CHE COSA RESTA DELLA PRIMAVERA ARABA?
di Gilbert Achcar
È proprio dello spirito del tempo – del nostro tempo sempre più breve, sempre più miope – porre questa domanda sull’aria della canzone di Trenet «che cosa resta dei bei giorni?».
L’euforia del 2011 ha ceduto il posto alla melancolia dei delusi della rivoluzione, se non addirittura alla soddisfazione beata dei sostenitori del «vecchio regime», ostili fin dal primo momento alle rivolte con il pretesto che non avrebbero portato nulla di buono.
Iniziamo con quest’ultimo argomento: l’idea che il vecchio ordine, profondamente iniquo e dispotico, fosse uno scudo contro l’ «estremismo islamico», è sciocca quanto credere che l’alcolismo sia una profilassi contro la crisi della fede! L’emergere dell’ estremismo religioso che vediamo qui o lì è solamente la manifestazione di una tendenza in atto da decenni, prodotta sia direttamente che indirettamente da questo stesso ordine regionale che è imploso nel 2011.
Prediamo ad esempio il caso siriano: è evidente che la trasformazione delle forze armate, indotta da Hafez el-Assad, in guardia pretoriana del regime, fondata su un elemento confessionale minoritario, era tesa ad alimentare rancori confessionali in seno alla maggioranza. Immaginiamo che il presidente egiziano sia copto, che la sua famiglia domini l’economia del Paese, che i tre quarti degli ufficiali dell’esercito egiziano siano anch’essi copti e che i corpi scelti dell’esercito egiziano lo siano totalmente. Ci meraviglieremmo di vedere «l’integralismo islamico» dilagare in Egitto? La proporzione degli alauiti in Siria è paragonabile a quella dei copti in Egitto, ossia circa un decimo della popolazione.
Bisogna essere assai mal informati per ignorare che il regime di Bashar el-Assad ha deliberatamente alimentato il jihadismo sunnita siriano, sia facilitandone l’intervento in Iraq all’epoca dell’occupazione americana, sia liberando i suoi militanti dalle prigioni siriane nel 2011, nello stesso momento in cui il regime reprimeva brutalmente e arrestava a migliaia i democratici della rivolta siriana.
In realtà, la proliferazione degli estremisti integralisti in Medio Oriente è il prodotto diretto dell’eredità disastrosa delle dittature baasiste in Siria e in Iraq, nemiche tra loro, combinata con gli effetti non meno disastrosi dell’occupazione americana di quest’ultimo Paese e la concorrenza accanita che si fanno da decenni i due bastioni dell’integralismo islamico regionale: il regno wahhabita saudita e la repubblica khomeinista iraniana. Che questa proliferazione avvenga favorendo la profonda destabilizzazione che accompagna naturalmente ed inevitabilmente ogni rivolta politica è del tutto normale. Quando un ascesso viene inciso, esce il pus; è ben sciocco colui che crede sarebbe stato meglio lasciare intatto l’ascesso.
Torniamo alla domanda iniziale: cosa resta della Primavera araba? La risposta è semplice: il processo rivoluzionario regionale è ancora solo ai suoi inizi. Saranno necessari ancora diversi anni, forse anche diversi decenni, prima che l’onda d’urto che ha colpito in profondità l’ordine regionale irrimediabilmente corrotto arrivi ad una nuova stabilizzazione delle società arabe. È per questo motivo che la definizione «Primavera araba» era sbagliata fin dall’inizio: essendo ispirata dalla dolce illusione che la rivolta regionale fosse unicamente animata dalla sete di democrazia tale da poter essere soddisfatta da libere elezioni.
Ciò significa ignorare il motivo principale dell’esplosione del 2011, che è di ordine socioeconomico: questo motivo è il blocco dello sviluppo regionale da decenni che si è tradotto in tassi record della disoccupazione, in particolare tra i giovani e i laureati. Il corollario di questa constatazione è che il processo rivoluzionario iniziato nel 2011 terminerà quando sarà data una soluzione che permetta di uscire dall’impasse socioeconomico – una soluzione che potrà essere progressiva o regressiva, certamente, poiché la cosa migliore non è mai sicura, purtroppo, ma neanche la peggiore!
Per questo motivo «l’inverno islamista» in Tunisia ed in Egitto, nel quale gli uccelli del malaugurio si sono convinti di voler vedere la fine ultima del processo in questi due Paesi, è stato così breve. Il fallimento dei governi di Nahda e dei Fratelli Musulmani è stato determinato prima di tutto dalla loro incapacità di offrire una seppur minima soluzione al problema socioeconomico in un contesto di aggravamento della disoccupazione. Tale fallimento era prevedibile ed è stato previsto. Si può altrettanto prevedere che la restaurazione del vecchio regime in atto al Cairo per mano del generale Sissi fallirà per la stessa ragione, cause simili producono simili effetti e politiche economiche analoghe arriveranno a risultati uguali.
Perché la rivolta araba possa avere come sbocco una vera modernizzazione delle società arabe, occorrerà che emergano e si impongano nuove direzioni che rappresentino le aspirazioni progressiste dei milioni di giovani che si sono ribellati nel 2011. Solo a questa condizione il processo rivoluzionario ritroverà la sua via originale, ad eguale distanza dal vecchio regime e dalle opposizioni reazionarie che quest’ultimo ha generato.
Traduzione dal francese di Cinzia Nachira
pubblicato sul N° 92 di L’orient le jour –febbraio 2014
dal sito Movimento operaio
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