CINEMA

mercoledì 23 marzo 2011



                                 FRECCE TRICOLORI
                                   di Antonio Moscato


Dopo aver annunciato solennemente che eravamo in prima linea, il governo dichiara che i Tornado si limitano a sorvolare la Libia. Per la precisione, la rettifica è stata fatta dopo che un pilota chiacchierone aveva dichiarato ai giornalisti che gli aerei facevano solo pattugliamenti. Scandaloso, pare che sarà punito, ma intanto la prima misura è stata presa contro i giornalisti colpevoli di essersi informati prima di scrivere, che sono stati allontanati dalla base “a tempo indeterminato”. Ridicolmente sono stati riammessi appena un’ora dopo, dato che cacciarli voleva dire ammettere esplicitamente che era tollerata solo la menzogna di Stato.
Naturalmente è venuta spontanea la domanda: ma a che servono aerei da guerra così costosi, se poi non sparano? A fare un’esibizione delle frecce tricolori? Vengono a mente le non lontane polemiche sulla concessione a Gheddafi di una pattuglia aerea, che doveva però emettere solo fumo verde, in occasione della festa nazionale libica… O questi aerei servono piuttosto, come in altri casi di partecipazione italiana a “coalizioni dei volonterosi” (ad esempio nei Balcani o in Afghanistan) a salvarsi l’anima, limitandosi a fornire agli “alleati” con meno scrupoli le coordinate per facilitare i loro bombardamenti?

Ridicolo l’atteggiamento della maggioranza del PD, che insiste sempre solo sui “ritardi del governo”, o sulle sue divisioni. Un argomento veramente singolare: da un lato, a dividersi su questa assurda guerra non è solo la maggioranza, ma anche il PD, dall’altro a un’opposizione degna di questo nome e con un minimo di programma le divisioni del governo dovevano fornire un’occasione per un’iniziativa politica. Si discute invece in modo bipartisan sui rischi di ricadute in termini di migranti, o sul pericolo di un’egemonia francese (quella statunitense non dispiace a nessuno…), o se sia meglio un comando NATO. Si discute con finta serietà in che modo deve intervenire la “comunità internazionale, ripetendo quel gioco tra ONU, NATO, UE, già visto nei Balcani, ma nessuno si domanda che c’entra con la Libia la NATO, organismo imperialista da cui una volta la sinistra chiedeva l’uscita, e che si diceva “difensivo” nei confronti di una pretesa minaccia sovietica. La Libia ci ha forse minacciato?

A proposito dei “ritardi”, quelli veri: il balletto tra la fretta francese e il temporeggiamento dell’Italia, degli statunitensi, dei turchi, non è necessariamente un gioco delle parti, ma ha come conseguenza involontaria quella di svelare un obiettivo comune dei “volonterosi”: far dissanguare le due parti in lotta in Libia prima di riconoscere la vittoria di una o dell’altra. Un duro avvertimento anche ai paesi vicini…

Va detto poi che è interessante vedere le polemiche interne sempre più aperte tra la Clinton e Obama, tra Putin e Medvedev, e quelle in seno alla NATO e all’UE: ma non c’era un comando unico dell’imperialismo, onnipotente e onniveggente, tra i luoghi comuni di parte della sinistra? La spiegazione è semplice: di fronte a una rivoluzione, “quelli in alto” si dividono sempre sulla risposta da dare, tra chi pensa utile concedere qualcosa, e chi punta sulla repressione più dura. È la conferma che il problema non è Gheddafi, la cui eliminazione è solo un pretesto per colpire o ammonire le rivoluzioni in corso nei paesi vicini. Se fosse stato necessario toglierlo di mezzo, lo potevano fare a freddo molte volte, si sono accorti di lui e hanno cominciato a sceglierlo come bersaglio solo nel momento in cui rischiava di essere spazzato via dalla rivolta. Paradossalmente, presentandolo come il male assoluto gli hanno permesso di riguadagnare molto del terreno perso, anche grazie alla riscoperta di un roboante linguaggio antimperialista. Diciamo no a Gheddafi, senza farci incantare dal recupero strumentale della sua vecchia fraseologia rivoluzionaria, ma soprattutto no a ogni intervento di Stati che non hanno alcun diritto di decidere cosa si deve fare in Libia o in qualsiasi altro paese, si chiamino Francia o Italia o USA. Diciamo soprattutto no all’immondo commercio di armi, vendute a caro prezzo ai regimi più infami per combattere i rispettivi popoli. I paesi della coalizione dei volenterosi sono tutti grandi fornitori di armi, e non hanno alcun diritto a giudicare come i loro clienti usano le armi per cui magari si sono indebitati pesantemente. Se vogliamo combattere l’ingiustizia e la violenza, cominciamo dal rifiutare la produzione e il commercio delle armi, su cui si regge anche una parte significativa dell’economia italiana.

L’intervento in Libia può fare molti danni, non solo agli esseri umani che ne sono e saranno vittime innocenti, ma al processo rivoluzionario, che può essere più facilmente subordinato agli interessi dei paesi che intervengono, o comunque deviato in direzioni imposte dall’esterno. L’esito di nessuna rivoluzione è sicuro, può essere sconfitta, distorta, tradita tanto più facilmente quanto più sarà condizionata da un intervento di altri paesi. L’involuzione della rivoluzione russa è stato facilitato e accelerato dagli interventi delle principali potenze imperialiste, dalla Germania alla Gran Bretagna, dagli Usa al Giappone, dalla Francia all’Italia, che nel 1918 erano ancora in guerra tra loro, ma scesero in campo insieme contro il comune pericolo della prima rivoluzione proletaria vittoriosa. Anche la rivoluzione ungherese del 1919 fu soffocata dall’aggressione congiunta delle potenze dell’Intesa, che erano anche dietro l’attacco polacco alla Russia del 1920.

Il cialtrone “verde” Daniel Cohn-Bendit pontifica su “Repubblica” di oggi 22/3 ammonendo i pacifisti a ricordarsi della Spagna del 1936, e spara molte sciocchezze: la Spagna non fu soltanto “lasciata sola” da Gran Bretagna e Francia, come dice, ma spinta verso la sconfitta dall’aiuto condizionante dell’URSS staliniana, che impose di soffocare e bloccare la dinamica rivoluzionaria in Catalogna e in Aragona, e che sterminò nel 1937 i militanti più lucidi come Andreu Nin o Camillo Berneri. (Si veda  Sulla Spagna, e in genere tutta la sezione dedicata nel sito alla rivoluzione spagnola in I GRANDI NODI DEL NOVECENTO).

Per questo, prima di tutto, diciamo no al principio stesso dell’intervento militare esterno, anche per appoggiare una parte in lotta, e comunque motivato. Le rivoluzioni non si possono esportare (possono dare l’esempio, casomai) ma le controrivoluzioni invece sono sempre state esportate, sotto diversi pretesti. Il migliore aiuto a una rivoluzione è non interferire nella sua dinamica, e bloccare chi tenta di farlo. Altra cosa sarebbe un aiuto dal basso, una solidarietà internazionalista, senza mediazioni di Stati (non solo quelli imperialisti, come è ovvio, ma anche quelli più o meno burocratizzati), come l’aveva concepito l’ultimo Guevara del Messaggio alla Tricontinentale o del discorso al seminario afroasiatico di Algeri. Il Che pensava a un coordinamento dei movimenti di liberazione, non uno schieramento di Stati “progressisti”, un “campo”… Il presidente Chávez aveva rilanciato giustamente l’idea di costruire una Internazionale, la Quinta, e l’avevamo salutata positivamente, poi l’idea è stata accantonata senza discussione, mentre si è visto che sarebbe stata necessaria allo stesso Venezuela anche ai fini di una migliore conoscenza, per non illudersi ad esempio sull’antimperialismo di Gheddafi o di Ahmadinejad, o sul comportamento di Cina e Russia.

Ci auguriamo che i libici siano in grado di abbattere il clan corrotto dei Gheddafi, ma devono essere loro a farlo, non gli eserciti dell’imperialismo europeo o statunitense, che qualora riuscissero metterebbero sicuramente alla testa del paese un loro fantoccio, creando il precedente per intervenire domani analogamente in Egitto, in Tunisia, nello Yemen. Ci sembra un buon segno che sulle piazze egiziane, yemenite, tunisine, si esprima solidarietà alla rivoluzione libica, e ostilità invece a personaggi come Ban Kimoon, contestato perché considerato responsabile dell’intervento benedetto dall’ONU.



 22/3/2011

dal sito http://antoniomoscato.altervista.org/

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