CINEMA

lunedì 9 dicembre 2013

NELSON MANDELA GARIBALDI di Antonio Moscato




NELSON MANDELA GARIBALDI
di Antonio Moscato


Difficile sopportare la valanga di gossip con cui viene celebrato Nelson Mandela, presentato come una specie di Gandhi africano, e magari accostato a madre Teresa di Calcutta. Pochissimi hanno accennato allo stato del Sudafrica venti anni dopo la fine dell’Apartheid, alla gravi tensioni sociali, alle nuove barriere create dalle enormi sperequazioni. Uno solo, un britannico di cui non sono riuscito a capire il nome, intervistato da RAI News ha fatto un paragone illuminante: «Mandela è ammirato in tutto il mondo, come lo è stato il vostro eroe, Giuseppe Garibaldi».

Ed è vero. Ma non solo per l’ampio spettro degli elogi funebri: se ne fanno sempre fin troppi, per consuetudine e consolidata ipocrisia, valga come esempio la salva di elogi a Stalin nel 1953 da parte di statisti conservatori o reazionari o semplicemente socialdemocratici, ricordati oggi con devozione dai “nostalgici” come Losurdo. C’è un’analogia reale. Garibaldi, repubblicano, democratico socialisteggiante e anzi simpatizzante della Prima Internazionale, dopo un’impresa militarmente notevole come quella dei “Mille”, rinunciò a farla pesare politicamente sull’assetto dell’Italia unita, e offrì in dono – senza condizioni - a un reuccio mediocre e non alieno dal far sparare sui manifestanti l’intero Regno delle Due Sicilie conquistato con il sangue dei suoi volontari.

Il risultato fu pagato pesantemente proprio dalle nuove regioni annesse all’Italia (tra l’altro con un referendum truccatissimo). Per anni dilagò una protesta, il brigantaggio, represso con ferocia ignorata dalla maggior parte degli italiani, e presentato in blocco come puramente reazionario e filoborbonico, mentre ad esso parteciparono anche ex combattenti garibaldini delusi dal nuovo ordine e dalle discriminazioni nei confronti dei volontari da parte degli arroganti e inetti ufficiali di carriera “piemontesi”, che non avevano mai vinto una battaglia significativa.

Mandela effettivamente ha impegnato il suo enorme prestigio (accumulato con la sua lunghissima detenzione e la tenacia nel rifiutare capitolazioni in cambio di attenuazioni del regime carcerario) per assicurare una transizione senza spargimento di sangue, ma che lasciava intatto il potere economico e assicurava la permanenza del potente apparato militare e repressivo. Che è rimasto immutato, a parte l’ingresso di quadri subalterni di colore, e che si è visto in azione un anno fa nell’eccidio di minatori in sciopero a Marikana…
Oggi tutti esaltano episodi della grande amicizia tra Mandela e il suo ultimo carceriere, o come la scelta di conservare nelle loro funzioni personaggi come John Reinders, capo del protocollo presidenziale durante i mandati dell’ultimo presidente bianco, F. W. de Klerk, e del suo predecessore, P.W. Botha, affidando loro grandi responsabilità perché “noi veniamo dalle campagne, non sappiamo come amministrare un organismo come la presidenza del Sudafrica”, aveva detto Mandela, aggiungendo “abbiamo bisogno di persone sperimentate come lei”. John Reinders lo sapeva bene, tanto che è rimasto al suo posto anche con il successore di Mandela, Thabo Mbeki.

Come e perché e successo? Il ruolo di Nelson Mandela era cresciuto proprio quando nel 1961 aveva assunto la carica di comandante in capo del nuovo braccio militare dell’ANC, Umkhonto we Siswe (La lancia della nazione) ed era stato costretto a passare alla clandestinità. A quell’epoca faceva riferimento esplicito all’esempio della rivoluzione cubana, e quando compariva in pubblico ci teneva a indossare una divisa verde olivo che richiamava quella di Fidel Castro o di Ernesto Che Guevara. “Prenderemo il potere alla maniera di Castro”, diceva allora.

Al momento dell’arresto era militante del partito comunista del Sudafrica, del cui comitato centrale faceva parte. Quando fu liberato, invece, lo aveva lasciato: il necrologio del PCS dice oggi pudicamente che nel 1990 e fino alla morte “era diventato un grande amico dei comunisti”. Cos’era successo?

Certo non erano state le minacce o le pressioni esercitate su di lui negli ultimi cinque anni di detenzione, quando il ministro della Giustizia Kobie Coetsee e il capo dei servizi di sicurezza Niel Barnard, esponenti della estrema destra afrikaner, lo incontrarono segretamente in carcere per ben 70 volte. Paradossalmente i due rimasero colpiti dal loro prigioniero: Coetsee dichiarò a un giornalista e scrittore inglese, John Carlin, che Mandela era “la reincarnazione delle grandi virtù della Roma antica, dignitas, gravitas, honestas…”.

Carlin, in un omaggio al grande leader scomparso, lo elogia per aver allontanato “la prospettiva di una controrivoluzione terrorista dell’estrema destra armata” e di aver trasformato il Sudafrica “nonostante tutti i problemi che ha, e che condivide con dozzine di paesi, dopo essersi liberato della terribile particolarità che in passato lo distingueva dal resto del mondo, in una democrazia stabile, molto più rispettosa nei confronti della legge e della libertà di espressione di quanto sia, per esempio, la Russia, un altro paese che mise fine ad anni di tirannia più o meno nella stessa epoca”.

Un esempio chiave, per capire la scelta di Mandela di rinunciare a una parte essenziale del suo programma, che non era solo l’eliminazione dell’apartheid, ma anche la giustizia sociale. La data della sua libertà coincide con il crollo di gran parte del movimento comunista in seguito alla disgregazione degli Stati del socialismo reale e della stessa Unione Sovietica. Non lo assolve, ma spiega in che clima è avvenuta la sua rinuncia a molte delle sue idee di una vita.

Tranne Cuba che resisteva, si potrebbe obiettare, ma vorrei ricordare cosa era Cuba nel 1994, quando finalmente, dopo altri lunghi anni di trattative, Mandela arrivò alla presidenza. Tra balseros e razionamenti feroci, combinati alle prime aperture ai capitali stranieri, Cuba non poteva più essere un modello convincente. E non lo può essere neanche ora, impelagata com’è in riforme pericolose e al tempo stesso rimaste a metà. Il che non toglie nulla ai meriti storici di Cuba, riconosciuti più volte da Mandela, e di cui abbiamo già parlato nell’articolo precedente (Nelson Mandela). Sulla stampa cubana e latinoamericana vicina a Cuba si sono moltiplicate le rievocazioni di Cuito Cuanavale e di tutta l’impresa angolana.

Molti commentatori riformisti, dal già ricordato Carlin a Matthew Stern, ripetono comunque che riparare le ingiustizie sociali ereditate dall’apartheid era impossibile in un paese con quel tasso di incremento demografico, e che almeno si è creata una classe media nera florida.

Ma è una classe subalterna e senza autonomia, che riceve solo le briciole delle risorse di cui il Sudafrica beneficia per lo sfruttamento delle risorse di molti paesi dell’Africa australe. Matthew Stern, economista che ha lavorato per il governo sudafricano e per la World Bank, parla di “una grande opportunità”: “Le compagnie sudafricane si stanno espandendo rapidamente nella regione, dalla grande distribuzione alla telefonia, fino al settore manifatturiero. Sono mercati potenzialmente importanti nei quali noi abbiamo un accesso privilegiato”. Ma a chi allude, con quel noi?

Certo, ci sono stati modesti miglioramenti: ad esempio contributi per assicurare energia elettrica e acqua a milioni di persone che ne erano prive, ed estendere un austero sistema pensionistico, di cui il grosso della popolazione era priva, ma l’apparire di un ceto medio di colore relativamente benestante non è più significativo della comparsa di sottufficiali e ufficiali subalterni nella polizia e nell’esercito: il vero potere non è stato redistribuito. Oltre il 30% dei giovani neri sono disoccupati, e non a caso le prime crepe nel sistema di governo sono apparse a livello giovanile, con il distacco dall’ANC di Julius Malema, ex responsabile dei giovani e in passato stretto collaboratore di Jacob Zuma. La sua parola d’ordine appare minacciosa, e lo fa paragonare a Mugabe: «Riprendiamoci le terre che ci appartengono e che i bianchi ci hanno rubato». Sui muri di Pretoria appaiono a volte scritte come «Cari bianchi, la luna di miele per voi è terminata”. E i bianchi si asserragliano sempre più nei loro ghetti dorati, condomini di lusso protetti da muraglie altissime e da decine di vigilantes (neri, naturalmente…).

Fino a quando si eviterà l’esplosione?


Postilla. Se qualcuno si è scandalizzato per l’accostamento tra i due combattenti, preciso che non voleva essere offensivo. Anche se è poco conosciuta, la vita avventurosa di Giuseppe Garibaldi, tra una condanna a morte e un'accusa di terrorismo, era degnissima. Marx e soprattutto Engels erano suoi grandi ammiratori, anche se, ovviamente, solo fino all’incontro di Teano. Buon comandante, pessimo politico, scrissero dopo quell’epilogo della gloriosa “impresa dei Mille”… Per ricostruire come cambiò il giudizio rinvio a un mio ampio testo, inserito a suo tempo nel sito: Marx ed Engels sul risorgimento   




8 Dicembre 2013

dal sito Movimento Operaio


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