socialisti polacchi in particolare, ma anche il Bund ebraico) che ricorda alcune delle posizioni attualmente in circolazione, anche se - trattandosi di Lenin - non va mai dimenticato che il livello teorico era alto e la posizione veniva ampiamente articolata (cioè, argomentata).
Lenin abbandona successivamente le posizioni del 1903 (insieme a varie altre posizioni di quell’epoca politicamente un po’ speciale). E quando torna sul tema dell’autodeterminazione (in forma sistematica a partire dal 1913), lo fa assumendo una nuova posizione, che tale resterà sino alla fine della sua vita, con sfumature e sviluppi molto interessanti che cercheremo di riassumere (e con una brutta eccezione che ugualmente citeremo).
A luglio del 1913 scrive le celebri «Tesi sulla questione nazionale» che esordiscono con la frase seguente, perentoria e di chiarezza incontrovertibile (corsivi e parentesi tonda di Lenin):

«1. Il paragrafo del nostro programma (sull’autodecisione delle nazioni) non può essere interpretato che nel senso dell’autodecisione politica, cioè del diritto di separazione e di costituzione di uno Stato indipendente.
2. Per la socialdemocrazia russa questo punto del programma socialdemocratico è assolutamente necessario,
a) sia in nome dei princìpi fondamentali della democrazia in generale [...]».

Seguivano i punti b), c) che per il momento non ci riguardano (e che comunque il lettore può trovare nell’antologia espressamente dedicata alla concezione leniniana dell’autodeterminazione - a cura di Nicola Simoni, di pagine 256, Massari editore, Bolsena 2005, da cui citeremo d’ora in avanti).
Il sottopunto d) si concludeva ripetendo:

«I socialdemocratici russi devono, in tutta la loro propaganda, insistere sul diritto di tutte le nazionalità di costituire uno Stato separato o di scegliere liberamente lo Stato del quale esse desiderano far parte» (p. 89).

Il punto 4. conteneva un’altra affermazione chiara e incontrovertibile. Si tratta di una distinzione fondamentale, complementare alla dichiarazione generale di principio e che costituisce l’essenza del pensiero leniniano sull’autodeterminazione.

«Se la socialdemocrazia riconosce il diritto di autodecisione per tutte le nazionalità, ciò non significa affatto che essa rinunci a una valutazione autonoma della opportunità, in ogni singolo caso, della separazione statale di questa o quella nazione. Al contrario, i socialdemocratici devono dare precisamente un giudizio autonomo [...]».

Traduzione in volgare per chi non volesse capire: 1) i rivoluzionari difendono il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, senza eccezioni (si tratta quindi di un diritto assoluto [e francamente non riesco a immaginare come potrebbe non esserlo (r.m.)]), 2) tale diritto ha senso se include il diritto di separazione e di costituzione di un nuovo Stato; 3) i rivoluzionari valutano autonomamente se la separazione sia la soluzione migliore o quale altra prospettiva politica sia valida per l’esercizio del diritto all’autodeterminazione. Fine della traduzione.
Se si è capita la differenza tra a) la difesa del diritto assoluto all’autodeterminazione dei popoli (b) separazione inclusa) e c) l’individuazione di una prospettiva politica specifica per la quale i rivoluzionari ritengono che vada utilizzato il diritto all’autodeterminazione, siamo a posto: possiamo procedere, discutere tra noi e anche differenziarci su quale regime politico ciascuno di noi considera migliore per i baschi, i palestinesi, i ceceni, i tibetani, i kosovari o gli abitanti di Timor Est.
Se non si è capita questa differenza consiglio di non andare avanti con la lettura, ma di leggere e rileggere la sintesi di Lenin finché si sarà afferrato il concetto profondo (e ovvio allo stesso tempo) che essa contiene. E comunque, senza accordo sul punto a) del testo di Lenin il proseguimento della discussione è impossibile: infatti si intrecceranno (si confonderanno) in continuazione il livello del principio della libertà dei popoli (dove errori o esitazioni non possono esservi) con quello della forma storica in cui tale principio può esprimersi (dove gli errori vengono pronunciati o compiuti a iosa; errori, per giunta, provenienti in genere dall’interno stesso del popolo che lotta per la propria autodeterminazione. Gli esempi vistosi sono sotto gli occhi di tutti e, sia detto en passant, sono gli unici errori che dovrebbero interessarci veramente, gli unici dei quali valga la pena discutere.)
Ebbene, tutti i nemici attuali del diritto all’autodeterminazione (che, guardacaso, lo negano solo per popoli sottoposti all’egemonia di regimi di origine stalinista o ex) confondono deliberatamente il primo e il terzo punto, mescolando il principio della difesa del diritto all’autodeterminazione (separazione) per tutti - anche quando si ritiene (da rivoluzionari e non da democratico-borghesi) che la separazione sia un modo sbagliato di difendere il diritto all’autodeterminazione - con le proprie analisi politiche, le alchimie diplomatiche o le aspettative personali sui tempi e modi della liberazione di un determinato popolo.

[Inciso. Per ironia della storia, oggigiorno è proprio il Dalai Lama che si pronuncia contro la separazione del Tibet dalla Cina, pur rivendicando maggiore autonomia, rispetto della tradizione e dei diritti democratici, da ottenere con la non-violenza. Mentre altri settori della società tibetana, indipendenti dal movimento dei monaci, chiedono apertamente la separazione e l’indipendenza politica. Ma anche tra questi ultimi vi sono ulteriori differenze tra chi pensa di poter ottenere la separazione con metodi più o meno non-violenti e chi punta a un’insurrezione popolare. Tre correnti, quindi, che lottano per il diritto all’autodeterminazione, ma dissentono sulle prospettive politiche di tale lotta.]
La posizione leniniana sopracitata era esposta in un contesto di Tesi (quindi il massimo di rappresentatività politica). Ma Lenin la chiarisce ulteriormente in una lettera a S.G. Saumian, a dicembre del 1913:

«Noi siamo a favore dell’autonomia per tutte le parti, siamo per il diritto alla separazione (e non per la separazione di tutti). L’autonomia è il nostro piano per la struttura di uno Stato democratico. La separazione non è affatto il nostro piano. Noi non propagandiamo affatto la separazione. In generale siamo contro. Ma [in questo caso (r.m.)] siamo per il diritto alla separazione poiché esiste il nazionalismo grande-russo centonero...» (p. 104, corsivi di Lenin).

Ancora, a dicembre del 1913:

«Non è marxista, e non è neppure democratico chi non riconosca e non difenda la parità giuridica delle nazioni e delle lingue, chi non si batta contro ogni oppressione e disuguaglianza nazionale. Su questo non vi sono dubbi» (p. 113).

Tralascio le molte pagine sparse (in un arco ampio di anni), da Lenin dedicate a combattere un tema che qui non ha diretta attinenza con la nostra discussione: il concetto di «cultura nazionale», che a volte egli rigetta in toto e che a volte difende limitatamente ai suoi contenuti «democratici e socialisti». In genere, comunque, il tono è perentorio:

«Alla lotta contro ogni oppressione nazionale bisogna dire assolutamente sì. Alla lotta per ogni sviluppo nazionale, per la “cultura nazionale” in genere bisogna dire assolutamente no» (p. 121).

Si tratta di un discorso complesso, sicuramente ancora attuale, ma anch’esso discutibile solo con chi accetta il principio del diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, indipendentemente dalla prospettiva politica che s’intende dare a tale diritto e indipendentemente da ciò che s’intende per «cultura nazionale».

[Altro inciso. Per ragioni di polemica teorica, in queste mie pagine parlo in prima persona o in forma impersonale. Nella realtà storica è però un dato di fatto che i popoli lottano per il proprio diritto all’autodeterminazione indipendentemente da ciò che posso pensare io o coloro che si oppongono all’esercizio di tale diritto. È un altro aspetto che va capito bene: in varie parti del mondo ci troviamo davanti a lotte per l’autodeterminazione che durano da decenni, se non secoli, che non si sono mai interrotte nel tempo, che vengono pagate con sacrifici enormi di vite umane e che non intendono retrocedere di un passo rispetto alla prospettiva finale dell’indipendenza. Cito tra i tanti: kurdi, palestinesi, ceceni, saharawi ecc.
[Insomma, noi possiamo teorizzare quanto ci pare e piace su questa o quella lotta di autodeterminazione, ma nella realtà storica è il popolo interessato alla propria liberazione che decide se lottare sino alla vittoria o arrendersi, indipendentemente da ciò che possono pensare lo Stato oppressore, la Cia, l’Onu, la Nato, gli ex stalinisti, gli sciovinisti locali, i neonazionalisti oppressori o il sottoscritto. Vorrei che non si perdesse di vista questo aspetto, per non cadere nella concezione ridicola per cui il diritto all’autodeterminazione di un popolo dipenderebbe in parte anche da ciò che viene detto da forze politiche esterne: né noi né altri possiamo influire sulle motivazioni profonde che portano un popolo alla decisione storica di lottare per la propria indipendenza. Ciò sarebbe vero anche se noi fossimo parte di unInternazionale dei movimenti rivoluzionari nel mondo. Un problema che comunque non si pone, giacché tale internazionale non esiste e, rispetto al tema che stiamo discutendo, non è mai esistita. Vedi di seguito.]

A luglio-agosto del 1920 si svolse il 2° Congresso della Terza internazionale, dove per la prima volta si abbozzò una discussione internazionale sul tema dei popoli oppressi. Il Congresso adottò le «Tesi e aggiunte sulle questioni nazionale e coloniale», redatte da Lenin (per lo meno così affermano gli storici, anche se è difficile crederlo) ed emendate dall’indiano M.N. Roy. Nelle Tesi, non viene nominato il diritto all’autodeterminazione neanche una volta e il linguaggio - già retorico e burocratico - appare notevolmente influenzato dalla problematica della costruzione di nuclei bolscevichi nei paesi coloniali o dipendenti, mentre si esprime grande diffidenza verso i «movimenti democratico-borghesi locali», ribattezzati con un emendamento come «movimenti nazionalisti rivoluzionari». Si arriva al punto di affermare che l’Internazionale deve appoggiare i «movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati» solo se i comunisti svolgono un ruolo significativo al loro interno. Questa è ancor oggi la posizione classica del bordighismo e, nell’Italia attuale, del nuovo trotskobordighismo, che praticamente si traduce nel rifiuto di sostenere tutte o quasi tutte le lotte di liberazione esistite, nonché quelle esistenti (Red Link, Pcl e poco più). Credo anche che quella sia stata la prima volta «ufficiale» in cui, al principio internazionalistico della fratellanza tra i popoli, fu sostituito il sinistro slogan dell’«internazionalismo proletario», facendo intendere ovviamente che le Repubbliche sovietiche sarebbero state le garanti per l’applicazione di tale nuova forma di «internazionalismo dall’alto». Noi posteri, invece, sappiamo pure troppo bene cosa abbia significato quello slogan per i popoli dell’Urss, a partire dagli anni ‘30, e per i popoli dell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale.
Zinov’ev, che di disastri ne fece a bizzeffe in quei primi anni della Terza internazionale, fu purtroppo il dirigente bolscevico incaricato di organizzare il Primo congresso dei Popoli d’Oriente (Baku 1-7 settembre 1920). E, anche se il congresso si svolse sotto la presidenza onoraria di Lenin e Trotsky, la relazione di Zinov’ev fu quanto di più lontano dalle loro posizioni si possa immaginare: ancora silenzio totale sul diritto all’autodeterminazione, mentre alla descrizione illusoria della «corrente comunista proletaria straripante» in Europa, Zinov’ev affiancò la descrizione di un «movimento delle nazionalità oppresse zigzagante», in alcuni luoghi del mondo non meglio identificati, decretando che una confluenza tra i due movimenti sarebbe stata possibile solo se le nazionalità oppresse si fossero «liberate dei pregiudizi nazionali» (sic!), sotto l’influenza, ovviamente, dei partiti comunisti locali, a loro volta espressione proletaria della Federazione russa. Evidentemente Zinov’ev non aveva capito nulla della posizione teorica di Lenin, ma questi, a sua volta, non aveva fatto molto perché il povero Grigorij cominciasse a capire. Danze coreografiche, applausi e cori a non finire conclusero il convegno di Baku, mentre all’orizzonte si profilava imminente la «tragedia» della sconfitta della seconda rivoluzione cinese (1926-27), di cui Stalin, la direzione del Comintern e il gruppo dirigente del Pcc - compreso un giovane Mao - avranno l’intera responsabilità storica.

Ancora Lenin, maggio 1914:

«Se vogliamo comprendere il significato dell’autodecisione delle nazioni, senza trastullarci con le definizioni giuridiche, senza “fabbricare” definizioni astratte, ma analizzando i fattori storici ed economici dei movimenti nazionali, arriveremo di necessità a concludere che per autodecisione delle nazioni si intende la loro separazione statale dalle collettività straniere, si intende la creazione di uno Stato nazionale indipendente. Vedremo in seguito per quali altre ragioni è sbagliato considerare il diritto di autodecisione come una cosa diversa dal diritto all’esistenza politica indipendente» (p. 143).

Nell’ambito della bella e dura polemica sull’argomento con la Luxemburg (unico tema, a parere di chi scrive, in cui questa si trovò ad aver torto contro Lenin), troviamo il seguente paragone esemplificativo:

«Accusare i sostenitori della libertà di autodecisione, vale a dire della libertà di separazione, di incoraggiare il separatismo, è altrettanto sciocco e ipocrita quanto accusare i sostenitori della libertà di divorzio di incoraggiare la disgregazione dei legami familiari. Come nella società borghese coloro che insorgono contro la libertà di divorzio sono i difensori dei privilegi e della venalità che sono alla base del matrimonio borghese, così nello Stato capitalistico la negazione della libertà di autodecisione, cioè di separazione, equivale soltanto alla difesa dei privilegi della nazione dominante e dei metodi polizieschi di governo a detrimento di quelli democratici» (p. 172).

In realtà, nel lungo testo di polemica con la Luxemburg (un po’ difficile da interpretare e che comunque andrebbe contestualizzato rispetto alle situazioni balcaniche, polacca, ucraina ecc. dell’epoca) vi è un filo rosso che scorre in tutta l’argomentazione: la lotta per l’autodeterminazione, quali che siano le forme che essa assume, non è separabile dalla lotta sociale di emancipazione più generale del proletariato.
Formalismi giuridici o no, in quella lotta, determinata originariamente dal principio democratico dell’autodecisione, bisogna saper riconoscere gli elementi di classe che affiorano nel momento in cui una popolazione decide di opporsi all’oppressione di un qualsiasi Stato (che ormai - nell’epoca dell’imperialismo - dev’essere necessariamente borghese-capitalistico oppure, ma in numero via via calante, anche burocratico-stalinista). Quei contenuti di classe, infatti, saranno determinanti non solo per la crescita della lotta di autodeterminazione, ma anche per affratellare concretamente il proletariato della nazione oppressa con quello della nazione che opprime. Lenin attribuisce una notevole importanza a quest’ultima indicazione e, se fosse vivo (con le idee di allora), oggi lotterebbe per l’affratellamento tra la lotta di liberazione nazionale in Tibet e quella dei lavoratori cinesi, sottoposti ad uno dei regimi di sfruttamento (ed inquinamento) più feroci che si siano mai visti sulla faccia della terra. Per quanto utopistico ciò possa oggi sembrare, la realtà è che - al di là della realizzazione di un rapporto di fratellanza con la lotta dei lavoratori, delle lavoratrici e dei giovani cinesi - non vi è altra possibilità per il popolo tibetano di riuscire a liberarsi nel breve o medio periodo dall’occupazione militare e dallo sfruttamento da parte del regime di dittatura burocratica cinese, in via di trasformazione capitalistica.

Ma torniamo a Lenin. Siamo nel 1916 e si tratta ancora di Tesi («La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione»). La socialdemocrazia europea si è scissa sul voto dei crediti di guerra (a differenza, oggigiorno, dei partiti di Diliberto e di Bertinotti), si sono tenute le conferenze di Zimmerwald e Kienthal, è andato in stampa L’imperialismo e si comincia a vedere una prospettiva ravvicinata di rivoluzione socialista anche per la Russia. Tempi burrascosi, premonitori di grandi rivolgimenti politici. La problematica leniniana dell’autodeterminazione non potrebbe non risentirne a sua volta.
Ed infatti ne risente, in particolare per un tema che si rivelerà discriminante e drammaticamente attuale: cosa ne sarà del diritto all’autodeterminazione dei popoli dopo la rivoluzione socialista? La risposta di Lenin non potrebbe essere più chiara e più coerente con quanto affermato sino ad allora:

«Il militarismo si sviluppa, le guerre diventano più frequenti, la reazione si rafforza, l’oppressione nazionale e il brigantaggio coloniale si accentuano e si estendono. Il socialismo vittorioso deve necessariamente instaurare la completa democrazia e, quindi, non deve attuare soltanto l’assoluta eguaglianza dei diritti delle nazioni, ma anche riconoscere il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse, cioè il diritto alla libera separazione politica. Quei partiti socialisti i quali non dimostrassero mediante tutta la loro attività - sia oggi, sia nel periodo della rivoluzione, sia dopo la vittoria della rivoluzione - che essi liberano le nazioni asservite e basano [invece] il loro atteggiamento verso di esse sulla libera unione - e la libera unione non è che una frase menzognera senza la libertà di separazione - tali partiti tradirebbero il socialismo» (p. 210-11, corsivo nostro).

Prego di leggere e rileggere, perché qui Lenin ci sta dicendo né più né meno che il diritto all’autodeterminazione (alla separazione) va difeso anche quando, dopo la rivoluzione, i popoli vorranno separarsi dal regime socialista vittorioso e vorranno darsi un regime sociale diverso (di fatto capitalistico). È la prospettiva che si realizzerà effettivamente in Russia dopo il 1917 e, come vedremo, Lenin sarà coerente con tale posizione.

[Altro inciso. Al di là della questione nazionale, devo dire che questo testo del 1916 è molto bello. È profondo e altamente educativo, uno dei suoi migliori. Lenin vi sviluppa liberamente - cioè fuori da condizionamenti statuali - l’intreccio tra lotta per la democrazia e lotta per il socialismo. Sappiamo da posteri che poi violerà le posizioni qui e altrove espresse sulla democrazia (sulla democrazia borghese così come sulla democrazia diretta), ma ciò non toglie che il testo rappresenti uno dei punti più elevati raggiunti dall’elaborazione leniniana su una problematica destinata ad essere d’attualità per chissà quanto tempo ancora.]

«Il diritto delle nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico, alla libera separazione politica dalla nazione dominante. Concretamente, questa rivendicazione della democrazia politica significa la piena libertà di agitazione per la separazione e la soluzione di questa questione con un referendum della nazione che si separa. Questa rivendicazione non equivale quindi per nulla alla rivendicazione della separazione, del frazionamento, della formazione di piccoli Stati. Essa è soltanto l’espressione conseguente della lotta contro qualsiasi oppressione nazionale. Quanto più la struttura democratica di uno Stato è vicina alla piena libertà di separazione, tanto più rare e più deboli saranno in pratica le tendenze alla separazione poiché i vantaggi dei grandi Stati sono incontestabili, sia dal punto di vista del progresso economico come da quello degli interessi delle masse, e, inoltre, questi vantaggi crescono sempre più con lo sviluppo del capitalismo. Il riconoscimento del diritto di autodecisione non equivale al riconoscimento della federazione come principio» (pp. 213-14, corsivo nostro).

«Il fine del socialismo consiste non soltanto nell’abolizione del frazionamento dell’umanità in piccoli Stati e di ogni isolamento delle nazioni, ma anche nella loro fusione. [...L’umanità] non può giungere all’inevitabile fusione delle nazioni se non attraverso un periodo transitorio di completa liberazione di tutte le nazioni oppresse, cioè di libertà di separazione [...]. Il proletariato non può non lottare contro il mantenimento forzato delle nazioni oppresse nei confini di uno Stato, e questo significa appunto lottare per il diritto di autodecisione. Il proletariato deve esigere la libertà di separazione politica delle colonie e delle nazioni oppresse della “sua” nazione. Nel caso contrario, l’internazionalismo del proletariato resterà vuoto e verbale; tra gli operai della nazione dominante e gli operai della nazione oppressa non sarà possibile né la fiducia, né la solidarietà di classe» (pp. 214-16).

«Se tutte le rivendicazioni puramente democratiche possono - al momento dell’assalto del proletariato contro le basi del potere della borghesia - ostacolare in un certo senso la rivoluzione, la necessità di proclamare e di attuare la libertà di tutti i popoli (cioè il loro diritto all’autodecisione) è altrettanto urgente nella rivoluzione socialista [...]. È possibile tuttavia che passino cinque, dieci e più anni prima dell’inizio della rivoluzione socialista. Sarà allora all’ordine del giorno l’educazione rivoluzionaria delle masse tendente a rendere impossibile l’appartenenza degli sciovinisti e degli opportunisti socialisti al partito operaio e una loro vittoria simile a quella del 1914-1916. I socialisti dovranno spiegare alle masse che... i socialisti russi i quali non chiedono la libertà di separazione per la Finlandia, per la Polonia, per l’Ucraina ecc., che questi socialisti agiscono come sciovinisti, sono servi delle monarchie imperialiste e della borghesia imperialista, le quali si sono coperte di sangue e di fango» (p. 222, corsivi di Lenin).

A maggio del 1917, nel pieno del fermento rivoluzionario in Russia:

«A tutte le nazionalità che fanno parte della Russia dev’essere riconosciuto il diritto di separarsi liberamente e di costituirsi in Stato indipendente. Negare questo diritto e non prendere le misure idonee a garantirne l’applicazione pratica significa sostenere una politica di conquiste o di annessioni. Solo se il proletariato riconosce alle nazioni il diritto di separarsi, si potrà garantire la piena solidarietà tra gli operai delle diverse nazioni e favorire un riavvicinamento realmente democratico tra le nazioni. Il conflitto determinatosi oggi tra la Finlandia e il governo provvisorio russo mostra con singolare evidenza che la negazione del diritto di separarsi liberamente conduce a continuare la politica dello zarismo» (p. 234).

A ottobre del 1917 («Per la revisione del programma del Partito»), pochi giorni prima della vittoria rivoluzionaria:

«Invece della parola autodecisione, che ha dato più volte motivo a false interpretazioni, io pongo un concetto assolutamente preciso: “il diritto di separarsi liberamente”. Dopo l’esperienza di sei mesi della rivoluzione del 1917, è difficile contestare che il partito rivoluzionario di Russia, il partito che lavora in lingua grande-russa, deve riconoscere il diritto alla separazione. Una volta preso il potere, noi riconosceremmo subito e senza condizioni questo diritto alla Finlandia, all’Ucraina, all’Armenia e a qualsiasi nazionalità oppressa dallo zarismo (e dalla borghesia grande-russa). Ma noi, dal nostro canto, non vogliamo assolutamente la separazione. Noi vogliamo uno Stato il più grande possibile, una unione che sia la più stretta possibile, il numero più grande possibile di nazioni che vivano vicino ai grandi-russi; vogliamo questo nell’interesse della democrazia e del socialismo [...]. Noi vogliamo una unione libera e dobbiamo perciò riconoscere la libertà di separazione (senza libertà di separazione, l’unione non può essere definita libera). Noi siamo tanto più tenuti a riconoscere la libertà di separazione in quanto lo zarismo e la borghesia grande-russa, con la loro oppressione, hanno lasciato nelle nazioni vicine un’ombra di rancore e di diffidenza verso i grandi-russi in generale, e questa diffidenza va dissipata con i fatti e non con le parole» (pp. 236-7, corsivi nostri).

I fatti, purtroppo, non andranno nel senso teorizzato da Lenin.

Tra l’ottobre del 1917 e il 1920 si disgrega una gran parte dell’Impero zarista e il governo dei Soviet accetta l’indipendenza (la separazione) della Finlandia, degli Stati baltici (che verranno poi annessi nuovamente dopo il patto Molotov-Ribbentrop), della Polonia (che resterà indipendente fino a settembre del 1939, quando verrà invasa congiuntamente dalle truppe di Hitler e di Stalin) e della Georgia (che, diretta dai menscevichi al momento della separazione, in seguito a una rivolta popolare probolscevica, nel 1921 entrerà a far parte della Repubblica socialista federativa dei soviet russa - Rsfsr, futura Urss - come repubblica sovietica indipendente).
Sono tutti nuovi Stati che, nel distaccarsi dalla neonata Federazione russa, optano per il ritorno a regimi capitalistici. Il processo non è lineare, ma si svolge tutto sommato pacificamente (con l’eccezione un po’ particolare della Polonia), dimostrando che ciò che Lenin aveva scritto sul diritto all’autodeterminazione/separazione - da rispettare anche quando esso implichi una rinuncia al socialismo - veniva realmente e sostanzialmente messo in pratica. È un punto su cui attiro in modo particolare l’attenzione del lettore che invece oggi si sente dire dai nostalgici dello stalinismo che il diritto all’autodeterminazione va negato ai popoli che intendono «retrocedere» al capitalismo dopo essere stati sottoposti a (presunti) regimi socialisti. (In realtà la cosa non viene detta così apertamente perché anche le menti più offuscate non se la sentono di definire «socialisti» gli attuali regimi di Cina, Russia o Serbia. Lo facevano, però, nel passato, quando nella ex sinistra ancora vigeva grande confusione sulla natura sociale di questi paesi. Il lettore tenga conto, comunque, che io sto cercando di dare dignità teorica a posizioni che normalmente non sono argomentate, non sono fondate su salde ricostruzioni storiche e che sono nella maggior parte dei casi enunciate come assiomi, partoriti da viscerali deformazioni staliniste mai superate).

Proseguiamo, ricordando che apparentemente non retrocessero al capitalismo gli altri Stati, ai quali venne riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, ma che si organizzarono in Repubbliche sovietiche indipendenti (anche qui con alterne vicende): l’Ucraina, la Bielorussia, l’Azerbaigian, l’Armenia, le Repubbliche d’Estremo oriente di Khiva e Buchara (la Georgia dopo il 1921). È arcinoto invece che in seguito - morto Lenin e contro il suo parere - tutte queste repubbliche verranno assorbite forzosamente all’interno dell’Unione russa con la politica dei cosiddetti «Trattati», avviata dal Commissariato alle nazionalità diretto originariamente da Stalin: questi, in realtà, non farà altro che avviare (e mantenere per qualche decennio) una ricostituzione violenta e repressiva del vecchio Impero zarista.
Tutte queste nazioni - l’Ucraina in modo particolare, con i suoi milioni di morti - pagheranno prezzi umani ed economici altissimi per il loro rifiuto di farsi snazionalizzare dal nuovo Impero grande-russo sovietico, ma non riusciranno a riconquistare l’indipendenza fino a dopo il 1989, con strascichi, complicanze e annessioni abbastanza note e che qui, comunque, non possiamo ricostruire.
Torniamo a Lenin e al dramma della Georgia, divenuta dopo il 1921 Repubblica sovietica indipendente. Al georgiano di nome Stalin, cui è stato affidato l’incarico di Commissario alle nazionalità, non piace affatto lo status d’indipendenza conquistato dal proprio Paese (perché avamposto importante per il controllo dell’intera regione caucasica, ma anche per ostilità verso l’autonomia del gruppo bolscevico «allogeno» - termine usato spesso da Lenin). Egli avvia quindi nel 1922-23 una politica di unione forzata anche nei confronti di questa Repubblica - incurante del fatto che la sua popolazione aveva dimostrato fedeltà agli ideali della Rivoluzione d’Ottobre - ricorrendo a mezzi brutali nei confronti della direzione locale e facendo operare i propri agenti in un senso direttamente opposto a quello teorizzato da Lenin. Questi, malato, si rende conto troppo tardi di cosa sta accadendo, ma decide ciononostante di condurre la sua celebre «ultima battaglia», contro Stalin, proprio sul terreno dell’autodeterminazione della Georgia.
In uno dei suoi ultimi testi che riesce a far filtrare attraverso le maglie della segregazione che Stalin gli ha imposto, con tono accorato Lenin chiede perdono agli operai russi per non aver vigilato su questo aspetto del programma bolscevico («Sulla questione delle nazionalità o dell’“autonomizzazione”», 31 dicembre 1922):

«A quanto pare sono fortemente in colpa verso gli operai della Russia perché non mi sono occupato con sufficiente energia e decisione della famosa questione dell’autonomizzazione, ufficialmente detta, mi pare, questione dell’unione delle repubbliche socialiste sovietiche [...]. Ma ora dobbiamo in coscienza affermare, al contrario, che noi chiamiamo nostro un apparato che in realtà ci è ancora profondamente estraneo, che rappresenta il filisteismo borghese e zarista, la cui trasformazione in cinque anni, mancando l’aiuto di altri paesi e prevalendo le “occupazioni” della guerra e della lotta contro la fame, non era assolutamente possibile. In tali condizioni è perfettamente naturale che la “libertà di uscire dall’unione”, con la quale ci giustifichiamo, si rivela un inutile pezzo di carta, incapace di difendere gli allogeni della Russia dall’invasione di quell’uomo veramente russo, da quello sciovinista grande-russo, in sostanza vile e violento, che è il tipico burocrate russo. Non vi è dubbio che una percentuale insignificante di operai sovietici e sovietizzati affogherà in questa marmaglia sciovinista grande-russa come una mosca nel latte» (pp. 246-7, corsivi nostri).

C’è un secondo appunto in cui affronta in dettaglio le violazioni che si stanno compiendo contro la nazione georgiana e in cui indica Stalin, Dzerzinskij e Ordzonikidze come i principali responsabili. E c’è l’appunto del 5 marzo 1923 (il terzultimo della sua vita) in cui chiede a Trotsky di aiutarlo nella lotta contro Stalin sulla questione della Georgia:

«Caro compagno Trotsky, vi pregherei molto di assumervi la difesa della questione georgiana al Cc del partito. La cosa è ora sotto “inquisizione” di Stalin e di Dzerzinskij, e non posso fidarmi della loro imparzialità. Tutt’altro. Se voi accettaste di assumervene la difesa, potrei essere tranquillo» (p. 254).

Trotsky purtroppo rifiutò (per ragioni di salute), come di fatto aveva rifiutato (dopo l’incontro segreto svoltosi ai primi di dicembre 1922) la proposta fattagli da Lenin di condurre una lotta di frazione contro Stalin (e ancora si discute se questi rifiuti abbiano cambiato o no il corso della storia del ‘900).
C’è poi il penultimo biglietto di Lenin (5 marzo 1923) rivolto a Stalin in cui gli chiede di scusarsi «per ciò che è stato fatto contro di me» (cioè a Lenin, presumibilmente sulla questione georgiana), minacciando in caso contrario di «rompere i rapporti fra noi». E anche questo breve testo dimostra quanta importanza Lenin attribuisse alla questione.

E infine, l’ultimo biglietto che riuscì a far uscire prima che su di lui calasse per sempre il silenzio tramite il regime di reclusione impostogli da Stalin: sono le ultime parole di Lenin in assoluto, di fatto l’ultimo grido di un combattente irriducibile, e sono parole dedicate proprio alla questione dell’autodeterminazione, in sostanziale coerenza con quanto aveva scritto sull’argomento durante quasi tutta la sua vita:

«Rigorosamente segreto

Ai compagni Mdivani, Macharadze e altri.  Copia ai compagni Trotsky e Kamenev
Cari compagni,
seguo con tutto il cuore la vostra questione. Sono sdegnato della brutalità di Ordzonikidze e del favoreggiamento di Stalin e Dzerzinskij. Preparerò per voi degli appunti e un discorso. Con stima
Lenin 6 marzo 1923» (p. 255).

Mdivani e Macharadze erano i dirigenti dei comunisti georgiani che stavano tentando vanamente di contrapporsi all’invadenza russa organizzata dalla frazione di Stalin. Per quanto riguarda i testi che Lenin annunciava di voler scrivere sulla questione georgiana, non sapremo mai se sia riuscito a farlo perché da quel 6 marzo - quando era chiaramente ancora lucido e combattivo - fino alla morte, più di dieci mesi dopo (21 gennaio 1924) Stalin riuscì a impedire qualunque sua ulteriore comunicazione con l’esterno.
(La vicenda tragica della fase finale della vita di Lenin, prigioniero di un meccanismo inumano che egli stesso aveva contribuito a creare, è stata magistralmente ricostruita e documentata nel celebre libro di Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969.)

Sulla questione dell’autodeterminazione dei popoli, le posizioni dell’ultimo Lenin più chiare di così non potrebbero essere. Nessun altro, nella storia del movimento operaio (di qualsiasi tendenza o colore) ha mai dedicato tante energie, in così tanti testi, per così tanti anni e attraverso vicende storico-politiche così diverse e drammatiche, alla questione nazionale, meglio detta «autodeterminazione dei popoli». In più quest’uomo si chiamava Lenin e su tale questione (forse l’unica) aveva mantenuto una coerenza pressoché ininterrotta anche nella pratica, pur dovendo fare i conti con la grande quantità di Stati che l’Impero zarista aveva tenuto insieme con la forza e che la Repubblica dei soviet liberava momentaneamente, concedendo a tutti - indistintamente - il diritto all’autodeterminazione (alla separazione) pur essendo in disaccordo politico sulla giustezza di tale separazione. Una vicenda così complessa e una personalità storica così rappresentativa della lotta per la difesa del diritto all’autodeterminazione, non meriterebbero forse un po’ più di attenzione da parte di chi oggi si permette di parlare contro il diritto di autodeterminazione di alcuni popoli in aperto contrasto con le sue idee?

A leggere ciò che si scrive sui recenti avvenimenti tibetani, sembrerebbe di no. Questo scarso rispetto per il lascito teorico di Lenin mi sembra francamente presuntuoso e ovviamente foriero di posizioni nazionalscioviniste della peggior specie. Alcuni di questi interventi (Moreno Pasquinelli) sono indirizzati a me; altri (Roberto Gabriele) mi tirano in ballo per aver reso esplicita la mia posizione a fianco del popolo tibetano, quando ho diffuso (21 marzo 2008) il testo dell’autocritica sul Tibet - per aver appoggiato nel passato l’occupazione maoista - che scrissi spontaneamente e in tempi insospettabili in un libro del 2007.
Al riguardo desidero aggiungere un dettaglio «autobiografico» in più, sperando di non tediare il lettore.
Conoscevo la Quarta internazionale (il Segretariato unificato di Maitan) dai primi anni ‘60, ma chiesi di entrarne a far parte ufficialmente alla fine del 1966. La persona che mi «reclutò» - Sirio di Giuliomaria - era il numero 2 dopo Livio, uno di quei trotskisti tosti e tutti d’un pezzo, e la sua dedizione alla causa, unita alla sua indiscutibile preparazione, ebbero un certo effetto sul giovane ventenne (ma Sirio lo conoscevo da molto prima) desideroso di cambiare il mondo. Dal 1965 avevo anche cominciato a frequentare regolarmente i corsi dell’Ismeo (fino al diploma che sostenni in pieno ‘68), avendo scelto come materie principali la lingua hindi e Cultura generale dell’India, e come secondaria il russo. Insomma, sull’India e quindi sul Tibet, all’epoca ero abbastanza preparato (molto più allora che non oggi).

Entrando nella Quarta, e disposto a bermi quasi tutto, ebbi da ridire con Sirio solo sulla questione del Tibet: come potevano i trotskisti appoggiare la politica militaristica e snazionalizzatrice dei cinesi nei confronti di un popolo di così antica civiltà e di così alta cultura, un popolo che aveva cominciato a combattere i cinesi dal VII-VIII secolo e praticamente non aveva mai smesso soprattutto dopo l’occupazione da parte della dinastia Manciù durata dal XVIII secolo fino alla prima decade del ‘900?

Sirio mi diede la spiegazione ufficiale dell’epoca: la Cina, Stato operaio burocraticamente deformato, con l’invasione importava in Tibet un sistema sociale storicamente superiore rispetto ai tratti di feudalesimo che ancora prevalevano nel Paese, compiendo così - suo malgrado - una trasformazione sociale oggettivamente progressista. Che sistema sociale avessero importato le truppe di Mao, non era chiaro, visto che la Quarta giustamente non considerava la Cina un paese socialista, ma una dittatura burocratica staliniana affine all’Urss. In seguito avrei capito che tutto il «progresso» consisteva né più né meno in un processo di «assimilazione» sociale di tipo coloniale al regime stalinista cinese, così come assimilazioni analoghe erano avvenute nei regimi stalinisti europei dopo la Seconda guerra mondiale. Restava l’idea mostruosa che un Paese avesse il diritto di farne «progredire» un altro con l’invasione armata.

Anche sul momento, comunque, la cosa mi parve un po’ strana perché, nelle misere condizioni in cui continuava a vivere la popolazione tibetana (priva del benché minimo diritto democratico, ma anche di un’industria nazionale o mezzi idonei di sussistenza), non riuscivo a vedere un progresso sociale autentico: diciamo che nella povertà e nell’arretratezza di quel paese, inglobato però nell’area maoista, vedevo un bicchiere mezzo vuoto, mentre la spiegazione di Sirio me lo fece apparire mezzo pieno.

Che i Tibetani avessero cercato di scrollarsi di dosso l’invasione del 1950 con la grande rivolta del 1959 (soffocata atrocemente nel sangue da parte dell’occupante cinese), non mi parve all’epoca un elemento degno di maggiore attenzione. Delle rivolte, invece, che vi sono state successivamente (per es. nel triennio 1987-1989), ho invece preso nota e non me le dimentico quando sento oggi raccontare che le recenti manifestazioni indipendentistiche sono state fomentate dagli agenti dell’imperialismo in vista delle Olimpiadi, mentre prima cose del genere non si vedevano. Si vedevano, si vedevano eccome. E si vedranno sempre più perché il Tibet non si arrenderà mai all’occupazione cinese e molto altro sangue dovrà essere versato prima che il sogno millenario di questo popolo si avveri.
Ma per tornare al bicchiere della spiegazione dogmatica, me lo bevvi e continuai a bermelo finché non ebbi occasione di tornare a riflettere sulla questione in occasione di un mio viaggio (insieme ad Antonella Marazzi) nel Tibet indiano, detto anche Ladakh (per inciso, un territorio buddista e di lingua tibetana conteso fra India e Pakistan che, con un ipotetico Tibet libero e indipendente, meriterebbe di ricongiungersi alla casamadre originaria). Era l’estate del 1977, eravamo stati espulsi dalla Quarta da un biennio, avevo già redatto la prima stesura della Dichiarazione programmatica, da un po’ di tempo avevo preso a marciare teoricamente sulle mie gambe ed ero ormai in grado di rendermi conto della bestialità della posizione antitibetana che avevo difeso fino a quel momento. Cambiai posizione senza esitazioni, ma non ebbi l’accortezza di andare a rivedere la sciocca frasetta inserita nella Dichiarazione.

Sirio da qualche anno aveva lasciato la Quarta, aveva rotto con Maitan (che ripagherà anche lui, come altri, cancellandolo di fatto dalla sua autobiografiia - La strada percorsa, Massari editore - dove lo cita solo per cose futili nonostante il ruolo fondamentale che Sirio aveva avuto nella costruzione della sezione italiana per tutti gli anni ‘60).

Racconto queste cose anche perché mi è appena arrivata la notizia che Sirio Digiuliomaria è morto (il 3 aprile), nella modestia e nell’anticarrierismo che avevano sempre caratterizzato la sua vita politica. E quindi questo ricordo «tibetano» valga come necrologio, di ricordo di un altro compagno sconfitto dagli avvenimenti, ma mai corrotto, a differenza di coloro che lo deridevano per il suo «settarismo» e che appartengono tutti alla schiera servile degli attuali Forchettoni rossi, effettivi o aspiranti tali.
Per quanto riguarda l’argomento usato a difesa dell’invasione maoista del Tibet - la questione della distruzione dei tratti di feudalesimo che avrebbe dato un connotato progressista all’aggressione - va detto che l’argomento rimbalza in questi giorni, via Internet, ed è alla base dell’argomentazione di tutti coloro che approvano l’invasione del 1950 e la sua attuale continuazione. (Ma se fossero coerenti la «continuazione» non si dovrebbe più giustificare, perché da allora il feudalesimo nelle campagne tibetane in teoria dovrebbe essere stato distrutto, mentre la Cina è diventata a sua volta una potenza commerciale in piena trasformazione capitalistica; non si dovrebbe vedere più, quindi, un senso socialmente «progressista» nell’occupazione del Paese.) Ebbene, ogni volta che sento l’argomento dell’antifeudalesimo a giustificazione dell’occupazione cinese, non posso fare a meno di pensare alla propaganda mussoliniana per l’invasione dell’Etiopia (o dovrei dire «Abissinia»?), dove le truppe italiane compivano la missione «civilizzatrice» di distruggere il sistema feudale dei ras, la struttura vassallare-governativa su cui fondava il proprio potere lo Stato teocratico del negus Hayla Sellase. La giustificazione storica, per l’appunto, era che il fascismo portava in Africa Orientale un sistema sociale superiore - il capitalismo, per giunta nella smagliante forma statual-corporativa - a redenzione di povere genti ancora irretite dal feudalesimo e dalla monocrazia religiosa.

Se volessi contestare le spiegazioni politiche di tutti coloro che negano il diritto all’indipendenza del Tibet sulla base di analisi geopolitiche degli interessi dell’imperialismo nella zona, non saprei veramente da dove cominciare. Ognuno canta la propria canzone e quindi ognuno dovrebbe ricevere una risposta specifica (da me o dai tibetani). Quando per esempio si parla di mire dell’imperialismo si lascia intendere che è quello statunitense, nel passato alleato di Pechino in funzione antisovietica, attualmente grande partner commerciale della Cina, ma nel futuro sicuramente avversario. Curiosamente non si sente mai parlare dell’imperialismo giapponese e dei suoi progetti, oltre alle presenze minori, ma significative, di Germania, Inghilterra, Francia, Italia ecc. Non si capisce nemmeno se le mire dell’imperialismo siano rivolte al territorio tibetano in quanto tale, o se ognuno di questi imperialismi sia interessato a rendere difficile la vita del partner commerciale cinese che, come tutti sanno, è anche molto permaloso. Infatti, nel recente viaggio in Italia, il Dalai Lama non è stato ricevuto in sede ufficiale da nessuna autorità politica, per non irritare la Cina: un trattamento umiliante che non era mai stato riservato nemmeno ad Arafat.
I peggiori, poi, sono gli interventi che trasferiscono la discussione a favore o contro il boicottaggio delle Olimpiadi, rendendo del tutto incomprensibile la problematica in questione (anche perché se le Olimpiadi si tengono a Pechino un qualche consenso degli Usa e della comunità imperialistica internazionale deve pure esservi stato. O no?) Il risultato è che chi osa difendere la tradizionale millenaria aspirazione all’indipendenza del Tibet è, ipso facto, classificato tra quelli che vogliono boicottare le Olimpiadi. E così, invece che di lotta di classe, si finisce col parlare di scempiate o di cronaca spicciola.

[Inciso. Personalmente sono sempre contrario ai boicottaggi di eventi sportivi internazionali, quali che siano le colpe del Paese ospitante. a) In primo luogo perché così non si potrebbero più tenere le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, di nuoto o di ping pong: ditemi voi quanti e quali Paesi hanno oggi le carte in regola sul piano della democrazia e del progresso sociale per ospitare campionati mondiali di qualsiasi genere: l’Italia? la Spagna? la Russia? gli Usa? l’Inghilterra? b) In secondo luogo l’appello al boicottaggio delle Olimpiadi può solo essere rivolto a degli Stati (soprattutto imperialistici, visto l’ingente quantitativo di capitali necessario): in fondo sono loro che organizzano i Giochi e quindi solo loro possono decidere di concedere il boicottaggio; gli atleti sono per lo più ridotti al rango di impiegati statali, con contratto a breve termine, che al massimo possono scioperare e rovinarsi così la carriera o alzare il pugno dal podio dei vincitori. E ditemi voi se ha senso lanciare un qualsiasi appello su una qualsiasi cosa agli Stati oggi esistenti al mondo.
c) In conclusione, che si sia a favore o contro l’occupazione del Tibet, l’appello a favore o contro il boicottaggio dei Giochi serve solo a nascondere la sostanza dei problemi e a deviarla su binari artificiali e fuorvianti. Personalmente sono neutrale rispetto a tutta questa messinscena spettacolare che accompagna Olimpiadi, Mondiali di calcio e altri intrattenimenti «sportivi» di massa. Che si tengano o non si tengano, a me, politicamente, non me ne viene niente: figuratevi ai popoli che lottano per la loro sopravvivenza quotidiana! Fine dell’inciso.]

Resta la tendenza via via crescente alla semplificazione del dibattito politico. Più o meno funziona così: se sei per l’indipendenza del Tibet, sei automaticamente per il boicottaggio dei Giochi e ovviamente un complice dell’imperialismo; anzi sei anche favorevole a un regime feudale, teocratico e, sotto sotto anche un clericale lamaista. Se sei per l’indipendenza della Cecenia, sei anche chiaramente a favore della Cia che da quelle parti smaneggia, nonché ammiratore del sistema efferato di lotta condotto tramite kamikaze (a differenza di quanto accade in Palestina o in Iraq, dove il ricorso allo strumento kamikaze sarebbe invece un indice di progresso e di lotta emancipatrice). Se sei per l’indipendenza del Kurdistan, devi stare ben attento ad esserlo solo per il lato turco, perché quello iracheno o iraniano non si toccano, a meno di non voler fare il gioco dell’imperialismo. Poveri kurdi... Se sei per l’indipendenza del Kosovo, sei chiaramente un agente della Nato, e se continui a difendere i diritti di alcune comunità indie del Nicaragua è perché vuoi sabotare il governo neosandinista di Daniel Ortega (che beh, effettivamente...).

Il bello è che tutto ciò viene detto spesso da persone appartenenti alle aree rossoforchettoniche (Pdci, Prc, Verdi e annessi vari, oltre a intellettuali singolarmente erranti) che per il poco che sono state al governo hanno brillantemente difeso i diritti degli afghani, dei libanesi e altri popoli aggrediti dall’imperialismo, votando a favore delle missioni di guerra in quei paesi. Ditemi voi che discussione si può avere sul diritto di autoedeterminazione dei tibetani con chi ha le mani grondanti di sangue afghano o per aver votato le missioni o per aver caldamente stretto quelle stesse mani. Gli esempi non mancano, ma forse non vale nemmeno la pena di starne a parlare.

Questa degenerazione del dibattito sul Tibet oggi (sul Kosovo ieri, sulla Cecenia l’altroieri, sui Kurdi sempre) è prodotto dalla presunzione di voler dettare delle condizioni politiche per la «concessione» del diritto a lottare per l’indipendenza di questo o quel popolo. Una presunzione che a me non verrebbe mai in mente. Un popolo che lotta, lotta e basta, senza condizioni e senza farsi influenzare dai contesti politici che sono mutevoli. Pensate per es. alla posizione del Campo antimperialista che ci dice che nel 1950 sarebbe stato favorevole all’occupazione del Tibet e oggi, mutata situazione politica, non lo è più. E se la situazione politica cambiasse ancora? Che dovrebbe fare il povero popolo tibetano? Un dubbio che non attanaglia i Cinesi che il paese tentano di occuparlo da ancor prima dell’anno Mille. E poi, siamo sicuri che il popolo tibetano sia al corrente di questi mutamenti politici? Nel caso non lo sia, prima di decidere se interrompere o riprendere la lotta, potrebbe telefonare a coloro che pongono condizioni politiche per la sua indipendenza e chiedere loro quale analisi abbiano al momento del contesto internazionale, geopolitico, macrostrategico ecc. e su quella base decidere se opporsi o non all’occupante cinese.

Ma dico, siamo matti?

Quelli lottano dal VII-VIII secolo d.C. e continueranno a lottare per il proprio diritto all’indipendenza nei millenni a venire, quale che sia il contesto mondiale e quale che sia l’analisi degli ex maoisti nostrani. Gli ex maoisti non li aiuteranno? E ai poveri tibetani che gliene importa? Loro sanno che la lotta per l’autodeterminazione viene condotta essenzialmente sulle proprie forze, sfruttando quando possibile l’aiuto esterno, da qualunque direzione esso provenga. Non vi sono eccezioni storiche al riguardo. Che ci piaccia o no, questa è stata sempre una regola aurea di tutte le lotte indipendentistiche: dalle illusioni da parte nordirlandese nell’aiuto di ambienti vaticani, dei palestinesi in Stati filoimperialistici semifeudali (Arabia Saudita), fino ai partigiani comunisti italiani che collaborarono con le truppe Usa e con i Servizi segreti britannici (che un po’ imperialisti e un po’ invasori lo erano anche loro), pur di liberarsi dell’occupante principale: il nazismo.

Il Campo è addirittura arrivato a redigere 4 condizioni irrinunciabili per concedere il diritto alla lotta per l’autodeterminazione, pretendendo di farlo in continuità con Lenin. Ma Lenin, dal 1913 in poi, gli avrebbe tolto il diritto a considerarsi marxista, come abbiamo dimostrato in tutta la parte precedente. A me, personalmente, una simile presunzione - di stabilire io a quali condizioni un popolo lontano o vicino abbia diritto o no di lottare per l’indipendenza - non sarebbe mai venuta in mente. Non me la sono mai permessa e spero di non arrivarci mai. E comunque, se ci arrivassi, al popolo interessato non gliene fregherebbe niente. Se ha deciso di lottare per l’indipendenza significa che la lotta di classe ai suoi occhi ha preso quella forma là, bella o brutta che sia. E se invece che a sinistra, quel popolo si orienta a destra nella scelta della direzione politica, la colpa è solo della «sinistra» che invece di partecipare alla lotta per l’indipendenza sta lì a spiegargli che se non accetta quelle determinate condizioni politiche, la lotta per l’indipendenza non si può fare. E poiché in queste cose la neutralità non esiste, è come dire che la «sinistra» collaborerà a rafforzare l’occupazione, l’oppressione o la snazionalizzazione a seconda dei casi.
E comunque, anche a volersi far irretire in una discussione presuntuosa su quali sarebbero le condizioni politiche che renderebbero legittima una lotta d’indipendenza, resta il fatto che il discorso si liquefa in diecimila rivoli, perché, come dicevo, c’è chi la canta in un modo e chi la canta in un altro, a seconda della formazione o deformazione ideologica che si porta dietro, oppure a seconda dei rapporti che ha con l’area rossoforchettonica, quando non addirittura con le ambasciate locali direttamente coinvolte da una parte o dall’altra.

Insomma, una grande insalata ideologica, in cui tutti gli antindipendesti appaiono accomunati dalla confusione di cui parlavo nelle prime righe. Si confonde il diritto assoluto e imperituro all’autodeterminazione di uno o altro popolo, con la prospettiva politica immediata che si considera ottimale per l’esercizio di tale diritto, a) per riuscire a vincere o a imporlo e b) per decidere il regime sociale e politico che uscirà dalla lotta d’indipendenza.

Pensate che bella presunzione sarebbe se io mi ergessi a giudice (da indagine preliminare) su cosa dovrebbero fare dell’indipendenza - il giorno che l’avessero conquistata - i tibetani, i baschi o i ceceni. Anzi, secondo le mentalità di cui sopra, io dovrei addirittura porre delle precondizioni politiche sull’esito che dovrà avere la lotta, prima di «concedere» l’autorizzazione alla lotta stessa. Per fare un esempio: se io avessi il sospetto che un futuro Stato palestinese libero non sarà laico ma islamista, non sarà democratico ma violerà a sua volta i diritti delle minoranze (compresa quella ebraica), non sarà socialista ma assomiglierà socialmente all’Arabia Saudita, non sarà antimperialista ma alleato degli Usa, secondo tale logica io dovrei togliere il mio sostegno e dire: o accettate questa mia prospettiva politica o lasciate perdere la lotta d’indipendenza, perché di Stati reazionari ne abbiamo già così tanti che non sentiamo il bisogno di averne uno in più. Prego di andare al di là dell’ironia e di capire la sostanza di ciò che sto dicendo.

Siamo persone che facciamo politica, certo. Alcuni di noi hanno una formazione (o una deformazione), abbiamo delle idee sociali e quindi anche la presunzione (in questo caso sana) di poter contribuire a chiarire i problemi, di poter avere addirittura ragione nell’indicare questa o quella prospettiva.

Ma io non mi permetterei mai d’imporre una mia analisi o un mio programma come condizione preliminare a un popolo che vuole lottare o a una fabbrica che vuole scioperare o a un gruppo di giovani che vogliono spaccare tutto, dicendo loro: guardate che se non tenete conto di tale contesto politico e non fate vostre le seguenti istruzioni (ovviamente anticapitalistiche, antimperialistiche, libertarie ecc.), non solo io non vi appoggio, ma voi non avete nemmeno il diritto a lottare. A parte che tale popolo o tali lavoratori mi manderebbero giustamente a quel paese, io stesso proverei vergogna per aver osato sostituirmi o inserirmi nei meccanismi decisionali di quel dato popolo (o di quel dato gruppo di lavoratori) che, per quanto rozzi, primitivi, corrotti o infiltrati siano, sono pur sempre i loro meccanismi. Loro devono imparare a utilizzarli, a pulirli, a trasformarli in organi di democrazia diretta. Il rivoluzionario esterno (da solo o in associazione) può al massimo dare dei consigli. Magari sono anche consigli giusti, ma sempre come consigli devono essere concepiti e non come precondizioni irrinunciabili per appoggiare o no un popolo che lotta.
Faccio degli esempi personali e poi chiudo. Sono per il diritto all’autodeterminazione dei Baschi, ma non consiglierei loro la separazione dallo Stato spagnolo (forse sarebbe meglio un rapporto federativo). Sono per il diritto ecc. dei Nordirlandesi, ma penso (come molti di loro del resto) che la prospettiva debba essere quella dell’annessione all’Irlanda (che è uno Stato capitalistico, per giunta succube in alcuni aspetti della Gran Bretagna). Sono per il diritto ecc. dei Tibetani, ma penso che l’ipotesi autonomista del Dalai Lama sia ingannevole: ci vuole la separazione vera e propria, ottenibile solo se si verifica un affratellamento con i milioni di lavoratori cinesi che, prima o poi, dovranno cominciare a combattere contro il loro governo reazionario. Sono per il diritto ecc. dei Ceceni, ma la loro situazione è disperata e, francamente, non saprei proprio che consiglio dare loro. Sono per l’indipendenza dei Kosovari, ma penso che debbano liberarsi con ogni mezzo dell’occupazione militare della Nato, della mafia dell’Uck e tentare un’annessione con l’Albania (lasciando ovviamente libera la minoranza serba di fare altrettanto con la sua madrepatria). Sono per il diritto dei Palestinesi - altra situazione disperata - ma penso che se un giorno il contesto internazionale permetterà loro di liberarsi, la prospettiva debba essere quello di un unico Stato, laico e democratico, rispettoso dei diritti di tutte le minoranze (ebraiche, islamiche o cattoliche che siano).

Può darsi che io stia sbagliando in tutte o in alcune delle prospettive che consiglio a questo o quel popolo. Ma è ciò che sono in grado di elaborare sulla base delle mie conoscenze e questo direi a tutti costoro - senza ricatti o condizioni preliminari - ben sapendo, da marxista quale sono e fui, che finché ciascun popolo non avrà vissuto l’esperienza storica dell’acquisizione di una propria indipendenza, non cesserà di lottare, di sacrificarsi, ma anche di frammentare il fronte della lotta contro il nemico comune.

Più le forze dell’anticapitalismo saranno assenti dalla direzione delle lotte di liberazione, più queste ricadranno sotto la cappa di «amici» subdoli, reazionari locali, agenti di questo o quel servizio segreto, di questa o quella superstizione religiosa. Paghiamo ancora il fatto che il Pcf fu contro l’indipendenza per l’Algeria, il Pc inglese per l’Irlanda del Nord o il Pc spagnolo per i Baschi. E paghiamo ovviamente il fatto che lo stalinismo grande-russo abbia massacrato tutti i popoli che non si sono voluti assoggettare, o che il titoismo non abbia integrato socialmente e democraticamente i popoli della ex Federazione jugoslava.

L’ex «sinistra» e l’ex «estrema sinistra» non si presentano certo con una bell’immagine di campioni dell’indipendentismo o della democrazia, all’incontro con i popoli che ancora lottano per tali obiettivi.

La verità è che nei paesi imperialistici la nostra rivoluzione borghese bene o male l’abbiamo fatta (o quasi). Loro, invece, non possono più farla nell’epoca dell’imperialismo mondiale dilagante: resta il fatto, però, che almeno il diritto all’indipendenza non glielo può levare nessuno. No, proprio nessuno, anche se sono sempre in molti a provarci.

(6 aprile 2008)


dal sito  http://utopiarossa.blogspot.com/

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