CINEMA

lunedì 20 febbraio 2012

DALLA GRECIA, QUALE RIVOLUZIONE? di Carlo Felici





DALLA GRECIA, QUALE RIVOLUZIONE?
di Carlo Felici


Le immagini di Atene che brucia per uno come me che ha sempre avuto due grandi amori nella vita: la passione rivoluzionaria e la cultura greca, sono allo stesso tempo fonte di grande speranza ma anche di molta angoscia.
Ho seguito, fino a notte tarda, gli scontri con la web cam e, minuto dopo minuto, mi sono consumato nel rimpianto di non essere stato anche io presente lì, nelle vie e nelle piazze di Atene.
La notte del 12-13 febbraio sarà ricordata come una notte storica, non solo per il popolo ateniese, ma anche per l'Europa. E' l'inizio di qualcosa di seriamente diverso, è forse l'incipit di una rivoluzione europea.

Tutto è cominciato quando due grandi personaggi, quasi mitologici della storia greca: Mikis Theodorakis, noto compositore, e l'eroe della resistenza antinazista Manolis Glezo, entrambi quasi noventenni, ma con il coraggio e la determinazione dei venti anni, hanno cercato di entrare in Parlamento per consegnare una dichiarazione di protesta congiunta che però è stata respinta con disprezzo e violenza inaudita, addirittura con attacchi mediante sostanze chimiche.
Da allora nella città culla della civiltà e della democrazia europea si è scatenato l'inferno, nelle vie, nelle piazze, con una furia sempre più crescente e devastante che ci fa capire chiaramente che purtroppo nei regimi europei del neoliberismo capitalista selvaggio, non c'è spazio per un cambiamento pacifico, per una “rivoluzione indolore”. Come alcune di quelle che si verificarono nei regimi dell'est a conduzione stalinista e che portarono al crollo del muro di Berlino.

Il muro monetario che impone sacrifici infiniti e insopportabili alle categorie di lavoratori, studenti e pensionati sempre più disagiate, è molto più robusto e insormontabile, e purtroppo l'illusione che crolli solo in virtù dell'impopolarità e del dissenso è destinata a cadere, così come quella che possa in qualche modo essere scalfito dalle immagini rilanciate dai media mondiali delle molotov, delle bombe carta o delle pietre volanti.
Di fronte a scioperi perduranti e alla esplosione improvvisa della rabbia popolare, esso assume facilmente le sembianze del muro di “gomma”, assorbendo e respingendo al contempo il conflitto.
Evidentemente questo accade perché il sistema che esso protegge è diventato ormai palesemente una dittatura che respinge ogni dissenso, anche all'interno delle compagini parlamentari in cui le componenti dissidenti vengono espulse senza tanti scrupoli da quei partiti che hanno deciso di seguire in maniera ossequiente le direttive di quei potentati economici che hanno come esclusivo loro interesse la crescita del profitto per gli istituti bancari e finanziari dominanti.

Questo non è un regime che sopporta cambiamenti democratici perché ha già espulso la democrazia dal suo orizzonte, soppiantandola con una serie di strumenti rappresentativi collateralisti, come vari partiti e sindacati che fungono solamente da cuscinetto per rendere l'impatto di tali politiche liberticide e divaricatrici dei livelli di benessere e di ricchezza, più progressive e “sopportabili”, anche quando il limite della sopportazione è già stato abbondantemente superato.

In Grecia le condizioni rivoluzionarie sono già ampiamente in atto, sia perché nessuna forza parlamentare si rivela più dotata di sufficienti capacità di autonomia e di alternativa per far fronte ai bisogni sempre più angoscianti del popolo, sia perché le classi medie sono ampiamente scivolate verso soglie di palese povertà, sia perché le classi dominanti sono completamente isolate dal contesto culturale e sociale dell'intero Paese e non sono più in grado di mantenere come prima un adeguato livello di autosufficienza, non esprimono alcuna capacità politica, ma hanno bisogno di fiduciari del sistema finanziario dominante calati dall'alto, e infine perché il mondo del lavoro sta mettendo in atto forme di lotta sempre più coordinate, dilaganti e perduranti.
Anche in alcuni settori normalmente deputati alla difesa del sistema dominante si stanno aprendo delle crepe di concreto e sempre più insofferente dissenso, un sindacato di polizia ha infatti invocato l'”arresto della Troika” europea incaricata di imporre e di controllare l'applicazione di un diktat che sicuramente non risolverà il problema dell'economia greca ma acuirà ulteriormente il disagio, la sofferenza ed il conflitto sociale.
Se dunque esistono tutte queste condizioni, che, si badi, stanno maturando non solo rapidamente in Grecia, ma anche in altri Paesi europei, perché il processo rivoluzionario non prende finalmente corpo, perché non si attua concretamente?
Essenzialmente per tre motivi.

1) Date le condizioni specificate in precedenza, e data la resistenza di un sistema che sfrutta abilmente il caos fine a se stesso e distruttivo, un movimento rivoluzionario non può trovare il modo di “sfondare” conseguendo i suoi obiettivi solo con grandi manifestazioni oceaniche. Esso ha piuttosto bisogno di un vasto consenso popolare per mantenere un consistente appoggio “logistico”, ma, di fronte alla palese opposizione repressiva e alla violenza indiscriminata contro chiunque protesti, non può che usare metodi più incisivi, come la lotta armata. Evidentemente essa non si improvvisa né si può pensare che debba essere attuata da chi non è adatto a tale scopo. Per un tipo di lotta di questo genere sono necessarie persone che sanno combattere. E quindi deve necessariamente prodursi una saldatura tra movimenti popolari e reparti ribelli delle forze di polizia o dell'esercito, seriamente interessati a difendere maggiormente la dignità e la libertà della loro patria e della maggioranza del loro popolo, piuttosto che gli interessi delle classi dominanti.

2) I leader di partito sovente si rivelano solo come un impaccio per tale compito, in quanto tutti, nessuno escluso, tendono ad ingabbiare la lotta rivoluzionaria nell'ambito di una ideologia, di un partito o di una bandiera di parte, mentre una lotta del genere non può che essere patriottica ed internazionalista. Una forza concretamente rivoluzionaria non può dunque che abbandonare le sigle di partito, le ideologie (specialmente veterocomuniste o veteronazionaliste e populiste) per assumere un ruolo di stretta rappresentanza delle istanze popolari, come fece ad esempio il movimento del 26 luglio, (scegliendo i leaders solo per competenza strategica, militare, economica, politica e culturale) e dandosi degli obiettivi graduali unitari e concreti, come il controllo dei centri di potere, degli armamenti, delle banche e delle risorse energetiche ed alimentari. Tutti devono essere utilizzati, una volta conquistati, per promuovere un serio miglioramento delle condizioni popolari, ma non realizzando un regime di economia collettivistica, bensì, in primis, spezzando i grandi monopoli che impediscono la crescita di ogni iniziativa imprenditoriale, con o senza il controllo dello Stato, e soprattutto ostacolano una giusta distribuzione della ricchezza.

3) Un serio processo rivoluzionario è destinato a fallire sotto la repressione, se si attua soltanto in un Paese e non trova immediata saldatura in altri limitrofi in cui le medesime condizioni di povertà e di sfruttamento, oltre che di annullamento delle libertà democratiche, sono palesemente in atto. Senza un coordinamento internazionalista ed un reciproco sostegno tra più movimenti rivoluzionari, nelle varie aree del Mediterraneo, europee e del mondo, ciascuno di essi è miseramente destinato a fallire sotto i colpi della repressione di regimi che, in virtù della paura e del mantenimento dei privilegi, si faranno sempre più autoritari e feroci.

Chi parla dunque di rivoluzione, oggi, ed è ancora preda del tribalismo politico, specialmente nella sinistra, ed è più interessato a contrastare movimenti analoghi al suo con intenti “ereticali”, piuttosto che a creare una concreta base di coordinamento e di lotta nella massa dei lavoratori, e del popolo, addestrandolo ad organizzarsi e a combattere, chi si limita ad una funzione propagandistica e “alternativa” sul piano mediatico e non lavora in maniera capillare nelle strutture territoriali in cui il disagio sociale e la voglia di riscatto è più forte, chi crede che l'intento rivoluzionario sia una sorta di “bandiera” da tenere alta, solo con un nobile quanto asfittico intento di testimonianza, è completamente fuori strada.
Un popolo e dei leaders che non mettono in conto, prima di accingersi ad una vera lotta rivoluzionaria, il fatto di “essere già morti” e dunque di poter sacrificare la loro vita senza alcuna esitazione, sono già sconfitti in partenza.
Una rivoluzione non è una festa di gala, ma una tragica e necessaria incombenza quando maturano precise condizioni, la storia ci dà innumerevoli esempi in tal senso.
Come drammatica necessità, una rivoluzione che porta inevitabilmente con sé il suo carico di lutti e di sofferenze, non andrebbe celebrata come un fine permanentemente escatologico, come una sorta di processo palingenetico, tale da introdurre ad una nuova “era”, ma andrebbe seriamente considerata come una “extrema ratio” come una situazione più da “prevenire” che da “programmare e attuale permanentemente” in ogni parte del mondo.

L'unica “rivoluzione permanente” possibile infatti dovrebbe essere quella delle coscienze e della crescita dei diritti, e della scoperta di nuovi e sempre migliori orizzonti di convivenza e di sinergia con gli ambienti naturali in cui gli esseri umani sono destinati a vivere, e le cui risorse sono seriamente minacciate da un contesto umano fin troppo inconsapevole dei guasti che ha prodotto con i sistemi politici ed economici attuati nel passato.
L'arma migliore e la più rivoluzionaria che ha dunque l'essere umano resta sempre quel lògos che gli consente di superare la propria inconsapevolezza e la sua incapacità relazionale.
Quando però viene seriamente minacciata la sopravvivenza proprio di ciò che è indispensabile per favorire la nascita e la maturazione di questo lògos, di tale coscienza: la scuola, la sanità, il lavoro, ad esempio, allora l'essere umano ha il diritto ed il dovere di ricorrere anche alla forza di altre armi e di farsi aiutare ad averle e ad usarle da chi può fornirgliele.

Le rivoluzioni armate bisogna imparare a prevenirle non con sofisticati sistemi di spionaggio e di repressione, ma con sistemi sociali, economici e politici adeguatamente avanzati e rispondenti alle necessità popolari. Infatti, la storia dimostra che anche quei regimi che consideravano di avere i migliori sistemi di controllo e di repressione, o che credevano di avere isolato e immiserito un processo rivoluzionario, sono stati poi facilmente aggirati, colpiti, abbattuti e infine rovesciati.

Diceva Lev Trotsky:

Gli uomini non fanno la rivoluzione più volentieri di quanto facciano la guerra.”

Infatti, mediamente, essi producono e vendono molte più armi per fini bellici piuttosto che costruirle e regalarle per fini rivoluzionari, e non di rado le rivoluzioni trovano un tragico sbocco in guerre disastrose e distruttive.
Di conseguenza, spesso il trionfo di una rivoluzione è anche purtroppo il "trionfo della morte" e quindi se è vero, come affermava Guevara, chein una rivoluzione si trionfa o si muoreè altrettanto certo che “in una rivoluzione si trionfa e si muore” anche nello stesso tempo.

Morire non è mai bello, ma quando sei condannato ad una vita di stenti e di precarietà, quando non hai più soldi per pagare né una casa e tanto meno la tassa che ti consente di abitarci, quando gli ospedali ti respingono o ti curano per terra, quando la tua aula trabocca di scolari fino al punto che non si riesce più ad ascoltare l'insegnante, quando il tetto della scuola ti cade in testa, quando la tua casa per oltraggio della natura ti crolla addosso e sei condannato ad una vita da accampamento, quando la legalità non è altro che l'arbitrio di chi ha più soldi da sbatterti in faccia, quando la tua vita è minacciata, prima ancora di nascere, dalla denutrizione di chi ti porta in grembo, quando il futuro pesa su di te come una condanna... allora anche morire o farsi torturare per una rivoluzione assume la sembianza dell'ultimo paradiso perduto e dell'età dell'oro, oppure l'unica via per la Resurrezione di un popolo.

In Grecia alcuni dicono che finalmente una condizione rivoluzionaria è sorta... io dico purtroppo, perché prima di una Resurrezione c'è sempre una Croce ed un Calvario da affrontare con fede incrollabile.

15 febbraio 2012

dal sito http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/

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