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domenica 26 giugno 2011
GERALD HORNE E LA GRANDE GUERRA RAZZIALE
GERALD HORNE E LA GRANDE GUERRA RAZZIALE
di Miguel Martinez
Gennaio 1942, due mesi dopo Pearl Harbor. E’ l’epoca in cui folle sovreccitate di bianchi americani danno fuoco alle sale dei Testimoni di Geova, sospettati per il loro rifiuto del servizio militare di essere la quinta colonna dell’Asse.
I principali dirigenti delle comunità nere statunitensi si riuniscono e votano, 36 contro 5 e con 15 astensioni, una mozione moderata nei toni, ma che in sostanza nega il sostegno alla guerra contro il Giappone.
E’ una delle vicende che porta alla luce lo storico nero americano, Gerald Horne, in Race War! White Supremacy and the Japanese Attack on the British Empire (New York University Press, 2004).
Quando si parla di “storia” o di “memoria”, si intendono in genere unicamente i sei anni della Seconda guerra mondiale, e unicamente il fronte europeo di tale guerra.
Chiedete a bruciapelo a qualunque alunno dell’Istituto Tecnico per il Settore Economico Paolo Dagomari di Prato, cosa è stata la Seconda guerra mondiale.
All’incirca, vi dirà che c’era un pazzo di nome Hitler che voleva conquistare il mondo e uccidere gli ebrei; ma sono arrivati gli americani e ci hanno salvati.
Un racconto del genere non è frutto dei tanto criticati libri di storia della scuola. Si tratta piuttosto del deposito sedimentato in fondo ai cervelli da film e spezzoni televisivi.
Quel poco di storia che interessa alle masse, interessa solo per la lezione morale che se ne può trarre.
In questo racconto, la morale è molto semplice: gli Stati Uniti, grazie al loro ruolo messianico di redentori della specie umana, hanno il diritto di bombardare chiunque, per evitare che il mondo cada in mano ad altri pazzi estremisti.
Gerald Horne ci riporta a una verità che è stata radicalmente rimossa.
Gli Stati Uniti non sono entrati in guerra contro Adolf Hitler, ma contro il Giappone.
Pearl Harbor e non Auschwitz era in cima alle preoccupazioni simboliche della guerra. E fino al poco efficace sbarco in Italia, [1] e a quello tardivo in Normandia, “la guerra” per gli Stati Uniti era solo quella contro il Giappone.
Una guerra particolare, perché fu una guerra razziale.
Infatti, per la prima volta nella storia moderna, un popolo di “colore” riuscì a sconfiggere gli inglesi e a tenere testa per anni a tutta la potenza degli Stati Uniti.
Siccome la storiografia per molti consiste nella scelta della squadra del cuore per cui tifare, diciamo subito che Horne non ne trae affatto la conclusione infantile che bisogna simpatizzare per l’impero giapponese. L’impero giapponese all’epoca compiva saccheggi e stragi in Cina che avevano poco da invidiare a quelli compiuti dai nazisti in Europa orientale. Si attribuiscono ai giapponesi qualcosa come 4.000.000 di civili cinesi uccisi (contro oltre 5,7 milioni di civili polacchi, di cui la metà ebrei, e 9 milioni di civili russi uccisi dai tedeschi).
Nel caso giapponese non ci furono genocidi e 600.000 soldati cinesi combatterono a fianco dei giapponesi contro i propri connazionali. Ma certamente Germania e Giappone ragionavano allo stesso modo. Due paesi popolosi e industrializzati, ma privi di impero, dovevano ottenere attraverso il terrore e la rapina a mano armata ciò che l’Inghilterra riusciva ad ottenere attraverso il dominio dei mari e dei mercati.
Questo semplice fatto priva di ogni interesse il revisionismo in termini di ribaltamenti morali.
Horne fa qualcosa di molto più interessante dei revisionisti moralisti: esplora la guerra come conflitto razziale, scoprendone le infinite sfaccettature.
Infatti, qualche anno dopo l’uscita di Race War!, Gerald Horne scriverà la biografia del carismatico Lawrence Dennis, l’unico intellettuale serio del variegato movimento filo-Asse degli Stati Uniti e principale imputato nel grande processo del 1944, accusato di voler rovesciare il governo degli Stati Uniti. [2]
Il fatto interessante è che Lawrence Dennis era nero, anche se di sangue abbastanza misto per “passare”. E così, pur prendendo sempre posizione contro la discriminazione razziale nella società statunitense, poteva evitare di parlare delle proprie origini: i filotedeschi americani non potevano essere più razzisti dei loro avversari.
Persino i nazisti, pur accecati dal loro razzismo antiebraico e antislavo, seppero sfruttare l’esistenza di una minoranza di tredici milioni di oppressi negli Stati Uniti.
Horne riporta la testimonianza di Hans Habe, istruttore di guerra psicologica dell’esercito statunitense e creatore della stampa tedesca postbellica: tra i prigionieri di guerra statunitensi, dice,
“solo ai neri veniva permesso di fare passeggiate settimanali nei villaggi vicini. Ricevevano un pezzo di sapone ogni quattro uomini, un privilegio mai concesso ai prigionieri bianchi. Avevano il cibo migliore… I tedeschi facevano il cambio della guardia con loro usando cerimonie elaborate”.
Gli Stati Uniti intervennero contro il Giappone, a difesa di un sistema interamente strutturato su basi razziali, l’impero britannico.
Horne descrive le elaborate gerarchie con cui quell’impero affermava il dominio delle persone di “pura discendenza europea”. Un dominio eminentemente psicologico, un tremendo bluff che permetteva a pochi uomini bianchi in perenne tensione di incutere paura in centinaia di milioni di esseri umani quotidianamente umiliati.
Un sistema che crollò miseramente al primo assalto: l’autore analizza l’attacco giapponese a Hong Kong, dove i bianchi abbandonati dai loro domestici cercvano di sopravvivere tra masse di insorti cinesi che facevano da guida agli invasori e truppe indiane (soprattutto Sikh) passate ai giapponesi.
A differenza dei tedeschi, più propensi a fucilare che ad armare i tanti sudditi sovietici pronti a combattere i loro oppressori staliniani, i giapponesi seppero cogliere l’occasione, umiliando pubblicamente i prigionieri inglesi e promovendo cinesi e indiani.
La borghesia cinese di Hong Kong si affermò nell’esproprio che seguì all’occupazione giapponese.
Frankie Zung, un mulatto dei Caraibi passato con i giapponesi, potè così ostentare qualcosa che in 30 dei 48 stati degli Stati Uniti dell’epoca gli sarebbe costato il carcere: una moglie bianca. Secondo le stesse leggi ammirate e imitate dall’alleato dei giapponesi, Adolf Hitler.
La vittoria cinese sull’impero inglese, secondo Horne, ebbe un impatto profondo sul sentimento di sudditanza psicologica dei “popoli di colore” nei confronti dei bianchi, che la successiva vittoria angloamericana non potè rovesciare, segnando così la fine dell’impero.
Negli Stati Uniti, già dalla vittoria giapponese sulla Russia nel 1905, i neri guardavano con profondo interesse al Giappone; sia perché condividevano con gli immigrati “gialli” una condizione di dura emarginazione, sia perché il governo giapponese aveva iniziato una stretta collaborazione con i nascenti movimenti neri.
Gerald Horne è membro del Partito Comunista. Un partito in quegli anni coraggiosamente impegnato contro il razzismo, ma contrario a ogni forma di nazionalismo nero in nome dell’unità della classe operaia e antigiapponese per solidarietà con i comunisti cinesi.
Ma Horne è il primo a dire che tra le due guerre, i filogiapponesi furono decisamente preponderanti tra i neri americani di tutte le correnti: il Giappone veniva immaginato come la nazione redentrice delle “razze di colore” e accanto all’Islam nero, si diffondevano sia il “buddhismo nero“, sia bizzarre teorie sulla comune origine di giapponesi e neri, opera di Elijah Muhammad della Nation of Islam (durante la guerra, Elijah Muhammad, arrestato per sedizione, avrebbe comunque fatto quattro anni di carcere per renitenza alla leva).
Mentre i pochi viaggiatori neri, abituati a terrificanti discriminazioni in tutto il mondo dominato dai bianchi, ricevevano un trattamento preferenziale in Giappone.
Una simpatia reciproca, come dimostra una diffusa letteratura nel Giappone dell’epoca sull’alleanza tra le “razze di colore” contro il dominio bianco, e direttamente fomentata da una schiera di agenti giapponesi negli Stati Uniti. Tanto che durante la guerra vi furono numerosi processi contro neri statunitensi accusati di tradimento e sabotaggio a favore dell’Asse. La polizia allarmata riferiva come a Harlem, i neri sostenessero che
“l’attuale capo dei giapponesi ha una madre africana e un padre giapponese”, e che “quando vinceremo la guerra, manderemo Roosevelt a raccogliere il cotone e Stimson e Knox [rispettivamente segretario alla guerra e alla marina] a portarci in giro in risciò”.
In Race War!, Gerald Horne data l’inizio simbolico del conflitto al 1919, quando l’estrema destra (ambiguità di certe sigle) fondò la “Associazione Giapponese per l’Uguaglianza delle Razze“, che chiedeva al Giappone di porre il divieto di discriminazioni razziali come condizione per il proprio ingresso nella Società delle Nazioni.
Così, nello stesso anno, la delegazione giappponese propose alle potenze vincitrici riunite a Versailles di inserire l’abolizione delle disuguaglianze razziali tra le fondamenta del nuovo sistema mondiale. Una proposta che venne abilmente schivata dagli americani e direttamente respinta dagli inglesi.
La strategia giapponese ebbe successo nei luoghi più vari: il vasto movimento indigenista dei Maori neozelandesi, il Ratana, strinse un’alleanza mistico-politica con il Giappone; mentre gli abitanti della Papua accoglievano i giapponesi come liberatori dagli australiani. E tra i prigionieri di guerra indiani, i giapponesi reclutarono un intero esercito, la cui avventura è oggi entrata in pieno nella mitologia dell’India indipendente, accanto alla figura di Gandhi.
Mentre, come dicevano alcuni analisti dell’intelligence statunitense citati da Horne, “se si svolgesse un plebiscito nazionale, il popolo messicano voterebbe per entrare in guerra, ma come alleati del Giappone”.
Per noi, è interessante il caso dell’Etiopia. La sciagurata invasione italiana di quel paese, tanto criminale quanto economicamente e strategicamente suicida, portò Mussolini a schierarsi a fianco di Hitler. Anche se non va dimenticato che poco dopo, Mussolini offrì invano alla Francia di permettere alle truppe francesi di attraversare l’Italia in caso di una guerra contro la Germania in difesa della Cecoslovacchia, in cambio del riconoscimento del suo bottino africano.[4]
L’Etiopia, vincitrice di Adua sugli aggressori italiani, aveva un’enorme valenza simbolica e mistica per milioni di neri americani. Mentre il principe etiope Lij Alaya Ababa, cugino dell’imperatore Hailè Selassiè, cercava addirittura una moglie giapponese per cementare i legami tra gli unici due imperi rimasti liberi dal dominio bianco, la Società del Drago Nero, organizzazione “leninista” del nazionalismo giapponese, organizzava manifestazioni a Tokyo contro l’attacco italiano; ma in Giappone prevalse la ragione di Stato, in nome dell’anticomunismo. Con lo stesso spirito opportunistico con cui il Giappone, “guida dei popoli di colore”, si alleò con il regime più apertamente razzista della storia, quello tedesco.
La guerra americana contro il Giappone ebbe un duplice aspetto.
Da una parte fu una guerra ferocemente razziale e razzista, in cui gli americani difendevano la “civiltà” contro il “pericolo giallo” e collezionavano teschi di scimmie gialle. Mentre in patria, l’intera comunità di origine giapponese veniva imprigionata (con un certo compiacimento da parte di molti neri, che vedevano l’occasione per occuparne la nicchia ecologica) – a differenza degli americani di origine tedesca, patriotticamente arruolati.
Non a caso, il più spaventoso esperimento di fisica della storia umana, la bomba atomica, ebbe come cavie due città giapponesi.
Life Magazine, 22 maggio 1944. “Foto della settimana. Quando due anni fa salutò Natalie Nickerson, 20 anni, operaia di guerra di Phoenix, Arizona, un tenente della Marina, alto e aitante, le promise un Jap. La settimana scorsa, Natalie ha ricevuto un teschio umano, autografato dal suo tenente e 13 amici, con le parole, “Questo è un Jap buono – uno morto, raccolto sulla spiaggia della Nuova Guinea”. Natalie, sorpresa dal regalo, lo ha soprannominato Tojo. Le forze armate disapprovano con forza cose simili”.
Allo stesso tempo, il governo degli Stati Uniti vedeva con un certo interesse la potenziale dissoluzione dell’impero inglese, contro il quale aveva condotto in passato dure guerre commerciali, e non avevano alcun interesse a riconquistare l’Oriente per gli sconfitti britannici e i loro mercati chiusi.
Il governo statunitense era anche cosciente del fatto che i giapponesi avrebbero potuto contare su un’immensa potenziale quinta colonna nel loro paese, costituita dalle minoranze oppresse.[3]
Il New Deal di Roosevelt, paradossalmente, era quanto di più simile al fascismo potesse germogliare negli Stati Uniti, e quindi il governo tendeva a bilanciare le divisioni etniche interne con un mito di unità nazionale, unica giustificazione dello strapotere del government nel paese dei liberi imprenditori.
Così, le autorità ordinarono di non enfatizzare le atrocità commesse dai giapponesi contro i prigionieri bianchi, che avrebbero potuto essere lette con una certa esaltazione dai neri americani. E ordinarono anche di evitare comportamenti particolarmente offensivi verso i neri nell’esercito e nelle fabbriche di armi in cui milioni di neri erano affluiti dal Sud.
L’esercito americano era razzialmente segregato in unità bianche e nere; ma durante la controffensiva tedesca del 1944, la penuria di soldati obbligò il generale Eisenhower ad arruolare soldati neri anche in alcune unità bianche, anche se mai in posizione di autorità su bianchi.
Quando nel 1948, il presidente Truman ordinò la desegregazione dell’esercito, la misura rimase lettera morta fino alla guerra di Corea, quando l’offensiva comunista obbligò l’esercito a integrare le unità bianche con leve nere.
Due casi che dimostrano come le grandi trasformazioni sociali avvengano più per necessità che per scelte ideologiche. Ma fu questa necessità, e non i presunti valori americani, a portare allo smantellamento del sistema razziale che era e restò ancora per qualche lustro uno dei pilastri degli Stati Uniti.
Gerald Horne fa vera revisione storica, nel senso che ci porta a rivedere integralmente il senso della Guerra.
“Revisione” è un termine che in Italia ha un significato che sfiora il ridicolo: lo scambio di insulti e di contabilità numeriche tra gli esaltatori di Giampaolo Pansa e i suoi detrattori, un tipico discorso obliquo per parlare di “destra” e di “sinistra”, con le solite strampalate conclusioni implicite – se i fascisti hanno ucciso degli innocenti, vuol dire che la riforma Gelmini è sbagliata; se i comunisti hanno fatto le foibe, vuol dire che la scuola pubblica va abolita.
Un dialogo tra sordi che permette a tutti, tra l’altro, di rimuovere le decine di migliaia di morti causati dai bombardamenti aerei. [5]
Certi conteggi sono molto difficili, ma se sommiamo le vittime delle foibe a quelle delle stragi naziste e fasciste in Italia , non arriviamo forse alla cifra delle persone uccise nei nove bombardamenti alleati sulla sola piccola città di Foggia nell’estate del 1943.
Horne ci fa rivedere un aspetto della Seconda guerra mondiale, che però ne trasforma in gran parte il senso, guardandola – forse per la prima volta – dalla parte della grande maggioranza dell’umanità, sottoposta all’epoca a varie forme di dominio “bianco”.
Ci fa cogliere poi come il razzismo non sia la creazione di “pazzi con il mito della razza”, ma viceversa, i miti della razza sono il prodotto di vicende sociali.
I piantatori della Virginia non avevano schiavi perché erano razzisti; divennero razzisti perché erano inseriti, allora, nel mercato più grande del mondo e si accorsero che i neri costituivano una manodopera facilmente riconoscibile, a differenza degli indentured servants e delle masse di orfani inglesi di cui si servivano all’inizio.
E il razzismo passò di moda, in larga misura, quando si scoprì che i lavoratori neri potevano essere usati come crumiri nelle fabbriche di Chicago contro irlandesi e italiani. Che a loro volta divennero razzisti…
Horne ci fa capire come poi siano infinitamente complessi i motivi dietro le scelte umane: cosa indusse ad esempio i soldati Sikh a schierarsi da quella che nella retorica si chiama “la parte del totalitarismo“, mentre i soldati musulmani del Punjab si batterono “dalla parte della libertà“?
Infine, Horne ci aiuta a capire il grande gioco di prestigio, per cui il razzismo – strumento universale del dominio occidentale sul mondo fino a metà Novecento – viene oggi scaricato su un unico attore, il baffuto Adolf Hitler, assolvendo i vincitori. E togliendo dalla storia la metà della guerra mondiale, ridotta a una faccenda tutta “tra bianchi”.
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Note:
[1] Disse Silvio Berlusconi : “E sarò sempre grato agli Stati Uniti di avere salvato il mio paese dal fascismo e dal nazismo a costo di tante vite americane.” Ora, in Italia, gli americani ci sono arrivati solo perché l’11 dicembre del 1941, Benito Mussolini aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti. Lo so che lo sapete, ma fa bene ricordarlo.
[2] Gerald Horne, The Color of Fascism: Lawrence Dennis, Racial Passing, and the Rise of Right-Wing Extremism in the United States. A proposito del processo del 1944, è interessante mettere a confronto l’incredibile correttezza giuridica con cui vennero trattati i presunti “sovversivi nazisti” in piena guerra mondiale, e come vengono trattati oggi i sospetti “terroristi islamici” in epoca di sostanziale pace mondiale.
[3] Immagino che esistano molte fonti in merito, ma non sono un esperto. Ne ho letto in Gerd Schultze-Rhonhof, 1939 Der Krieg, der viele Väter hatte. Der lange Anlauf zum Zweiten Weltkrieg. L’episodio è comunque bello, perché permette di riflettere sul significato che avrebbe avuto il termine “fascismo” nell’immaginario mondiale, se Mussolini si fosse schierato contro Hitler.
[4] Non solo nere. Armin W. Geertz ha documentato il ruolo di Adolf Hitler nel messianismo degli indiani Hopi di quegli anni: nella “profezia” Hopi tanto cara ai seguaci della New Age e agli appassionati di 2012, il caporale austriaco veniva trasformato in un improbabile redentore dal dominio bianco. Comunque, il rapporto tra nativi americani e bianchi fu profondamente diverso, nei suoi risvolti immaginari, da quello tra bianchi e neri.
[5] Scoprire che sono esistite violenze antifasciste durante e subito dopo la guerra non dovrebbe costituire un’offesa per nessuno.
Innanzitutto, perché un conto è il giudizio sui sistemi politici e un altro il conteggio dei morti. Secondo, basterebbe uscire dalla provincia italiana e riflettere sul numero di morti per “mano antifascista” nei Balcani o nei Paesi Baltici alla fine della guerra, oppure pensare a conflitti più recenti come quello liberiano, per poter rispondere con un semplice, “e allora?” a Giampaolo Pansa.
La Resistenza italiana è stata certamente violenta, c’era una guerra in corso, se ricordate. Ma in misura molto contenuta, rispetto alla norma in simili conflitti.
dal sito http://kelebeklerblog.com/
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