CINEMA

venerdì 11 febbraio 2011

FEMMINISMO


IL FEMMINISMO ITALIANO ALL'EPOCA DEL BASSO IMPERO.
PENSIERO DELLA DIFFERENZA O PENSIERO DELL'OMOLOGAZIONE?

di Deborah Ardilli



I fatti, ovvero le scene di orgia servaggia affiorate alla superficie dalle maleodoranti cloache del Palazzo, sono quelli noti e postillati nei minimi dettagli da tutti gli organi di informazione. La reazione femminile da mettere in campo, stando a quanto si legge nel vademecum della manifestazione convocata per il 13 febbraio, [1] si preannuncia invece improntata alla regola dell’astinenza.

Val quanto dire che non soltanto è stata ufficializzata dalle organizzatrici la raccomandazione di cancellare dai cortei che percorreranno le città italiane i simboli delle appartenenze politiche e sindacali, per inalberare al loro posto le insegne di un femminismo unificato da un ritrovato spirito neorisorgimentale (fra gli slogan ammessi: «la dignità delle donne è la dignità della nazione», «la dignità della nazione è la dignità delle donne»). Nel vademecum si precisa pure che i cartelli dovranno tenere conto della circostanza per cui «la manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, contro altre donne, o per divedere le donne in buone e cattive». La norma di condotta proposta alle manifestanti è dunque quella dell’inibizione del giudizio, cioè dell’esercizio della facoltà di comparare, distinguere, scegliere e comunicare agli altri le ragioni di una scelta. Norma che equivale proprio, nella sostanza se non nelle intenzioni dichiarate, alla linea del silenzio. Si intende: del silenzio che è necessario osservare per riuscire a far felicemente coincidere la «determinazione» a rivendicare la dignità offesa con l’ineffabilità della vita di una Donna Qualunque.

Va detto che la comoda rarefazione di ogni differenza, promotrice di rassicuranti ecumenismi en rose oltre che di impareggiabili banalità, non nasce oggi. Né trova spazio soltanto nella piattaforma dell’iniziativa Se non ora quando. Molti sono coloro che la accettano da tempo senza fiatare. Anche a sinistra, sembra essere diventato un punto d’onore evitare di metterla in discussione. O, quantomeno, rassegnarsi all’idea di trovarsi di fronte a una tappa obbligata del faticoso percorso di soggettivazione femminile chiamato a farsi strada, dopo un ciclo non ancora concluso di devastante «rivoluzione passiva», nella pressoché totale assenza di forti organizzazioni politiche di massa. Di modo che, secondo questo punto di vista, il prevalere di quella che per brevità chiameremo “opzione qualunquista” si spiegherebbe esclusivamente in relazione alle necessità imposte dalle circostanze. E non, per esempio, anche in relazione a una certa qual propensione ad accogliere senza esame (magari nell’inconfessabile convincimento di essere alle prese con una questione di seconda o terza fila) le idee confezionate dalle professioniste della “retta” opinione di sinistra.

Le cose stanno realmente come lo spirito di rassegnazione indurrebbe a credere? Pare lecito dubitarne, se non altro in virtù di una considerazione. E cioè che la maschera di necessità calata sull’obbligo morale di sospendere il giudizio trae una quota rilevante del proprio prestigio dal partito preso a favore di una sorta di «principio irresponsabilità». Proviamo a vedere meglio di che si tratta.

2. Se riferito all’intreccio di sesso, potere e scambio mercantile salito alla ribalta delle cronache negli ultimi mesi, il «principio irresponsabilità» potrebbe esplicitarsi come segue. Poiché «le sventurate risposero» alla chiamata del califfo, l’opinione progressista si macchierebbe di una imperdonabile semplificazione moralistica, nonché di ignavia sociologica, qualora omettesse di dare il dovuto rilievo alla «sventura» che sta all’origine degli afflussi di forza-lavoro femminile al mercato del sesso a cui i potenti si rivolgono per allietare il tempo libero e placare le ansie senili.
È grazie a ragionamenti di questo tipo che la chiacchiera corrente si risparmia la fatica di prendere nota del fatto che la qualità della «risposta» alla chiamata in questione evidenzia nella maniera più eclatante 1) l’affinità elettiva che lega le supposte sventurate alla volontà del padrone e 2) il contributo di “consenso dal basso” riscosso in questo modo dalla legge del padrone. A meno di non voler seriamente sostenere che da un’infanzia tormentata, da una posizione socialmente disagiata, dalle scarse opportunità di accesso a un lavoro gratificante e decentemente retribuito discenda logicamente la necessità, per una donna, di mettersi in fila per una serata di bunga-bunga. E a meno di non voler insinuare che, se ad alcune donne accade di cercare una risposta diversa al dolore di un’esistenza umiliata, questo dipende unicamente dal caso. O dal fatto che «molte sono le chiamate, poche le elette».

Ovviamente quasi nessuno, per quanto amante della provocazione, oserebbe esporsi fino al punto di assolvere fenomeni tanto plateali di servitù volontaria utilizzando la retorica proibita del determinismo assoluto. Esiste però una via indiretta e intellettualmente più raffinata alla deresponsabilizzazione, ed è quella percorsa, per esempio, dalla filosofa femminista Luisa Muraro. Alla quale, occorre riconoscerlo, non manca l’astuzia di toccare un tasto di sicura presa emotiva, quando ci assicura che «la responsabilità delle singole che partecipano a quello spettacolo non è più grande di quella degli operai che lavorano nelle fabbriche di armi. Che non vuol dire: nulla o minima. Non ho dato una misura, ho dato un criterio […]. Dico che le donne che si prestano a farsi strumento della volgarità dei potenti, portano una responsabilità che riguarda principalmente loro stesse, per quello che stanno facendo delle loro vite. Per il resto, per le conseguenze generali, la persona che si trova in basso nella scala sociale porta una responsabilità indiretta e la condivide con tutti noi». [2]

Che dire? Quanto alla pertinenza dell’analogia che fonda e giustifica il criterio messo a punto dalla professoressa Muraro, il buon senso vuole che si faccia almeno sapere quello che la filosofa finge di ignorare. E cioè che il problema della responsabilità dei lavoratori impiegati nelle fabbriche di armi fu avvertito dai settori più avanzati del movimento operaio come una questione talmente cruciale, talmente poco relegabile al foro interiore della coscienza, talmente poco trattabile entro i confini delle biografie individuali, da farne un problema di prima grandezza capace di riversarsi nella battaglia politica (si consideri, per citare un unico esempio significativo, le azioni di sabotaggio vere e proprie realizzate dagli operai dell’industria delle armi di Genova e Legnano nel corso del 1943) e nell’impegno antimilitarista per la riconversione civile dell’industria bellica (si leggano, a questo proposito, i resoconti del convegni promossi dall’Flm alla fine degli anni Settanta).
Il paragone, quindi, potrebbe guadagnare un senso e un minimo di respiro a condizione di essere rovesciato: le avanguardie femministe sapranno essere altrettanto avvertite delle avanguardie operaie? Oppure, e pare di capire che questo sia l’orientamento di Luisa Muraro e del suo seguito,[3] preferiranno dilapidare l’autorità acquisita nel tempo per distribuire alle donne patenti di “innocenza relativa” e annunciare, dalla sommità delle posizioni raggiunte, la meravigliosa inversione di tendenza consistente nel riconoscimento tributato al loro magistero da parte di alcuni uomini?

3. Ma esiste pure un altro e più urgente motivo per respingere al mittente il criterio dell’uguale ripartizione delle responsabilità indirette, sin troppo scopertamente tributario dell’antropologia cristiana dell’universale peccaminosità umana. Accoglierne le ragioni comporterebbe accreditare l’idea che le ricompense concesse dai sultani di turno in cambio di prestazioni erotiche o di altro genere, non possano presentarsi alla coscienza altrimenti che sotto forma di un’irresistibile tentazione. Talmente irresistibile, che l’impresa di sottrarsene potrebbe essere affrontata con successo soltanto una selezionata cerchia di miracolate in odor di santità.

In effetti, da qualche tempo a questa parte, si respira nell’aria un pesante aroma di incenso. Pare proprio un’aureola di santità quella che, per gentile interessamento della vulgata femminista corrente, sta iniziando a circondare la fama di figure, non precisamente riconducibili all’ordine delle carmelitane scalze, come quelle di Veronica Lario, Patrizia D’Addario e Nicole Minetti. Valgano, a questo riguardo, le considerazioni contenute in un recente editoriale firmato da Ida Dominijanni:

"Accade ai regimi di sgretolarsi dall’interno su eventi apparentemente minori. E' quello che sta accadendo al regime sessual-politico di Silvio Berlusconi. Non un contrattacco dell'opposizione, non una sostituzione ai posti di comando del Palazzo d'Inverno. Solo un imprevedibile, lento ma inesorabile, rivoltarsi contro il Sultano delle sue donne. Non serve più neanche che sia consapevole. Consapevole, pubblico, e a suo modo politico era stato il gesto di denuncia di Veronica Lario e di Patrizia D’Addario, la moglie e la prostituta uscite allo scoperto per denudare il re. Il caso di Nicole Minetti, l’organizzatrice del circo delle favorite a pagamento è diverso, e diversamente significativo. Minetti non esce allo scoperto di sua spontanea volontà, e in pubblico continua a coprire e a difendere il premier, negando di aver davvero pensato le cose che di lui ha pur detto al telefono. Ma in privato cede, si sfoga, non ne può più: il prezzo che rischia di pagare è troppo alto, lui è troppo vecchio e “pur di salvarsi il culo non gliene importa niente; e “c’è un limite a tutto”.
La scena si ribalta: chi aveva in mano il gioco ne è giocato, chi stava disciplinatamente al gioco minaccia di alzarsi dal tavolo da un momento all’altro. Il rapporto di potere non regge più. Michel Foucault, uno che di potere se ne intendeva, saprebbe che dire: è proprio nei soggetti che il potere ha meglio conformato a se stesso che si annidano i punti di resistenza capaci di spezzarlo. Un regime che si è costruito imprimendosi sui corpi, vestendoli, agghindandoli, scopandoli, facendoli muovere e parlare a propria immagine e somiglianza non può finire che a opera di quegli stessi corpi, non appena si discostino da quella immagine e da quella somiglianza".  [4]

Ora, non occorre scatenare un sarcasmo crudele e tutto sommato prevedibile sui livelli di propensione antisistemica espressi dai carismi femminili proposti da Dominijanni alla degustazione dell’opinione pubblica, per rendersi conto di quanto sia sfocata l’istantanea scattata sulle rovine dell’impero.
In fondo, è o dovrebbe essere abbastanza chiaro che la narrazione dell’imminente, se non addirittura già realizzato, sfaldamento dell’egemonia berlusconiana ad opera di ex mogli e cortigiane indispettite presuppone non già una particolare dimestichezza con la «microfisica dei poteri» di foucaultiana memoria, quanto piuttosto la condiscendenza di un lettore incline a ridurre il proprio rapporto con la realtà al puro piacere dell’affabulazione.
«Diverso, e diversamente significativo» sarebbe invece lo sforzo (che, a ragion veduta, l’editorialista del «manifesto» si guarda bene dal compiere) di gettare una sonda nella realtà per tentare di capire quali soggettività femminili potrebbero attendibilmente riposizionarsi all’interno dell’«ordine simbolico» incarnato dalle nuove icone ufficiali del post-patriarcato: le operaie Fiat in lotta contro i ricatti di Marchionne? Le studentesse e le insegnanti impegnate nella lotta contro lo smantellamento di quel che resta della pubblica istruzione? Le precarie abbarbicate sui tetti? Le migranti costrette sulla strada? O quelle adibite alla svolgimento dei lavori di cura estromessi dal novero delle responsabilità collettive?
La parola-chiave che entra in gioco e su cui vale la pena disputare è, ancora una volta, “differenza”. Più precisamente, la differenza che corre tra un riconoscibile esercizio di resistenza e un regolamento di conti tra pragmatismo contro altro pragmatismo. Minimizzare per amor di tesi questa differenza vuol dire appunto dare, del potere e dei suoi “anelli deboli”, una rappresentazione spensieratamente approssimativa, piatta e convenzionale. E vuol dire pure aver perso il coraggio di affrontare un tema che, pure, dovrebbe preoccuparci: quello di comprendere in che modo e attraverso quali passaggi un potere aggressivo e falsamente tollerante si sia rivelato capace di assorbire e capitalizzare (nel senso letterale del termine) alcune delle conquiste che, anche in fatto di libertà sessuali, un tempo è stato possibile e giusto imporre a una retroguardia clerico-reazionaria.
Le questioni sul tavolo indicano che di femminismo c’è ancora un gran bisogno. Purché sia un femminismo capace di «dimenticare subito i grandi successi – le parole sono di Pasolini - e continuare imperterrito, ostinato, eternamente contrario, a pretendere, a volere, a identificarsi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare».

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NOTE

[1] Scaricabile dal sito http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com/


[2] L. Muraro, La responsabilità delle donne, 16 settembre 2010, consultabile sul sito www.libreriadelledonne.it

[3] Si veda, al riguardo, l’intervista radiofonica rilasciata da Luisa Muraro a Ida Dominijanni sulle frequenze di Radio 3 nel luglio 2009. La trascrizione è consultabile sul sito della Libreria delle donne.

[4] Cfr. I. Dominijanni, L’altra scena del golpe, «il manifesto», 28 gennaio 2001

9 Febbraio 2011

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