CINEMA

giovedì 17 febbraio 2011



                      IN CINA L’ECONOMIA CRESCE,
                      MA ANCHE LA LOTTA DI CLASSE

                                          di Dino Erba

La notizia che il PIL cinese abbia superato il PIL del Giappone ha fatto esultare i fans del capitalismo, che sperano che dall’Oriente giunga la salvezza di un modo di produzione che fa acqua da tutte le parti. Ma fa acqua anche la loro esultazione, in quanto essi mettono sullo stesso piano il Giappone, che ha un Prodotto lordo pro capite di 34.200$ (2009), alla Cina, che ha un PIL pro capite di 4.900$ (nel 2007 era 7.700, quindi, sull’onda della crisi, il calo è stato del 37%; mentre sale l’inflazione, in gennaio è al 4,9%). In poche parole, sono due realtà incommensurabili.
Inoltre, in Cina sussistono gravi fattori di squilibrio, a partire da quelli di carattere nazionale; da un lato la c’è rivendicazione di Taiwan, dall’altro ci sono le forti spinte autonomiste (se non indipendentiste) in Tibet e in Xinjiang, ma anche in altre regioni.
Ma sono soprattutto gli squilibri economici –tra città e campagna, ma anche tra provincia e provincia – a minare alla base il presunto sviluppo cinese; gli squilibri oggi si intrecciano con la crisi globale. Gli esitipotrebbero essere devastanti. In un precedente articolo ho messo in luce il pericolo di una carestia (Tunisia, Egitto e poi? La Cina?), prevista per l’inizio della prossima estate. Per la primavera, è prevista invece un’ondata di lotte operaie, come annuncia l’interessante articolo di Jean Ruffier, che allego.




           TENSIONI SOCIALI NELLA CINA DEL SUD:
           VERSO LO SCIOPERO GENERALE?

                                              di Jean Ruffier

L'autore è ricercatore del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) e Direttore del Centre Franco-Chinois de Recherche en Gestion (CFCRG).
Traduzione e note a cura di Dino Erba.



È finita l’era degli operai cinesi sottomessi e mal pagati. Uno studio del CNRS sul Sud della Cina mostra una nuova combattività, che potrebbe sfociare in uno sciopero generale. Se il Sud della Cina – in particolare la provincia del Guangdong (1) – è divenuta l’officina del mondo, ciò è dovuto a molte ragioni; ma la più ripetuta è quella riguardante la manodopera laboriosa, ubbidiente, che accetta senza lamentarsi bassi salari e cattive condizioni di lavoro.
Negli ultimi venticinque anni c’è stata una crescita ininterrotta e i salari sono un po’ mossi. Le statistiche ufficiali cinesi mostrano anche che i salari sono alquanto diminuiti, in rapporto al PIL.

Una primavera operaia nella Cina del Sud?
Da un anno, vediamo che i conflitti operai si moltiplicano. Sulla spinta di questi fatti, i salari salgono. I giornali hanno anche fatto notare che molti conflitti, nelle fabbriche di Taiwan e del Giappone, si sono risolti con aumenti salariali. Il movimento è talmente forte che sempre di più gli osservatori parla della possibilità di uno sciopero generale nella Cina del Sud. Senza fare previsioni azzardate, ci sembra che stiano maturando le condizioni per una primavera operaia nella Cina del Sud, esplosivo o serpeggiante, un movimento che è già iniziato; tutto induce a pensare che si svilupperà nei prossimi mesi.
Il Centro franco-cinese di ricerche sulle organizzazioni, dell’Università Sun Yatsen di Canton, ha avanzato osservazioni in base a discussioni con le imprese, i sindacati, gli attivisti e le dirigenze politiche, di cui riferiamo in questo articolo e che consentono di farci un’idea di quanto dobbiamo attenderci.

Perché scendere in sciopero?
Mancur Olson è un economista americano famoso per una teoria sull’azione collettiva, pubblicata nel 1965. Secondo lui, lo sciopero è in primo luogo il risultato di un calcolo:
gli operai considerano ciò che rischiano di perdere (ore non pagate, repressione) e ciò che possono guadagnare (aumento del salario).
Questa idea di cercare l’interesse ben corrisponde allo stato d’animo di molti operai cinesi. Secondo Olson non ci sono scioperi senza imposizione, perché, sul piano individuale, c’è sempre interesse che gli altri facciano sciopero per avere un aumento, senza però farlo personalmente, per non perdere del salario.
L’imposizione richiede un minimo di organizzazione, e ciò spiega perché, fino a ora, sia tanto difficile organizzare scioperi in Cina, sappiamo che lo Stato cinese schiaccia subito violentemente ogni organizzazione concorrente con il Partito. Gli operai di oggi non assomigliano per nulla a quelli di ieri. Nella Cina dei primi trent’anni del regime comunista, essere operaio voleva dire avere un certo livello di istruzione e il privilegio di lavorare per lo Stato. Era una ruolo invidiato.
Le riforme hanno ridotto notevolmente il numero degli operai delle aziende statali, a vantaggio delle aziende private. Queste ultime hanno massicciamente assunto giovani senza istruzione, venuti dalle zone rurali povere.

Una nuova generazione di operai.
Trent’anni dopo il decollo industriale, siamo arrivati alla seconda generazione di operai d’origine rurale. Questa seconda generazione è più istruita della prima. Ha l’esperienza della prima generazione, e soprattutto ha conosciuto solo la crescita.
La prima generazione di operai d’origine rurale aveva conosciuto la guerra civile e periodi di fame. La generazione attuale sa che cos’è la miseria, ma raramente si ha fatto i conti con la fame e, del tutto eccezionalmente, con la repressione. È una generazione che crede nel proprio avvenire.
Questi operai hanno lasciato villaggi da cui i giovani fuggivano e in cui infieriva una disoccupazione endemica.Il reddito medio di un contadino cinese oggi è di circa 100 euro all’anno, quello di un operaio è dieci volte superiore. Quindi, gli operai di origine rurale hanno vissuto una vera e propria promozione sociale.
Vent’anni di considerazioni sulle fabbriche cinesi ci hanno mostrato l’evoluzione della mentalità di questi operai, evoluzione che leghiamo alla concreta esperienza vissuta da questi operai. È impossibile descrivere la miriade di opinioni degli operai cinesi, ma possiamo tentare di mettere in luce alcune costanti dei loro discorsi, allorché questi rimandano alle situazioni considerate. La stampa insiste molto sulle condizioni di lavoro che non sono migliori di quelle degli altri Paesi del terzo mondo. Queste condizioni sono naturalmente vissute male, ma sono anche concepite come una fatalità, e nel complesso non avviliscono.
Al contrario, aumenta l’intensità del lavoro. Vent’anni fa, la maggior parte delle fabbriche che vedevo non aveva certo condizioni di lavoro invidiabili, ma i ritmi di lavoro raramente erano sostenuti. C’erano molte ragioni. Da un lato i salari erano così bassi che non era necessario esigere una forte quantità di lavoro. Forse, la ragione principale è che non è semplice far lavorare gli operai. Se uno lavora troppo, finisce per logorarsi, anche se è un cinese. Taylor ha dimostrato che per riuscire ad aumentare l’intensità del lavoro manuale occorre mettere in campo molto lavoro intellettuale, e le fabbriche cinesi mancano d’organizzazione. Quindi, solo molto gradualmente sono stati aumentati i ritmi di lavoro. Gli orari sono stati allungati, a causa di una crescente domanda di lavoro.
Anche gli impiegati e i quadri hanno conosciuto una crescita dell’intensità del loro lavoro, poiché essi volevano aumentare il loro reddito., lavorare di più per guadagnare di più era molto di moda a quell’epoca. Questa bulimia di lavoro ha nutrito una forma di nazionalismo trionfante.
Durante gli anni 2004-2006, abbiamo sentito amici cinesi ridere della presunta pigrizia degli occidentali, i quali, secondo loro, erano più preoccupati di moltiplicare i loro giorni di festa, invece che sviluppare la loro economia nazionale. Essi ci dicevano che l’economia cinese stava diventando la più potente, perché i cinesi, loro, non avevano paura di lavorare, e accettavano di lavorare molto per salari bassi. Oggi, questi discorsi si sentono meno. Dobbiamo dire che i ritmi di lavoro sono cresciuti. Dobbiamo anche dire che si può lavorare intensamente per molti anni, ma non all’infinito. Se si lavoro molto, si finisce per logorarsi, anche se è un cinese.


Lavorare meno e guadagnare di più.
Oggi, sentiamo molti cinesi che dicono di voler lavorare meno. Gli operai più spesso mettono l’impegno nel lavoro in relazione con i guadagni che ne risultano.
«Abbiamo lavorato come forsennati per anni, e guardate chi si è arricchito, noi No!». Se questi operai guadagnano più dei loro genitori, essi vivono anche in un mondo più complesso. I salari dei lavoratori cinesi non sono aumentati al ritmo della crescita economica cinese. Restano salari da Paese del terzo mondo in una regione il cui PIL pro capite raggiunge quello dei Paesi europei meno sviluppati.
Vivere da operaio è un rompi capo. I prezzi dell’alloggio sono balzati alle stelle. Mentre la maggior parte degli abitanti della città possiede l’alloggio, gli operai si rendono conto che non ci riusciranno mai. Sposarsi significa trovare alloggio al di fuori dei dormitori a buon mercato. Allevare un figlio in città il più delle volte è fuori dalle possibilità economiche di un operaio. Spesso la scelta è quella di lasciare il bambino presso i nonni in campagna, o di rimandare all’infinito la nascita. E da un po’ di tempo, i costi dei generi alimentari si impennano.
Qualche anno fa, gli operai avrebbero considerato il loro destino con fatalismo, poiché non scorgevano vie di miglioramento. Ma oggi sentono parlare dei salari ottenuti in alte fabbriche in seguito a scioperi, e si rendono conto di essere mal pagati. Non hanno conosciuto la repressione, sono abituati a cambiare facilmente fabbrica e non temono la disoccupazione; da allora, non hanno paura di scendere in sciopero.
Bisogna dire che a differenza dei loro genitori questi operai generalmente sono figli unici, ovvero sono stati abituati a trattare con adulti che gli danno tutto: e tanto più mal sopportano le frustrazioni. Se non scendono più spesso in sciopero, è perché la maggior parte di loro non sa come si fa.

I datori di lavoro sbigottiti di fronte alle tensioni.
Di fronte al mutato atteggiamento degli operai, i datori di lavoro privati spesso appaiono sbigottiti. I datori di lavoro privati cinesi era abituati a operai docili, ma poco fedeli. Si arrangiavano con un forte turn-over, dal momento che non avevano alcuna difficoltà a reclutare.
Il turn-over appariva come il mezzo migliore per gestire le tensioni. Quando il reclutamento di nuovi salariati si fece più difficile, bastò aumentare un po’ i salari, oppure migliorare le condizioni di alloggio.
Nelle interviste ai padroni, che portiamo a fondo, gli operai solo raramente apparivano come una grossa preoccupazione. Ora, quegli stessi padroni si ritrovano di fronte a persone che discutono apertamente di salari, e per loro questa è una novità. Essi si richiamano all’autorità, alle virtù confuciane dell’obbedienza e dimostrano grossolanità nei rapporti con gli operai.
I datori di lavoro sono ancor più disarmati di fronte a cambiamenti, che hanno poche occasioni di discutere a fondo con i colleghi. Ricordiamo che gli impiegati cinesi, come gli operai, non hanno il diritto di organizzarsi.
Il potere comunista conosce abbastanza il pensiero di Karl Marx per capire che se la Cina diventa capitalista, i capitalisti un giorno o l’altro dovranno prendere il potere. E l’attuale gruppo di potere fa di tutto per rimandare il momento in cui questa profezia marxista si realizzerà.
Di fatto, i padroni cinesi non hanno quasi luoghi dove studiare insieme strategie comuni, e neppure mezzi per potersi esprimere collettivamente. Ci sono certo le organizzazioni padronali ufficiali, ma sono dirette completamente da funzionari. Le sole che possono parlare per i padroni sono le organizzazioni padronali di Hong-Kong o le camere di commercio straniere.
Anche i dirigenti delle imprese occidentali sono parimenti presi contro piede da questi mutamenti deglicomportamenti operai. A differenza dei loro omologhi cinesi, essi hanno messo a punto un minimo di gestione del personale, e si sforzano di avere buoni rapporti con i loro salariati. Per cui, essi conoscono meglio il personale e generalmente sanno che è suscettibile di scatenare turbamenti.

Non basta aumentare i salari.
Il padronato ha l’impressione di poter mantenere la pace sociale anticipando le rivendicazioni. I loro dipendenti sembrerebbero soddisfatti della situazione e non chiedevano quasi mai aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro. Ecco che ora, dopo qualche mese, si rendono conto che gli aumenti di salario o i miglioramenti concessi non bastano più a calmare le discussioni nei reparti. Hanno l’impressione di aver fatto regali a persone che ora gli dicono che avrebbero dovuto dare di più. Questa, per la Cina, è una nuova situazione.
Certamente, si aspettavano di dover aumentare i salari. Sono stati alquanto sorpresi di non averlo fatto per tempo. Detto ciò, in materia di salari, i datori di lavoro occidentali hanno una visione differente, a seconda che la loro attività sia o meno rivolta al mercato cinese. Se sono in Cina per trarre vantaggio dai bassi costi e dalle facilitazioni industriali, sono restii a concedere aumenti salariali e hanno la tendensa a prendere il salario minimo come salario base.
Se puntano al mercato cinese, il fatto che una parte più grande della ricchezza nazionale venga ridistribuita gli fa intravedere una crescita del mercato cinese, che dovrebbe rendere profittevole la loro attività e che spesso raggiungono dopo anni. Coloro che puntano al mercato cinese, generalmente hanno politiche più a lungo termine e più favorevoli alla loro forza lavoro. D’altra parte, è in queste aziende straniere rivolte al mercato  cinese che i salariati cinesi desiderano maggiormente lavorare.
Di fronte a operai che non hanno paura dei conflitti, il potere è molto più lacerato sulla questione del rischio sociale. Il potere politico cinese non è un modello di democrazia. I criteri di designazione ignorano le elezioni e avvengono per designazione dall’alto al basso.


Un potere meno monolitico di quanto si pensi.
Il potere è tuttavia meno monolitico di quanto era nell’Europa dell’Est, quando era socialista. Vedute, strategie e situazioni del potere centrale sono molto differenti da quelle dei poteri municipali o dei poteri provinciali. La personalità dei quadri del Partito conta molto. Entrare nel Partito è un’opportunità che non è offerta a tutti e spesso richiede molti sforzi. Ma le motivazioni di ingresso sono le più varie: alcuni desiderano difendere opinioni ideologiche o morali, mentre altri cercano invece l’arricchimento personale.
Il mondo dei poteri cinese è attraversato da dibattiti assai vivaci riguardo alle politiche da realizzare. Questo è particolarmente evidente in merito alla gestione dei conflitti del lavoro. Il potere centrale interviene assai poco in questi conflitti. Se lo fa è sempre in contrasto con le autorità locali e spesso in modo brutale. La sua principale preoccupazione è conservare il proprio potere, ed è con questo criterio che giudicherà di intervenire o meno. Si è sempre opposto violentemente alla creazione di organizzazioni militanti autonome, passibili di nuocere allo sviluppo economico.

La Cina è una «criptocrazia».
Il potere non nasconde la crescita del numero di conflitti sociali. Certo, le statistiche dei conflitti sono fornite con il conta gocce e non sono del tutto affidabili, ma da due anni, il potere nota un costante aumento del numero dei conflitti e dichiara di aspettarsi altri conflitti più consistenti. Un modo per farsi vedere pronto a ogni eventualità.
Detto ciò, sappiamo ben poco sul potere centrale. In sostanza, la Cina rimane una «criptocrazia». I principali dirigenti vivono nell’ombra e lasciano filtrare pochissime informazioni sui contrasti che li coinvolgono.
Molto spesso, al vertice ci sono due dirigenti, di cui uno sembra incarnare l’apertura, mente l’altro gioca la carta della conservazione, un po’ come due marionette di cui non si sa chi tira i fili.
La Cina presenta una forma di potere che ha pochi equivalenti altrove o nel passato. Non si tratta di potere personale, ma di un’oligarchia o di un potere esercitato da una cerchia ristretta. Quello che prese il potere nel 1949, fu un piccolo gruppo di dirigenti, costituito inizialmente dai reduci della lunga marcia. Questo piccolo gruppo costituisce una piccola società chiusa, che si riproduce nel suo seno e conserva dopo sessant’anni le redini del potere. Gli osservatori stranieri in generale sono d’accordo nel dire che le decisioni essenziali sono prese da un collettivo.

Un’oligarchia di eccezionale longevità.
Questo collettivo tiene fermamente le redini di un Partito comunista di numerose centinaia di migliaia di persone. L’oligarchia consente di risolvere il problema di trasmettere il potere da una generazione all’altra. Le stesse persone che furono responsabili degli errori dell’iniziale pianificazione, poi dei crimini della Rivoluzione culturale, sono oggi coloro che dirigono la politica del cosiddetto socialismo di mercato o di apertura. Ciò spiega la longevità del regime.
Si valuta meglio il potere di questa oligarchia quando si constata che il 98% dei miliardari cinesi ha legami di parentela con persone che tengono o hanno svolto funzioni ministeriali. Il vantaggio del gruppo rispetto all’individuo è che quando gli errori del dirigente sono evidenti, egli si trova generalmente nel gruppo di persone che ha già un piano per correggere gli effetti degli errori e proporre soluzioni alternative.
I dirigenti cinesi non sono più intelligenti di quelli di altri Paesi, ma il loro sistema è più «scusante», cioè in un modo o nell’altro corregge gli errori dei dirigenti. E la durata del collettivo è potenzialmente infinita.
Il potere centrale non lavora per i posteri, come farebbe un potentato che sa di dover morire; non lavora neppure per schierare risultati alla data delle prossime elezioni, perché non ci sono vere e proprie elezioni.
Ha la possibilità e l’interesse a far progetti a lungo termine, per se stesso e il per suo Paese. A causa della grande opacità del potere centrale, è difficile prevedere come reagirà di fronte a una crisi sociale superiore.
Di solito, sono le autorità municipali che si fanno carico degli interventi nei conflitti di lavoro. Sono loro che gestiscono la vita quotidiana dei cinesi. Come è noto, gestiscono i diritti sociali, che variano notevolmente da una città all’altra. Il salario minimo generalmente è stabilito a livello cittadino. Di fatto, il sindacato appare
come un’autorità municipale.
Le autorità municipali sono in prima linea nel caso di sommosse. Sicuramente, esse sono sensibili alla pressione del potere centrale, ma la loro azione mira piuttosto a dimostrare che hanno il controllo della situazione.
È capitato che delle municipalità si facessero carico degli ultimi pagamenti di salario in caso di fallimento di un loro imprenditore. Come tutte le città, desiderano accogliere un maggior numero di imprese e ricevere più tasse. Questo significa che nei conflitti, sono più sensibili alle richieste degli imprenditori, piuttosto che a quelle degli operai. Di modo che le città possono mandare la polizia o mobilitare il sindacato per porre termine a un conflitto.

Il Guangdong laboratorio di sperimentazione sociale.
La provincia del Guangdong svolge un ruolo un po’ diverso. Ha la missione e l’ambizione di trovare un punto di sviluppo economico e di apertura politica. È un tentativo già vecchio, ma che recentemente è stato riattualizzato. Nel suo programma, la provincia dovrebbe assumere le sembianze di un Paese sviluppato e abbandonare i retaggi da terzo mondo. Vuole orientarsi verso le tecnologie di punta, le industrie ad alto valore aggiunto, le attività economiche innovative.
D’altra parte è la provincia che maggiormente investe in ricerca e sviluppo, che deposita più brevetti e che riceve i maggiori investimenti stranieri.
Il numero uno della Provincia, il segretario del Partito, prende regolarmente posizioni d’avanguardia. Ha sostenuto le leggi sociali più costrittive di tutte le altre regioni e, soprattutto, vuole farle applicare. Questo dovrebbe mettere in difficoltà quelle industrie la cui strategia poggia principalmente sullo sfruttammento di mano d’opera a basso costo.
Da parte sua, il numero due, il governatore della provincia, appare più preoccupato per l’armonia sociale, ovvero vorrebbe evitare le tensioni che inevitabilmente sorgeranno se un nuovo modello di produzione emargina troppa gente. L’opposizione tra «due teste» è una situazione tipica, l’abbiamo detto. Ma essa può dare l’impressione di un potere esitante, ciò che non facilita il compito di coloro che devono gestire i conflitti.
La provincia ha preso posizioni di punta nella rappresentanza dei salariati.
Attualmente i salariati non hanno alcuna vera forma di rappresentanza, poiché ogni organizzazione che vorrebbe rappresentare i salariati è violentemente repressa. E questo rende particolarmente difficile la gestione dei conflitti, le direzioni aziendali devono indovinare perché c’è un conflitto, senza poter incontrare i rappresentanti dei lavoratori in conflitto.
Ora, nel 2010, il segretario del Partito della provincia ha molte volte insistito sulla necessità di eleggere direttamente i rappresentanti dei salariati. E ha anche proposto una legge in questo senso, ma ha deciso di temporeggiare per l’opposizione di un’organizzazione padronale di Hong-Kong. Le esitazioni del potere sono particolarmente evidenti quando si esamina da vicino il comportamento dei dirigenti sindacali. I responsabili sindacali del Guangdong sono molto divisi sul ruolo dei sindacati e la strategia da attuare nei conflitti.
Nella Costituzione cinese, è in primo luogo un organismo di propaganda del Partito rivolto ai salariati, gran parte dell’azione sindacale consiste in diverse campagne di educazione sociale. Il sindacato non rappresenta i salariati, li difende cercando di migliorare, per quel tanto che riesce, la situazione operaia.

Il sindacato cerca di ridurre le tensioni sociali.
Da una anno, il sindacato si è visto assegnare dal potere centrale una nuova missione: ridurre le tensioni sociali. La prima conseguenza è stata la maggiore presenza sindacale nelle fabbriche. Il sindacato è soprattutto presente nelle aziende di Stato e nelle joint-ventures.
Attualmente, cerca di entrare nelle imprese al 100% straniere. Queste generalmente non sono molto favorevoli, dal momento che considerano il sindacato un’istanza burocratica che appesantisce la vita aziendale, aumenta i costi sociali senza attenuare realmente le tensioni nella fabbrica. Il sindacato è praticamente assente nelle imprese private cinesi. Il sindacato può anche divenire un fattore di disturbo in caso di conflitto. Infatti, in caso di sciopero, il sindacato non esita a prendere l’iniziativa di licenziare i salariati in sciopero o di assumere non scioperanti.
Questo può disorganizzare i reparti, creando inoltre risentimento contro l’azienda. Non è neppure raro che il sindacato mandi la milizia a picchiare gli scioperanti. A volte il sindacato è a fianco dei lavoratori. Detto ciò, il sindacato è oggetto di dibattiti. Abbiamo personalmente partecipato a riunioni di confronto tra sindacalisti
cinesi e francesi, in cui i primi chiedevano ai secondi consigli su come capire i salariati. Abbiamo anche potuto constatare che in Guangdong il dibattito interno può andare più avanti. Si può parlare di una tendenza centrista che considera che, in caso di conflitti di lavoro, il ruolo del sindacato è quello di stare a metà strada tra i padroni e i salariati, al fine di trovare più in fretta una soluzione del conflitto. Ci sono infine sindacalisti cantonesi che ritengono di dover essere decisamente a fianco dei lavoratori contro i padroni.
Questa posizione è più facile da sostenere quando i padroni sono stranieri.
Cosi, nel Guangdong, abbiamo visto un sindacato intervenire in una fabbrica in sciopero per far eleggere dalla base delegati di reparto, i quali sono stati incaricati di negoziare la chiusura del conflitto. Il conflitto si è risolto con un forte e rapido aumento dei salari.
Non tutti i conflitti si risolvono così bene per gli operai. Capita perfino, soprattutto nel caso di padroni privati cinesi, che gli operai non ottengano un bel niente.

Gli attivisti, protagonisti non controllati della lotta sociale.
Per chiudere questo giro d’orizzonte, dobbiamo parlare degli attivisti. Ci sono militanti operai che scappano dal sindacato e si battono per migliorare la condizione degli operai. Alcuni si muovono nell’ambito dell’ONG di formazione o del consiglio. Ci sono spesso studenti che decidono di passare un po’ di tempo per aiutare gli operai a cavarsela. La loro azione consiste soprattutto a informarli sui loro diritti e sulle istituzioni che possono prendere la loro difesa in caso di abusi. È gente coraggiosa, poiché le loro ONG possono costituire gli embrioni di un’organizzazione operaia; quindi, corrono dei rischi.
Allo stesso tempo, le autorità giungono perfino a riconoscere l’utilità della loro attività, che generalmente si mantiene nel quadro legale. Così che, il sindacato può esigere che un imprenditore li paghi per dare ai suoi salariati una formazione riguardo i loro diritti. Si potrebbe dire che la principale spinta di questi militanti sia la compassione.
Ci sono altri attivisti, più decisi nella difesa dei diritti dei lavoratori, compresi gli scioperi. È più difficile incontrare questi attivisti, perché sono perseguitati dalle autorità. Ma non per questo sono meno attivi. Così, abbiamo sentito qualcuno dire di essersi fatto assumere in grandi aziende per far scoppiare uno sciopero. Una volta terminato lo sciopero, questi attivisti tendono a «disperdersi nell’ambiente».
La loro azione non è molto difficile perchè dicono cose condivise dalla gran parte degli operai. In poche parole, spiegano agli altri operai che sono sfruttati e che la loro situazione può migliorare con la lotta. E soprattutto, danno il via al conflitto. È il caso di una multinazionale in cui gli attivisti erano riusciti a convincere un gran numero di operai a scendere in sciopero. Era stata fissata anche il giorno e l’ora. Venuto il momento, nessuno osava scendere in sciopero. Allora, un attivista ha tolto la corrente nel suo reparto. Via SMS, gli operai hanno avvertito i colleghi degli altri reparti, e lo sciopero è scoppiato. Si è quindi esteso alle altre fabbriche della stessa azienda o di aziende da lei controllate. Durò molte settimane e si concluse con forti aumenti salariali, ma anche con licenziamenti, la partenza di tutti i militanti e di alcuni scioperanti.

Il picco dei conflitti non è stato raggiunto.
Nessuno può dire che forma avranno i futuri conflitti. Questo panorama sui protagonisti, la determinazione e la mancanza di paura degli operai, da un lato, la confusione padronale e l’indecisione delle autorità, dall’altro, tutto ciò fa pensare che questi conflitti si moltiplicheranno.
Alcuni militanti o intellettuali immaginano pure che potranno assumere la forma di uno sciopero generale, a partire dall’estensione dei conflitti locali a macchia d’olio.
L’unica cosa che sembra accertata è che non è stato raggiunto il picco dei conflitti. Ci sono ancora margini per aumenti salariali. Tutti questi elementi fanno prevedere che i salari aumenteranno rapidamente nel Sud della Cina. Come abbiamo visto, ciò toccherà appena la presenza delle aziende straniere. Certo, diventeràmeno interessante stabilirsi in Cina per cercare bassi salari, ma coloro che già ci sono rifletteranno prima di andare altrove, quando sta per apparire un nuovo potere d’acquisto.
Dunque, nel Sud della Cina la primavera degli operai è iniziata.

L’autore ringrazia Zhao Wei, della scuola commerciale di Saint-Etienne, che ha riletto e corretto l’articolo.

22 gennaio 2011

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NOTA (1) Il Guangdong è una provincia cinese; la superficie è di 177.900 km2 e la popolazione ammonta a 95.490.000 (cui si aggiungono circa 30milioni di lavoratori stagionali). È la regione cinese più ricca. Nel 2008, fra le province e le municipalità cinesi, il Guangdong si è collocato al 1° posto per valore del PIL; al 1° posto per valore del commercio estero; al 2° posto per l’attrazione degli investimenti esteri; al 6° posto per PIL pro-capite. Il PIL del Guangdong è stato pari a circa 3570 miliardi di RMB, in crescita di quasi il 15% rispetto al 2007. Il PIL pro-capite è stato pari a 37589 RMB (circa 5504 USD) ben al di sopra di quello dell’intera Cina pari a 22698 RMB (3323 USD). Il valore dell’interscambio con l’estero è stato pari a 655,5 miliardi di USD, in crescita del 10% rispetto al 2007 e pari al 26% circa dell’intera Cina. Il valore degli investimenti esteri è stato pari a 28,64 miliardi di USD. Fonte: ICE, Profilo economico della Provincia del Guangdong, Guangzhou (Canton), Maggio 2010, p. 4. Le notizie e foto di scioperi sono tratte da «Asia
News» [ www.asianews.it/notizie-it].
In Francia l’articolo è stato diffuso da numerosi siti, tra cui http://www.rue89.com/

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