CINEMA

mercoledì 11 settembre 2013

LA TRAGICA CONCLUSIONE DELL’ ESPERIENZA DI UNIDAD POPULAR IN CILE di Diego Giachetti




LA TRAGICA CONCLUSIONE DELL’ ESPERIENZA DI UNIDAD POPULAR IN CILE
di Diego Giachetti



Porque esta vez no se trata
de cambiar un Presidente
sera el pueblo quien construya
un Chile bien diferente!…

Echaremos fuera al yanki
y su lenguaje siniestro
con la Unidad Popular
ahora somos Gobierno

Inti-Illimani
Cancion del poder popular



La mattina dell’ 11 settembre 1973 reparti della marina cilena si sollevano a Valparaiso e occupano la città. Contemporaneamente nella capitale soldati e mezzi militari circondano il palazzo presidenziale della Moneda chiedendo le immediate dimissioni del Presidente Salvador Allende. La richiesta è firmata dal generale Pinochet, comandante in capo dell’esercito, dall’ammiraglio Merino, dal generale Guzman Leigh e dal comandante del corpo dei carabineros Mendoza. Dal palazzo, Allende risponde dichiarandosi “pronto a resistere con tutti i mezzi, anche a costo della vita, in modo che ciò possa costituire una lezione nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione”.
Verso mezzogiorno le truppe golpiste sferrano l’attacco finale al palazzo con bombardamenti aerei e cannoneggiamento. Poco dopo viene mostrato il corpo di Allende morto suicida, secondo i generali, caduto combattendo secondo altre fonti. Nel frattempo soldati e carabineros circondano e perquisiscono a Santiago tutte le sedi dei partiti democratici, dei giornali, le banche e le fabbriche. Sacche di resistenza si stanno organizzando in alcuni quartieri proletari della città. Nel primo pomeriggio la giunta militare rilascia un proclama nel quale si afferma che le forze armate e la polizia sono unite per lottare “per la liberalizzazione del paese dal giogo marxista”. Viene proclamato il coprifuoco in tutto il paese, vengono messi fuori legge il Partito Comunista, il Partito Socialista e tutte le organizzazioni rivoluzionarie. Ventisette giornali vengono soppressi, non compariranno più nelle edicole.
L’indomani, il 12 settembre, nelle vie di Santiago e in quelle di quasi tutte le maggiori città si segnalano scontri tra gruppi di resistenti e le truppe golpiste che procedono ai rastrellamenti. La giunta militare trasmette di continuo bandi e proclami invitanti a cedere le armi, a fare opera di delazione nei confronti dei dirigenti delle organizzazioni di sinistra e del sindacato. Nel bando numero 32 si dichiara esplicitamente che “sono passabili di fucilazione coloro che si renderanno comunque colpevoli di propaganda sovversiva”. Le esecuzioni sommarie da parte dell’esercito e dei carabineros si succedono per le strade.
Il 13 settembre si forma il nuovo governo composta da militari e due civili. Il parlamento viene sciolto; la DC cilena, in un suo comunicato, inneggia ai generali quali “salvatori della patria”. Dopo aver ricordato la tradizionale fiducia nelle istituzioni, dimostrata delle forze armate cilene, nel comunicato si afferma che l’esercito si è assunto il compito di governare il paese onde “evitare grandi pericoli di distruzione e di totalitarismo”; per questa ragione “meritano la cooperazione di tutti i settori”, al fine di contribuire al ristabilimento della “normalità… della pace e dell’unità tra i cileni”.
Notizie sulla sanguinosa repressione in corso e sulla resistenza alla giunta militare cominciano a trapelare su alcuni giornali argentini. Si apprende così che i minatori delle miniere di Chuquicamata e di El Teniente hanno bloccato gli impianti e resistono con le armi all’esercito. Anche nelle città di Los Andes, Conception, Arica, Las Cuevas la resistenza è sostenuta. A Santiago, dopo una lunga resistenza, costata centoventiquattro morti e oltre seicento arresti, i militari occupano l’università tecnica. Anche la fabbrica Suma dopo una battaglia di viarie ore cade in mano all’esercito lasciando sul terreno i corpi di cinquanta lavoratori e centinaia di feriti. A questo punto la repressione assume sempre più le caratteristiche di un vero e proprio massacro indiscriminato che colpisce non solo i militanti di sinistra, ma le loro famiglie, i parenti i conoscenti e tutti quelli che si trovano nelle vicinanze del luogo dove il compagno o la compagna vengono individuati. I giornali dell’epoca, nei loro resoconti, riferiscono di interi palazzi fatti saltare con la dinamite e di quartieri bombardati a tappeto.

Solo in questo modo la giunta militare riesce a stroncare le sacche di resistenza che erano sorte in varie parti del paese in modo spontaneo, prive di collegamenti e senza un preventivo piano di reazione in caso di golpe. L’unica struttura politica organizzata che in qualche modo regge tra mille difficoltà all’impatto della reazione, -grazie alla sua precedente esperienza di guerriglia-, è il MIR (Movimiento de la Izquierda Revolucionaria) che riesce a salvare alcuni suoi quadri collocandoli nella clandestinità e appoggiandosi a strutture illegali che aveva costruito nei mesi precedenti. Ma è poca cosa rispetto alla tragedia che colpisce in quei giorni il proletariato cileno le cui organizzazioni politiche e sindacali più importanti vengono travolte e distrutte.

Cile terra di rapina

Tre anni prima di quel tragico 11 settembre 1973, il candidato socialista Salvador Allende, appoggiato dai comunisti, dai socialisti, dai radicali e dai cattolici di sinistra nel cartello di Unidad Popular otteneva la maggioranza relativa nelle elezioni presidenziali con oltre il 36 per cento dei voti sconfiggendo il candidato della destra conservatrice Alessandri (34, 9 %) e quello democristiano Tomic (27,8%). La vittoria elettorale avveniva mentre il Cile si trovava in una situazione critica. Il paese era dominato da un’oligarchia di latifondisti -meno dell’ 1% della popolazione possedeva il 50% dei terreni coltivabili- e da una classe privilegiata che disponeva del 49% del reddito nazionale. Alti erano i livelli di mortalità infantile, di analfabetismo e di disoccupazione, soprattutto nelle campagne; inoltre un’inflazione galoppante faceva raddoppiare il costo della vita quasi di anno in anno. Le stesse forze borghesi erano lacerate al loro interno da evidenti contraddizioni. Lo sviluppo di un’industria direttamente appoggiata dallo Stato, seppure in funzione complementare rispetto alle filiali cilene dei grandi monopoli americani, aveva portato ad un discreto rafforzamento sul piano economico della borghesia autoctona. I primi timidi inizi di riforma agraria, avvenuti sotto il precedente governo democristiano e appoggiati dallo stesso imperialismo americano con l’obiettivo di creare un piccola borghesia agraria da opporre al proletariato bracciantile, avevano provocato dure reazioni da parte degli agrari. Tutto ciò aveva portato alla spaccatura della storica alleanza tra borghesia agraria e industriale e all’interno di quest’ultima, tra quella che guardava con una certa simpatia a misure governative tese e diminuire in qualche modo il peso dell’intervento economico e di capitali americani e chi, invece, si sentiva più “dipendente” dall’imperialismo.

Tali contraddizioni si erano manifestate anche in campo politico e avevano comportato il rafforzamento del Partito Nazionale di estrema destra a scapito della democrazia cristiana, da sempre il principale partito della borghesia. La DC cilena non era più in grado di mediare al suo interno i diversi interessi borghesi che tradizionalmente aveva cercato di conciliare, era paralizzata nell’azione e incapace di iniziativa politica.

La via riformista al socialismo

Era in questo contesto che si inseriva la vittoria di Unidad Popular. Date le caratteristiche costituzionali del Cile, quel risultato elettorale assicurava alle sinistre, tramite il Presidente Allende, il controllo del potere esecutivo che esercitava con l’ausilio dei ministri da lui nominati, ma non di quello legislativo, che spettava ad un Parlamento nel quale le forze di sinistra non avevano la maggioranza assoluta.

L’obiettivo dichiarato del programma elettorale di Unidad Popular era di modificare la struttura socio-economica, “mettendo fine al potere del capitalismo monopolistico nazionale e straniero e al potere del latifondo per avviare la costruzione del socialismo in Cile”. Occorreva, per dirla con le parole dello stesso Allende, “farla finita con i monopoli, con un sistema fiscale posto al servizio del profitto, nazionalizzare le banche, eliminare i latifondi, recuperare per il Cile le ricchezze fondamentali”. Nella sostanza veniva accettata la tesi di una fase in cui il processo rivoluzionario pur non avendo ancora precisi obiettivi socialisti, si sviluppava in direzione antimperialista, antimonopolistica e antioligarchica ed era quindi compatibile con forme di collaborazione con settori della borghesia nazionale. Il tutto concepito in un quadro di graduale passaggio dal capitalismo al socialismo inteso come momento intermedio nel quale prevaleva una forma economica di transizione in cui “il suo funzionamento non è regolato dalle leggi del capitalismo né da quelle del socialismo”.

Il 5 novembre 1970, il giorno dopo essere stato proclamato ufficialmente presidente, Allende ribadiva il suo lealismo costituzionale, cioè la via al socialismo nella democrazia, nel pluralismo e nella libertà, in quanto il Cile disponeva delle istituzioni sociali e politiche necessarie per arrivare al socialismo per via pacifica e senza bisogno di una rottura rivoluzionaria.

Tali dichiarazioni e la stessa esperienza in corso in Cile erano presentate dai partiti riformisti del movimento operaio come una verifica della possibilità di arrivare al socialismo per via pacifica, senza distruzione dell’apparato statale borghese, con l’accettazione degli istituti della democrazia borghese e con la loro trasformazione graduale dall’interno. Il PCI era a quel tempo uno dei più convinti interpreti di questa esegesi, salvo cambiare radicalmente opinione dopo il colpo di stato dell’ 11 settembre del 1973. Enrico Berlinguer, riflettendo sui fatti cileni in un trittico comparso a puntate su Rinascita, giungeva alla conclusione che l’obiettivo che si era posto Unidad Popular era troppo avanzato, almeno per l’Italia. Se si voleva evitare di fare la fine del Cile, occorreva cercare un’alleanza, un compromesso storico, con la borghesia e quindi col suo principale partito la DC, per governare il paese, ripristinare il funzionamento del sistema economico, uscire dalla crisi, fare i sacrifici e poi, sempre col consenso della DC, iniziare ad introdurre alcuni “elementi di socialismo” nel rispetto della centralità dell’impresa e delle leggi di mercato.

Meno prudente di Berlinguer, il nuovo governo di sinistra in Cile decretava subito un’amnistia per i militanti della sinistra rivoluzionaria, costretti alla clandestinità negli anni precedenti. Successivamente l’azione riformatrice si svolgeva in due direzioni. Il 2 dicembre 1970 avvenivano le prime espropriazioni dei grandi latifondi, conformemente a quanto previsto dalla legge di riforma agraria e l’anno seguente, l’11 luglio, il Parlamento votava all’unanimità la nazionalizzazione del rame e della sua esportazione, senza indennizzo per le compagnie americane che controllavano il settore. Altre grandi industrie, in particolare quelle controllate dal capitale straniero, nel settore tessile e metallurgico, venivano espropriate e diverse banche passavano sotto il controllo statale.

“Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo”

Questa scritta che campeggiava su un cartello tenuto da un operaio di Santiago nel corso di una manifestazione a favore del governo esprimeva sinteticamente l’atteggiamento di ampi strati popolari nei confronti di Unidad Popular. Il proletariato cileno aveva vissuto l’affermazione di Unidad Popular come la vittoria delle forze popolari, dei contadini, degli operai, dei sottoproletari contro quelle conservatrici interne e internazionali.

La politica riformatrice del nuovo governo ebbe degli effetti positivi sui lavoratori. I salari aumentarono, a secondo dei settori, dal 35 al 66 %. Attraverso il blocco delle tariffe dei beni di prima necessità (pane, latte, vestiti, affitti) si tentò di limitare le conseguenze dell’inflazione. Nel giro di due anni la disoccupazione scese dall’8 al 3 %; in questo periodo vennero creati 300.000 nuovi posti di lavoro.

I miglioramenti per le classi popolari erano reali, tuttavia cominciavano ad emergere una serie di contraddizioni di fondo nell’azione riformatrice del governo. La borghesia e i monopoli statunitensi conservavano posizioni di forza a livello del potere legislativo, in parlamento; se inizialmente la DC cilena si era orientata a rispettare il risultato elettorale e a cercare di condizionare dall’esterno il governo, successivamente, alleandosi con la destra cominciò a condurre una vera e propria azione di ostruzionismo che bloccava e impediva l’attività governativa. Inoltre, accanto al controllo del potere giudiziario, la borghesia e i suoi partiti avevano il controllo quasi esclusivo dei grandi mezzi di comunicazione. Infine, molti settori economici, determinanti per la vita del paese, restavano in mano ai privati come l’industria della carta e della cellulosa, le raffinerie dello zucchero, il commercio all’ingrosso, la distribuzione del combustibile i trasporti. Soprattutto questi ultimi, in un paese geograficamente configurato come il Cile, erano destinati a giocare un ruolo importante. Lo sciopero degli autotrasportatori contro il governo riuscì a paralizzare l’intera vita economica bloccando la distribuzione dei generi alimentari e dei prodotti e il rifornimento di materie prime e di combustibile alle industrie.

La presenza sul mercato di ingenti quantità di capitale finanziario, frutto degli indennizzi che il governo aveva versato ai capitalisti espropriati, determinava un processo inflazionistico e speculativo, poiché essi non erano reinvestiti in attività produttive. A questo si aggiungevano le difficoltà create dal boicottaggio del commercio del rame, principale risorsa del paese, da parte dell’imperialismo statunitense.

La stessa riforma agraria non era priva di contraddizioni. La distribuzione della terra ai contadini in mancanza di una loro reale partecipazione alla gestione collettiva dei terreni e di una disponibilità di strumenti di produzione moderni, portò alla parcellizzazione della proprietà e ad un calo della produttività agricola che aggravò la penuria alimentare.

L’epilogo

Il governo affrontava la difficile situazione economica e politica moderando i toni della sua azione riformatrice, cercando di trovare un accordo con la DC e provando a coinvolgere i militari nella difesa delle istituzioni e delle riforme. Una ricerca e una disponibilità che si riveleranno vane e inutili. I partiti di opposizione erano passati ormai al boicottaggio aperto. In Parlamento respingevano importanti provvedimenti governativi come l’istituzione dei tribunali di quartiere, la riforma costituzionale per creare una camera unica; contemporaneamente, per favorire la bancarotta del governo, approvavano leggi senza la copertura finanziaria facendo aumentare il tasso di inflazione.

L’inaffidabilità dei militari si manifestava in due occasioni: il 29 maggio del 1973 veniva sventato un tentativo di golpe da parte dei reggimenti corazzati di Santiago e ai primi di agosto un analogo tentativo abortiva a Valparaiso. Parallelamente gli autotrasportatori, i commercianti, professionisti e altre categorie scendevano in sciopero contro il governo contrastati dai lavoratori che creavano propri organismi di autodifesa e di auto-organizzazione. Si susseguivano occupazioni delle fabbriche e dei latifondi, scioperi violenti con barricate e scontri. Gli operai volevano espropriare le fabbriche e i settori ancora in mano ai privati, mentre i contadini davano una loro interpretazione estensiva della riforma agraria.

Lo scontro diventava inevitabile. La borghesia era ormai decisa a porre fine ad un’esperienza che rischiava di sfuggirgli completamente di mano. Era rimasta impressionata e spaventata dalla risposta dei lavoratori al fallito tentativo di golpe del 29 giugno, quando un migliaio di fabbriche erano state occupate dagli operai i quali, valorizzando gli strumenti di democrazia proletaria costituiti dai cordones industriales, organizzarono il controllo della produzione, la loro difesa e proclamarono la volontà di non restituire ai proprietari le fabbriche.

Dopo che il governo Allende aveva dimostrato di non voler capitolare “pacificamente” e visto che il movimento di massa non rifluiva, anzi si caratterizzava sempre più per il suo protagonismo sociale e politico, rivendicando il diritto all’autodifesa e all’armamento contro la reazione, alla borghesia non restava che tentare la strada del golpe militare e della repressione sanguinosa.

Dittatura e liberismo sfrenato

Subito dopo il golpe veniva abolito lo stato presidenziale disciplinato dalla Costituzione del 1925, sciolti la Camera dei deputati e il Senato, soppressi i partiti politici e le libertà civili; tutti i poteri venivano assunti dalla giunta militare di governo. Anche la precedente impostazione economica e sociale veniva immediatamente rovesciata. I militari imboccarono una politica decisamente liberistica, mediante lo smantellamento delle protezioni doganali, l’apertura di vaste opportunità per le iniziative finanziarie straniere, la riprivatizzazione di tutte le società nazionalizzate, nonché il pagamento di cospicui indennizzi alle compagnie straniere che precedentemente avevano operato in Cile. Furono altresì restituiti ai precedenti proprietari i latifondi già espropriati e sciolte le cooperative agricole. La liberalizzazione pressoché totale delle importazioni provocava la generale rovina della piccola industria locale, a basso livello tecnologico e incapace di reggere la concorrenza internazionale, mentre faceva prosperare le iniziative delle multinazionali, attirate dalla presenza di un’abbondante manodopera sottopagata.

Profondi tagli alla spesa pubblica eliminavano le riforme in campo assistenziale e sociale varate al tempo di Allende. L’inflazione si manteneva a livelli molto elevati e il peso veniva svalutato. Nel 1983 i salari erano scesi del 50% rispetto al potere d’acquisto dei tempi del governo di Unidad Popular.


11 settembre 2013

dal sito  Sinistra Anticapitalista




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