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lunedì 22 aprile 2013

LA MORTE DELLA SINISTRA E LA NEO-MONARCHIA



LA MORTE DELLA SINISTRA E LA NEO-MONARCHIA




E' un cambio d'epoca quello avvenuto in Parlamento. Il Pd è imploso sulle sue mille contraddizioni e la democrazia rappresentativa abdica a favore di un nuovo sovrano. In campo resta solo Grillo con cui bisognerà fare i conti fino in fondo


Non capita spesso di vedere in azione il suicidio in diretta di un partito. Il Pd ci ha offerto questa opportunità che potrà produrre un'ulteriore involuzione del sistema politico italiano. In parte lo ha già fatto. Ma è da questa strada che passa l'avvio di una discussione sul senso e la natura di una moderna sinistra.
Da parte nostra abbiamo criticato, e avversato, il gruppo dirigente "democratico" da tempo antico, dagli anni 90 e anche da prima. Da quando, cioè, i resti del Pci italiano hanno deciso di abbandonare una prospettiva di classe per adeguarsi alle coordinate del pensiero liberista. Ma sarebbe troppo facile dire che la caduta rovinosa della Camera nei giorni scorsi non ci abbia stupito. Troppo facile dire "l'avevamo detto". Il crollo è stato così disastroso e irreversibile che merita di essere capito meglio. Le spiegazioni sono almeno quattro.


Innanzitutto, il Pd, e il suo segretario Bersani, paga il non riconoscimento del dato elettorale del 25 e 26 febbraio. La "non vittoria" del partito democratico, infatti, è il termine con cui è stata mascherata una sostanziale sconfitta, radicata sul mantenimento in vita di Silvio Berlusconi e soprattutto sul boom di Beppe Grillo. Il 25% al Movimento 5 Stelle è stato costantemente rimosso senza capire che la sua ragione stava in una critica spietata al quadro politico e, in particolare, a chi avrebbe dovuto cambiarne natura e forma. Si è sempre sottovalutato il fatto che la prima vera apparizione di massa di Grillo, il "VaffaDay", è avvenuta durante il secondo governo Prodi, nel pieno del governo del centrosinistra. Era a questo che si rivolgeva una base indignata e a questo si chiedevano risposte. Il fatto di non averle date, per circa venti anni, ha prodotto, lentamente ma costantemente, un distacco e una sfiducia irreversibili. il 25 febbraio questo sentimento si è contato nelle urne e il risultato è stato agghiacciante per Bersani e soci. Non aver riconosciuto fino in fondo la sconfitta elettorale, rispetto alle grandi attese di cambiamento, e non aver ammesso che quel voto era in larga misura di propria competenza, è stato il primo passo falso di questa vicenda.

La seconda spiegazione, più sostanziale, riguarda la natura del Pd.
Da partito erede di una tradizione legata agli interessi del mondo del lavoro, certamente compatibile con il capitalismo ma ancorata alle dinamiche di una precisa classe sociale, il Pd è divenuto con forza il rappresentante degli interessi del capitalismo più istituzionalizzato. Il capitalismo delle banche e della finanza, della speculazione e della competizione internazionale (se una differenza c'è con Berlusconi e Lega e che questi hanno guardato di più alla struttura profonda dell'impresa nazionale, piccola e media soffocata dalla concorrenza estera). Questa natura ha dovuto fare i conti con l'esplosione della crisi globale.
Il Pd non aveva, e non ha, nessuna credibilità per indicare un'uscita dalla crisi perché si è fatto portatore delle politiche che l'hanno determinata. L'incapacità di Bersani, in campagna elettorale, di presentare un progetto, di esprimere delle idee, non si spiega solo con la goffaggine personale, che pure c'è, ma soprattutto con questa contraddizione di fondo. Il blocco istituzionale è l'espressione di un inceppamento politico-programmatico che non potrà essere risolto se non da una palingenesi. Che non ci sarà.

La terza osservazione riguarda la vita interna di un partito che per venti anni, cioè da quando il Pds ha costruito con gli ex Dc la "coalizione dei democratici", si scontrato in mille faide interne, in prospettive politiche divergenti - il centro sinistra con trattino o senza - in "dalemoni" e vendette, bicamerali e inciuci, ulivismo oltranzista e adesione al socialismo europeo. Anche quando il Pd è finalmente nato, queste polemiche non sono cessate, gli scontri sono rimasti in piedi. La dimostrazione è che i protagonisti della disfatta odierna sono gli stessi di sempre: Prodi, D'Alema, Marini, Bersani e, seppure sullo sfondo, Veltroni. Nel momento di una crisi radicale, il gruppo dirigente ha scelto di andare alla resa dei conti. Per sanare una situazione ingovernabile, poi, ha preferito andare da Napolitano per cercare di nascondere la propria crisi.

La quarta spiegazione, infine, porta al rapporto con la società italiana. Un partito che si è fatto sistema ha reciso legami e rapporti con il mondo così come è oggi. L'insofferenza dei dirigenti per le contestazioni di piazza, il "fascismo del web", l'incomprensione della rabbia che si riversa sulla "casta", sono tutte espressioni di una cecità accumulata a furia di essere casta. Un distacco, politico e morale, dalle reali condizioni di vita al tempo della crisi. Se il Pci aveva conservato, nonostante i compromessi sociali e una linea sostanzialmente compatibilista, una "diversità morale", il Pd non sa nemmeno cosa questa sia. Eppure, nel suo elettorato, resta ancora il ricordo di quella radice, l'ancoraggio a una storia passata che alimenta aspettative e speranze. E questo spiega "l'assalto via social network" subito dai parlamentari democratici in questi giorni. L'elettorato residuo, comunque rilevante, attendeva ancora segnali di svolta, segni di cambiamento. Che non ci sono stati. La "casta" si è blindata. Più che un "golpe" la rielezione di Napolitano è il tentativo di autoassolversi, di nascondere le proprie debolezze (anche Berlusconi ne ha e soprattutto Monti ma, appunto, non si vedono). Una blindatura in nome di una gestione della crisi che sarà spietata ma che non assicura comunque la tenuta del sistema.

La sinistra è finalmente all'anno zero. Finalmente, perché almeno equivoci e illusioni vengono meno. La crisi si è abbattuta prima sulla sinistra radicale, scomparsa dal Parlamento nel 2008. Oggi si abbatte sulla componente maggioritaria e liberale. Ma è la stessa crisi. Il disfacimento del patrimonio ereditato dalla lunga storia comunista che oggi non può alimentare più alcuna progettualità. Se vuole esistere di nuovo una possibile sinistra dovrà costruire da capo un progetto politico. Dal Pd non nascerà nessuna componente che vada in tal senso come spera Nichi Vendola. Lo spazio per una sinistra riformista sembra essere enorme, e forse lo è. Ma sul piano delle scelte e dei programmi la crisi chiede soluzioni radicali. Anche un classico riformismo keynesiano - lo notava nei giorni scorsi Guido Viale - non è sufficiente (anche se potrebbe essere un lenitivo). Servono scelte radicali sul piano dell'ecologia e dell'economia, della redistribuzione delle risorse e del prelevamento delle stesse dalle grandi ricchezze. Sono elementi che, sia pure confusamente e contraddittoriamente, si rintracciano nelle proposte "grilline" e che, infatti, ne spiegano il successo.

Il ministro di Monti, Fabrizio Barca, si è fatto avanti per proporre una soluzione "laburista". Il suo programma, però, si è finora soffermato soprattutto sul ruolo del partito distinguendosi soprattutto per le idee sperimentali - o per termini come "catoblepismo" - e la voglia di rinnovamento senza entrare nel merito dei programmi politici. Alla rivendicazione dell'attività del governo Monti, che "ha salvato il paese dal collasso finanziario", si affianca solo un rammarico per l'assenza di politiche di sviluppo. Nel contestare, poi, la scelta del voto a Napolitano, Barca si è detto incredulo del fatto che il Pd non abbia sostenuto "Rodotà o Emma Bonino", due figure che sul piano socio-economico sono agli antipodi. Idee confuse e poco interessanti.

Nei prossimo giorni, in ogni caso, assisteremo a mille manovre di chi, finora marginalizzato, intenderà occupare nuovamente uno spazio lasciato libero. Sel già propone un meeting, o una manifestazione, per gli inizi di maggio, Ingroia si agita di nuovo e Rifondazione spera di infilarsi nel varco che si è aperto. Il Pd farà di tutto per non perdere energie anche se la scissione sembra irreversibile (ma non vanno sottovalutati gli aspetti materiali che spingono anche per stare insieme: elezioni, finanziamenti, posti di potere, etc.). Messa così, la discussione resta confinata solo alla tattica e alle manovre di posizionamento. Mentre il problema è quello di una strategia e dell'elaborazione di idee credibili e alternative all'austerità. Anche perché, comunque, gli spazi e le postazioni sono ben presidiati da un Movimento che è uscito molto rafforzato dalla prova parlamentare. I Cinque stelle hanno avuto senso tattico e politico presentando Stefano Rodotà e si apprestano a incassare, già alle prossime amministrative, una crescita elettorale consistente. La maggior parte degli attori, anzi delle comparse della vicenda politica, è costretta a commentare quello che fa Grillo e a subirne le scelte. La partita a sinistra si gioca avendo chiara questa situazione. E la si potrà impostare correttamente solo lavorando sulle nuove idee e costruendo una credibilità che nessuno di quelli che si agitano può vantare. Tra le idee, però, non può mancare una riflessione di fondo sulle forme della democrazia, sul modo di costruire un'alternativa a un sistema che non regge e che per andare avanti deve chiamare in campo una "neo-monarchia". La democrazia scaturita dalla seconda guerra mondiale è stata spazzata via dalla crisi. Il neo-presidenzialismo sarà la risultante della fase che si sta per aprire. Occorre elaborare una proposta che vada in una direzione opposta rifuggendo dal conservatorismo (conservare significa difendere i riti che abbiamo visto all'opera nei giorni scorsi). Non sarà facile ma occorre provarci.




dal sito Il megafono quotidiano




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