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giovedì 3 febbraio 2011
LA RIVOLUZIONE IN TUNISIA :
UN PRIMO INQUADRAMENTO
di Marco Ferrando
La rivoluzione tunisina è in pieno corso. Analizzarne la dinamica, la natura delle forze in campo, i possibili sviluppi , è una necessità politica per i comunisti di ogni paese. Sia per ricavarne utili lezioni dal punto di vista dell’evoluzione della lotta di classe internazionale, sia per farne terreno di battaglia politica nella lotta di classe del proprio paese. Ciò è vero in particolare per i rivoluzionari in Italia, dato lo storico coinvolgimento dei governi italiani di ogni colore ( nella prima e nella seconda repubblica) nel sostegno attivo al regime deposto; e a fronte del ruolo centrale dell’imperialismo italiano nello sfruttamento della manodopera e delle risorse naturali tunisine. In questa sede segnaliamo alcuni primi elementi essenziali.
L’INNESCO DELLA RIVOLUZIONE
I fattori d’innesco dell’ esplosione rivoluzionaria hanno avuto un carattere sia sociale che politico. Certamente la crisi capitalistica internazionale ha contribuito all’esplosione. Il governo tunisino, pressato dalle banche internazionali in ordine al pagamento del debito estero , ha tagliato i tradizionali sussidi pubblici che calmieravano i prezzi dei generi alimentari, determinando una loro rapida impennata. L’aumento del prezzo del pane, dello zucchero, del latte- ingredienti base dell’alimentazione popolare- ha rappresentato inizialmente l’elemento scatenante della protesta sociale. Ma la protesta sociale si è trasformata in rivolta di massa quando ha impattato la crisi politica del regime. Il regime di Ben Alì, nutrito per 20 anni dalle tangenti dell’ imperialismo francese e italiano, aveva progressivamente logorato la propria base sociale di sostegno. Clientelismo, corruzione, familismo presidenziale sbarravano gli spazi di carriera e affermazione delle classi medie. La giovane generazione che si era ammassata nelle scuole non trovava altro sbocco che il supersfruttamento nelle aziende europee o la disoccupazione e la marginalità di strada; mentre la chiusura delle frontiere europee- concordata dai governi imperialisti col regime tunisino- bloccava la vecchia via di fuga dell’emigrazione trasformando la Tunisia in una prigione. In questo quadro , aggravato dalla crisi capitalista, tutti gli aspetti reazionari del regime- censura, abusi polizieschi, repressione sindacale, limitazione drastica delle libertà democratiche- diventavano sempre più odiosi agli occhi dei lavoratori e dei giovani (che peraltro costituiscono anagraficamente la larga maggioranza della società tunisina). Il drammatico suicidio di un giovane ambulante (Mohamed Bouzizi ) umiliato dalla polizia di regime e privato del lavoro ha riunificato, con la propria immagine, la ragione sociale e politica dell’intollerabilità del regime: e per questo ha costituito il fattore d’innesco della sollevazione.
IL RUOLO CENTRALE DELLA UGTT
La rivolta di massa è caratterizzata da una base sociale molto larga. Il proletariato vi ha svolto un ruolo centrale: smentendo una volta di più le teorie liquidazioniste circa il suo peso politico e sociale, in particolare nelle società arretrate. La UGTT ( Unione generale dei lavoratori tunisini)- nata nel lontano 24 e sicuramente la più radicata organizzazione sindacale del Maghreb- ha rappresentato il principale canale di organizzazione di massa della rivolta con la proclamazione dello sciopero generale ( 14 Gennaio), unificando su scala nazionale il movimento di ribellione che si andava propagando in diverse città e paesi , e ponendosi di fatto come il riferimento centrale di tutti i soggetti sociali dell’opposizione popolare (lavoratori pubblici e privati, contadini, disoccupati, studenti, insegnanti, artisti, avvocati..). Non a caso a Tunisi come nelle altre città proprio le sedi del sindacato hanno rappresentato e rappresentano il luogo naturale di concentrazione delle forze, di dibattito politico, di organizzazione delle manifestazioni. La stessa rapidità della propagazione della sollevazione dalle città periferiche a Tunisi sarebbe stata impensabile, senza il ruolo determinante dalla UGTT. Peraltro questo ruolo ha contribuito a consolidare il carattere laico della ribellione sociale, con la relativa marginalità di componenti islamiche ( e a maggior ragione integraliste e panislamiste). Ciò che è molto importante anche dal punto di vista dell’impatto internazionale della rivoluzione, in particolare nel Maghreb.
LA DINAMICA RIVOLUZIONARIA
L’ascesa rivoluzionaria ha avuto una dinamica molto accelerata. Sia sotto il profilo della evoluzione delle parole d’ordine e dei sentimenti di massa, sia per ciò che riguarda il processo di dissoluzione del regime. Lo scontro frontale con la repressione poliziesca, sin dai primi giorni della rivolta, ha rapidamente posto in primo piano nelle manifestazioni di massa le parole d’ordine direttamente politiche. La richiesta iniziale dell’abbassamento dei prezzi alimentari e del sussidio di disoccupazione si è progressivamente trasformata nella rivendicazione delle dimissioni di Ben Alì e del rovesciamento del regime. Ciò ha ridotto e infine annullato lo spazio di manovra di Ben Alì nei confronti del movimento di massa: il tentativo del regime di sedare la rivolta con la promessa di 300.000 posti di lavoro e del ritorno ai prezzi calmierati non solo è caduto nel vuoto ma ha fornito un’immagine di debolezza del governo che ha incoraggiato, a sua volta, la continuità e l’allargamento della mobilitazione. L’impossibilità per il governo di una contromobilitazione reazionaria , data l’estrema ristrettezza della propria base d’appoggio nella società tunisina; e parallelamente la progressiva linea di frattura all’interno dello stesso apparato repressivo dello Stato- tra polizia ed esercito e infine nello stesso corpo della polizia- hanno condannato alla sconfitta i clan dominanti del regime. Tutti i tentativi di Ben Alì di rimanere in sella, o almeno di conservare il controllo politico della situazione ( prima con l’annuncio di nuove elezioni fra 6 mesi e della rinuncia alla propria ricandidatura; poi con l’affidamento del governo ad un proprio diretto fiduciario) sono stati travolti in pochi giorni dall’ascesa rivoluzionaria delle masse. La fuga dalla Tunisia delle famiglie dominanti Ben Alì e Trabelsi ( il clan dell’odiatissima moglie) ha coronato la prima fase della rivoluzione tunisina. Un regime ventennale apparentemente solido, sostenuto da tutti i governi imperialisti europei, è stato rovesciato in una settimana dalla forza di una sollevazione di massa che nessuno aveva ritenuto possibile. La forza criminale di una repressione armata che ha prodotto un centinaio di morti si è rivelata più debole dell’ energia rivoluzionaria dei lavoratori e dei giovani tunisini: gli episodi di fraternizzazione di settori dell’esercito e persino della polizia con i manifestanti è il suggello simbolico di questa verità. Tutto questo rappresenta, di per sé, un’utilissima lezione circa la “possibilità” della rivoluzione, contro lo scetticismo prodotto da decenni di predicazioni intellettuali del riformismo e del centrismo.
UNA NUOVA FASE DELLA RIVOLUZIONE
Ma il rovesciamento rivoluzionario di Ben Alì non conclude affatto la rivoluzione tunisina. Semplicemente apre una sua nuova fase. E proprio la nuova fase che ora si apre costituisce il passaggio più delicato e difficile della crisi rivoluzionaria. Volendo parafrasare la rivoluzione russa del 1917, possiamo dire che la vittoria di una “rivoluzione di Febbraio” non è affatto garanzia di una “Rivoluzione d’Ottobre”, come insegnano due secoli di storia. E che la presenza o meno di un partito rivoluzionario costituisce al riguardo un fattore decisivo.
Tutte le forze della ( debole) borghesia tunisina, dei regimi arabi del Maghreb, dell’imperialismo sono impegnate a costruire un nuovo equilibrio politico che garantisca i loro (diversi) interessi. I settori di borghesia tunisina marginalizzati dal vecchio regime vogliono accaparrarsi le immense proprietà vacanti dei clan Ben Alì e Trabelsi ( terreni, banche, compagnie aeree, hotel, compagnie assicurative, poli turistici..) usando la rivoluzione popolare e il suo sangue come fonte di proprio arricchimento e speculazione. I paesi imperialisti vogliono salvaguardare i propri investimenti e i propri centri di rapina ( banche usuraie e supersfruttamento di manodopera a 300 euro), sgomitando tra loro per la nuova ripartizione annunciata di commesse e affari. Le borghesie arabe del Maghreb hanno il sacro terrore di una possibile propagazione della rivoluzione tunisina, a partire dall’Algeria e dall’Egitto: e per questo si adoperano in mille modi per cercare di stabilizzare la Tunisia.
Ma la stabilizzazione politica, dopo quanto è avvenuto, è assai ardua.
Un primo tentativo in questo senso è incarnato da un governo di “unità nazionale” capeggiato da una parte del vecchio partito di regime ( RCD) , allargato a esponenti dell’opposizione borghese liberale( PDP) e persino inizialmente a tre esponenti sindacali e a un rappresentante del vecchio partito stalinista filomoscovita ( Ettajdid): un governo capeggiato dal Presidente del cosiddetto “Parlamento” ( Mohamed Ghannouchi, RCD) e mirato a recuperare il controllo dalla situazione sociale, a riorganizzare l’apparato repressivo, a garantire gli interessi imperialisti ( pagamento del debito estero incluso). Ma questo tentativo è già in piena crisi. La mobilitazione popolare, inebriata da una vittoria che nessuno avrebbe creduto possibile, non solo continua il suo corso ma chiede la cacciata di tutti gli esponenti del vecchio regime , lo scioglimento del RCD, la punizione dei responsabili dei crimini, una svolta delle condizioni sociali dei lavoratori e dei giovani. Una massa di giovani, di città e di campagna, sta animando una marcia su Tunisi ( “Carovana della libertà”) per chiedere “pulizia” e per questo intraprende l’assedio dei palazzi del governo. Si moltiplicano fenomeni di occupazione da parte di lavoratori e contadini di proprietà, strutture, terreni abbandonati dalle vecchie famiglie dominanti, con la parola d’ordine “ Riprendiamoci i nostri beni”. Il Sindacato UGTT che in un primo momento era entrato nel governo ha dovuto in pochi giorni fare retromarcia e ritirare i propri tre esponenti. Lo stesso ha dovuto fare il partito Ettajdid. Dentro lo stesso apparato dello stato si moltiplicano i fenomeni di smottamento ( come dimostra la partecipazione di centinaia di poliziotti alle manifestazioni di massa contro il nuovo governo). Ovunque la parola d’ordine più diffusa è :” Non abbiamo versato il sangue per gli amici e i complici di Ben Alì”. E’ la richiesta di una svolta profonda.
PER UN GOVERNO OPERAIO E POPOLARE
Il punto decisivo è quale traduzione politica dare a questa domanda di svolta. E’ il punto su cui si sta dispiegando un aperto confronto nella UGTT e nell’avanguardia larga della rivoluzione.
Il Partito Comunista Operaio tunisino, di matrice stalinista, già legato al Partito del Lavoro di Enver Hoxha di Albania, forte di una presenza reale nell’UGT e nelle mobilitazioni, si colloca decisamente all’opposizione dell’attuale governo. L’arresto del proprio segretario Hamma Hammami ( poi liberato ) ,nei giorni della sollevazione, ha accresciuto il suo prestigio. Ma la sua impostazione politica e programmatica riflette fatalmente il suo marchio ideologico. La sua proposta è un governo di vera “unità popolare” tra “tutte le forze partecipi” della rivoluzione ( “UGTT, comunisti, democratici, partito islamista”) su un programma “coerentemente democratico” ( scioglimento degli apparati repressivi del vecchio regime, abolizione di ogni censura, libere elezioni). L’anticapitalismo e il socialismo possono aspettare.. Si tratta della classica riproposizione della rivoluzione “a tappe” ( oggi “la rivoluzione democratica”, un domani “la rivoluzione socialista”) che ha sempre significato e significa rinuncia alla rivoluzione socialista e sacrificio degli stessi obiettivi democratici più conseguenti. E’ l’impostazione del menscevismo nella rivoluzione russa ( poi ripresa dallo Stalinismo), contro cui Lenin e Trotsky hanno combattuto sino alla fine: la stessa rivoluzione d’Ottobre è stata resa possibile dalla sconfitta di quell’impostazione.
Tutta la dinamica della rivoluzione tunisina, la struttura sociale del paese, la natura delle forze in campo, dicono che solo una rivoluzione socialista, solo un governo degli operai, dei contadini, delle masse povere della popolazione , può portare sino in fondo gli stessi obiettivi democratici della rivoluzione. Questo è il punto decisivo.
La rivendicazione di una libera Assemblea Costituente , dello scioglimento dei corpi repressivi dello Stato, dell’arresto della casta degli ufficiali complice del deposto regime, richiedono uno scontro frontale con la borghesia tunisina: che non ha alcuna intenzione di privarsi del proprio scudo protettivo.
La rivendicazione di una radicale riforma agraria, e della redistribuzione della terra, richiede l’esproprio dei grandi latifondi e della grande proprietà terriera, appannaggio della borghesia tunisina o di capitalisti stranieri: che non hanno alcuna disponibilità a sacrificarsi ai contadini poveri.
La rivendicazione dell’indipendenza reale dall’imperialismo è inseparabile dall’ esproprio delle migliaia di aziende straniere sfruttatrici , dalla nazionalizzazione delle banche, dall’abolizione del debito estero: ciò che significa un’inevitabile rottura con i governi europei e con la borghesia nazionale ad essi legata.
La stessa soddisfazione delle rivendicazioni sociali più elementari delle masse, a partire dal lavoro e da un sistema reale di sicurezza sociale, è incompatibile, nelle condizioni date, con la sopravvivenza del capitalismo tunisino e col dominio sociale delle sue classi possidenti.
La conclusione è una sola: tutte le esigenze di fondo della rivoluzione in corso- incluse le rivendicazioni democratiche più elementari- chiedono di fatto di andare al di là della soglia “democratica” della rivoluzione, e pongono apertamente la necessità della rottura anticapitalista. Cioè del potere operaio e contadino.
PER I COMITATI POPOLARI. PER UN GOVERNO UGTT
Proprio per questo una politica coerentemente rivoluzionaria in Tunisia deve ricondurre a questa prospettiva l’agitazione quotidiana e l’intervento di massa. Respingendo ogni soluzione politica o proposta che, direttamente o indirettamente, miri a subordinare la rivoluzione a un quadro “democratico borghese”.
Centrale è oggi la parola d’ordine dei comitati popolari, liberamente eletti nelle città e nei villaggi, e della loro progressiva centralizzazione democratica. Tutto il corso della rivoluzione ha sospinto, in ordine sparso, tentativi di autorganizzazione popolare: per organizzare le manifestazioni, fronteggiare la penuria di viveri, promuovere la controinformazione, difendersi dalla polizia. Non a caso nel dibattito diffuso del movimento si è fatta largo, seppur in modo confuso, un’istanza di autogestione. Si tratta di dare a questa istanza una traduzione vera e compiuta. I comitati popolari elettivi e il loro progressivo coordinamento possono rappresentare l’organizzazione democratica di un nuovo Stato e di un nuovo potere: in cui a comandare siano i lavoratori, i contadini, le masse povere delle città e delle campagne. Questa stessa parola d’ordine va introdotta oggi nelle fila dell’esercito: per ampliare la sua frattura interna , avvicinare la parte più avanzata dei soldati all’organizzazione popolare, favorire attraverso tutti canali disponibili l’armamento popolare. Perché in tutti i processi rivoluzionari è la forza il fattore decisivo, contro ogni illusione democratico-istituzionale. E i comitati popolari possono avere in questo campo una funzione decisiva.
Parallelamente è necessario avanzare un’aperta indicazione di governo, come sbocco delle crisi politica in atto. A tutte le soluzioni e proposte di “unità nazionale” o di governo “democratico”, va opposta la rivendicazione di un “governo dell’UGTT” su un programma anticapitalista. L’UGTT è la struttura di massa unificante della mobilitazione popolare. E’ di fatto la sua attuale direzione. Al suo interno si moltiplicano le contraddizioni e si confrontano posizioni diverse: tra spinte collaborazioniste ben presenti nella sua leaderschip, e spinte radicali di importanti organizzazioni di categoria ( come il sindacato dei disoccupati). La rivendicazione di un governo della UGTT è dunque doppiamente utile. Da un lato corrisponde alle necessità della situazione oggettiva: traducendo in forma concreta la rivendicazione del governo operaio e popolare. Dall’altro si contrappone alla linea riformista dei vertici sindacali, spingendo in avanti le tendenze più radicali del sindacato e del movimento. Nella sostanza l’appello alla UGTT perché rompa con tutti i partiti borghesi e si assuma sino in fondo le sue responsabilità di organizzazione di massa della rivoluzione, è perciò stesso un fattore di chiarificazione politica all’interno del movimento operaio tunisino.
Infine è decisivo un pubblico appello delle organizzazioni di massa delle rivoluzione tunisina ai lavoratori e alle masse povere degli altri paesi, ed in particolare del Maghreb. Se le borghesie del Maghreb si adoperano a recintare la rivoluzione tunisina, i lavoratori e i giovani di Tunisia hanno l’esigenza esattamente opposta: estendere la rivoluzione al di là dei propri confini. Gli attuali sviluppi della lotta di massa in Algeria, le manifestazioni di solidarietà con la rivoluzione tunisina che si sono sviluppate in Egitto e Giordania, le aperte divisioni che si sono prodotte all’interno del regime libico nel rapporto con Tunisi, ci dicono che già oggi la rivoluzione tunisina ha un impatto politico sull’intero Maghreb e sull’immaginario di vaste masse arabe. L’estensione del processo rivoluzionario in altri Paesi dell’area costituirebbe non solo un fattore di consolidamento e radicalizzazione della rivoluzione tunisina, ma un formidabile fattore di crisi dell’imperialismo, in particolare europeo, e del sionismo, a tutto vantaggio della classe operaia europea ( che non verrebbe più ricattata, oltretutto ,dai salari miserabili nordafricani) e del movimento di liberazione palestinese ed arabo. Sviluppare nel proletariato tunisino la coscienza del significato internazionale della propria rivoluzione è un compito decisivo dei comunisti.
PER UN PARTITO RIVOLUZIONARIO IN TUNISIA
Proprio la necessità di questa politica rivoluzionaria e della sua articolazione sul campo richiama la necessità della costruzione e sviluppo del partito rivoluzionario in Tunisia. Il CRQI non ha ad oggi una presenza organizzata in quel paese. Ma il PCL dispone di un contatto prezioso con una piccola area trotskista tunisina che partecipa attivamente alla rivoluzione in corso. Un dirigente di questa area ( Majdi) studia e lavora attualmente a Roma , ha avuto diversi incontri con il PCL, e ha organizzato con la nostra sezione romana il presidio del 15 Gennaio davanti all’ambasciata tunisina, con la partecipazione di numerosi compagni immigrati. Per il 4 Febbraio la nostra sezione di Roma sta preparando un’assemblea pubblica col compagno Majdi e il compagno Grisolia sulla rivoluzione tunisina, con l’obiettivo di coinvolgere diversi compagni tunisini della comunità di Roma. Va da sé che il rapporto con questo ambiente tunisino è molto importante per il CRQI e per lo sviluppo del partito rivoluzionario in Tunisia. La costruzione del partito rivoluzionario e lo sviluppo della sua influenza di massa è ovunque un fattore decisivo per le prospettive del movimento operaio e della rivoluzione.
FARE COME IN TUNISIA
Infine la rivoluzione tunisina è anche un terreno prezioso per la battaglia dei comunisti in Italia.
Sia in riferimento al sostegno attivo alla rivoluzione ( presidi, manifestazioni, assemblee pubbliche con possibile coinvolgimento di compagni tunisini ed arabi). Sia per la necessaria denuncia degli interessi imperialistici italiani in Tunisia ( quasi mille aziende, tra cui Fiat, Eni,Ansaldo, Impregilo…). Ma anche e soprattutto per un’azione di chiarificazione pubblica sul carattere esemplare della rivoluzione. La rivoluzione tunisina dimostra una volta di più che una sollevazione popolare può prodursi come brusca rottura, concentrata e radicale, di un equilibrio sociale e politico apparentemente stabile; che la sollevazione può essere innescata da una combinazione imprevedibile di eventi accidentali, quando tali eventi materializzano simbolicamente agli occhi delle masse l’insostenibilità della situazione generale in cui sono inscritti; che la sollevazione ha una potenza sociale straordinaria- sorprendente per i suoi stessi protagonisti- capace di liberare enormi energie popolari per lungo tempo passive, di rovesciare rapidamente un governo, di paralizzare e dividere l’apparato dello Stato. Questa lezione viva degli avvenimenti tunisini va incorporata alla nostra battaglia per la prospettiva rivoluzionaria in Italia. “Berlusconi come Ben Alì” ,“Fare come in Tunisia” debbono diventare nostre parole d’ordine di massa ( nei volantini, negli interventi, nelle manifestazioni..) all’interno della nostra campagna per il governo dei lavoratori.
24 gennaio 2011
dal sito http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o2032
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