CINEMA

martedì 2 aprile 2013

L'UNIVERSITA' REGNO DELLA DISUGUAGLIANZA di Luciano Governali




L'UNIVERSITA' REGNO DELLA DISUGUAGLIANZA
di Luciano Governali

Dai numeri ai fatti. Un commento al XV Rapporto Almalaurea



Si è tenuto il 12 marzo all’Università Ca’ Foscari di Venezia il convegno di presentazione del XV rapporto di Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. Combinando fonti Istat con le indagini su oltre 400.000 laureati provenienti da tutti e 64 gli atenei italiani, il rapporto continua a rappresentare la fonte più completa per analizzare la situazione lavorativa dei laureati italiani.


Considerando che i numeri sono una cosa e la loro interpretazione spesso un’altra, forniamo la nostra.
Cosa raccontano dicono, a mio avviso, grafici e statistiche?


Leggi la sintesi del rapporto

Innanzitutto che la mobilità sociale in Italia non esiste, e men che meno passa per l’istruzione pubblica. Già l’ultimo rapporto Ocse aveva rilevato come solo il 9% dei laureati fra i 25 e i 34 anni provenisse da famiglie con un basso livello d’istruzione e su questo il rapporto di Almalaurea conclude che “si rileva con forza come l’accesso ai livelli più elevati, ovvero relativi a libere professioni, ruoli dirigenziali o imprenditoriali, risenta della famiglia di origine.”
Come potrebbe essere altrimenti in un paese che taglia quasi del tutto ogni forma di sostegno economico diretto o indiretto (borse di studio ma anche case dello studente, agevolazioni, sussidi di ogni genere) a chi si iscrive all’università?
Ma se da poco si è cominciato a discutere di una fuga dall’università , in riferimento alla storica inversione di tendenza in campo ormai da 5 anni che vede un costante calo delle immatricolazioni, non è soltanto per le scarse possibilità per un famiglia operaia di avere un figlio dottore.
Se in questo momento la laurea è un investimento a rischio, fra qualche anno sarà decisamente fallimentare visto che, sempre secondo l’ultimo rapporto Ocse, la differenza retributiva fra un laureato e un diplomato italiano fra i 25 e i 34 anni è di appena il 9%.
Dal 2008 al 2012 il salario medio di un neolaureato italiano, secondo il consorzio Almalaurea, è passato dai 1050 a 943 euro in un paese in cui, per l’Istat, la soglia di povertà si assesta fra i 990 e i 1.010 euro.
Anche l’operaio vuole il figlio…oltre la soglia di povertà, cara Contessa.
In un simile quadro, l’Italia si conferma regno della disuguaglianza nella disuguaglianza considerando che “Il differenziale di genere è aumentato di 4 punti (nel 2009 era pari al 27%) e quello territoriale si è ulteriormente acuito: nel 2009 un laureato del Nord guadagnava il 9% in più di quello del Sud, mentre nel 2012 il differenziale è del 21%.”
L’ulteriore salto di qualità rappresentato dal rapporto di quest’anno, un’indagine su laureati di 5 anni fa, consacra la condanna che rappresenta essere donna nel nostro mercato del lavoro: dopo cinque anni infatti la differenza retributiva fra laureate e laureati sale addirittura a 400 euro (1256 euro contro i 1623 degli uomini), curioso fenomeno per un paese che produce le prime in numero largamente maggiore dei secondi da più di un decennio.
La laurea non garantisce un lavoro, sicuramente non un lavoro immediato guardando i numeri: nel 2008 il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea era del 14,9, quest’anno è al 23,4, mentre poco più della metà (il tasso di occupazione dei neolaureati è del 55%, era il 60 nel 2008!) ha un lavoro che nel 55,5% dei casi è precario e nel 10% è in nero.
E’ impossibile continuare a stupirsi del crescente rifiuto dell’università se questi sono i risultati di un investimento, quello negli studi, tanto, troppo oneroso: l’Italia è dietro in Europa solo a Olanda, Portogallo e Inghilterra nella pessima classifica dei sistemi di tassazione universitaria oltre i 1100 dollari annuali per studente a tempo pieno.

Rette parallele

Leggendo i numeri del rapporto e confrontandoli con quelli degli anni passati viene spontaneo commentare con gli ormai consueti toni catastrofistici i risultati delle indagini.
Scrivo consueti perché ciò che più impressiona del dibattito pubblico sull’università è la facilità con cui le stesse cifre, inconfutabili in teoria per ciò che rappresentano, possano essere citate e usate per sostenere le posizioni più diverse e soprattutto per ignorare la necessità di una netta messa in discussione delle politiche sul lavoro e l’istruzione degli ultimi due decenni.
Da dati talmente precisi come quelli che Almalaurea, l’Ocse, l’Istat ci consegnano puntualmente dovrebbero ormai derivare analisi oggettive e proposte politiche coerenti ma ascoltando il dibattito politico sull’istruzione sembra che invece nella realtà numeri e parole possano non incontrarsi mai, come due rette parallele.
La crisi economica è diventata ormai lo scudo più efficace dietro cui nascondere i reali motivi di un fallimento strutturale delle politiche di riforma iniziate negli anni ’90, e non potrebbe essere altrimenti visto che poche e isolate negli anni sono state le voci resistenti (in particolar modo dentro l’accademia italiana) allo scempio che si stava facendo del futuro di intere generazioni, eccezion fatta per i numerosi movimenti studenteschi succedutisi dentro le facoltà negli ultimi otto anni ma quelli, si mormora nel palazzo, ci sono e ci saranno sempre, oggi contro quello domani contro qualcos’altro, impossibile dargli credito.
Nonostante le cifre spaventose del rapporto Almalaurea sulla precarietà dei neolaureati e le periodiche pubblicazioni Istat sulla disoccupazione giovanile nel paese, per una delle massime autorità economiche italiane, il governatore della Banca d’Italia Visco, è necessario continuare sulla strada della flessibilità ma con una maggiore protezione, cosa ormai chiaramente contraddittoria, mentre l’università italiana deve continuare a contribuire allo sviluppo di spirito critico, lavoro di gruppo, capacità di risolvere problemi; esattamente tutto (o quasi, considerando che per sopravvivere agli studi bisogna essere esperti dell’ultima dote elencata dal Governatore) quello che non avviene nell’università dequalificata dei mille microesami, della frequenza obbligatoria, dell’assenza di strutture essenziali, degli studenti lavoratori costretti a finire fuoricorso.
La vicinanza temporale della pubblicazione del rapporto e delle elezioni politiche mi costringe ad allargare il ragionamento ai programmi e alle promesse dei maggiori partiti, dove colpisce la sufficienza con cui la tematica istruzione viene trattata: se da un lato il Pd critica “il quindicennio di riforme inconcludenti” dimenticandosi di averlo inaugurato con la riforma del 3+2, il PdL non sembra essere uscito dalla frenesia neoliberista anni ’90 con il solito ritornello su rapporto scuola/impresa e necessità di formazione professionale basato su un fantomatico modello tedesco, citato improprimente per avvalorare la leggenda per cui i paesi forti economicamente sarebbero quelli dove nelle scuole e nelle università si insegna un lavoro, mica si perde tempo con letteratura e roba antica. Considerando che chi scrive è stato insultato dal direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti per essere un perditempo umanistico, mi limito a citare ancora Almalaurea: “la quota di immatricolati nel settore delle scienze umane e dell’educazione, settore spesso preso ad esempio come caso di eccesso di offerta, nel 2010 era pari al 19% in Italia contro una media OCSE del 21% e un valore per la Germania del 23%”.
Sempre il rapporto mira a scardinare alcuni luoghi comuni del dibattito pubblico sull’università. Lo spauracchio della disoccupazione intellettuale ha da sempre accomunato nelle proposte di legge posizioni politiche assai distanti e continua a farlo, considerando che non c’è stata proposta di legge sull’istruzione negli ultimi vent’anni che non abbia posto al centro l’interazione maggiore fra imprese e università, da sempre narrata come risolutoria della disoccupazione giovanile. Su questo persino il consorzio Almalaurea, nato proprio con questo fine, dimostra un’onestà scientifica alquanto rara nei palazzi della politica, stigmatizzando così questa visione del ruolo della formazione universitaria: “La filosofia di fondo che ispira l’idea che il numero di laureati italiani sia adeguato se non addirittura eccessivo è che l’offerta di capitale umano dovrebbe adeguarsi alla domanda espressa hic et nunc dal sistema economico.”

Cosa c’è oltre l’eldorado

Com’è possibile immaginare anche solo l’idea di progresso se l’istituzione sociale che dovrebbe generare innovazione culturale e tecnologica, che dovrebbe presiedere a una formazione sempre più elevata per le nuove generazioni, deve ora adeguarsi alle esigenze di un sistema economico che naviga a vista nella tempesta annunciata e ignorata dai principali attori economici?
E’ allora necessario comprendere quale sia il reale motivo di questa tanta auspicata connessione fra le supposte esigenze dell’apparato economico e i programmi universitari. E’ davvero l’eccesso di laureati potenzialmente disoccupati? Cosa si teme veramente? Forse che possano essere il settore sociale più disilluso e insoddisfatto di una società mondiale senza prospettive di crescita economica e per ciò potenzialmente esplosiva?
Chi scrive ne è sinceramente convinto e qualche numero anche su questo aiuta a capire meglio.
Negli anni ‘60 fu la percezione socialmente diffusa di un progresso economico inarrestabile a generare la voglia di cambiamento sociale del “decennio rivoluzionario”, in un mondo in cui la ricchezza veniva prodotta in proporzioni mai viste e l’esigenza di redistribuzione e maggiore uguaglianza era alla base di ogni sommovimento sociale.
Oggi le coordinate sociali ed economiche appaiono perfettamente speculari rispetto a quelle di quarant’anni fa ma, a mio avviso, ugualmente potenzialmente esplosive: crescita economica pari a zero, disoccupazione crescente, fuga dall’università, nessuna prospettiva immediata o remota di cambiamenti possibili. Ogni fase storica presenta scenari e variabili uniche, dinamiche in parte simili possono riemergere da presupposti e in forme radicalmente opposte.
In Italia è innegabile come una fetta quasi maggioritaria dei giovani abbia voltato le spalle definitivamente a una intera classe politica che, colori e schiaramenti a parte, ha applicato le stesse identiche politiche (come confermato dal sostegno bipartisan alle riforme di Monti): al di là delle analisi sui posizionamenti e i metodi politici, è innegabile quanto affermato sopra se confrontato con le percentuali di voto del M5S di Grillo nelle fasce giovanili, quasi il 38% degli elettori sotto i trent’anni, secondo l’Istituto Technè, mentre nella fascia 18/24 la media è di 47,2, stabilmente oltre il cinquanta nella maggior parte delle regioni maggiori con un picco del 66,8 in Sicilia, guarda caso una delle regioni dove più grande è il divario occupazionale e retributivo con coetanei (laureati e non) delle altre regioni.
Che i giovani siano al centro delle rivolte è un elemento costante da quando esiste la società capitalista, ma la novità sta proprio nella profonda insoddisfazione di giovani con alti livelli d’istruzione al centro delle proteste in tutto il mondo per la mancanza di prospettive che la crisi ha messo a nudo: in paesi con un età media molto bassa (Tunisia ed Egitto), una disoccupazione giovanile superiore al 20% riguarda una percentuale più alta di popolazione rispetto al già elevato livello di 37% rilevato in Italia, paese con una percentuale di giovani di gran lunga inferiore.
Lo scenario di instabilità sociale che caratterizza ormai stabilmente alcune aree geografiche, l’area euro mediterranea in testa, dalla Spagna all’Egitto passando per Portogallo, Grecia e Tunisia, ha quindi radici irrisolvibili nell’insoddisfazione e nella rabbia di varie generazioni (parlare di un’unica generazione sotto l’attacco dell’austerità per una fascia d’età dai 18 ai 35 anni è a mio avviso una forzatura) cui per decenni è stato promesso l’eldorado: il capitalismo entrato nella sua fase neoliberista, quella dell’opulenza, del confronto stravinto col grigio comunismo sovietico, dell’informatica a rivoluzionare quotidianamente le nostre vite, della conoscenza e dei saperi come nuovi mezzi di produzione primari da conquistare esclusivamente grazie al proprio “merito individuale” e su cui quindi investire tutto, della flessibilità lavorativa per farti “scegliere la tua professione ideale”.
La crisi ha spazzato vie ogni nube. Dall’altra parte dell’oceano non c’è nessun eldorado, che queste generazioni se ne accorgano definitivamente è forse l’incubo più grande di chi le governa.

La sintesi completa del XV rapporto Almalaurea

31/3/2013

dal sito Atene in rivolta


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