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giovedì 25 novembre 2010
LE TENDENZE ELETTORALI REALI
di Michele Nobile
Pubblichiamo la quarta parte del saggio di Michele Nobile "La postdemocrazia internazionale e la crisi di legittimità strisciante del sistema dei partiti in Italia". Le prime tre parti sono apparse il 17 e 18 ottobre mentre la quinta è stata pubblicata l'11 novembre.
(Vedere anche "Etichette" sotto la voce Nobile Michele).
In appendice pubblichiamo dati e grafici sulla partecipazione elettorale in Europa, Giappone e Stati Uniti.
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IV. Le tendenze elettorali reali: una crisi strisciante di rappresentatività e di legittimazione.
1. Quando si ragiona su una «società berlusconizzata» e su un possibile «regime berlusconiano», ritengo si pongano due questioni.
La prima è la possibilità che il centrodestra costruisca un blocco elettorale stabilmente maggioritario, in modo che esso diventi effettivamente il «partito dominante di massa» italiano. In tal caso, il 2008 risulterà l’equivalente del 1948, e la vittoria elettorale del centrosinistra nel 2006 una mera parentesi, un incidente di percorso.
La seconda è la caratterizzazione del fenomeno politico Berlusconi e dell’eventuale «regime» che potrebbe risultare, qualora si verifichi quanto sopra: ed è oggetto dell’ultima sezione.
In questa sezione discuto quantitativamente le tendenze elettorali, sulla base delle percentuali di voto calcolate sull’insieme dei cittadini aventi diritto al voto (adv) delle elezioni politiche, europee e regionali; esamino anche tre casi delle recenti regionali, quelli della Lombardia, del Lazio e della Puglia. Questo ci dà una misura del consenso reale per i partiti, che può tradursi, dato il sistema elettorale, in una posizione istituzionale forte, molto più del consenso reale. Questa, però, è ben altra cosa dal consenso reale ed egemonico: semmai, esprime la crisi del parlamentarismo italiano.
2. Il grafico che segue mostra la serie dei risultati elettorali calcolati sugli adv, per tutte le elezioni politiche (Camera), europee e regionali dal 1994. Le serie delle aree politiche di centrosinistra e centrodestra sono costruite sommando i risultati dei partiti a prescindere dal fatto che essi fossero o meno coalizzati. Queste serie mostrano dunque la massima estensione raggiunta dalle aree politiche in termini di consenso elettorale, ma non sono utili, a causa delle distorsioni prodotte dalle leggi elettorali, ad esprimere i seggi acquisiti e il potere acquisito nelle istituzioni elettive; inoltre, sia i fascisti che l’Udc o la sinistra arcobaleno o «radicale» possono, volenti o nolenti, «giocare» in proprio nella competizione elettorale. Per distinguere il consenso espresso per le aree politiche uso le espressioni «centrodestra allargato» e «centrosinistra allargato»; per centrodestra e centrosinistra devono invece intendersi le vere e proprie coalizioni elettorali e governative.
La linea del PdL rappresenta i risultati congiunti di Forza Italia e di Alleanza nazionale anche prima della loro fusione; le distanze tra la linea del Centrodestra e quella del PdL+LN esprimono il contributo portato all’area dai democristiani «di destra», Ccd-Cdu-Udc, dai forchettoni neri e fascisti e altre liste (particolarmente rilevanti nelle regionali); le distanze tra le linee del PdL e del PdL+LN esprimono il contributo specifico della Lega nord.
Da notare che, quanto a consensi, in questi sedici anni il «centrosinistra allargato» ha vinto veramente solo le regionali del 2005: infatti, nelle politiche del 1996 «vinse» solo perché la Lega nord non si coalizzò con Fi e An; e nel 2006 la «vittoria» consistette in una differenza di 25 mila voti a suo vantaggio. Eppure, il picco di massimo consenso per il «centrodestra allargato» risale al 1996, e quel livello è stato da esso riconquistato, e superato di un solo punto di percentuale (41,7%), soltanto nel 2008: in mezzo ci sono dodici anni nei quali il consenso medio del «centrodestra allargato» fu il 30%, con un minimo, per il blocco PdL+LN, del 20% nelle regionali del 2005. Nelle regionali del 2010 il «centrodestra allargato» si attesta a poco più del 30%, il blocco PdL+LN al 25%. Siamo, dunque, molto distanti dal livello del 50-55%, al quale potrebbe giungere nel caso il calcolo fosse effettuato sui voti validi; e siamo anche molto distanti da una «società berlusconizzata», se ci si basa sui dati elettorali.
Quel che salta agli occhi è che, in tre lustri di cosiddetta «videodittatura», l’incremento del nucleo del centrodestra (Pdl+Lega) è modestissimo in punti di percentuale e identico in valore assoluto, 16,6 milioni di voti nel 1994 e nel 2008. In termini assoluti, su un corpo di elettori della Camera che in quell’intervallo di tempo si aggirava sui 47-48 milioni, il nucleo del centrodestra (Pdl+Lega) oscillò tra un massimo di di 17,4 milioni di voti nel 1996 e un minimo di 15,5 nel 2006: le variazioni più ampie furono in massima parte funzione della distribuzione dei voti tra Forza Italia-Pdl e Lega nord; nelle europee e nelle regionali i suffragi scendono: il record minimo fu nelle elezioni delle Regioni statuto ordinario del 2005, 8,6 milioni di voti.
Nel 2006 le coalizioni di centrosinistra e di centrodestra ottennero esattamente lo stesso risultato: il 40,4%; ma nel 2008, mentre il consenso alla coalizione berlusconiana (essendo venuta meno l’Udc) si ridusse al 36,2%, quello per la coalizione veltroniana, già al governo, precipitò al 29%. Nel 2008 il nuovo Pdl si limitò a conservare i voti di Fi+An del 2006, mentre la Lega, dopo un periodo di stagnazione a suffragi dimezzati, tornò al livello massimo del 1996. L’anno più brillante per Forza Italia (e il PdL) fu il 2001.
Osservando il grafico si possono distinguere quattro fasi elettorali (in questo mi distinguo dall’analisi di Filippo Tronconi e Francesco Marangoni, ottima e consigliabile come gli altri lavori a cura dell’Istituto Carlo Cattaneo, che ne distinguono tre: Elezioni regionali 2010. Le tendenze di lungo periodo (1996-2010), www.cattaneo.org; in occasione delle elezioni del 2008 preparai dei documenti con delle aggregazioni volte a isolare i pesi specifici di Fi+An+LN e del Pds-Ds dagli altri partiti, e a evidenziare la posizione dei forchettoni rossi e verdi nell’area di centrosinistra).
Nella prima fase, dal 1994 al 2000 (regionali), il «centrodestra allargato» e PdL+LN mantennero il «centrosinistra allargato» ad una distanza costante, sia pur variabile nei livelli: nelle elezioni europee e regionali di fine secolo il consenso per le due aree politiche cadde significativamente rispetto alle politiche del 1996 (nove punti di percentuale nelle regionali del 2000 su quelle del 1995), ma per il centrosinistra più che per il centrodestra. In questo caso più che la «videocrazia» sembra pertinente, come causa del diverso andamento del consenso calante tra l’una e l’altra coalizione, il fatto che quello fu il periodo in cui il centrosinistra governò l’Italia (e governava anche nella maggioranza delle 15 regioni a statuto ordinario).
Nella seconda fase, coincidente con il governo Berlusconi, il «centrosinistra allargato» tendeva ad aumentare il consenso elettorale, e viceversa l’area opposta, fino al disastro, per il centrodestra, delle regionali del 2005-6 (con le quali il centrosinistra ottenne il governo di 13 delle regioni a statuto ordinario) e alla sconfitta, per un pelo nelle politiche del 2006: che fu decisamente inferiore alle aspettative del centrosinistra, in questo caso grazie a un tour de force mediatico di Berlusconi nell’ultima parte della legislatura, e moderata, in termini di seggi, a causa di una nuova legge elettorale.
La terza fase si riduce all’anno 2008 ma, per quanto transitoria, essa ha una sua caratteristica distintiva che va evidenziata: il centrodestra continuò la rimonta, grazie alla ripresa della Lega nord, mentre il centrosinistra perse voti verso l’astensione, specialmente alla sua sinistra, azzerando la nutrita schiera di parlamentari che era riuscito a garantire a Prc, Pdci e Verdi nelle precedenti elezioni. Ancora una volta, e in modo politicamente più chiaro e mirato, nel 2008 gli elettori di sinistra fecero pagare cara, attraverso la crescita dell’«astensionismo asimmetrico», la disillusione nei confronti delle aspettative nutrite verso il governo Prodi e la «sinistra radicale».
La quarta fase è quella in corso, contraddistinta dalla veloce caduta del consenso per entrambe le aree politiche e per tutti i partiti maggiori dei due schieramenti: adesso l’astensionismo tende a farsi simmetrico, malgrado una leggera rimonta del «centrosinistra allargato».
Le regionali del 2010 possono essere presentate dalla coalizione di Berlusconi come una vittoria, ma in realtà sono solo una correzione rispetto al disastro del 2005, coerente con la successiva rimonta 2006-2008. In termini di consenso sono però un crollo: il PdL perde oltre 4 milioni di voti sulle politiche del 2008 (-40,3%) e 2,4 sulle europee del 2009 (-28,9%); il peso della Lega nord nella coalizione cresce, in termini di voti, dal 22,1% del 2008 al 31,4% del 2010, ma essa perde 117 mila voti sul 2008 (-4,1%) e 195 mila sul 2009 (-6,6%) (dati in Giancarlo Gasperoni, Regionali 2010: confronto con le europee del 2009 e le politiche 2008, dell’Istituto Carlo Cattaneo).
In queste regionali l’astensionismo ha superato tutti i limiti precedenti in una consultazione elettorale non referendaria (il record dell’astensione, oltre il 74%, fu nei referendum del 2003 e 2005), sicché la partecipazione è scesa al 63,5%, ben al di sotto della soglia «fatidica» del 70%, 8 punti al di sotto delle regionali del 2005, continuando un trend iniziato già nelle politiche del 2008 e che potrebbe anche aggravarsi, se è vero il sondaggio per cui, in questo momento, in eventuali elezioni politiche si asterrebbe il 40% degli elettori. Rispetto alle precedenti regionali la crescita media dell’astensione è stata l’8%, massima nel Lazio (11,9%) e Toscana (10,5%), seguite da Liguria, Emilia Romagna e Marche (8,7%) (per il confronto con le regionali del 2005, Elezioni regionali 2010. Chi ha vinto, chi ha perso, di quanto e dove?, dell’Istituto Carlo Cattaneo). Da notare che se la crescita dell’astensione è generale, i picchi interessano regioni dove è al governo il centrosinistra.
3. Per prendere le misure del «berlusconismo» e dell’attuale centrosinistra è utile la comparazione storica.
Nelle elezioni per la Camera tra il 1953 e il 1979, in percentuale degli adv, la Dc oscillò intorno al 35%, il Pci intorno al 24%. Negli anni Ottanta la Dc scese al 27-28%.
Nelle politiche del 1987, i partiti del vecchio centrosinistra (quello del Caf) ottennero il 48% dei voti sugli adv, il Pci il 22%. Nelle politiche del 1992, il vecchio centrosinistra ottenne il 44% del consenso del corpo elettorale; la somma delle percentuali della Dc, del Msi-Dn e della Lega è di un paio di punti superiore al risultato del centrodestra nel 2008. Ma nel complesso, astraendo dalla successiva frantumazione della Dc, il voto per i partiti «borghesi», inclusi quelli decisamente di destra, nel 1992 raggiungeva come minimo il 55%. Questo da confrontarsi con il 13,3% del Pds e il 4,6% di Rifondazione comunista, a cui possono aggiungersi il 2,3% dei Verdi e l’1,5% de La rete: un fronte «progressista» pari al 21,5% del corpo elettorale. Risultati delle prime politiche dopo la mutazione del Pci e giusto un paio di settimane prima che il «caso Chiesa» divenisse «tangentopoli».
La prima considerazione che si può trarre da questi dati è che tutti insieme i tre principali partiti del centrodestra esprimono, nell’arco di 18 anni, una tendenza del livello di consenso inferiore a quello medio della Dc nel 1953-1979.
La seconda considerazione è che nel biennio 2006-2008 il Pdl era 6 punti di percentuale sugli adv al di sotto della media della Dc tra il 1953 e il 1979, collocandosi grosso modo al livello di consenso della fase declinante della Dc, quella degli anni Ottanta. Analogamente, il Pd ha raggiunto il livello medio del Pci nel periodo 1953-79 solo nel 2006-2008.
Il quadro del consenso espresso alla Dc ed al Pci tra il 1953 (o il 1948, caso limite) e il 1979 esprime quella situazione che è stata definita di «bipartitismo imperfetto». Insieme, tra il 1953 e il 1979 Dc e Pci ottennero mediamente il consenso del 59% del corpo elettorale, con un massimo del 66,6% nel 1976; nelle politiche degli anni Ottanta le percentuali furono invece 52% e 51%.
Come è noto, la riforma del sistema elettorale ha mirato e mira, nelle argomentazioni pubbliche, a costruire un sistema di «bipartitismo perfetto» come panacea politica. Ma tra il 1994 e il 2001 la somma dei voti di Forza italia e del Pds-Ds è andata decrescendo, dal 51% al 46,7%; solo con la formazione de L’ulivo e poi del Pd essa raggiunse il 58% nel 2006 e poi, con la formazione del Pdl, il 61,8% nel 2008. E nelle ultime regionali PdL+Pd totalizzano insieme un terzo del consenso del corpo elettorale, diviso esattamente a metà.
Salta agli occhi che, con l’eccezione del periodo 2006-2008, in termini di consenso per i partiti maggiori, possibili candidati alla posizione di «partito dominante di massa», il sistema dei partiti odierno si presenta meno e non più bipartitico che ai tempi della Dc e del Pci, risultato del tutto opposto a quel che i fautori del maggioritario e gli «ingegneri» istituzionali dicevano di attendersi. Il bipolarismo si è invece affermato per le coalizioni nel voto delle elezioni politiche, ed è totale nell’assegnazione dei seggi parlamentari. Minima o nulla appare la speranza di ottenere rappresentanti per terze forze.
4. Se si considerano attentamente i dati del voto e del non-voto, dovrebbe essere chiaro che dopo la crisi del «regime democristiano» non si è ricostituito un singolo «partito dominante di massa».
Per quanto riguarda l’asse verticale dei rapporti tra partiti ed elettorato, se i voti espressi dall’insieme dei cittadini sono una misura della legittimazione a governare, bisogna dire che a 20 anni dalla «bolognina» e a 18 da «tangentopoli», forse solo nell’ultimo biennio si delinea una tendenza, in particolare per quel che riguarda il Pdl, a livelli di consenso avvicinabili a quelli della Dc degli anni Ottanta del secolo scorso.
Ma si tratta, comunque, di una costruzione fragile. Forza italia fu in pratica un non-partito, privo di iscritti fino al 1997, con un’organizzazione inizialmente fornita dal gruppo economico del leader, interamente gestita dall’alto, con un quadro dirigente cooptato; è sempre rimasta sostanzialmente un comitato elettorale, fiancheggiato da clubs (in numero decrescente nel tempo). Un partito post-moderno, nato in un’emergenza, efficace in campagna elettorale, del tutto inadeguato a costruire, come partito, il tipo di egemonia ideologica e di controllo del territorio che era proprio della Dc. Si dirà che nella società dello spettacolo la televisione e internet possono sostituire gli apparati burocratici e militanti dei partiti di massa classici. Vero, ma fino a un certo punto: ci sono i fatti elettorali a dirci che la storia del consenso al centrodestra non è quella di un’ascesa lineare e progressiva. Come dimostrano in modo inoppugnabile le sconfitte elettorali del centrodestra e il livello di consenso, inferiore a quello della Dc, l’oligopolio mediatico berlusconiano non garantisce affatto la vittoria elettorale né l’egemonia politica. Il problema fondamentale posto dalle comunicazioni di massa non riguarda tanto e principalmente la propaganda politica a favore di un determinato partito ma l’atmosfera «culturale» nella quale, per quel che è diventato, naviga a suo agio anche il «centrosinistra».
Il successo elettorale appare frutto più della capacità di costruire e tenere insieme una coalizione di partiti, che pur entro un sistema maggioritario ripropongono una logica proporzionale (o più che proporzionale) nella designazione dei candidati «sicuri» e nei contrasti intracoalizionali, che della massiccia egemonia di un partito.
Non pare che con la formazione del Pdl la situazione sia qualitativamente cambiata.
In termini di consenso il Pdl è pur sempre ben al di sotto dei risultati di cui era capace la Dc prima del 1983; e i risultati di entrambe le coalizioni, anche di quelli del centrodestra, che pure è più omogeneo e coerente del centrosinistra, non possono essere meccanicamente trasformati in quelli di un «partito dominante di massa» (anche volendo considerare la vecchia Dc come una federazione di correnti). La ragione è manifesta qualora si guardi alla Lega nord, partito congenitamente non-nazionale e che, proprio nella stessa misura in cui si sforza di creare una identità «padana», introduce una contraddizione strutturale nel centrodestra; ma anche nella posizione della Udc.
Per concludere: la tendenza reale non è costituita da una inesorabile crescita del «centrodestra»: entrambi i poli tendono a perdere voti, ma il centrosinistra, sicuramente nel 2008-2009, perde più del centrodestra. Nel 2010 il Pd ha perso il 43,3% dei voti sulle politiche del 2008 e il 15,9% sulle europee del 2009; i voti per Idv sono aumentati rispetto al 2008, ma diminuiti sul 2009; la «sinistra radicale» ha recuperato qualcosa sul disastro elettorale del 2008 (quando venne punita con una riduzione del consenso pari al 61,5%, a favore dell’astensione, non del voto «utile»), il +10,9%, ma ha perso ancora sul 2009 (-26,1%).
Il PdL è ora quasi al livello del minimo storico del 2005: come dire che la fusione con An non ha portato alcun guadagno, mentre la Lega migliora i risultati in percentuale ma perde voti sia sul 2008 sia sul 2009; anche l’Udc perde voti. Per i dati elettorali piuttosto che in fase di «berlusconizzazione della società», siamo, invece, in una fase di deberlusconizzazione.
Ma non si tratta solo di questo. In effetti, quel che si delinea in queste tre tornate elettorali è una crisi di rappresentatività dell’insieme del sistema dei partiti, che esprime una razionale disillusione nei confronti di entrambe le aree politiche. Non si tratta di «antipolitica» ma di un giudizio politico: quel che sta accadendo è che l’«astensionismo asimmetrico», che è un giudizio sull’operato dei governi, adesso opera sia sul piano nazionale che regionale, colpendo l’intero sistema dei partiti. Non siamo in presenza del consolidarsi di un «regime» ma di una crisi strisciante di legittimità del sistema dei partiti.
5. I risultati delle regionali in Lombardia.
In Lombardia Formigoni stravince su Penati: 56% sui votanti, 23 punti più del rivale, 3 punti più del 2005. Spettacolare la crescita della Lega nord, in Lombardia più di 10 punti di percentuale sul 2005, tanto da far scrivere a Dino Martirano, sul Corriere della sera del 30 marzo (p. 3), «la Lega Nord è senza freni». I commenti insistono sull’asse Berlusconi-Bossi e sul maggior peso della destra xenofoba leghista dentro la coalizione berlusconiana. Il Popolo viola è costernato. Per Annamaria Rivera, non aver compreso che «la Lega Nord andava esercitando una pedagogia di massa e per le masse è il peccato più grave della sinistra» (Il Manifesto, 31 marzo 2010).
Ma queste valutazioni si basano su calcoli effettuati sui voti validi, non sull’insieme del corpo elettorale lombardo. In Lombardia gli astenuti sono stati 600 mila in più che nel 2005, nel complesso il 35,4% del corpo elettorale, contro il 28,6% delle precedenti regionali (con riduzione delle schede bianche e nulle dal 5% al 2% sugli adv).
Si tratta dello spostamento in blocco della decisione di voto di quasi l’8% dell’elettorato: quanto dovrebbe bastare a indurre prudenza nella valutazione comparativa delle tendenze politiche sulla base dei calcoli sui soli voti validi elettorali.
Calcolato sugli adv, quindi in termini di consenso reale, il trionfo di Formigoni si ridimensiona al 35%, due punti in meno che nel 2005 (e non 3 punti in più), nove meno del 2000.
Nel decennio il trend elettorale di Formigoni è dunque calante, ma ancor più veloce è la «decrescita» dei suffragi per i candidati del centrosinistra, che passano dal 30% del 2005 al 21% del 2010 (sempre sugli adv): Formigoni perde ca. 137 mila voti, Penati ca. 675 mila. E’ per questo che, nonostante Formigoni perda voti, il divario tra i candidati dei due poli aumenta invece che ridursi.
Sulle politiche del 2008 il Pdl ha perso in Lombardia 705 mila voti, ca. 500 mila sulle europee 2009, e ca. 162 mila sulla somma dei voti di Forza Italia e An nelle regionali del 2005.
Si può opporre a questo il successo del voto per la Lega nord, in Lombardia come in Veneto.
Ma quel che può vantare Bossi è di essere finalmente riuscito a rinverdire, grazie a 424 mila voti in più sul 2005, lo strepitoso successo delle regionali di venti anni prima, quando la Lega lombarda ottenne 1.183.493 voti (record ancora insuperato), «sfondando» effettivamente sulla scena nazionale; nelle successive regionali lombarde la Lega si attestò intorno ai 700-800 mila voti. Nel 1990 la Lega lombarda ottenne il 16% sugli adv, nel 2010 il 14,5%.
La crescita del voto leghista è indubbia, ma non è una novità del 2010 bensì, su scala nazionale, del 2008-2009: è stato in questo biennio che i voti per la Lega sono aumentati di 1,3-1,4 milioni, riportando il partito di Bossi ai livelli dei primi anni Novanta del secolo scorso. I risultati della Lega nord nelle elezioni della Camera dei deputati tra il 1994 e il 2008 sono questi, in milioni di voti: 3,2; 3,7; 1,4; 1,7; 3,0. Si vuole seriamente sostenere che tra il 1994 e il 2006 si sia dimezzata l’intensità xenofoba o destrorsa dell’opinione pubblica e che, viceversa, essa si sia raddoppiata tra il 2006 e il 2008? C’è qualcosa che non quadra.
Ma il fatto congiunturalmente più interessante è che la Lega perde voti sulle europee (-195 mila) e sulle politiche del 2008 (-117 mila). Quel che è successo in queste regionali è che il livello amministrativo si è allineato al preesistente trend nazionale iniziato nel 2008, ma quasi fermandolo piuttosto che conferendogli nuovo impulso. Il citato apprezzamento di Martirano sul Corriere suona troppo retorico, un’iperbole non giustificata dai fatti. Ha più senso se riferita, piuttosto che al dato «nazional-padano», al Veneto, dove la Lega più che raddoppia i voti; ma anche qui, guardando ai risultati complessivi, quel che emerge con forza è che mentre il candidato del centrodestra nel 2010 ottiene 162 mila voti in più del 2005, il candidato del centrosinistra ne perde 400 mila, il 35%.
Il voto aggregato di Sel, Prc-Pdci e Verdi nella consultazione del 2010 rappresenta il 43% del voto per le corrispondenti formazioni nelle regionali del 2005 e il 34% dei voti ottenuti nelle politiche del 2006.
Se nel 2005 il voto aggregato per Prc, Pdci, Verdi era pari al 6,3% degli adv, nel 2010 il valore è il 2,7%. Tutti insieme questi partiti ottengono 27 mila voti in più sull’Arcobaleno; ma bisogna precisare che nel 2008 Pcl e Sinistra critica (assenti nelle regionali 2010) ottennero complessivamente 59 mila voti. E resta il fatto che sul totale degli elettori Agnoletto ha ottenuto l’1,13%. Inoltre, a differenza di quanto accade altrove, in Lombardia Sel non guadagna voti sulle europee del 2009 ma li perde: da 106 mila a 59 mila (e li perde, ma molti di meno, anche sommati a quelli dei Verdi).
Assolutamente ingiusto prendersela con il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e i suoi 144.588 voti: il crollo della «sinistra radicale» lombarda, come nel resto d’Italia, viene da lontano, è ha dato il suo contributo all’arretramento complessivo del centrosinistra.
6. I risultati delle regionali in Puglia.
Anche in Puglia l’astensionismo è aumentato, dal 30% del 2005 al 37% del 2010 (ca. 235 mila adv, senza contare bianche e nulle, in riduzione).
Nel caso pugliese il centrodestra lamenta la divisione dello schieramento su due candidature. Sulla base dei risultati effettivi, i suffragi per un unico candidato di centrodestra avrebbero superato quelli per Vendola per poco meno di 50 mila voti: in tal caso la vittoria elettorale sarebbe stata molto più netta di quella di Vendola nel 2005, che fu sul filo di esattamente 3 mila voti. Sul 2005 Vendola ha perso ca. 30 mila voti, il centrodestra nel suo complesso ne ha guadagnati ca. 22 mila. Nel 2010 Vendola ha il consenso del 29% degli adv, mentre i candidati di centrodestra arrivano insieme al 30,5%; nel 2005 si giocò tutto sui decimali.
Calcolate sui voti validi, le percentuali di Vendola e di Palese sono invece rispettivamente il 48,7% e il 42,3%.
Che un candidato come Vendola ottenga il consenso di un terzo degli elettori non è cosa da poco. E’ un successo personale notevole, tanto più significativo considerando che lo scarto tra voto per il Presidente e voto di lista nel caso del centrosinistra è 5 volte più ampio che nel caso del centrodestra (126 mila voti contro 25 mila). E’ anche un successo per Sel, che guadagna ben 50 mila voti sulle europee del 2009. E’ esclusivamente grazie al risultato del neonato partito del Presidente che il voto aggregato per Sel-Prc-Pdci-Verdi in Puglia cresce sia sul 2005 (+67 mila voti) che sul 2006 (+20 mila voti). Ma se nel 2010 Sel ottiene in Puglia più voti di Idv e quasi la metà dei voti del Pd, si conferma il trend declinante della combinazione elettorale Prc-Pdci, che perde il 67% dei voti sulle politiche del 2006 (ca. 130 mila voti) e il 60% dei voti sulle regionali del 2005. Infine, Michele Rizzi, candidato del Pdac, ottiene in Puglia 7376 voti, lo 0,2% sugli adv; nelle politiche del 2008 la somma dei voti del Pcl e di Sinistra critica era 21014.
7. I risultati delle regionali in Lazio.
Nel Lazio l’astensione dal voto nelle regionali del 2005 fu pari al 27,3% (1259532 adv); a questo va aggiunto il 3,6% di voti nulli e schede bianche.
Nelle regionali del 2010 si sono astenute quasi 600 mila persone in più (1846686): l’astensione dal voto è stata pari al 39%: 12 punti di percentuale più della precedente consultazione regionale, ca. 20 in più sulle politiche del 2008. Aggiungendo schede bianche e nulle (4%) il non-voto sale dal 30,9% degli adv al 43%.
A causa delle note vicende in sede di presentazione della lista del Pdl alla Provincia di Roma si ritiene che nel Lazio l’astensione possa aver danneggiato specialmente il centrodestra.
Con 1,4 milioni di voti, la candidata del centrodestra alla Presidenza regionale ha riscosso il consenso del 29,8% dei cittadini aventi diritto al voto: il che corrisponde a ca. 100 mila voti in meno rispetto ai voti espressi a favore del centrodestra (essenzialmente il Pdl) nelle politiche del 2008, ma anche rispetto alla candidatura di Storace nelle regionali del 2005, che ottenne il consenso del 33,1% degli adv.
Guardando al risultato elettorale del Lazio non è affatto possibile sostenere una crescita del «consenso reazionario» al centrodestra: al contrario, il consenso aggregato a questa coalizione si è ridotto.
Il punto, in termini di risultati elettorali, è che anche in questa regione la contrazione del consenso aggregato è stata più ampia per la coalizione di centrosinistra che per quella di centrodestra.
Emma Bonino, la candidata del centrosinistra, ha ottenuto 1,3 milioni di voti, pari al 28,2% degli adv, sicché lo scarto reale tra le candidate dei due poli è di 77693 voti, contro i 106 mila che correvano tra Marrazzo e Storace. Ma rispetto al risultato di Marrazzo, Bonino ha perso esattamente 300 mila voti, il triplo di quelli persi dalla Polverini rispetto a Storace.
In quale direzione sono stati persi?
Se dai risultati complessivi del voto per le liste del centrosinistra nel 2005 e nel 2010 si sottraggono i voti a favore di Prc, Pdci, Fed. dei Verdi e Sel, si vede che il «resto del centrosinistra» ha guadagnato voti sulle precedenti regionali. Nel 2010 l’ U.d.eur ha cambiato bandiera, schierandosi con il centrodestra (più che dimezzando i voti, ora a 21 mila), ma Idv ha moltiplicato per sette i voti del 2005, superando i 211 mila.
Per Prc, Pdci e Fed. dei Verdi le regionali del 2005 furono un grande successo: complessivamente ottennero giusto 300 mila voti (6,5% degli adv).
Viceversa, nel 2010, questi stessi partiti hanno quasi dimezzato il consenso elettorale in valore assoluto e percentuale, rispetto alle precedenti regionali: complessivamente 174.202 voti, pari al 3,7% degli adv.
Non sembra, dunque, che l’astensionismo in Lazio abbia danneggiato in modo particolare la coalizione di centrodestra. Al contrario, rispetto al 2005 il dimezzamento dei voti a Prc, Pdci e Verdi può spiegare circa metà della caduta dei suffragi alla candidata del centrosinistra.
La Federazione della sinistra (Prc più Pdci) ha perso 126 mila voti sul 2005, 48 mila sulle politiche del 2008 (insieme ai Verdi), 294 mila sulle politiche 2006 (conservando dunque solo il 20% del voto di quell’anno). Il trend sostenuto alla riduzione dei voti vale anche per i Verdi, che perdono più del 60% dei suffragi sul 2006 e il 60% sul 2005. Sel invece mantiene la posizione sulle europee del 2009
E’ da ricordare che nel 2008 il Pcl e Sc, assenti in questa tornata elettorale, ottennero ca. 35 mila voti.
ALLEGATO
Dati e grafici sugli iscritti ai partiti e la partecipazione elettorale. Europa, Giappone, Stati Uniti.
Esaminando i dati della tabella 1 è chiaro che in quasi tutti i paesi europei è emersa, durante l’ultima decade del XX secolo, una tendenza comune, ma di diversa intensità, alla riduzione della partecipazione elettorale e alla militanza e fedeltà elettorale ai partiti. Quelli che alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta nel rapporto tra partiti e cittadinanza erano scricchiolii, più o meno allarmanti, dagli anni Novanta sono diventati crepe, in alcuni casi larghe e profonde.
Tabella 1 – Iscritti ai partiti in % dell’elettorato; Variazione % nel numero degli iscritti ai partiti – Paesi europei, 1980-2000.
Iscritti in % elettorato Variazione negli iscritti ai partiti
Inizio Fine in %
periodo periodo
Austria 28,48 17,66 -30,21
1980-1999
Belgio 8,97 6,55 -22,10
1980-1999
Danimarca 7,30 5,14 -25,5
1980-1998
Finlandia 15,74 9,65 -34,03
1980-1998
Francia 7,30 5,14 -64,59
1978-1999
Germania 5,05 1,57 -8,95
1980-1999
Grecia 3,19 6,77 166,67
1980-1998
Irlanda 4,00 3,14 -24,27
1980-1998
Italia 9,66 4,05 -51,4
1980-1998
Olanda 4,29 2,51 -31,67
1980-2000
Norvegia 15,35 7,31 -47,49
1980-1997
Portogallo 4,28 3,99 17,01
1980-2000
Svezia 8,41 5,54 -28,05
1980-1998
Svizzera 10,66 6,38 -28,85
1977-1997
Regno Unito 4,12 1,92 -50,39
1980-1998
Spagna 1,20 3,42 250,73
1980-2000
Fonte:
Peter Mair e Ingrid van Biezen, «Party membership in twenty european democracies, 1980–2000
Peter Mair, «Ruling the void», in New left review, n. II/42, novembre-dicembre 2006, e «Democracy Beyond Parties», UC Irvine, Center for the Study of Democracy, 2005. http://www.escholarship.org/uc/item/3vs886v9
Per quel che riguarda il rapporto tra iscritti ed elettori, all’inizio degli anni Ottanta era facile distinguere paesi con un rapporto alto e paesi con un rapporto basso. Tra i primi spiccavano i paesi più «corporativi» e nordici: l’Austria (con il massimo), la Finlandia e la Norvegia, nonché la Svizzera; tra i secondi, comprensibilmente, i paesi mediterranei appena usciti da lunghe dittature: la Grecia, il Portogallo, la Spagna (con il minimo), ma anche la Francia, la Germania, l’Irlanda, l’Olanda, il Regno Unito. Danimarca, Italia e Svezia erano in una posizione centrale.
All’inizio del nuovo secolo i rapporti si sono decisamente ridotti in tutti i paesi, in alcuni casi quasi dimezzati, ad eccezione di Grecia e Spagna. Riduzioni consistenti si sono verificate nei paesi «corporativi» e nordici, ma in proporzione la caduta del rapporto iscritti/elettori in Germania, Italia e Regno Unito è anche più grande, e consistente in Francia. Spagna e Grecia hanno invece aumentato il rapporto, ma partendo da livelli più bassi.
Nello stesso periodo si ridussero gli iscritti ai partiti: tra circa un quarto e la metà in tutti i paesi, con l’eccezione dei notevoli incrementi della Spagna e della Grecia e di quello, minore, del Portogallo. Molto marcati, invece, i crolli degli iscritti in Germania, Italia e Francia, Norvegia.
I tempi della variazione del rapporto tra elettorato e iscritti e della contrazione degli iscritti mostrano la medesima tendenza, con intensità diverse: riduzione graduale della partecipazione negli anni Ottanta, più decisa nei Novanta. Questo andamento è particolarmente marcato per i partiti di sinistra. Ad esempio, il Pcf contava 632 mila iscritti nel 1978, 604 mila dieci anni dopo, ma 210 mila nel 1999; negli stessi anni il Psf passò da 200 mila a 180 mila e a 148 mila iscritti; il Spd tedesco da 986 mila a 921 mila a 755 mila, il Spö austriaco da da 719 mila a 620 mila a 400 mila. In Italia gli iscritti al Pci caddero da 1,7 a 1,4 milioni tra il 1980 e il 1989, ma i Ds erano 621 mila nel 1998.
I dati sulla partecipazione elettorale puntano nella stessa direzione. La tabella 2 mostra che a partire dal 1950, 10 su 18 paesi presentano tutti i casi minimi di partecipazione elettorale dal 1990 in avanti, e altri tre dal 1979.
Tabella 2 - Anni di minore partecipazione elettorale - Paesi europei, 1950-2008.
Austria 1994, 1999, 2002; 2007
Belgio 1968, 1974, 1999, 2007
Danimarca 1950, 1953, 1953, 1990
Finlandia 1991, 1999, 2003, 2007
Francia 1988, 1997, 2002, 2007
Germania 1990, 1994, 2002, 2007
Grecia 1952, 1956, 2000, 2007
Islanda 1995, 1999, 2003, 2007
Irlanda 1992, 1997, 2002, 2007
Italia 1994, 1996, 2001; 2008
Lussemburgo 1989, 1994, 1999
Olanda 1994, 1998, 2002
Portogallo 1999, 2002, 2005, 2009
Norvegia 1993, 1997, 2001, 2005
Spagna 1979, 1986, 1989, 2000
Svezia 1952, 1956, 1958, 2002
Svizzera 1995, 1999, 2003
Regno Unito 1970, 1997, 2001, 2005
Fonte: Peter Mair, «Democracy Beyond Parties», UC Irvine, Center for the Study of Democracy, 2005. http://www.escholarship.org/uc/item/3vs886v9; dello stesso, «Ruling the void», in New left review, n. II/42, novembre-dicembre 2006; database dell’International institute for democracy and electoral assistance (International IDEA), http://www.idea.int/. La tabella di Mair è integrata da me per gli anni successivi al 2003 e con l’aggiunta di Grecia, Portogallo (dal 1975), Spagna (dal 1977).
Nei grafici da 1 a 5 sono rappresentati i livelli di partecipazione alle elezioni parlamentari dei paesi europei per l’intero periodo postbellico; solo per l’Italia sono stati inseriti i dati delle elezioni regionali, a partire dal 1970. La prima colonna rappresenta sempre le medie tra le prime elezioni dopo la guerra mondiale e il 1979; le tre colonne seguenti rappresentano le medie nei tre decenni fino al 2010: lo scopo è evidenziare la differenza tra i livelli di partecipazione medi nel primo periodo post bellico e la tendenza prevalente negli ultimi decenni. Con ritmi e intensità diverse, nel corso degli anni Ottanta e più marcatamente nei Novanta si palesa una tendenza quasi generale alla riduzione della partecipazione elettorale.
Sia esaminando i movimenti della partecipazione elettorale di ciascun paese sia confrontando i livelli in un momento dato, è evidente che permangono le particolarità nazionali e forti differenze. La partecipazione elettorale in Belgio si mantiene stabile nella forchetta del 90-95% per l’intero periodo postbellico, la Danimarca è stabile tra l’85-87% dal 1960; la periodizzazione dei movimenti della partecipazione è distinta in ciascun paese.
Ad esempio: per le elezioni parlamentari la Francia è passata da una media del 78-80% nel 1945-1973 al 73% del 1978-1986 e al 64% 1988-2007; le elezioni del 1978, 1988 e del 2002 marcano le cadute maggiori (presidente Mitterand 1981-1995, Chirac 1995-2005); per le presidenziali la norma della partecipazione dal 1965 è intorno all’83-84%, ad eccezione delle cadute al 79% nel 1995 e nel 2002, nelle quali l’astensione sembra aver favorito il candidato Chirac. In Germania, nei trenta anni dopo il 1953 la media della partecipazione fu l’88%; nel 1987 cadde all’84% e nel 1990 al 77%: da quell’anno fino al 2005 la media è il 79% (durante i governi di Kohl, 1982-1998, e Schröder, 1998-2005). Nel Regno Unito la partecipazione cadde tra il 1950 e il 1955 dall’83% al 76%, mantenendosi a quel livello fino al 1992; ma tra le elezioni del 1997 (vinte da Blair) e quelle del 2005 la media è il 64%.
In Svezia la partecipazione elettorale crebbe progressivamente tra il 1952 al 1982, anno in cui raggiunse il 91%; da allora e fino al 1994 la partecipazione rimase nella media del trentennio precedente, ma nelle elezione successive è caduta all’80-81%. Dopo la caduta della dittatura e fino al 1993 la media della partecipazione in Grecia fu l’82%; ma dalle elezioni del 1996 si mantiene intorno al 75% (governi del Pasok, 1981-1989, 1993-2004). Dopo la fine del franchismo e il periodo di «transizione», il livello minimo della partecipazione elettorale in Spagna fu il 68% del 1979 (governi Ucd 1977-1982) e quello massimo il con il 79%,delle elezioni del 1979, la prima delle quattro vinte consecutivamente dal Psoe; cadde al 70% nelle elezioni del 1986 e del 1989, e al 68% in quelle del 2000 (vinte da Aznar), per poi attestarsi al 75% (governi di Zapatero dal 2004).
Grafico 1 - Partecipazione elettorale, % - Francia, Germania, Regno Unito,
1945-2007.
Grafico 2 - Partecipazione elettorale, % - Finlandia, Norvegia, Svezia,
1945-2007.
Grafico 3 - Partecipazione elettorale, % - Grecia, Spagna, Portogallo, 1974-2009.
Grafico 4 - Partecipazione elettorale, % - Olanda, Belgio, Danimarca, 1946-2007
.
Grafico 5 - Partecipazione elettorale, % - Svizzera, Irlanda, Italia, 1946-2010.
Legenda: Ch: Svizzera; Ir: Irlanda; It: Italia. Nel caso dell’Italia sono stati inseriti anche i dati della partecipazione nelle elezioni per le Regioni a statuto ordinario, a partire dal 1970.
Fonte: database dell’International institute for democracy and electoral assistance (International IDEA), http://www.idea.int/.
Il grafico 6 mostra i livelli di partecipazione alle elezioni per il Parlamento europeo tra il 1979 e il 2008: i dati sono interessanti per la simultaneità delle stesse e per il livello di legittimazione delle istituzioni europee. L’orientamento di fondo è coerente con i dati sulla partecipazione elettorale e la volatilità a livello nazionale: prevale la tendenza alla crescita dell’astensione a partire dalle elezioni del 1994. In tre decenni la percentuale di votanti è caduta di circa 20 punti in Germania, Francia, Italia, Olanda. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa centro-orientale la percentuale dei votanti è molto al di sotto della media generale: Repubblica Ceca, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria si collocano tra il 20% e il 36%. Tra le elezioni del 1979 (9 paesi) e quelle del 2009 (27 paesi), considerando i paesi interessati come un unico aggregato, i votanti nelle elezioni europee si sono ridotti progressivamente dal 62% al 43%. La contrazione più forte nella partecipazione elettorale si verificò tra le elezioni del 1989 (58%, 12 paesi) e quelle del 1999 (49,5%, 15 paesi).
Grafico 6 - Partecipazione alle elezioni europee - Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, 1979-2009.
Fonte: database dell’International institute for democracy and electoral assistance (International IDEA), http://www.idea.int/.
Grafico 7 - Partecipazione elettorale - Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera, 2000-2009.
Fonte: database dell’International institute for democracy and electoral assistance (International IDEA), http://www.idea.int/.
Legenda: Ch, Svizzera; Uk, Regno Unito; Fr, Francia; Prt, Portogallo; Irl, Irlanda; Fnl, Finlandia; Sp, Spagna; Gr, Grecia; Nrv, Norvegia; Nl, Olanda; Sv, Svezia; Ita, Italia; Dk, Danimarca; Blg, Belgio.
Nel grafico 7 sono rappresentate le medie della partecipazione alle elezioni legislative di 15 paesi europei nel primo decennio del XXI secolo, almeno due elezioni per paese: se si fa eccezione per la Svizzera, tra il minimo (Regno Unito) e il massimo (Belgio) c’è una differenza di 31 punti di percentuale. Si possono però distinguere tre fasce, quasi eguali: sotto la soglia del 70% (Svizzera, Regno Unito, Francia, Portogallo, Irlanda, Finlandia); tra il 70% e l’80% (Spagna, Grecia, Norvegia, Germania, Olanda); tra poco sopra l’80% e il 90% (Svezia, Italia, Danimarca e Belgio). Se includiamo le ultime regionali, la media della partecipazione italiana è il 75,6%.
Si può dire che non solo sia stata varcata la fatidica soglia inferiore all’80%, ma che il limite medio inferiore tenda a spostarsi, nei paesi europei a capitalismo avanzato, verso il 70%: la media di 14 paesi (esclusa la Svizzera) è il 74%.
Il livello di partecipazione media alle elezioni legislative in Europa resta elevato rispetto al Giappone e agli Stati Uniti: nel primo è ora intorno al 62% e nei secondi al 56% (con forti oscillazioni tra un’elezione e l’altra negli Usa, 45-68% nel 2000-2006). Il grafico 8 mostra però anche in questi paesi la stessa tendenza prevalente in Europa: riduzione della partecipazione negli anni Ottanta e ancor più marcata dagli anni Novanta; i record di partecipazione minima si sono verificati in Giappone, sull’intero dopoguerra, nel 1995, 1996, 2000 2003; negli Usa, a partire dal 1968, nel 1986, 1998, 2002, 2006.
Grafico 8 - Partecipazione alle elezioni legislative –
Giappone 1947-2005, Usa 1968-2006.
Fonte: database dell’International institute for democracy and electoral assistance (International IDEA), http://www.idea.int/.
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