CINEMA

sabato 26 marzo 2011


I RIBELLI LIBICI E I PONZATORI ITALICI, CHE GUARDANO L'ALBERO E NON VEDONO LA FORESTA

                                      di Dino Erba

Nel 1917, il governo tedesco fornì a Lenin e ai bolscevichi un treno per recarsi in Russia.
Gli imperialisti tedeschi pensavano che i bolscevichi avrebbero fomentato rivolte, facendo così uscire l’impero zarista dalla guerra.
La Russia, dalla guerra uscì, ma prima, i bolscevichi fecero la rivoluzione.


Via via che il vento delle rivolte del Nordafrica si è spostato in Libia, gli iniziali entusiasmi di molti «sinistri» italiani si sono smorzati. E sono prevalse le capziose analisi sui contrasti e sulle manovre degli immancabili imperialisti. Ci sono spunti e osservazioni apprezzabili, che tuttavia finiscono per oscurare il movimento d’insieme delle masse popolari libiche, che qualcuno considera addirittura del tutto strumentale e funzionale a circoli affaristici locali, legati alle «multinazionali europee e statunitensi» (emblematico, tra i tanti: SERGIO CARARO, Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio, «Contropiano»).

La Libia sta sollevando scottanti questioni, e non solo politiche, ma soprattutto di metodo e di analisi. Mettiamo allora i puntini sulle i e, per prima cosa, cerchiamo di capire che cos’è la Libia.
Ma prima ribadiamo che l’aspetto principale di questa vicenda è l’insorgenza delle masse popolari del Nordafrica, che si inscrive nella crisi sistemica del modo di produzione capitalistico. Il cui esito, ci auguriamo, sarà la rivoluzione proletaria (altrimenti ci aspetta un orrore senza fine). E questo è un motivo più che sufficiente, per stare dalla parte dei ribelli della Libia, senza se e senza ma.

Cos'è la Libia

A differenza dei Paesi vicini (Algeria, Tunisia ed Egitto) la formazione nazional-statale libica è molto più recente, risale agli ultimi quarant’anni, che coincidono con il governo di Muammar Gheddafi. In precedenza, sotto il regime coloniale italiano (1912-1943), la Libia era stata sconvolta prima dalla sanguinaria guerra di occupazione (1930-31), che causò più di centomila morti, e poi (1936-1940) dall’arrivo di 120mila coloni italiani (il 13% della popolazione totale), che dissestò la precedente vita economica.
La formazione nazional-statale gheddafiana è avvenuta grazie allo sfruttamento delle immense risorse petrolifere, iniziato all’inizio degli anni Sessanta, che sconvolse, nuovamente, la preesistente compagine economica, caratterizzata da una modesta agricoltura e da piccole attività commerciali e industriali, esercitate in buona parte dalla comunità italiana che, alla fine degli anni Sessanta, ammontava a circa 35.000 persone, il 2% della popolazione libica (allora di 1.700.000).
Grazie al petrolio, dagli anni Settanta, il Prodotto lordo pro capite della Libia passò dalla soglia di povertà, agli attuali 14mila$, che collocano il Paese a un livello medio alto. Inoltre, il welfare libico assicura assistenza sanitaria e istruzione, a livelli molto più alti rispetto ai Paesi vicini. Ma, come poi vedremo, non è tutto oro quello che luccica.

Grazie al forte sviluppo economico, nel quarantennio gheddafiano la popolazione libica è cresciuta notevolmente, è più che triplicata. Oggi conta circa sei milioni e mezzo di abitanti, cui si aggiungono un milione/due milioni di emigrati, provenienti da Egitto, Medio Oriente e dall’Africa subsahariana. Questi immigrati, che costituiscono circa la metà della forza lavoro della Libia, sono impiegati nei grandi complessi petrolchimici, nell’edilizia e in parte anche nei servizi (ospedali, scuole, alberghi).

L’86% della popolazione abita nelle grandi città della costa, tra cui: Tripoli (oltre un milione), Bengasi e Misurata.



Nel commercio estero libico, l’Italia fa la parte del leone, con il 40% dell’export petrolifero e con circa il 30% dell’import; di gran lunga davanti a Germania, Spagna, Francia e a tutti i Paesi arabi.
Per le sue caratteristiche economiche, legate alla rendita petrolifera, la Libia è stata definita uno Stato rentier, la cui particolarità è l’assenza o la marginalità di entrate generate dall’imposizione fiscale interna (in realtà, in Libia, è tra il 5% e il 10%, comunque molto bassa), poiché la ricchezza, di origine «naturale», riduce la necessità di prelevare reddito dalla propria popolazione.

Tutti questi fattori, hanno fatto sì che, in Libia, i movimenti politici e sindacali abbiano una debole tradizione (sempre in rapporto ai suoi vicini); gli organismi sindacali e i partiti di sinistra, sorti dopo la guerra, furono stroncati prima dall’Inghilterra, che dal 1943 al 1951 amministrò il Paese, furono poi perseguitati dalla monarchia e quindi dal regime di Gheddafi.

Il grande balzo in avanti degli anni 2000

Dall’abolizione (1999) delle sanzioni ONU contro lo Stato canaglia (così gli USA definivano la Libia), il settore petrolifero ha conosciuto un fortissimo balzo in avanti. Secondo i dati disponibili, nel 2007 il settore energetico ha rappresentato il 98% dei redditi delle esportazioni e il 90% delle entrate governative e ha contribuito per il 69% alla formazione del PIL nominale (nel 2000 il suo contributo alla formazione del PIL rappresentava appena il 39%). Di conseguenza, i contributi dell’industria manifatturiera non petrolifera e del settore agricolo nello stesso periodo sono scesi rispettivamente dal 5% e dall’8,1% del PIL del 2000, all’1,1% e al 2,6% (2010). La crescita del settore petrolifero ha eroso il contributo alla formazione del PIL degli altri settori (edilizia, trasporti e servizi), sebbene anch’essi siano in crescita. E così, si sono accentuate le stimmate dello Stato rentier, alle quali, con l’accordo italo-libico sui flussi migratori dell’agosto 2004 (ampliato nel novembre 2006 e perfezionato nel settembre 2010), si è aggiunto il marchio infame di Stato poliziotto (per non essere più Stato canaglia).

Il PIL, che per tutti gli anni Novanta era attorno ai 30M$, dal 2000 ha registrato un’impennata, toccando nel 2008 i 93,168M$; quindi, è triplicato (nel 2009, in seguito al crash, è sceso a 63,26M$, per poi risalire, nel 2010, a 79,283M$)
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Il rapido boom di inizio millennio ha accresciuto la già forte polarizzazione della ricchezza nelle mani di un ceto governativo (burocratico e militare), che, per trent’anni, ha controllato in toto la vita economica libica: monopolio del commercio interno ed estero, dell’industria e dei servizi, con il quale garantiva: l’approvvigionamento della popolazione urbana, in vertiginosa crescita; la creazione di una rete di strade, scuole, università, ospedali e altre strutture pubbliche; lo sviluppo di costosissimi progetti di trasformazione agraria e l’impianto di alcune grandi industrie di base; la nascita del Grande Fiume Sotterraneo, colossale sistema di acquedotti ed invasi che alimenta con l’acqua tratta dalle profondità del deserto del Fezzan le assetate città della costa; infine, il mantenimento dell’esercito, della guardia presidenziale nonché della miriade di burocrati riuniti nei Comitati Popolari, istanze locali del potere statale.

Dal 2001, questa posizione di monopolio è stata in parte ridimensionata dalle privatizzazioni, che, nella vita economica libica, vedono l’ingresso massiccio di gruppi esteri (le multinazionali del petrolio in primis), soprattutto inglesi, francesi e spagnoli, che tentano di scalzare il predominio italiano.
Ma sono entrati in lizza anche gruppi affaristici locali, fino a ora emarginati, in cerca di un posto al sole, con tutta la manna che cade dal cielo. Ma, ovviamente, i vecchi gruppi dominanti non sono disposti a cedere le loro posizioni.
A tutto ciò, si aggiungono le ricadute locali delle speculazioni finanziarie, che connotano la scena economica internazionale, di cui, la Libia, è stata, forse, all’avanguardia e oggi può contare su 107,3 M$ di riserve valutarie, che attendono impieghi.

Squilibri economici e tensioni sociali

Nel nuovo clima economico, tra balzi in avanti e brusche frenate, sono aumentati squilibri e tensioni sociali, che hanno acceso contrasti di tipo «localistico», da cui la ribellione del 2006 a Bengasi [Cfr. La rivolta anti-italiana di Bengasi, «La Rivoluzione Comunista», gennaio-marzo 2006].
Malgrado gli indicatori economici siano considerati «buoni», in Libia la disoccupazione tocca il 30%. Come abbiamo visto, quasi metà dei lavoratori sono immigrati, costretti a lavorare con salari molto bassi, a tutto vantaggio del profitto e della rendita. Questo significa anche che una consistente parte della popolazione libica non accetta o meglio non può vivere con salari, che sono sotto lo standard locale, e quindi, finché possibile, si barcamena con attività marginali e precarie. Per inciso, il 59% degli occupati è impiegato nel settore pubblico e sociale, connesso al welfare.
Alla forte sperequazione sociale (il 7,4% della popolazione è sotto la soglia di povertà), si aggiunge l’inflazione: attorno al 10,5%, superiore quindi alla crescita del PIL, circa 6,3% (dati del 2008). Il salario medio mensile è di circa 270 dinari (al tasso ufficiale di cambio pari a 750$, a quello non ufficiale, ma più realistico, pari a 100$). Un’altra fonte ci dice che il salario medio annuale è di circa 1.785$, quindi molto al disotto del PIL pro capite, che è di 14mila$; il monte salari corrisponde al 13% del PIL, in Francia al 53% (i dati sui salari sono puramente indicativi, poiché le fonti presentano variazioni; la notevole sperequazione è comunque univoca). Per avere un’idea del potere d’acquisto dei salari, facciamo qualche esempio: un kilo di zucchero costa 1 dinaro, un kilo di riso (o di couscous, di pasta, di patate) 1,5; un kilo di arance 2; un litro di latte 1,5; un litro di olio di oliva 6; un kilo di agnello 14; un kilo di pollo 3; biglietto del bus a Tripoli 0,50 (fonte Tehmeu, 30 agosto 2010).
Le privatizzazioni, varate in questi anni, hanno abolito i prezzi politici di acqua, gas, elettricità, favorendo l’aumento dei prezzi dei beni di consumo. La debole agricoltura non è in grado di assicurare il fabbisogno nazionale, gran parte (circa il 75%) dei prodotti alimentari proviene dall’estero, ed è quindi soggetta ad aumenti di prezzo che, ultimamente, sono stati estremamente elevati, da cui le rivolte in Algeria, Tunisia ed Egitto.
Il 25 febbraio scorso, dopo aver usato il bastone contro le manifestazioni di protesta, Gheddafi ha cercato di placare l’ira delle piazze con la carota. Il Governo libico ha annunciato un aumento dei salari dei funzionari e dei contributi alle famiglie, per coprire l’aumento dei prezzi dei generi alimentari: ogni famiglia avrebbe dovuto ricevere 500 dinari (pari a 290 euro) e la paga per determinate categorie sarebbe dovuta crescere del 150%. Il 9 gennaio 2011, il governo aveva già abolito le tasse sui generi alimentari di base, compreso il latte per bambini; nel 2010, aveva speso 6 miliardi di dollari, sotto forma di sovvenzioni per i prodotti di prima necessità, per il carburante e i farmaci.
Queste misure hanno ottenuto solo in parte il risultato sperato, nonostante che il welfare libico sia un forte ammortizzatore sociale, che spiega, inoltre, come sia stato possibile sostenere, fino a oggi, l’altissima disoccupazione.

Molti antagonisti, sotto il cielo di Libia ...
Volendo tirar le somme di quanto avviene in Libia, ci troviamo di fronte a una situazione assai intricata, e dinamica. Come abbiamo visto, la Libia presenta una struttura socio-economica diversa da quella degli altri Paesi del Nordafrica, e altrettanto diversa è la situazione politica, ma questa non è una buona ragione per dire castronerie.
Il profilo politico delle forze ribelli è molto variegato (e non potrebbe essere diversamente), ci sono i monarchici senussiti, gli islamici di diversa osservanza e i notabili gheddafiani dissidenti, spalleggiati dai servizi segreti «imperialisti». Ma fermarsi a questa visione (come per es. il solito Cararo) sarebbe molto miope (per non dir reazionario), sarebbe come dire che la Resistenza partigiana in Italia era fatta dai badogliani e dagli agenti segreti Alleati; certamente, c’erano i partigiani badogliani, c’erano gli agenti segreti Alleati, ma c’erano anche i partigiani comunisti, e c’erano anche i proletari, e se poi le cose sono andate male, non fu certo per merito dei primi...

Cerchiamo allora di districarci in questo ginepraio, e vediamo quali sono i principali fattori all’origine dei contrasti, delle tensioni e dell’insorgenza popolare.

- La frazione borghese gheddafiana, che fin’ora ha tenuto il potere e le leve dell’economia, rappresentata dai ceti burocratici, militari e affaristici di Tripoli, invischiati nelle intermediazioni (tangenti) con i gruppi economici esteri, vuole mantenere i propri privilegi.

- La frazione borghese legata agli ambienti imprenditoriali emergenti, soprattutto di Bengasi, aspira a una diversa ripartizione di rendita e profitti, visto che la torta è cresciuta. E, a livello internazionale, intravede la possibilità di nuove alleanze. A questo riguardo, qualcuno (per es. il solito Cararo) riesuma i contrasti tribali, un po’ come se, a proposito del Roma Ladrona della Lega Lombarda, si parlasse di tribù celtiche ... Dovrebbe esser chiaro anche ai ciechi che, in seguito ai profondi sconvolgimenti economici e sociali avvenuti in Libia, e tutt’ora in corso, i contrasti tribali sono una reminescenza del passato che, nella più cauta delle ipotesi, può agire solo ai margini.

- I lavoratori e i disoccupati libici, stretti tra sperequazione e caro-vita, che erodono salari e stipendi, chiedono una ripartizione del reddito a loro più favorevole.

- I lavoratori immigrati, condannati a salari e a condizioni di vita e di lavoro schiavistiche, sicuramente vorrebbero vedere la loro situazione migliorata.

- Gli immigrati e i rifugiati, ora rinchiusi nei lager, e destinati a crescere sull’onda della miseria dilagante nell’Africa subsahariana (e prima o poi approderanno sulle coste italiane). Anch’essi, sicuramente, vorrebbero vedere la loro situazione migliorata.

- Infine, abbiamo i Paesi imperialisti che cercano di portare acqua (o meglio petrolio) al proprio mulino e lo fanno a suon di bombe. Il loro intervento avviene però in ordine sparso: prima si è mossa la Francia, seguita dall’Inghilterra, poi sono arrivati gli USA, che non potevano stare a guardare, tirando per le orecchie l’Italia (che avrebbe preferito stare a guardare, con la Germania). Così come si sta configurando, l’intervento potrebbe essere fonte di nuovi sconquassi, per il fronte imperialista, che è alle prese con la crisi sistemica del modo di produzione capitalista. E nuovi crash sono in agguato, con conseguenza devastanti.

Come si vede, gli interessi in campo sono difficilmente conciliabili, secondo la logica del profitto, che domina i rapporti tra le classi nella società del capitale. E che, attualmente, rendono i margini di compromesso quasi inesistenti. Non per nulla, la parola è stata data alle bombe.
Nell’immediato, è ipotizzabile una sorta di «somalizzazione», ma la Libia non è la Somalia (è evidente), e sarebbe una soluzione dagli esiti imprevedibili. Resta poi l’incognita di un’insorgenza che, per quanto potrà essere smorzata, coverà comunque sotto la cenere, così come già ora cova, si accende e si diffonde dal Marocco allo Yemen, passando per la Siria ...


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Fonti:

CIA: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/index.html/

Banca Mondiale:  http://data.worldbank.org/italian?cid=GPDit_29/

ISPI:   http://www.ispionline.it/it/index.php/

Mondoimprese: http://www.mondimpresa.it/infoflash/scheda.ASP?st=216/


Enit: www.enit.it/it/studi-ricerche/focus-paese/category/9-pp.html?download...
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dal sito http://www.sottolebandieredelmarxismo.it/

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