CINEMA

lunedì 23 gennaio 2012

LA CINA PUO' SALVARE IL CAPITALISMO?




LA CINA PUO' SALVARE IL CAPITALISMO?
di Sander




In tutto il mondo, gli stati capitalistici adottano delle misure d'austerità per rallentare la crescita del debito pubblico. Ma dal momento che frena il consumo, questa politica non è in grado di sostenere la crescita necessaria all'accumulazione del capitale.
Da dove può venire allora lo stimolo per mantenere la macchina in funzione? Per mancanza di alternative, lo sguardo si volge verso l’est. Sembra infatti che la storia - suprema ironia - abbia scelto la Cina "comunista" per il ruolo di salvatore del capitalismo mondiale.



Quale crisi?

PI (Perspective Internationaliste) individua nella crisi attuale non solamente un evento ciclico nel processo d’accumulazione del capitale ma la manifestazione dell’obsolescenza delle fondamenta stesse del modo di produzione capitalistico, cioè a dire, della forma valore. La quale costringe il capitalista a misurare la ricchezza in termini di lavoro astratto quando, invece, la creazione di ricchezza reale dipende sempre meno dalla quantità di tempo di lavoro fornito, e sempre più dalle applicazioni produttive della conoscenza.
La previsione di Marx (nei 'Grundrisse'), che individuava in questa contraddizione fondamentale i limiti storici del capitalismo, trova oggi la sua piena realizzazione. Fondare sulla legge del valore le decisioni su cosa, come, quanto, dove e per chi produrre è diventato assurdo. Questa assurdità si manifesta nella coesistenza di una sovrapproduzione diffusa e di un’estrema povertà, nell’incapacità crescente del capitale di sfruttare l'aumento della forza lavoro disponibile –il cui effetto è la rapida espulsione di manodopera dalla produzione- mentre il denaro ricerca una sicurezza illusoria nelle bolle finanziarie.

Questa assurdità si manifesta negli sforzi fatti per imporre una carenza artificiale di beni che sarebbero altrimenti abbondanti e privi di valore (come i beni informatici). Nell'incapacità del Capitale di porre fine alla distruzione dell'ambiente, pur sapendo che le conseguenze disastrose sono sempre più minacciose.
Nell’incapacità del capitale di superare la propria crisi. Benché sempre più evidente, questa assurdità sfugge ai capitalisti, come a tutti coloro che guardano al mondo da questa punto di osservazione. Non potrebbe essere altrimenti. Poiché il capitale è dominato dalla legge del valore, come un animale lo è dalla sua natura animale. Il capitale non può risolvere un problema la cui soluzione esige la sua abolizione. Di fronte alla sua crisi, esso può solo attaccarne i sintomi, alternare misure di rilancio e di austerità, cercare di ritardare l’inevitabile declino. Che questi sforzi possano portare ad una ripresa, ne dubitiamo. Inoltre, a prescindere dalle misure adottate, l'economia capitalista ha sempre un carattere ciclico, anche quando la tendenza generale va verso un acuirsi della crisi. Non c’è bisogno di dimostrare che è esattamente questa la situazione attuale. La crisi s’aggrava e la ripresa non riesce a dissimularlo.

La metamorfosi del valore

L'accumulazione di capitale percorre dei cicli nei quali il valore si trasforma, il denaro si trasforma in merci e le merci di nuovo in denaro: A- M-A'. Il denaro A (valore astratto) è il punto di partenza. Esso acquista la merce M, i mezzi di produzione, il cui valore è trasmesso nella merci ottenute tramite il loro consumo produttivo. Questi nuovi prodotti sono venduti, il che trasforma nuovamente il valore in denaro, A'. L'unica ragione per la quale il denaro iniziale, A, si trasforma in M, è che A' è maggiore di A. La trasformazione è redditizia.
L’analisi marxista rivela che la fonte del profitto è il plusvalore, ossia, la differenza tra il valore del lavoro vivo acquistato dal capitalista (che, come per ogni merce, equivale alla quantità di lavoro astratto necessaria per la sua riproduzione) e il valore che viene prodotto per il capitalista (la quantità di lavoro astratto svolto).

Più la produttività aumenta, meno lavoro è necessario per produrre l'equivalente del salario, tanto più grande è la parte di giornata lavorativa che è plusvalore. Ma questo plusvalore non può mai essere maggiore della giornata lavorativa. Lo stesso aumento della produttività è accompagnato da una diminuzione relativa del valore del lavoro vivo rispetto a quello del lavoro speso (tecnologie, attrezzature, infrastrutture) nella produzione. Essendo solamente una parte del lavoro vivo, il plusvalore cade insieme ad esso. Poiché il profitto = plusvalore, c’è un problema, specialmente in un mondo che funziona sempre più sui processi automatizzati. La produttività non salva il capitalismo, al contrario, ne fa emergere le contraddizioni. Tanto più aumenta e si generalizza, tanto più il valore di ciò che viene prodotto si abbassa rispetto al valore del capitale investito.

Nella fase successiva del ciclo del valore, la produttività crea un altro problema. In effetti, la trasformazione delle merci in denaro (M-A') non avviene automaticamente. L’aumento della produttività rallenta la produzione di valore ma accelera la produzione di valori d'uso. A differenza del consumo improduttivo, che può sempre espandersi, il consumo produttivo è limitato dai valori d’uso di cui la produzione ha bisogno. Ora, questi valori non aumenteranno per il fatto che la capacità di produrli si accresce. Il mercato di referenza è la domanda di beni capitali e di consumo necessari per la riproduzione della forza lavoro. È la sua espansione che permette l'espansione del valore nel ciclo successivo. È questo mercato che alla fine è incapace di seguire l'accelerazione della produttività. La generale sovrapproduzione di tecnologie (basti visitare città come Detroit per convincersene), e soprattutto di manodopera (quasi 2 miliardi di disoccupati) lo dimostrano.

Senza accumulazione, niente valore

Quando queste strozzature economiche (colli di bottiglia) sono riapparse nel 1970 -dopo “trent’anni gloriosi”, resi possibili dalla guerra e dall'espansione del mercato mondiale sotto l’egida del dollaro-la tendenza generale è stata quella di gonfiare A, per sostenere la domanda, e per stimolare A-M. La legge del valore ha punito questo “trucco” con un'inflazione galoppante. I tentativi di controllarla a spese della classe operaia si sono scontrati con una dura resistenza. La crescita del capitale fittizio nella circolazione delle merci svalutava il denaro e ne incentivava l’uscita dalla circolazione. Inoltre, dal momento che l'inflazione rendeva imprevedibile il valore reale dei prezzi futuri, essa dissuadeva AM, gli investimenti produttivi e incoraggiava gli investimenti speculativi. A preferiva restare A, invece di trasformarsi in merce. Ma ciò non era possibile...

Il capitalismo non può sopravvivere senza un «tesoro». Occorre poter ritirare dalla circolazione il denaro preservandone il valore, per re-iniettarvelo al momento opportuno. Ma il denaro, il valore astratto, non è stabile. Il suo potere risiede precisamente nella sua capacità di trasformarsi in altre merci. Ecco perché, il valore del «tesoro» dipende dalla valorizzazione reale, dalla creazione di valore, che solamente può realizzarsi nella fase M, cioè a dire, nella produzione. Altrimenti, diventa carta straccia. L’inflazione indica che questo valore si riduce rispetto al denaro in circolazione. Se il denaro accumulato si fa trascinare dalla perdita di valore della moneta in circolazione, scoppia il panico. L'accumulazione non ha più scopo. Il denaro cerca disperatamente rifugio nell’oro o in opere d’arte, cerca di proteggersi tramite tassi di interesse esorbitanti, i quali strangolano una produzione già paralizzata ... è questa una possibile via verso il crollo.

Il valore è un'astrazione oggettiva, cioè a dire una costruzione sociale che ha preso le sembianze di una realtà obiettiva, di una caratteristica intrinseca delle cose. Non lo è. In fin dei conti, si tratta di un sistema di credenze che crolla quando il denaro non può più essere accumulato.

Cominciata negli anni ottanta, la ristrutturazione del capitale è riuscita a controllare l'inflazione, a risollevare il saggio del plusvalore, e quindi il saggio di profitto, e a ripristinare la fiducia nella tesaurizzazione. Abbiamo analizzato più in dettaglio in altri testi come ciò sia avvenuto [1]. Ci limiteremo qui a ricordare il ruolo cruciale svolto dalla mondializzazione. L'integrazione mondiale delle catene di produzione e dei mercati, la deregolamentazione e la mondializzazione del capitale finanziario, l'emergere della produzione post-fordista nei paesi avanzati e il massiccio trasferimento dell'industria fordista nei paesi con bassi salari.



La Cina in soccorso

La Cina è di gran lunga il paese che è stato trasformato di più dalla ristrutturazione. Da una situazione di capitalismo autarchico, che è fallito, il paese è diventato, nel giro di qualche decennio, la seconda economia mondiale ed il più grande produttore industriale. Nel 1990, essa produceva il 3% del prodotto industriale mondiale, venti anni dopo, il 19,8%, vale a dire, più dell'Unione Europea, che ha detenuto il primato mondiale per ben 110 anni [2].
Il capitale ha beneficiato di questa spettacolare espansione in diversi modi. I prodotti cinesi a basso costo hanno permesso di contenere l'inflazione, la combinazione di bassi salari e tecnologia moderna ha generato enormi profitti per gli investitori occidentali e giapponesi, e la minaccia realistica di delocalizzare le fabbriche in Cina ha contribuito a contenere i salari nei paesi avanzati.
Anche rispetto all’espansione del mercato mondiale, l’impatto è stato considerevole. Non tanto per l'apertura del mercato interno cinese (che è certamente grande, ma limitato dall’estrema povertà della maggioranza della popolazione) quanto per il suo effetto indiretto e paradossale sul mercato dei clienti esteri. Poiché la sua espansione è stata trainata dal commercio, e perché lo Stato cinese ha mantenuto la pressione sui salari, e quindi sui consumi, della classe operaia - dato che il loro basso livello è la sua principale arma competitiva, la Cina ha beneficiato a lungo d’un surplus commerciale. Come era già avvenuto in passato con altri paesi (soprattutto il Giappone), la cui espansione industriale dipende dal mercato statunitense, la Cina ha utilizzato questi profitti per accumulare un tesoro di dollari, di debito pubblico e di titoli immobiliari americani.

Tesaurizzandoli, la Cina ritira dei dollari dalla circolazione e, così facendo, rende la valuta statunitense più forte di quanto non lo sia in realtà. Questo è il motivo principale: per difendere la sua posizione competitiva sul mercato verso il quale è prevalentemente orientata la sua industria. Per lo stesso motivo, la Cina compra il debito pubblico degli Stati Uniti e fornisce alla Banca federale i mezzi per abbassare i tassi di interesse e stimolare la domanda. La sua strategia, secondo o contro la sua volontà, poggia sulla fiducia nel dollaro americano come custode del valore.
Con la vendita di merci al di sotto del valore che avrebbero qualora fossero prodotte localmente, e accettando un pagamento che è ampiamente accumulato invece di chiedere un termine equivalente, la Cina e altri paesi in condizioni analoghe non solamente stimolano direttamente il potere d'acquisto nei loro mercati, ma anche indirettamente, contribuendo all’inflazione dei loro beni.

Il capitale americano l’ha fatta da padrone. Con i suoi tassi di interesse vicino allo zero (che non avrebbe mai potuto mantenere se la domanda cinese e giapponese non fosse andata a coprire i suoi debiti), i suoi tagli alle tasse, la deregolamentazione, le privatizzazioni, la mercificazione dei servizi e delle finanze, ha gonfiato la domanda dei suoi titoli e beni immobili e, quindi, i loro prezzi. La fiducia nella capacità di accumulare valore era completamente restaurata. Nel 2004, l'economista Stephen Roach stimava che l'80% dei risparmi netti del mondo si dirigevano verso l'UE.

Una quota crescente dei profitti mondiali è stata sottratta alla circolazione generale e trasferita al tesoro statunitense. Dopo lo scoppio della crisi, le politiche "neoliberali" a sostegno di questo processo sono state severamente criticate in quanto la crisi ne ha rivelato il carattere speculativo. Ma dal punto di vista capitalistico, quel era l'alternativa? Le misure auspicate dalla sinistra capitalista, vale a dire, maggiori investimenti produttivi -sotto la direzione statale, ove necessario- e maggiore sostegno alla domanda per il tramite d’aumenti salariali, non avrebbero fatto altro che portare sovrapproduzione ed accelerare ancor più l'inflazione.
L’opzione «neoliberale» aveva almeno il vantaggio di allontanare per qualche tempo queste minacce. Distogliendo fondi agli investimenti produttivi e sottraendolo denaro alla circolazione generale, si compensava la tendenza alla sovrapproduzione e all’inflazione. E si rendevano i ricchi ancora più ricchi.
In particolar modo i mercanti della finanza. « i profitti reali » - ha detto un uomo di Wall Street- « non si fanno nella produzione, ma comprando e vendendo. » O anche non facendo nulla, visto che i prezzi delle azioni e degli immobili aumentano di giorno in giorno. Fin quando l’aumento dei «valori» compensava gli interessi, indebitarsi era perfettamente razionale per coloro che avevano i soldi. Per un povero, il debito è costoso, ma per un ricco, è fruttuoso. Non è sorprendente che l'illusione che il capitale possa accumularsi nella forma A-A', senza dover passare attraverso questa fase dolorosa M, si diffonda.

Ma in realtà, è solo in questa fase che si crea valore, il valore di C + V (il capitale investito in mezzi di produzione e forza lavoro) si trasforma in C + V + P (plusvalore), è solo in questa fase che il lavoro astratto va a sommarsi al valore del capitale. Naturalmente, con l'inclusione della Cina ed altri paesi con bassi salari, e con il declino relativo dei salari nei paesi avanzati, la creazione di valore è cresciuta, ma non ad un ritmo vertiginoso delle finanze. Il valore del tesoro non è una realtà oggettiva, ma un atto di fede. Difendere la fede nel proprio tesoro è l'obiettivo principale dello Stato capitalista. È in suo nome che si conducono le odierne Crociate. Per mostrare il suo potere, per rassicurare gli azionisti.

La falsa promessa di austerità

Quando la crisi ha fatto scoppiare la bolla speculativa e mostrato che l'arricchimento era solo apparente, ed in gran parte dovuto all'inserimento di capitale fittizio nel ciclo del valore, la capacità d’accumulare valore è stata nuovamente messa in discussione. C’è voluta un aumento della spesa storicamente senza precedenti e, per conseguenza, del debito dei paesi più ricchi, per sostenere le istituzioni finanziarie ed evitare che la fede nel tesoro privato venga meno. È la fede nello stato che l’ha sostenuta. Ma per sostenere la crescita del capitale fittizio, si è creato ancor più capitale fittizio.

E non finisce qui. Con la sua politica di "quantitative easing" (alleggerimento quantitativo), la banca federale americana continua a sostenere i prezzi dei titoli mobiliari (debito pubblico ed ipoteche) che compra alle banche per centinaia di miliardi di dollari creati ex nihilo, premendo un pulsante del computer. E l'UE ha ancora creato centinaia di miliardi di euro per salvare dalla bancarotta i suoi membri più indebitati. Anche i paesi che hanno imposto misure di austerità draconiane continuano ad emettere nuovi titoli di credito, non fosse altro che per rifinanziare il vecchio disavanzo pubblico. Tutti i paesi che si sono incamminati sulla via dell’austerità hanno un deficit di bilancio, spesso in aumento, ma ad un ritmo più lento rispetto a prima. Del resto, essi non potrebbero funzionare altrimenti. Il debito pubblico continua quindi a lievitare, mentre l’austerità, ostacolando l’espansione del mercato e la creazione di un nuovo potere d'acquisto, riduce le entrate dello Stato, il che produce ancora più debito...

Così la crisi di fiducia nella capacità del capitale privato di accumulare valore diventa una crisi di fiducia nello stato come custode del valore. Questa crisi, che già colpisce i concorrenti più deboli, si sta dirigendo verso il centro del sistema.

Le migliaia di miliardi di nuovo debito sono merci, che devono competere con tutte le altre merci per trovare degli acquirenti. Accrescendosi, la loro offerta esige una quota di potere d'acquisto tale per cui poco rimane per le altri merci. Tutto ciò non fa che accrescere la saturazione del mercato, scoraggiare gli investimenti produttivi e, quindi, la creazione di nuovo valore.
L'austerità deve migliorare l'immagine del paese, ispirare fiducia nella sua capacità futura di onorare il suo debito. La crescita dei debiti pubblici implica che la concorrenza tra di essi in questo mercato è in crescita sulla base di questa fiducia. Tanto più grande è l’offerta di "porti salvi" come l'UE, tanto più i paesi indebitati sono costretti, se vogliono rimanere competitivi nel mercato del debito e impedire la fuga di capitali, a migliorare la loro capacità di pagare con misure di austerità.
Obiettivo dell’austerità è di convincere i mercati finanziari che è conveniente comprare debito pubblico, convincerli che la capacità d’accumulare valore resta intatta. Ma questa strategia si basa sull'illusione che A può diventare A' senza espansione del valore nella fase M. Essa scommette che l'economia può pagare per dei debiti in crescita esponenziale senza una corrispondente crescita della produzione. È questa una strategia a breve termine : i risparmiatori creano dello spazio per pagare i creditori, ma non stimolano la creazione di nuovo valore. Al contrario, lo fanno diminuire, riducendo la futura capacità di pagare i debiti.
Anche nella sfera della produzione, l'attenzione è posta sulla riduzione dei costi: tagli sulla manodopera, sui salari, sulle materie prime, sugli oneri accessori. I primi due hanno permesso la ripresa attuale, nella quale si produce di più con meno lavoratori. Questa situazione riflette un aumento del tasso di sfruttamento (P/V) ma anche una crescita della composizione organica del capitale (C/V), ottenuti non tanto tramite nuovi investimenti tecnologici, quanto, piuttosto, realizzando una riduzione di V, che, tecnicamente, era già possibile, ma che ora, col pretesto della crisi, si è potuto imporre. Ciò rinforza la tendenza alla contrazione della domanda della classe operaia –la quale acuisce il problema della realizzazione del valore- e riduce il lavoro vivo rispetto al lavoro speso nella produzione -con il conseguente aggravamento del problema della creazione di valore. Per il capitale, c'è un solo modo per difendersi contro la svalutazione che gli impone la legge del valore: far pagare la crisi alla classe operaia. Ma l'ondata senza precedenti di scioperi dello scorso anno, in Cina e altri paesi asiatici, la rivolta massiccia nei paesi arabi questa primavera, l’accanita resistenza contro l'austerità del proletariato greco e di altri paesi europei, mostrano che tutto ciò non sarà facile.

Il timore che si arrivi ad una situazione in cui il controllo sociale possa sfuggir loro di mano, induce gli Stati alla cautela. Già, i giovani proletari che occupano le piazze spagnole stanno cominciando a chiedersi se un altro mondo che quello del valore è possibile.

Ma per il capitale, non c'è alternativa. Nessun scenario immaginato dai suoi apologeti può farlo evadere dalla gabbia nella quale lo imprigiona la legge del valore. Nei numeri precedenti di PI, abbiamo discusso del perché la «tecnologia verde» non lo salverà [3], e del perché la tecnologia informatica, il monopolio e la carenza intrattenuta artificialmente non lo salveranno [4]. Resta la speranza riposta sulla Cina, la quale sembra ricca e disperatamente bisognosa di tutto o quasi. Il mercato ideale per rilanciare l'economia mondiale.

I limiti della locomotiva cinese

La Cina potrà impedire al capitale mondiale d’affondare? Come abbiamo visto prima, lo ha fatto, in larga misura, nel quarto di secolo scorso. Ma, manifestamente, tale effetto benefico non gli ha impedito di sprofondare nella crisi più grave che si è avuta dagli anni trenta. Per uscirne, bisognerebbe che quest’effetto si rinforzasse. Ma è il contrario che si sta producendo. Tanto come fonte di plusvalore che come mercato, l’effetto benefico per il capitale diminuisce. Il primo : a causa della crescita del valore della forza lavoro cinese, il secondo, a causa del suo debito e della crescente inflazione.

L'aumento del valore della forza lavoro

In buona parte, l’effetto benefico si fonda su un’offerta abbondante di manodopera a basso costo e, con l'aiuto di Confucio e di Stalin, ben disciplinata. Tale offerta è andata scemando quando lo sviluppo della Cina ha cambiato la sua società, spingendo verso l'alto il valore della forza lavoro.
La maggior parte dei lavoratori che producono tutti questi prodotti a buon mercato, che mantengono l'inflazione ad un livello relativamente basso per l'Occidente, sono migranti (80% dei minatori, 70% dei lavoratori nel settore edile, 68% della produzione industriale, il 60% del personale dei servizi). Sono tra i 150 e i 200 milioni e vengono dall’interno del paese, un esodo enorme ma ben organizzato, volto a fornire la forza lavoro necessaria alla «catena di montaggio mondiale». La prima generazione di questi migranti è formata da contadini e altri paesani che non hanno mai conosciuto altro che un mondo di povertà. Il valore della loro forza-lavoro è determinato dal loro costo di riproduzione, che varia da una società all'altra. Nell’entroterra della Cina e dell’India, dove la società è caratterizzata da una povertà diffusa da molte generazioni, i beni di consumo ritenuti socialmente necessari per la riproduzione della forza lavoro sono minimi. Ciò fa sì che il valore della forza-lavoro sia così basso per il capitale.

Il capitale cinese ha gestito la forza lavoro in maniera tale da impedire che questo stato di cose possa cambiare. Per questo, ha utilizzato il sistema di registrazione Hukou, il quale lega il lavoratore al luogo suo luogo di origine. Ciò significa che, al di fuori del suo luogo di nascita (dove spesso non esistono), egli non ha diritto a prestazioni quali l'assistenza medica, né al permesso di soggiorno quando perde il lavoro (ciò che assomiglia fortemente al sistema dei homelands, in vigore sotto il regime dell'apartheid in Sud Africa, e anche al trattamento riservato ai lavoratori temporanei in Occidente). Facendo leva sull’entroterra, questo sistema mira a determinare artificialmente il valore della forza lavoro delle regioni industrializzate, a creare divisione in seno alla classe operaia, a favorire l'intimidazione dei lavoratori e a fare in modo che la migrazione interna non diventi incontrollabile.

Pur vivendo in un mondo molto diverso da quello dei loro genitori, pur avendo pochi legami col luogo di origine, secondo il sistema Hukou, i figli di questa prima generazione debbono considerarsi «migranti». Eppure, questi giovani urbanizzati vivono in un ambiente molto più tecnologizzato, complesso e ricco. Ambiente che è stato trasformato dal consumo stravagante di tutti questi nuovi ricchi che li circondano [5]. L'emergere di una società industrializzata implica che il valore della forza lavoro cambia. Inevitabilmente, i beni di consumo considerati come necessari alla sua riproduzione aumentano. La generazione più giovane non accetta più il sistema Hukou e i vincoli che impone [6]. A causa della sua pressione, il sistema era già in decomposizione, l'ondata di scioperi della scorsa estate gli ha forse dato il colpo di grazia. I salari sono aumentati notevolmente nelle regioni industriali costiere, anche per i migranti (quasi dell'80%, tra il 2003 e il 2009, del 50%, da allora) e l’aumento non si arresta.

Già dei capitali abbandonano questa regione per impiegarsi laddove i salari sono ancora più bassi, come in Vietnam, in Bangladesh o all’interno della Cina. Ma ancora una volta, le modifiche apportate alle condizioni di sopravvivenza dall’industrializzazione stanno spingendo i salari verso l’alto. Inoltre, la crescente combattività del proletariato cinese sembra abbia avuto un impatto su quella dei lavoratori degli altri paesi della regione. In Vietnam e in Bangladesh, il numero e l’intensità delle lotte operaie sono aumentati nel 2010. Le frontiere sono sempre meno in grado di prevenire una tale contaminazione. Le notizie viaggiano veloci al di fuori dei media ufficiali, come lo hanno dimostrato gli eventi nel Maghreb. In Vietnam, i salari crescono altrettanto rapidamente che in Cina. In Bangladesh, lo scorso anno, il salario minimo è aumentato dell’85%. Nell’entroterra della Cina, i salari rimangono ancora più bassi rispetto alla costa, ma aumentano a una velocità superiore [7].

Sembrerebbe quindi che la capacità del capitale di combinare tecnologia moderna con salari sempre più bassi, che ha sostenuto il suo tasso di profitto per almeno due decenni, abbia raggiunto il limite. Certo, ci sono ancora posti nel mondo dove il valore della forza lavoro è ancora più basso (soprattutto in India); ma la mancanza di infrastrutture (strade, porti ...) pone qui altri limiti. La speranza che i salari bassi in Cina e in paesi simili faranno rivivere al capitale mondiale l’illusione di non fondarsi quindi sulle tendenze oggettive dell'economia reale. Naturalmente, tutto ciò potrebbe cambiare qualora il capitale cinese fosse in grado di spingere il prezzo della forza lavoro ben al di sotto del suo valore, ma, al momento, le condizioni non sono favorevoli.

La politica di rilancio ha creato una bolla

Negli ultimi dieci anni, la crescita vertiginosa delle sue esportazioni ha consentito alla Cina di ridurre notevolmente il peso dei salari sul PIL e di concedere aumenti salariali. L’espansione della torta era sufficientemente grande per adattarsi ad un aumento del potere d'acquisto dei lavoratori, che, proporzionalmente, diventava una porzione più piccola della torta. Non è più così.
Ovviamente, la contrazione del mercato seguita allo scoppio della crisi ha causato delle ingenti perdite alla sua economia, tanto più che essa è strutturata attorno al settore delle esportazioni. Preoccupato per le conseguenze sociali di un rallentamento economico, lo Stato ha reagito adottando un programma d’intervento ambizioso. Solo l'Unione europea ha speso di più. Ma mentre l'UE ha istituito fondi per sostenere le proprie finanze e i valori americani, la Cina lo ha fatto per stimolare gli investimenti. Ma questa crescita esponenziale di denaro ha portato ad una corrispondente crescita di valore?
A quanto pare no: sempre più debiti non sono rimborsati. Il denaro che è stato creato a questo fine è fittizio, ma circola. Indebitamento, speculazione, inflazione costringono la Cina a rinunciare, o quantomeno a ridurre notevolmente, alle misure di rilancio. La speranza di chi vede in essa un mercato in continua crescita, avrà un rude risveglio.

Le politiche di rilancio della Cina hanno contribuito notevolmente ad attenuare la crisi del capitale. Comprando miliardi di dollari, giorno dopo giorno, la Cina offre alle FED americana la flessibilità necessaria per creare dollari a un ritmo più elevato. Lo fa per arrestare la svalutazione del dollaro nei confronti della propria valuta, il RMB [8], e proteggere così la sua competitività rispetto al mercato americano. Nello specifico: molte aziende situate nelle province costiere, che producono per il mercato estero, già funzionano con un tasso minimo di profitto. I loro contratti sono in dollari, ma i fornitori sono pagati in RMB. Una forte svalutazione del dollaro sarebbe loro fatale.

Non è dunque sorprendente che la Cina usi il suo programma di rilancio per ridurre la sua dipendenza dalla produzione fordista, e diventare così un produttore complessivo e non più legato solo alla standardizzazione di produzione medio-bassa, per il quale i profitti non provengono tanto dal basso valore della forza lavoro quanto, piuttosto, dalla rendita tecnologia. Gli sforzi compiuti in questo senso, come la modernizzazione delle infrastrutture, hanno favorito le esportazioni dei paesi avanzati. Soprattutto dalla Germania, primo produttore di tecnologia moderna. Dal 2009, le esportazioni tedesche verso la Cina sono aumentate del 40%.
Da paese dai treni vetusti ed obsoleti, la Cina è diventata dapprima importatore, poi esportatore di TGV. E questo cambia le cose. I luoghi privilegiati diventano luoghi affollati. La Cina sta diventando un esportatore di tecnologia verde, mentre le sue fabbriche sputano in aria veleno come se il futuro non esiste.



Maledetta finanza

Può sembrare semplice a prima vista. La Cina ha dei bisogni enormi, e delle enormi riserve finanziarie. Basterebbe fare la somma e ciascuno vi troverebbero il suo tornaconto. Ma è semplice solo ove si ritenga che denaro e valore siano la stessa cosa. Se la Cina decidesse di diventare un produttore complessivo in tutti gli ambiti d’attività e impiegasse le sue riserve finanziarie per dotarsi della migliore tecnologia in tutti i settori, il paese diventerebbe per qualche tempo -prima che sopraggiunga una gigantesca crisi di sovrapproduzione- un mercato d’ultima spiaggia per il resto del mondo. Ma non può farlo.
Queste riserve finanziarie sono debito e soldi di altri paesi, principalmente dell'Unione europea. Fino a che misura questi soldi rappresentano del valore reale o solo del capitale fittizio? Il loro carattere in parte fittizio resta dissimulato nella finanza -almeno fin quando vi si crede- ma si rivelerebbe qualora la Cina rilasciasse la quantità di dollari necessari alla realizzazione di questo piano. Se la Cina decidesse di far fruttare le enormi riserve in dollari che giacciono innocui nelle sue casseforti, gettandoli nell'economia mondiale, otterrebbe l'effetto contrario a quello desiderato: una forte svalutazione del dollaro che nuocerebbe al tasso di profitto dell’industria esportatrice nonché alle sue riserve finanziarie, per di più, questo provocherebbe un’accelerazione mondiale dell'inflazione.

Le conseguenze sarebbero altrettanto catastrofiche per l’economia del paese se, invece di investire massicciamente le sue riserve finanziarie, la Cina decidesse d’impiegarle per finanziare un aumento generale del potere di acquisto: il costo del lavoro, che resta la sua principale arma competitiva, rincarerebbe; l'inflazione e gli investimenti speculativi, che hanno ormai raggiunto un livello allarmante a causa della rapida creazione di denaro (emissione di valuta), diventerebbe incontrollabile. È come se ci fosse un maleficio sulle riserve finanziarie della Cina: queste migliaia di miliardi di dollari mantengono il loro valore a condizione che non li si tocchi.

La paura delle reazioni "umana"

Vi è un'altra ragione per cui la Cina non può fare questa «semplice operazione». Perché, per esempio, non sviluppare il settore agricolo cinese e renderlo altrettanto produttivo di quello dell'Ue? Tecnicamente, nulla lo impedisce. E invece, per il suo agrobusinness, la Cina va alla ricerca di terra da comprare molto lontano, in Africa e in Brasile. Per il semplice fatto che, se lo si facesse in Cina, si provocherebbe l'espulsione verso le città di centinaia di milioni di persone. Un incubo sociale che la classe dominante intende assolutamente evitare.

Situazione analoghe si riscontrano in molti altri settori d’attività. Non si può ridurre la Cina alla regione industriale del Sud e alla zona d’agricoltura di sussistenza dell’entroterra. La maggior parte delle aziende sono dei capitali a bassa composizione organica (C/V), vale a dire, impiegano molta manodopera ma hanno una bassa produttività. Queste aziende hanno potuto sopravvivere grazie al basso valore di V, la forza lavoro (l’esperienza maoista l’ha ulteriormente abbassato: il valore della forza lavoro = non morire domani, la «ciotola di ferro» e nulla più ), e per il fatto che il mercato interno cinese è solo parzialmente aperto. Ma anche grazie ai prestiti bancari, cioè, grazie allo stato. Nel corso degli ultimi tre decenni, lo Stato ha abbandonato alla loro sorte centinaia di migliaia di queste imprese. Non solo per realizzare delle economie, ma anche per alimentare, non troppo, non troppo poco, la fiumana di forza lavoro requisita dall'industria fordista costiera in piena espansione. Ne restano ancora milioni. Sostenerle è l’obiettivo principale del programma di rilancio della Cina. Se essa non ha potuto salvare dal fallimento molte migliaia, ne ha comunque mantenute in vita molte altre, dando loro appalti (progetti d’infrastrutture, il cui obiettivo principale è di spostare rapidamente un gran numero di migrati) e soprattutto fornendo loro prestiti di cui una buona parte non verrà mai restituita.

Secondo il FMI, il rapporto debito/Pil della Cina è del 22%, cioè, di molto inferiore a quello dell'Unione europea. Ma questa cifra non include i debiti di migliaia di società di investimento messe in piedi dai governi locali, i quali, partecipando ai lavori pubblici, fanno sopravvivere numerose imprese che, in termini di valore, non avrebbero più ragion d’essere. Come tutte le entità del capitalismo, queste aziende si fanno una concorrenza spietata per attrarre capitali. Secondo i calcoli dell’economista della Northwestern University, Victor Shih, alla fine del 2009, il debito di queste società ammontava a 11.400 miliardi di yuan (1,7 miliardi di dollari) o 35% del PIL cinese, e, tenendo conto dei crediti già loro assegnati (linee di credito aperte), esso aumenterà ancora di 12.700 miliardi di RMB verso la fine del 2011.

Già il 28% di questi prestiti sarebbe non performing. Se vi si include questo debito, alla fine del 2009, il rapporto debito/PIL era del 75%, e dovrebbe passere al 97%, alla fine del 2011, e superare quello attuale dell'UE (94%) [9]. La speranza che poggia sulla convinzione che la Cina può fungere da locomotiva perché non è sottoposta al giogo di un debito eccessivo, che obbliga altre grandi economie all’austerità, sembra ingiustificato. Come altrove, in Cina, lo Stato cerca disperatamente di compensare la mancata creazione e realizzazione di valore accumulando debiti, ma la sua capacità di farlo si erode. I suoi sforzi hanno portato ad un eccessivo indebitamento, un tasso d’inflazione (ufficialmente ancora al di sotto del 6%, in realtà, almeno il doppio) che minaccia la capacità di accumulare valore, alle bolle speculative, soprattutto nel settore immobiliare [10]. Per queste ragioni, la Cina ha deciso di rinunciare al programma di rilancio. Dallo scorso autunno, il governo ha indicato alle banche di limitare severamente i loro prestiti e iniziare a liquidare migliaia di società di investimento. La sua economia comincia a raffreddarsi. Allo stesso tempo, la pressione per salari più alti (o meglio meno bassi) continua. Addetti ai servizi, ai trasporti e i colletti bianchi che non hanno avuto gli aumenti che hanno ottenuto i lavoratori dell'industria, li chiedendo a loro volta.

Alcuni osservatori ritengono che le misure antinflazionistiche prese dalla Cina siano troppo timide e arrivano troppo tardi. E che in un clima di stagflazione, sarà difficile allo stato mantenere il controllo sulla società. Non spetta a noi prevedere se la Cina farà un «atterraggio dolce» o un «Crash» [11]. Ma in entrambi i casi, ha fatto atterrare le speranze riposte nel mercato. Molto meno di prima, la Cina continuerà a crescere. Ma, come altrove, questa crescita creerà meno posti di lavoro di quanti ne distruggerà. La Cina cerca di limitare questa tendenza, per paura di convulsioni sociali, ma diventa sempre più difficile farlo. In Cina come altrove, il dilemma della classe dirigente è come gestire tutto questo capitale variabile superfluo. Non solo i migranti ed altri profughi dalla miseria rurale, ma anche milioni di laureati per i quali non vi è più spazio nell'economia [12].
Dappertutto si ritrova la stessa situazione. Ovunque, l'incubo del capitalismo è, che cosa ci faremo con tutte queste persone? Dove possiamo stoccarli, come tenerli tranquilli? Come separarli da quelli che ci sono necessari? Come impedire di rivoltarsi? Come farli sparire?

Per ora, il capitale cerca di ridurne i costi. Consapevole che non si può eternamente creare nuovo debito per sostituirlo a quello non performante passato, o, in altre parole, che non si può continuare a nascondere con del capitale fittizio che il capitale finanziario è fittizio, riducendo i suoi costi, il capitale cerca spazio fiscale per difendere la fede nella capacità di tesaurizzazione del propri debito.
Negli ultimi tre anni, migliaia di miliardi di dollari, euro, yen e RMBS sono stati creati per sostenere un tesoro privato minato dai suoi debiti cattivi (crediti inesigibili), trilioni supplementari sono stati creati per impedire che la spirale deflazionistica sfoci in depressione. Mai così tanti soldi sono stati creati in un lasso di tempo così breve. Ma la pressione deflazionistica è stata solo allentata, non eliminata. Questa è e rimane una bolla economica. Il capitale continua a aggirare la fase M per arrivare a A' e, così facendo, indebolisce A'. È questa una verità che l’emissione di valuta, i tagli alle tasse e altri doni ai proprietari di capitale possono dissimulare solo provvisoriamente.

Così il pendolo oscilla dall’incentivo all’austerità. La Cina ha smesso il suo programma di rilancio, l’UE fa altrettanto con la sua politica di quantitative easing, nel Congresso, si pone l'enfasi sul risparmio, l'Unione europea sembra essersi stancato di piani di salvataggio e tutte le banche centrali stanno adottando provvedimenti per limitare il prestito, per proteggere le loro finanze.
Allo stesso tempo, il proletariato, la gente che ha solo il suo lavoro per sopravvivere, in Cina come altrove, non è in vena di sacrificio e scopre nuove forme di lotta, di comunicazione e di resistenza.

Una collisione è inevitabile. Come diceva Bette Davis: «Allacciate le cinture, sarà un viaggio accidentato».



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NOTE

1] Vedere, tra gli altri, PI 49 “creation de valeurs et la crise du capitalisme”.


[2] Ma l'UE produce quasi altrettanto, il 19,4%, con quasi un decimo della forza lavoro: 11,5 milioni di lavoratori del settore industriale contro 110 milioni. Il divario di produttività rimane sostanziale. (Financial Times, 13 marzo 2011).

[3] PI 50, “Capitalisme, technologie et l’environnement”.

[4] PI 54, “Pénurie artificielle dans un monde de surproduction”.

[5] Tra le 15 maggiori economie, la Cina è seconda solo al Brasile per disuguaglianza di reddito. È una triste ironia che le maggiori disuguaglianze siano gestite proprio dal «Partito comunista» o «partito dei lavoratori».

[6] Mary E. Gallagher, che ha intervistato dei giovani migranti in momenti diversi, descriveva il cambiamento in questi termini:
«La figura emblematica del giovane contadino patetico che si fa strada verso la città con l’intenzione di restarvici un periodo di tempo limitato, animato da limitate ambizioni e aspettative, ha lasciato il posto a giovani che vedono la città come il loro futuro, e se non è per diritto di nascita, come qualcosa che hanno meritato. A differenza dei loro genitori o fratelli maggiori che comparano la loro sorte a quello che «sarebbe stato» se fossero rimasti nel paese, questi giovani migranti sono simili alle loro controparti urbane. Le differenze di trattamento non sono più così facilmente accettabili. Le loro aspettative sono più ampie e diverse rispetto alle generazioni precedenti. I progetti per il futuro comprendono raramente un ritorno in campagna per lavorare come contadini».

[7] New York Times, 31 mai 2011.

[8] Il Renminbi, chiamato anche Yuan.

[9] Naturalmente, le sue conclusioni sono contestate dagli economisti cinesi fedeli allo Stato, il cui principale argomento è: “Given that the Chinese government has commenced its exit from the stimulus policy, Shih's extrapolation that the debt will continue to balloon in the next two years makes little sense.”. («Dal momento che il governo cinese ha cominciato a abbandonare la sua politica di rilancio, l'estrapolazione di Shih, secondo la quale il debito continuerà a gonfiarsi nei prossimi due anni, ha poco senso.»)
Vedi: http://www.chinastakes.com/2010/3/how-victor-shih-get-chinas-debt-so-wrong.html
Se questo è vero, il debito pubblico cinese crescerà meno di quanto Shih pensi ma le importazioni diminuiranno e i fallimenti continueranno.

[10] Ciò è in parte imputabile allo Stato a cui conviene gonfiare la bolla:
«Con le tasse, i canoni e vendite di immobili, i governi locali penalizzano il potere d'acquisto. E come se fossero su un tapis roulant, in quanto, per finanziare gli investimenti fissi, devono gestire sempre maggiori entrate. È quindi loro interesse che i prezzi dei terreni lievitino. Il risultando è l’enorme bolla immobiliare che imperversa in tutto il paese.».

[11] Secondo una recente indagine condotta da investitori, i mercati finanziari considerano un eventuale «atterraggio duro» della Cina come un supremo rischio. Consultare: «China hard landing is biggest threat», Financial Times, 20 mars 2011.

[12] Nel 1998, gli istituti di istruzione superiore hanno sfornato 830 000 laureati, nel 2009, 6 milioni. Tra il 1982 e il 2005, il numero di laureati è aumentato di sette volte, mentre il numero di posti di lavoro per «colletti bianchi» saliva dal 7 a 13%.




Da Perspective Internationaliste n.55, 2011 15 giugno 2011

dal sito http://connessioni-connessioni.blogspot.com/

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