CINEMA

lunedì 7 febbraio 2011

TRE PROBLEMI DELLA RIVOLUZIONE di Daniel Guérin


                  TRE PROBLEMI DELLA RIVOLUZIONE

                                    di Daniel Guérin

Per gentile concessione della Massari editore pubblichiamo questo saggio di Daniel Guérin tratto dal suo libro "Per un marxismo libertario"- Massari ed.2008-



Volin, storico libertario della Rivoluzione russa, dopo esserne stato attore e testimone, scrive:

Un problema fondamentale ci è stata tramandato dalle rivoluzioni precedenti – alludo specilmente alla Rivoluzione francese del 1789 e a quella russa del 1917 – sorte all’origine contro l’oppressione, animate da un potente soffio di Libertà, proclamanti la Libertà come loro obiettivo essenziale: perché esse sono andate a sboccara in una nuova dittatura, esercitata da altri strati dominatori e privilegiati e quindi in una nuova schiavitù delle masse popolari? Quali sarebbero le condizioni per evitare a una rivoluzione una così triste fine? Una tale fine sarebbe, per molto tempo ancora, una specie di fatalità storica: oppure si dovrebbe a fattori passeggeri, o addirittura ad errori e manchevolezze evitabili nell’avvenire? E in quest’ultimo caso, quali sarebbero i mezzi per eliminare il pericolo che già minaccia le rivoluzioni future?”. (1)

Penso con Volin, che le due grandi esperienze storiche della Rivoluzione francese e di quella russa siano indissolubilmente legate. Malgrado le differenze d’epoca, di ambiente, di “contenuto di classe”, il problema che pongono, gli scogli contro i quali hanno urtato sono fondamentalmente gli stessi. Tutt’al più nella prima Rivoluzione si sono manifestati in modo più embrionale che nella seconda. Così, gli uomini di oggi non possono trovare la strada della loro emancipazione definitiva se non riuscendo a individuare nelle due esperienze quanto vi è stato di progressivo e quanto di fallimentare, al fine di trarne lezioni per il futuro.
La causa essenziale del relativo fallimento delle due più grandi rivoluzioni della storia non risiede, a mio avviso – per riprendere le parole di Volin- né dalla “fatalità storica”, né nei semplici “errori” soggettivi dei soggetti rivoluzionari. La Rivoluzione porta in sé una grave contraddizione (che fortunatamente –vi ritorneremo- non è irrimediabile e si attenuerà col tempo): essa non può nascere, non può vincere se non scaturisce dalle profondità delle masse popolari stesse, dallo loro irresistibile sollevazione spontanea; ma le masse popolari, anche se l’istinto di classe le spinge a rompere le proprie catene, mancano di educazione e coscienza. E dato che si scontrano, nel loro slancio straordinario ma tumultuoso e cieco verso la libertà, con le classi sociali privilegiate, coscienti, istruite, organizzate, sperimentate, esse potranno trionfare contro la resistenza che incontreranno solo se riusciranno ad acquisire nel fuoco della lotta la coscienza, la scienza, l’organizzazione, l’esperienza che manca loro.
Ma il fatto stesso di forgiare le armi che abbiamo appena enunciato e che sole possono assicurar loro la superiorità sull’avversario, comporta un immenso pericolo: quello di uccidere la spontaneità che rappresenta il nerbo della Rivoluzione, di lasciar confiscare il movimento da parte di un’élite minoritaria di militanti più istruiti, coscienti e sperimentati, che inizialmente si offrono come guida, per imporsi poi come capi e sottomettere le masse a una nuova forma di oppressione dell’uomo da parte dell’uomo.
Dal momento in cui il socialismo è stato in grado di affrontare questo problema, che ha avuto la percezione di questa contraddizione, vale a dire, in generale, a partire dalla metà del XIX secolo, esso non ha smesso di dibattercisi, di oscillare tra i due poli estremi della libertà e dell’ordine. Ognuno dei suoi pensatori e dei suoi protagonisti si è impegnato, a tentoni e scontando ogni sorta di esitazioni e di contraddizioni, per risolvere il dilemma fondamentale della Rivoluzione. Proudhon, nel suo famoso Mémoire sur la propriété (1840), aveva creduto di trovarne la sintesi, quando scriveva con ottimismo:

La più alta perfezione della società si trova nell’unione tra l’ordine e l’anarchia”.

Ma un quarto di secolo più tardi, constatava con malinconia:

Queste due idee, libertà (...) e ordine si appoggiano l’una all’altra (...). Non si possono separare, né assorbire l’una all’altra; ci si deve rassegnare a vivere con entrambe, equilibrandole... Nessuna forza politica ha ancora trovato la vera soluzione dell’accordo tra la libertà e l’ordine”. (2)

Oggi un immenso impero, costruito sotto le insegne del “socialismo”, cerca penosamente, empiricamente, talvolta in modo convulso, di eludere il pugno di ferro di un “ordine” fondato sulla costrizione, per ritrovare la strada verso la libertà cui aspirano i suoi milioni di adepti, ogni giorno meno rozzi e più coscienti. Il problema, dunque si pone in modo sempre bruciante, e non è stata ancora detta l’ultima parola.
Se si guarda più da vicino, il problema implica tre aspetti relativamente distinti, benché strettamente legati:

1. Nella fase della lotta rivoluzionaria, quali devono essere gli ambiti rispettivi della spontaneità e della coscienza, delle masse e della direzione?
2. Una volta rovesciato l’antico sistema di oppressione, quali forme di organizzazione politica o amministrativa bisogna sostituire a quella che è stata appena sconfitta?
3. Infine, da chi e come dev’essere amministrata l’economia dopo l’abolizione della proprietà privata (problema che si pone in tutta la sua ampiezza per la rivoluzione proletaria, ma che si è posto in modo solo embrionale per la Rivoluzione francese)?

Su ognuno di questi tre punti, i socialisti del XIX secolo hanno esitato, tergiversato, si sono contraddetti, affrontati.
Quali socialisti?
In generale si possono individuare al loro interno tre correnti principali:

a) Coloro che definirei gli autoritari, gli statalisti, i centralisti, eredi, gli uni dalla tradizione giacobina e blanquista della Rivoluzione francese (3), gli altri dalla tradizione tedesca (o più precisamente prussiana) della disciplina militare e dello Stato con la S maiuscola.
b) Coloro che definirei gli antiautoritari, i libertari, eredi, da una parte della democrazia diretta del 1793, dell’idea comunista e federalista e, dall’altra, dell’apoliticismo sansimoniano mirante a sostituire a un governo politico l’ “amministrazione delle cose”.
c) Infine, i socialisti cosidetti scientifici (Marx ed Engels) che tentavano attivamente, e non sempre con coesione e successo – e spesso per motivi tattici (poiché dovevano fare concessioni alle due ali, autoritaria e libertaria, del movimento operaio) – di coinciliare queste due correnti, di trovare un compromesso tra l’idea autoritaria e quella libertaria.

Cerchiamo di riassumere brevemente i tentativi compiuti da queste tre correnti del pensiero socialista per risolvere i tre problemi fondamentali della Rivoluzione.


                               
                               1. Spontaneità e coscienza

Gli autoritari non hanno fiducia nelle capacità delle masse di pervenire da sole alla coscienza; hanno –anche quando pretendono il contrario- un timor panico delle masse. A loro avviso, questesono ancora abbruttite da secoli di oppressione. Hanno bisogno di essere guidate e dirette. Un piccolo gruppo di dirigenti deve sostituirsi ad esse, per insegnare loro una strategia rivoluzionaria e condurle alla vittoria.
I libertari, al contrario, sostengono che la Rivoluzione dev’essere opera delle masse stesse, della loro spontaneità, della loro libera iniziativa, delle loro facoltà creative tanto insospettate quanto straordinarie. Essi mettono in guardia contro i dirigenti che –in nome di una più ampia coscienza- pretendono di imporsi alle masse per poi spogliarle dei frutti della loro vittoria.
Quanto a Marx ed Engels, essi pongono l’accento sia sulla spontaneità che sulla coscienza. Ma la loro sintesi resta zoppa, incerta contradditoria. Conviene del resto precisare che i libertari non sfuggono sempre, anche loro, allo stesso rimprovero. Si ritrovano in Proudhon, contrapposti all’esaltazione ottimistica della “capacità politica della classe operaia”, dei passaggi pessimistici in cui egli dubita della suddetta capacità e si affianca agli autoritari nella loro suggestione che le masse debbano essere dirette dall’alto. (4)
Ugualmente Bakunin non riuscirà mai a liberarsi completamente del cospirativismo “quarantottesco” della sua giovinezza e, subito dopo aver puntato sull’irresistibile istinto primario delle masse, eccolo prevedere l’ “infiltrazione” invisibile di queste da parte di dirigenti coscienti e organizzati in società segrete. Di qui, questo singolare rincorrersi: coloro che egli accusa, a volte non senza fondamento, di autoritarismo, lo accusanodi flagrante delitto di machiavellismo autoritario.
Le due tendenze antagoniste della Prima internazionale si rimprovano reciprocamente, ognuna con qualche ragione, di manovre sotterranee per assicurarsi il controllo del movimento. (5) Si dovrà attendere, come vedremo, Rosa Luxemburg per avere una sintesi abbastanza valida tra la spontaneità e la coscienza.
Ma Trotsky compromette questo equilibrio raggiunto così laboriosamente per portare la contraddizione al suo culmine: egli è per certi versi, “lussemburghiano”; come testimoniano i suoi 1905 e Storia della Rivoluzione russa, il senso e l’istinto della rivoluzione dal basso; egli mette l’accento sull’azione autonoma delle masse; ma alla fine si allinea –dopo averle brillantemente combattute- alle concezioni blanquiste sull’organizzazione di Lenin (6) e, una volta arrivato al potere, arriverà a comportarsi in modo ancora più autoritario del suo capofila.
Infine, nella dura battaglia dal suo esilio,si riparerà dietro Lenin, divenuto tabù, per intentare il processo contro Stalin; e questa identificazione gli impedirà fino alla fine di esprimere quel tanto di lussemburghismo che era in lui.


                                 2. Il problema del potere

Gli autoritari sostengono che le masse popolari, dirette dai loro capi, devono sostituire allo Stato borghese un proprio Stato decorato con l’epiteto di “proletario” e che, per assicurare la sua perennità, devono spingere all’estremo i mezzi di costrinzione usati dal primo (centralizzazione, disciplina, gerarchia,polizia). Questo schema strappa ai libertari –e ciò ancora dopo più di un secolo-grida di spavento e di orrore. A chi giova - si domandano una rivoluzione che si accontenti di sostituire un apparato repressivo a un altro? Avversari irriducibili dello Stato, di ogni forma di Stato, dalla rivoluzione proletaria si attendono l’abolizione totale e definitiva della coercizione statale. Al vecchio Stato oppressore vorrebbero sostituire la libera federazione dei comuni associati, la democrazia diretta dal basso verso l’alto.
Marx ed Engels cercano la loro strada tra queste due tendenze estreme. Essi hanno subito l’impronta giacobina ma, da una parte, il contatto con Proudhon verso il 1844, l’influenza di un Moses Hess, e dall’altra la critica dell’hegelismo, la scoperta dell’ “alienazione”, li hanno resi alquanto libertari. Essi rifiutano lo statalismo autoritario sia del francese Louis Blanc sia del tedesco Lasalle. Si dichiarano fautori dell’abrogazione dello Stato. Ma a termine. Lo Stato, “la farroginosa macchina governativa” deve permanere all’indomani della Rivoluzione solo per qualche tempo. Nel momento in cui le condizioni materiali saranno realizzate permettendo di superarlo, allora “deperirà”. In attesa di quel giorno, bisogna cercare di “attenuarne al massimo gli spiacevoli effetti”. (7)
Questa prospettiva immediata, preoccupa, giustamente, i libertari. La sopravvivenza, per quanto “provvisoria”, dello Stato non dice loro niente di buono ed essi annuniciano profeticamente che, una volta reinsediatosi, il Leviatano (8) rifiuterà ostinatamente di dimettersi. La critica incalzante dei libertari pone Marx ed Engels nell’imbarazzo e li spinge a fare ai loro avversari concessioni tali che a un certo momento la disputa tra socialisti sullo Stato sembra non avere più un oggettoe non essere altroche una semplice disputa verbale. Ahimé! Questo bell’accordo non dura che lo spazio di un mattino.
Ma il bolscevismo del XX secolo rivela che non si trattava di una disputa puramente verbale. Lo stato transitorio di Marx ed Engels diviene, già nella sua forma embrionale, con Lenin e ancor più con i suoi posteri, un mostro tentacolare, che proclama, senza mezzi termini, il proprio rifiuto di deperire.


                              3. La gestione dell’economia

Infine, con quale regime di proprietà sostituire il capitalismo privato?
Gli autoritari non hanno difficoltà a rispondere. Dato che il loro principale difetto è la mancanza d’immaginazione, unita alla paura dell’ignoto, si basano su forme di amministrazione e di gestione copiate dal passato. Lo Stato accentrarà nella sua immensa rete tutta la produzione, tutto lo scambio, tutta la finanza. Il “capitalismo di Stato” sopravviverà alla rivoluzione sociale. La burocrazia, già gigantesca sotto Napoleone, il re di Prussia o lo Zar, non si accontenterà più, in regime socialista, di percepire delle imposte, di arruolare un esercito, di moltiplicare le polizie: essa stenderà i propri tentacoli sulle fabbriche, le miniere, le banche, i mezzi di trasporto.
I libertari lanciano un grido di spavento. Questa esorbitante espansione di poteri dello Stato appare loro come la tomba della libertà. Max Stiner è stato uno dei primi a insorgere contro lo statalismo della società comunista. (9) Proudhon non grida meno forte e Bakunin lo segue:

Io detesto il comunismo –dichiara in un discorso- (...) perché porta necessariamente alla centralizzazione della proprietà nelle mani dello Stato, mentre io (...) vedo l’organizzazione della società e della proprietà collettiva o sociale dal basso in alto, attraverso la via della libera associazione, e non dall’alto in basso attraverso una qualche autorità, qualunque essa sia”. (10)

Ma gli antiautoritari non sono unanimi nella formulazione della loro controproposta. Stiner suggerisce una “libera associazione” di “egoisti” d’ispirazione troppo filosofica e instabile!
Proudhon, più concreto, una combinazione per certi versi retrograda, piccolo-borghese, corrispondente allo stadio ormai superato della piccola industria, del piccolo commercio,dell’artigianato: la proprietà privata deve essere salvaguardata; i piccoli produttori, rimasti indipendenti, devono prestarsi a un aiuto reciproco; tutt’al più egli ammette la proprietà collettiva di un certo numero di settori che, ammette, sono già controllati dalla grande industria: i trasporti, le miniere ecc. Ma Stiner come Proudhon, ognuno a suo modo, prestano così il fianco a una scarica di legnate che gli somministra il marxismo, del resto poco ingiustamente.
Bakunin, da parte sua, si separa deliberatamente da Proudhon. Contro il suo maestro, egli fa per poco, nella Prima internazionale, fronte unico con Marx.
Egli rifiuta l’individualismo Postproudhoniano. Trae le conseguenze dell’industrializzazione. Si richiama alla proprietà collettiva. Non si presenta né comunista né mutualista, ma collettivista. La produzione deve essere gestita, su base locale, dalla “solidarietà tra comuni”, e su base professionale, da compagnie (o associazioni) operaie. Sotto l’influenza dei bakunisti, il congresso della Prima internazionale a Basilea, nel 1869, decide che nella società futura “il governo sarà sostituito dai consigli delle corporazioni dei mestieri”. (11) Marx ed Engels fluttuano e si barcamenano tra i due estremi. Nel Manifesto comunista del 1844, ispirato da Louis Blanc, avevano adottato la troppo comoda posizione ultrastatalista. Ma più tardi, sotto l’influenza della Comune del 1871 e la pressione degli anarchici, essi stempereranno questo statalismo e acconsentiranno a trasferire la produzione “nelle mani degli individui associati”. (12) Ma queste velleità libertarie non saranno di lunga durata e ben presto torneranno –nella lotta a morte che ingaggieranno contro Bakunin e i suoi discepoli- a una fraseologia più autoritaria e statalistica.
Non è dunque senza ragione (benché non sempre con totale buonafede) che Bakunin accusa i marxisti di sognare di concentrare tra le mani dello Stato tutta la produzione industriale e agricola. In Lenin, le tendenze stataliste e autoritarie che si sovrappongono a un anarchismo che esse contraddicono e annientano, sono già in nuce e con Stalin –trasformatasi la “quantità” in “qualità”- esse degenerano in un capitalismo di stato oppressore che Bakunin, nella sua critica, talvolta ingiusta, di Marx, sembra aver anticipato.
Questo breve richiamo storico ha interesse solo nella misura in cui ci può aiutare a orientarci nel presente. Gli insegnamenti che ne traiamo ci fanno comprendere in modo tanto eclatante quanto drammatico che, malgrado concezioni che oggi appaiono desuete, infantili e demenziali al vaglio dell’esperienza (per esempio il loro “apoliticismo”), per quanto riguarda l’essenziale, i libertari avevano ragione contro gli autoritari. I secondi hanno rovesciato ondate di ingiurie sui primi, giudicando il loro programma “un’accozzaglia di idee d’oltretomba” (13), di utopie reazionarie, superate e decadenti. (14)
Ma è indubbio, oggi, come sottolinea con forza Volin (15) che l’idea autoritaria, lungi dall’appartenere al futuro, non è altro che una conseguenza del vecchio mondo borghese, logora e moribonda.
Se è un’utopia, è quella del cosidetto “comunismo” di Stato, il cui fallimento è così palese che i suoi beneficiari (preoccupati prima di tutto di salvare i propri interessi di casta privilegiata)cercano oggi,attivamente e a tentoni, i mezzi per migliorarlo e di liberarsene.
L’avvenire non è più, ormai, né del capitalismo classico come voleva persuaderci il defunto Merleau-Ponty, né del capitalismo riveduto e corretto da un “neoliberismo” o del riformismo socialedemocratico. Il loro duplice fallimento non è meno strepitoso di quello del capitalismo di Stato. L’avvenire è sempre, e più che mai, del socialismo, ma di un socialismo libertario. Come annunciava profeticamente Kropotkin, sin dal 1896, la nostra epoca “avrà il marchio delle idee libertarie (...) la prossima rivoluzione non sarà più giacobina.” (16)
I tre problemi fondamentali della Rivoluzione, cui accenavamo im precedenza, devono e possono trovare infine la loro soluzione. Noi non siamo più ai balbettamenti, ai tentennamenti del pensiero socialista del XIX secolo. I problemi non si pongono più in astratto, ma concretamente. Oggi disponiamo di un’ampia messe di esperienze pratiche. La tecnica della Rivoluzione si è immensamente arricchita. L’idea libertaria non si iscrive più tra le nuvole, ma emerge dagli eventi stessi, dalle ispirazioni più profonde, anche quando sono respinte, e più autentiche delle masse popolari.
Il problema della spontaneità e della coscienza è molto più facile a risolversi oggi che un secolo fa. Le masse, se sono sempre un pò in ritardo rispetto alla bancarotta del sistema capitalistico –a causa dell’oppressione che le mantiene sottomesse- se mancano ancora di educazione e di lucidità politica, tuttavia hanno recuperato una buona parte del loro ritardo storico. Ovunque nei paesi capitalistici avanzati, come in quelli in via di sviluppo o assoggettati al cosidetto “comunismo” di Stato, esse hanno fatto un prodigioso balzo in avanti. Sono molto meno inclini a farsi abbindolare. Conoscono l’entità dei loro diritti. La loro conoscenza del mondo e del proprio destino si è considerevolmente arricchita. Se la debolezza del proletariato francese prima del 1840 – a causa della sua inesperienza ed esiguità- ha potuto generare il blanquismo, quella del proletariato russo prima del 1917, il leninismo, quella del nuovo proletariato prostrato e distrutto dopo la guerra civile del 1918-20 o freddamente sradicato dalle campagne, lo stalinismo, oggi le masse attive hanno meno bisogno di delegare i propri poteri nelle mani di tutori autoritari e cosidetti infallibili.
Del resto, grazie sopratutto a Rosa Luxemburg (17), nel pensiero socialista è penetrata l’idea che – anche se le masse non sono ancora completamente mature e la fusione tra scienza e classe operaia sognata da Lasalle non si è ancora interamente compiuta- il solo mezzo per colmare questo ritardo, di rimediare a questa deficienza, è quello di aiutare le masse a fare da sole il loro apprendistato nella democrazia diretta dal basso verso l’alto; di sviluppare, incoraggiare, stimolare la loro libera iniziativa; di inculcare loro il senso di responsabilità –invece di mantenere in loro- come fa il comunismo di Stato (che sia al potere o all’opposizione) le secolari abitudini di passività e sottomissione, il complesso di inferiorità trasmesso loro da un passato di oppressione.
Anche se questo apprendistato è talvolta difficile, se il ritmo è lento, anche se grava la società di costi aggiuntivi, e se si può effettuare solo a prezzo di qualche “disordine”, queste difficoltà e ritardi, questi costi aggiuntivi e problemi di crescita sono infinitamente meno nocivi del falso ordine, il falso splendore, la falsa “efficienza” del comunismo di Stato che annienta l’uomo, uccide l’iniziativa popolare e infine disonora l’idea stessa del socialismo.
Per ciò che concerne il problema dello Stato, la lezione della Rivoluzione russa è scritta a chiare lettere. Liquidare, come si è fatto, sin dall’indomani del trionfo della Rivoluzione il potere delle masse, ricostruire sulle rovine dell’antica macchina statale un nuovo apparato oppressivo ancor più perfezionato del precedente, battezzato in modo fraudolento “partito del proletariato”, e spesso assorbendo nel nuovo regime le “competenze” del regime defunto (sempre imbevuto del vecchio Furerprinzip), lasciare poco a poco ergersi una nuova classe privilegiata che tende a considerare la propria sopravvivenza come un fine in sé e a perpetuare lo Stato che assicura tale sopravvivenza, questo è il modello che abbiamo oggi il compito di non perpetuare. Del resto, se si prende alla lettera la teoria marxista del “deperimento”, le condizioni materiali che avevano provocato (secondo i marxisti) e legittimato la ricostruzione di un apparato statale dovrebbero permettere oggi d’impedire, sempre più, a quel gendarme avido e ingombrante che è lo Stato, di rimanere al suo posto.
L’industrializzazione, benché a ritmi diversi a seconda dei paesi, marcia a passi da gigante nel mondo intero. La scoperta di nuove fonti di energia, dalle possibilità illimitate accellera prodigiosamente questa evoluzione. Lo Stato totalitario –generato dalla penuria e fondata su questa la propria giustificazione- diviene ogni giorno un più superfluo. Per ciò che concerne la gestione dell’economia, tutte le esperienze fatte sia in un paese del capitalismo molto sofisticato come gli Stati Uniti, sia nei paesi dominati dal “comunismo di Stato”, dimostrano che il futuro, almeno per ampi settori dell’economia, non è più nelle gigantesche unità di produzione. Il gigantismo. che aveva così impressionato i defunti capitani d’industria yankee ma anche il comunista Lenin, appartiene al passato. Troppo grande è il titolo di un’opera americana sui misfatti di questo flagello all’interno dell’economia degli Stati Uniti. (18)
Da parte sua, Kruscev, rozzo volpone, aveva finito per cogliere –benché tardivamente e timidamente- la necessità di un decentramento industriale. Si è a lungo creduto che gli imperativi sacrosanti della pianificazione esigessero la gestione dell’economia da parte dello Stato. Oggi si è convinti che la pianificazione dall’alto, la pianificazione burocratica, è una fonte terribile di disordine e spreco e, come afferma Merleau-Ponty “non pianifica”. (19) Charles Bettelheilm ci ha mostrato in un libro tuttavia troppo conformista al momento in cui fu scritto (20), che la pianificazione potrebbe funzionare efficacemente solo se fosse diretta dal basso verso l’alto e non viceversa, cioé se provenisse dai gradini più bassi della produzione e fosse costantemente sottoposta al loro controllo, mentre in Urss questo controllo delle masse brilla per la sua assenza. Il futuro, senza alcun dubbio, sta nella gestione autonoma delle imprese da parte delle associazioni dei lavoratori. Ciò che resta da mettere a punto, è il meccanismo, certamente delicato, della loro federazione, dell’armonizzazione dei diversi interessi in un ordine che sia libero. Da questo punto di vista, il tentativo di sintesi del socialista belga César de Paepe, oggi troppo dimenticato, tra anarchismo e statalismo, merita di essere ripreso. (21)
Su altri piani, l’evoluzione stessa della tecnica, dell’organizzazione del lavoro apre la strada a un socialismo dal basso. Le ricerche più recenti in psicologia del lavoro hanno portato alla conclusione che la produzione del lavoro è veramente “efficente” solo quando non schiaccia l’uomo, se lo coinvolge invece di alienarlo, se fa appello alla sua iniziativa, alla sua piena cooperazione, se trasforma il suo lavoro ripetitivo in gioia, condizione questa non pienamente realizzabile né nelle caserme industriali del capitalismo privato, né in quelle del capitalismo di Stato. Del resto, l’accelerazione dei mezzi di trasporto facilita molto l’esercizio della democrazia diretta. Un esempio: in poche ore, grazie all’aereo, i delegati delle sezioni locali dei sindacati operai statunitensi più moderni come quello dell’automobile, sparsi per tutto un continente, possono essere facilmente riuniti.
Ma, se si vuole rigenerare il socialismo, rovesciato dagli autoritari, rimettendolo in piedi, bisogna fare presto. Sin dal 1896 Kropotkin sottolineava con forza che finché il socialismo assumerà un volto autoritario e statalistico, provocherà nei lavoratori una certa sfiducia, per cui vedrà i suoi sforzi compromessi e il suo ulteriore sviluppo paralizzato. (22) Il capitalismo privato, condannato storicamente, sopravvive oggi solo grazie alla corsa agli armamenti, da un parte, e al fallimento relativo del comunismo di Stato, dall’altra.
Noi potremo vincere ideologicamente il Big Businnes e la sua pretesa “libera impresa” –sotto la cui copertura domina un pugno di monopòli- potremo relegare al negozio degli accessori il nazionalismo e il fascismo sempre pronti a rinascere dalle proprie ceneri, solo se saremo capaci di presentare, nei fatti, un sostituto concreto allo pseudocomunismo di Stato.
Quanto ai paesi cosidetti socialisti, essi usciranno dal loro impasse attuale solo se li aiutiamo, non a liquidare, ma a ricostruire da cima a fondo il loro socialismo. Kruscev si è alla fine spezzato la schiena per aver esitato troppo a lungo tra il passato e il futuro. I Gomulka, i Tito, i Dubcek, malgrado la loro buona volontà e la loro velleità di destalinizzazione o di destatalizzazione, rischiano di pestarsi i piedi, di perdere l’equilibrio sulla corda rigida su cui si mantengono in un instabile equilibrio e, alla lunga, di arenarsi, se non acquisiranno l’audacia e la perspicacia che permettano loro di definire gli elementi essenziali di un socialismo libertario.

La Rivoluzione del nostro tempo sarà dal basso o non sarà.

(1958)

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NOTE


1. Volin, La Rivoluzione sconosciuta, (2 voll., Ed. Franchini, Carrara 1976). Pp. XIV-XV. Ne L’Unique e sa Propriété (1845), Max Stirner annunciava come interno al “principio della Rivoluzione” il seguente assioma pessimistico: “Un nuovo padrone viene sempre messo al posto del precedente e la distruzione è una ricostruzione (...). Il padrone risuscita come Stato, il servo riappare come cittadino”. Edition SLIM, 1948, pp.139,172-3 (L’Unico e la sua Proprietà, Ed. Anarchismo, 1987).

2. P.-J.Proudhon, De la capacité politique des classe ouvrières (1864), Rivière, 1924, p.200.

3. Cfr. “La révolution déjacobinisée”, pp.41 sgg.

4. Proudhon, De la capacité..., cit. pp. 88, 119.

5. L’alliance de la Democratie socialiste et l’Association Internationale des Travailleurs, Londra-Amburgo, 21 luglio 1873 (trad.it. in Friedrich Engels, L’Internazionale e gli anarchici, a cura di Antonio Bernieri, Ed. Riuniti, Roma 1965).

6. Lev Trotsky, Défense du Terrorisme (1920), ed.francese 1936, p.53 (Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964).

7. Prefazione di Engels del 18 marzo 1891 a La guerra civile in Francia.

8. Titolo della celebre opera dell’inglese Thomas Hobbes (1651), che costituiva, tra le altre cose, in’apologia del despotismo.

9. L’Unico e la sua Proprietà, cit.

10. Discorso al Congresso di Berna (1868) della lega della Pace e della Libertà, in Mémoire de la Fédération Jurassienne, Sonvillier, 1873, p.28

11. Cfr. Oscar Testut, L’Internationale, 1871, p.154.

12. Prefazione del 24 giugno 1872 al Manifesto comunista.

13. “Les prétendues scissions de l’Internationale”, 5 marzo 1872, riprodotto nel Mouvement socialiste, luglio-dicembre 1913.

14. G.V. Plechanov, Marxisme et anarchisme, fine del cap.6 e prefazione di Eleanor Marx-Aveling

15. Volin, op.cit., pp.218,229.

16. P.Kropotkin, L’Anarchie, sa philosophie, son idéal, p.51.

17. Si veda il testo di Rosa Luxemburg del 1904, posto in appendice a Trotsky, Nos taches politiques, P.Belfond, Paris 1970 (Si tratta di “Problemi organizzazione della socialdemocrazia russa”. Questa e le altre appendici non sono incluse nell’ed. Italiana -tradotta dal francese- de I nostri compiti politici, Samonà e Savelli, Roma 1972. Una traduzione dall’originale russo in italiano è in preparazione presso Massari editore).

18. Morris Ernst, Too Big, New York, 1940.

19. ”Réforme ou maladie sénile du communisme”, in L’Express, n°23, novembre 1956.ù

20. Charles Bettelheim, La Planification soviétique, 1945,pp.149, 258-9.

21. Cfr. César de Paepe, “De l’organisation des services publics dans la société future”, 1974, in Ni Dieu ni maitre. Anthologie historique du mouvement anarchiste, Maspero, Paris 1970, pp.317 sgg. (Sull’organizzazione dei servizi pubblici nella società futura” in Daniel Guérin –a cura di- Né Dio né padrone. Antologia del pensiero anarchico, 2 voll., Jaca Book, Milano, 1971, pp.307-18).

22. Kropotkin,op.cit., pp.31-3

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