CINEMA

lunedì 15 aprile 2013

RATZINGER E LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE di Loretta Emiri



RATZINGER E LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE
di Loretta Emiri *




Patetiche, le prime reazioni all’annuncio delle dimissioni. A prescindere dall’emittente televisiva, che gli intervistati fossero politici o comuni mortali di varia estrazione sociale, abbiamo dovuto ascoltare sostanzialmente identiche, emozionate considerazioni da lacchè. C’è stato persino chi ha definito Ratzinger un “rivoluzionario”. La rinuncia papalina e l’attenzione mediatica scatenatasi hanno avuto il potere di riportarmi indietro nel tempo e nello spazio, a quando operavo con gli indios brasiliani e la Teologia della Liberazione era espressione di una chiesa cattolica che, per il bene comune, interagiva con altre e non disdegnava la collaborazione di menti fulgide anche se non appartenenti a pecore del suo gregge.

Scommesse e pronostici hanno preso il via. C’è chi vorrebbe un papa giovane e non italiano, come se età e radici culturali garantissero, automaticamente, integrità morale e disposizione al cambiamento. Dopo il lungo pontificato del predecessore, nel 1958 i cardinali scelsero l’italiano Roncalli convinti che l’età avanzata e la sua modestia personale avrebbero generato un papato di transizione. Il vecchio Giovanni XXIII conquistò tutti, interagì con chiunque e, quando indisse il Concilio, sbalordì il mondo intero. La decisione di realizzare il “Vaticano II” resta la più saggia e rivoluzionaria mai presa da un pontefice contemporaneo; decisione che, di per sé, rivela quanto il Papa Buono credesse nel dialogo, nel confronto, nella riflessione collegiale, nell’azione comunitaria. Gli orientamenti e aggiornamenti scaturiti dal Concilio suscitarono grande vitalità in ogni parte del globo, specialmente in America Latina, dove fiorì quella che venne chiamata Chiesa di Base, o Chiesa della Liberazione, o Teologia della Liberazione.


Wojtyla venne eletto un anno dopo la mia partenza per l’Amazzonia brasiliana. Stupidamente pensai che, essendo straniero, avrebbe introdotto chissà quali novità e cambiamenti. Cosciente dei propri limiti in fatto di teologia, il polacco volle accanto a sé uno specialista. Al tedesco Ratzinger chiese di essere suo braccio destro, principale consigliere, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; istituzione, questa, che in passato si chiamava Tribunale della Santa Inquisizione. Wojtyla veniva dalla resistenza polacca al marxismo. Sull’anticomunismo Ratzinger aveva costruito la sua carriera. Le storie personali e le culture di appartenenza portarono i due a credere che la Teologia della Liberazione potesse servire da cavallo-di-troia per la penetrazione del comunismo in America Latina.

Gruppi conservatori della Curia Romana avevano già organizzato un movimento che portasse alla restaurazione e allo smantellamento delle novità introdotte dal “Vaticano II”. È stato Ratzinger, però, a realizzare una vera controriforma cattolica, imponendola dall’alto in modo sistematico. L’attore dilettante Wojtyla poteva tranquillamente calarsi nel ruolo di papa: le discrete interpretazioni, i gesti plateali, le trionfali coreografie in mezzo alle quali si esibiva, strappavano lacrime e applausi alle folle. Dietro le quinte, lontano dai riflettori, Ratzinger faceva il lavoro sporco. Con zelo e petulanza si dedicò alla salvaguardia dell’ortodossia cattolica. Preparava i discorsi del papa e supervisionava tutto ciò che Wojtyla scriveva, ne raccoglieva le confidenze e lo influenzava nelle decisioni. Diveniva impermeabile a qualsiasi tentativo di aggiornamento su questioni considerate controverse. Umiliava cardinali e vescovi con la rigidezza e il modo autoritario con cui trattava le questioni della fede. Mostrava la sua faccia più dura ai seguaci della Teologia della Liberazione. Coloro che operavano in favore degli strati più poveri e marginalizzati delle società latinoamericane attraverso la Chiesa cattolica, o che con essa collaboravano, presero atto che era lui il più odioso e diabolico dei cardinali della Curia Romana.

Del volto della Chiesa brasiliana degli anni Settanta e Ottanta del millenovecento mi limito a mostrare alcuni primi piani, impressisi nella mia mente perché direttamente o indirettamente correlati all’esperienza personale fatta. Tra i domenicani arrestati e torturati all’epoca della dittatura militare c’era Frei Betto, che sarebbe divenuto Consigliere del Presidente della Repubblica Luiz Inácio Lula da Silva. Le Comunità Ecclesiali di Base erano gruppi di cattolici delle zone rurali, periferie urbane, rioni popolari, favelas, che si riunivano per educarsi all’analisi dei problemi e alla mobilitazione in favore della difesa dei propri diritti. Svolgevano attività comunitarie e sindacali. Appoggiavano i movimenti popolari sorti per lottare contro l’espulsione dalle terre e la violenza, per rivendicare salari più giusti e il diritto alla casa, per difendere donne, bambini di strada, negri. Nelle Comunità di Base si formarono nuclei del Partito dei Lavoratori, con cui c’era identificazione essendo entrambi sorti dal basso verso l’alto.

Per quanto riguarda la questione indigena, il CIMI, organismo legato alla Conferenza Episcopale Brasiliana, appoggiava le minoranze etniche nella loro lotta per la sopravvivenza fisica e culturale. La Chiesa tenne a battesimo l’OPAN, all’epoca Operazione Anchieta, importante organizzazione indigenista. CEDI significa Centro Ecumenico di Documentazione e Informazione, altra realtà fomentatrice del movimento indigeno e indigenista brasiliano. La situazione esistenziale degli indios era drammatica: per difenderne il diritto alla terra e alla vita, CIMI, OPAN, CEDI operavano insieme e non trovavano sconveniente farsi aiutare da artisti, professionisti, politici, intellettuali, educatori, accademici, scienziati, settori organizzati della società civile; e nemmeno dalla Chiesa Evangelica di Confessione Luterana.

La guerra del Papa Attore, e di sua Eminenza Grigia, contro la Teologia della Liberazione raggiunse la massima violenza quando ad alcuni dei mentori ed esponenti più illustri venne imposto il “silenzio ossequioso”. Il brasiliano Leonardo Boff dovette dimettersi dall’incarico di editore religioso della casa editrice “Vozes” e dalla redazione della “Rivista Ecclesiastica Brasiliana”; lo allontanarono dall’insegnamento; gli proibirono di parlare e dare interviste, di scrivere e pubblicare libri, qualunque fosse l’argomento trattato. Strumento di lavoro del teologo è la parola scritta e parlata; se gliela togli lo elimini. La prassi di mettere a tacere chi la pensa diversamente è consueta nelle dittature militari: in Vaticano viene definita “silenzio ossequioso”.

Se avesse permesso allo spirito di soffiare sulla sua produzione teologica, il cardinale Ratzinger avrebbe capito che in America Latina il diavolo non era il comunismo, ma il capitalismo selvaggio e l’insensibilità sociale delle élites; avrebbe capito che in America Latina la Chiesa non è fondamentalista né dogmatica, ma profondamente dialettica con tutte le correnti spirituali e la sua opzione per il dialogo riflette, e rispetta al tempo stesso, le caratteristiche culturali dei Paesi latinoamericani.

Il crollo del Muro di Berlino e del Regime Sovietico permisero al capitalismo di penetrare nei Paesi dell’Est Europeo; ma esso non portò con sé più giustizia sociale e maggiore moralità pubblica, tutt’altro. Spaventati dalla corruzione e vuoto di valori prodotti dal consumismo, il polacco e il tedesco furono costretti a rivedere le loro posizioni. Inoltre dovettero prendere atto che la guerra contro la Teologia della Liberazione aveva fatto sì che la Chiesa cattolica perdesse terreno in favore di una miriade di chiese minori, sette protestanti, movimenti messianici. Fu solo a partire da queste costatazioni che i due smisero di angosciare i teologi latinoamericani. Il pontificato di Wojtyla fu estenuante: andò dall’ottobre del 1978 all’aprile del 2005. Come nessun altro cardinale, Ratzinger dispose di tempo e condizioni per manovrare al fine di occupare il trono vaticano. In intervista data al giornale Estado de São Paulo, Leonardo Boff diceva: “Stimo che mai sarà papa, sarebbe un eccesso da parte sua, l’intelligenza dei cardinali non permetterebbe”. Nel Conclave del 2005 fu eletto proprio Ratzinger. Per chi sperava in una Chiesa meno conservatrice, peggio di così non poteva andare. Accolsi la notizia come un pugno allo stomaco.

Nella prima apparizione pubblica il Papa Teologo unì e alzò le mani. Il gesto mi turbò alquanto, facendomi pensare all’atteggiamento di un pugile vittorioso che ha appena messo KO l’avversario. Le citazioni di Benedetto XVI contro Maometto hanno suscitato l’indignazione dei Paesi musulmani. Ha ripristinato la messa in latino. Ha perdonato gli scomunicati lefebvriani e cercato di farli rientrare nell’ovile; uno di loro, Williamson, lo ha ripagato riaffermando la tesi negazionista dell’Olocausto e l’odio contro gli ebrei. Smentendo chi sostiene che l’abito non fa il monaco, Benedetto XVI ha sfoggiato abiti in disuso e addirittura paramenti utilizzati da Pio IX, ultimo Papa Re dello Stato Pontificio. Da cardinale chiedeva ai vescovi di impedire che i preti pedofili fossero giudicati nei tribunali civili; esploso lo scandalo, da pontefice Ratzinger ha dovuto pubblicamente ammettere la realtà, cosa che gli è valsa la qualifica di “coraggioso”. Il caso Vatileaks, di cui il maggiordomo ladro di documenti è l’ultima ruota del carro (ma questo lo si proverà tra cinquant’anni, naturalmente), ha messo sotto i riflettori la lotta tra fazioni, tutta interna alla Curia Romana. Durante l’affiorare del recente scandalo finanziario del Monte dei Paschi di Siena sono stati fatti rimandi al già tristemente noto IOR, la banca vaticana. Insomma, tenebre di ogni genere hanno caratterizzato il pontificato del grigio Benedetto XVI, pontificato da qualcuno definito “luminoso”.

Annunciando le dimissioni del papa, il direttore della sala stampa del Vaticano ha detto che la notizia ha colto di sorpresa i cardinali riuniti in Concistoro, sorpresa che, guarda caso, non ho riscontrato nelle immagini poi fatte circolare; ha detto anche dove il Papa Pensionato andrà ad abitare tornando da Castel Gandolfo e, guarda caso, lavori di ristrutturazione del fabbricato erano già in corso. Nel 2009, in visita all’Aquila subito dopo il terremoto, Benedetto XVI ha visitato la tomba di Celestino V che, guarda caso, nel 1294, tre mesi e mezzo dopo l’elezione, rinunciò “all’ufficio di romano pontefice”; guarda caso, Ratzinger si era portato dietro il pallio indossato il giorno della propria investitura e, guarda caso, sulla tomba di Celestino V lo ha lasciato; considerati da qualcuno “premonitori”, detti gesti sono stati anche definiti “coincidenze”. Ho sentito una vecchietta affermare che il “mite” Benedetto XVI sarebbe stato scalzato. Il direttore della sala stampa del Vaticano sta parlando di scarpette rosse, mantelline bianche e anelli, fornendo informazioni o rispondendo ad accreditati giornalisti di tutto il mondo; mi viene il dubbio di essermi sintonizzata su un’emittente televisiva specializzata in mondanità e alta moda. A parte tutto, persino Ratzinger, lascerà un segno nella storia: con le sue dimissioni, motivate da ridotte energie fisiche e intellettuali, l’inflessibile guardiano dei dogmi ha messo in dubbio niente meno che l’infallibilità del papa.

Fuori tutti, cardinali chiusi a chiave. Riuscirà lo Spirito Santo a introdursi nella Cappella Sistina, magari proprio attraverso il buco della serratura? E anche se ci riuscisse, avrà qualcosa da suggerire a chi tanto minuziosamente ha studiato la tempistica delle dimissioni e della transizione? Eppure, basterebbe solo che la Curia Romana si mettesse in ascolto per passare dall’anatema al dialogo; dagli indumenti barocchi all’incarnazione nei corpi dei poveri cristi; dalla concezione secondo cui il Vangelo sarebbe un libro da studiare a una pratica di vita evangelica; dall’utilizzo del termine “comunista” al più idoneo “cristiano”, riferendosi a chi da cristiano vive e opera. Non sono riuscita a terminare questo brano prima dell’elezione di Bergoglio, per cui non posso fare a meno di ricordare che nel precedente Conclave era stato molto ben votato ma, evidentemente, qualcuno “gli ha fatto le scarpe”. Ho scritto questo brano per celebrare il ricordo dei mentori della Teologia della Liberazione, e di coloro che da essa hanno attinto forza e motivazioni per affiancare gli ultimi dell’America Latina nella loro lotta per la vita.

15 Aprile 2013



Bibliografia

Entervista exclusiva dada ao Estado de São Paulo por Leonardo Boff.

“Bento XVI e a guerra na igreja”, Leonardo Boff, Especial para a Folha.

“A Teologia da Libertação e a pratica da Obra Kolping”, Pe. Paulo Link.

“Teologia da Libertação: uma teologia da periferia e dos excluídos”, Marcelo Camurça, Com Ciência - Revista Eletrônica de Jornalismo Científico, 10-03-13.

“Benedetto XVI e i guai finanziari del Vaticano”, Ulisse Spinnato Vega, Lettera 43 – Quotidiano Online Indipendente, 25-03-13.

Radio Vaticana, it.radiovaticana.va.





* Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il "Dicionário Yãnomamè-Português", la raccolta poetica "Mulher entre três culturas", il libro etno-fotografico "Yanomami para brasileiro ver", il volume di racconti  "Amazzonia portatile", il romanzo breve "Quando le amazzoni diventano nonne".

dal sito Movimento Operaio


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