E’ TEMPO DI CHIUDERE CON IL FEMMINISMO?
di Rita Chiavoni
Navigando per internet, come in qualsiasi viaggio, capita di fare molti incontri, alcuni, rari, offrono stimoli per approfondimenti e riflessioni. Può anche capitare che questi stimoli giungano in modo così diretto al cuore di questioni su cui, in modo più o meno compiuto e più o meno consapevole, ti stavi occupando. Mi sono così imbattuta nel sito “Uomini Beta”, gruppo di autocoscienza maschile.
Già trovare un sito nel quale si parla di autocoscienza maschile, in questi anni, mi sembra una novità assoluta. Mossa dalla curiosità anche professionale vado a curiosare e scopro che quel mondo maschile molto spesso conosciuto nella stanza segreta che è il mio studio sta esternando pubblicamente la rabbia per le amarezze, i dolori, le aspettative, le disillusioni e le frustrazioni vissute privatamente e pubblicamente nei confronti delle donne.
Scopro un atto di accusa nei confronti della deriva femminista. Certo i modi e anche parte delle ipotesi su cui insistono rischiano, a mio parere di ripercorrere i sentieri sterili del femminismo stesso, ma un dato è certo, gli uomini, i maschi, che notoriamente non parlano se non per fare voli pindarici sulle più disparate teorie o sanno scrivere poesie sublimi su donne perfette e santificate, improvvisamente parlano dei loro dolori terreni, delle loro frustrazioni, disincanti e rabbie, con la forza di chi improvvisamente chiede conto alla società della propria dignità perduta.
Mentre provo un immediato arretramento difensivo di fronte a una certa aggressività espressa nel sito nei confronti delle donne, mi torna in mente un volumetto ed. “sole nero” di Annie Le Brun “MOLLATE TUTTO facciamola finita col femminismo”.
Era il 1977, libro intenso di critica radicale al femminismo. Secondo l’autrice infatti il femminismo stava diventando l’avamposto della stessa cultura dominante. Nonostante la critica partisse fondamentalmente dalla convinzione che la cultura occidentale borghese riproduce costantemente il proprio modello anche sotto mentite spoglie, per cui il post-femminismo tendeva a sottovalutare se non addirittura ad annullare la necessità del confronto radicale con l’alterità dell’Altro all’interno della relazione amorosa.
L’autrice scrive: “Mi interessa più Oscar Wilde che una qualsiasi borghese che ha accettato di sposarsi e di fare figli e che un bel giorno si sente repressa nella sua ipotetica creatività”. E ancora con grande acume e con lungimiranza continua: “Quando la ragione per trionfare diventa ragion di Stato, questo rifiuto per la “Alterità” che è anche e soprattutto disprezzo, panico e indifferenza criminale verso lo spirito, verso la ”oscura particolarità della materia”, non ha cessato di condurre ad un ripiegamento della vita sensibile degli uomini e delle donne sul punto più sotterraneo della sfera individuale… Il rifiuto dell’Altro comporta tragicamente la perdita d’identità di colui che lo esprime. In questo senso la ”affermazione della “femmellitude”, oscillante tra la negazione dell’individualità maschile e l’esaltazione della massa femminile, partecipa al più alto grado a questa violenza normalizzante che contrariamente a quanto ci si vorrebbe far credere, non è né maschile né femminile” “ [1].
La critica di Le Brun si colloca nell’universo culturalmente fecondo degli anni ‘70 e ‘80 ma come discorso discordante, all’interno delle élite femminili di quegli anni, tanto discordante da essere ripudiata da queste stesse élite con appellativi abbastanza duri e per certi versi ridicoli di cui “traditrice vaginale” è certamente il più emblematico visto che la vagina era il simbolo assolutizzato dell’essere donna. Nell’attualità non possiamo che prendere atto che il femminismo si è coeso talmente tanto con la Ragion di Stato da essere diventato parte integrante dell’ideologia dominante del neoliberismo.
Certamente questa è un’ipotesi che necessita di prove, di conferme inoppugnabili, per essere sostenuta. Ci provo, sapendo che ogni prova non è mai inoppugnabile e che la verità è solamente la verità del fatto compiuto al di là di qualsiasi interpretazione.
Emblematico, a questo proposito, il racconto di Ryūnosuke Akutagawa ripreso da Akira Kurosawa nel film Rashomhon, dove l’unico elemento certo è l’uccisione del marito della protagonista. Tutte le versioni di come sia accaduto il fatto risultano veritiere, eppure assolutamente inattendibili. Quindi ciò che conta sono i fatti, se ci si pone in maniera dialettica, e l’interpretazione dei fatti è vera purché chi la racconta dichiari apertamente il proprio pensiero e la propria weltanschauung; vera, quindi, per quella narrazione. Se invece al posto del fatto poniamo un postulato come proposizione che non si può dimostrare ma che si considera come vera, viene compiuto un inganno. L’inganno attuale risiede nel postulato che il patriarcato resista a tutt’oggi, come cultura che sostiene il neoliberismo, e che la violenza sulle donne sia l’espressione di questo dato acquisito una volta per tutte. Questa, a mio parere può essere considerata ancora un’ipotesi tutta da dimostrare, né più e né meno della mia.
Un primo fatto su cui posare l’attenzione è che “l’entrata nel mondo del lavoro delle donne ha tolto lavoro agli uomini, di fatto li ha costretti a condividere l’accudimento dei figli e della casa, li ha in fin dei conti costretti a condividere le loro stesse prigioni. I salari, infatti, si sono dimezzati, oggi in due si raggiunge a malapena lo stipendio che un tempo guadagnava l’uomo da solo. Uomini e donne sono legati dalla necessità del quotidiano, prigionieri dei bisogni reali di sopravvivenza e di quelli indotti“ [2].
Le ricaduta di questo dato incontrovertibile è che ci troviamo di fronte ad una truffa perché la grande maggioranza delle donne non ha conquistato proprio nulla sul piano sociale mentre si assiste ad un sempre maggiore ritiro degli uomini che non hanno posti di rilievo nella società, dalla sfera pubblica. La politica è diventata una professione e come sappiamo bene questo limita in modo ingravescente la partecipazione alla vita politica e culturale delle classi subalterne, quindi di tutti, uomini e donne, e non è un caso che vediamo un restringersi delle agibilità sindacali per legge. É ormai accertato dai fatti che l’insistenza dei media sui fatti di cronaca che riguardano le donne, in particolare la violenza fisica esercitata dagli uomini su di loro rappresenta una linea editoriale generale diffusa, funzionale in questo momento storico a riempire le prime pagine dei giornali con mostri più o meno accertati. Puntare su alcune tematiche, emotivamente assai coinvolgenti, permette di mantenere alta l’audience e distogliere l’opinione pubblica dai problemi che sottostanno, in questo momento storico, anche ad un’oggettiva difficoltà di relazione tra i sessi.
Difficoltà dovuta in primo luogo alle condizioni materiali che ormai costringono tutti, uomini e donne, a rincorrere affannosamente uno o più lavori precari per sopravvivere, ma anche e a mio parere non di minore importanza, al sempre maggiore scarto esistente tra i modelli proposti dalla “società dello spettacolo”, direbbe G. Debord, e la reale possibilità di una loro attuazione.
“La capacità camaleontica di trasformazione e di adattamento del capitale rispetto a qualsiasi conquista sociale, asservendo ogni trasformazione culturale alla regola del profitto ha prodotto un’unica figura sociale: il consumatore” [3].
Il consumatore non ha e non deve avere tempo né per la riflessione né tanto meno per gli affetti che invece hanno bisogno di tanto tempo per essere coltivati e condivisi senza stritolamenti. Il consumatore deve produrre e spendere e viceversa. Bulimia di beni e anoressia dell’affettività. A un osservatore attento non può sfuggire che le notizie riguardanti le donne e in particolare accoltellamenti o violenze domestiche, appaiono sulle testate giornalistiche di maggior rilievo con grande ricchezza di particolari, con grande compiacimento e con inaudita pervasività soprattutto quando nel paese e nel mondo accadono fatti che potrebbero far riflettere sulla criticità della realtà sociale ed economica attuale.
C’è stato un bombardamento mediatico sui femminicidi, sulla messa in opera della legge, sullo stalking che in verità altro non è se non un decreto sulla sicurezza. Nello stesso periodo andava in onda sulla RAI un indegno programma, “Amore Criminale”, che affondava le radici sull’immaginario arcaico dell’orco della porta accanto e nello stesso letto. Un altro esempio è quello del 16 di giugno, il giorno della grande rivelazione di Alfano: “Preso l’assassino di Yara Gambirasio”, con tutti i particolari in cronaca, dichiarazione che ha fatto saltare i nervi agli investigatori, in quanto comprometteva gravemente le indagini tuttora in corso.
Ma cosa stava succedendo di così importante per gli italiani il 16 di giugno? Era, guarda un po’, il giorno delle tasse. Giorno maledetto per gli italiani, che sono per lo più ricchi senza saperlo, tanto da avere difficoltà a pagare luce e gas, a dover chiudere attività o vedersi tassata oltremodo la casa di proprietà. Allora il femminismo che ha apportato alle donne se non altro una maggiore visibilità ed una maggiore partecipazione alla vita sociale ed economica, di fatto è stato inglobato.
Alcune donne hanno avuto ed hanno il potere. Ne ricordo alcune: Golda Meir, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Margaret Thatcher, fino all’attuale cancelliera tedesca Angela Merkel.
Insomma, a ben pensare sono proprio loro le regine del nuovo capitalismo globale e finanziario, che per un verso e al contempo sostiene con un effetto performante, attraverso la comunicazione mainstream, sempre più e con sempre maggiore determinazione la disgregazione delle relazioni per mantenere in maniera totale il controllo sulle nostre esistenze.
Tempo fa fui invitata ad intervenire in un gruppo di donne che avevano subito o subivano da parte dei propri partner violenza domestica o sessuale. Fu un’esperienza molto significativa. Una giovane donna raccontò di aver subito uno stupro di gruppo e raccontò il fatto. E raccontò dello smarrimento, della vergogna, della paura, del dolore morale e fisico ed infine, tra le lacrime e con grande rabbia concluse con queste parole: ”Ciò che mi addolora di più è non poter avere un rapporto sessuale senza che quel ricordo mi torni alla mente, per questo ho intrapreso una psicoterapia, voglio continuare a sorridere guardando negli occhi gli uomini che mi guardano“. Sempre in quel gruppo, una donna disse che trovava irrispettoso lo sguardo maschile, tanto da sentirsi violentata.
Questi esempi per dire della necessità di circoscrivere al fatto il trauma, che il trauma non diventi pervasivo e destabilizzante a tal punto da rendere impossibile qualsiasi rapporto con gli uomini. Bene, esiste un problema. Il problema non riguarda le singole persone da me conosciute nel gruppo, ma è un problema riguardante la relazione uomo-donna.
Cosa ci indicano questi due racconti emblematici? Il primo riguarda la violenza reale, nel secondo caso ci troviamo invece in un vissuto di violenza, assolutamente soggettivo, ma che fu accolto con assoluta comprensione dal gruppo, mentre la giovane violentata, dopo la dovuta commiserazione nel suo ruolo di vittima fu guardata con sospetto, per la sua affermazione sullo sguardo. Non era in linea nel considerare lo sguardo maschile come violento. Questo ricordo, riaffiorato in me dopo tanti anni, mi fa pensare che “Quando vedo le donne, da sempre ritagliate secondo il disegno cangiante delle ombre proiettate da un muro innalzato nel cuore stesso della vita, che tentano di passare senza armi, né bagagli, dall’altra parte di quel muro, invece di abbatterlo, mi convinco che il femminismo si è lasciato impercettibilmente sedurre dall’ordine delle cose” [4].
E mentre leggevo gli articoli di Uomini Beta riguardanti l’espropriazione della paternità, la violenza non solamente psicologica esercitata dalle donne e la considerazione che le morti sul lavoro sono pressoché quasi tutte maschili e che di questo non si parla, immagini assolutamente e terribilmente incompatibili tra loro si sono materializzate nella mia mente: da una parte le torce umane dello “incidente” alla ThyssenKrupp, dall’altra l’immagine radiosa delle elette “quote rosa” del PD, di cui Renzi va tanto fiero.
Così ho cercato i dati sul sito dell’Inail e ad occhio e croce non mi tornavano i conti delle morti sul lavoro perché avevo letto di due incidenti sul lavoro solamente oggi, a Treviso un operaio muore folgorato e a Portovesme un altro operaio muore schiacciato da un camion, più il suicidio di un artigiano.
I conti non possono tornare perché le statistiche Inail sono le uniche considerate attendibili, se non fossero fasulle in partenza in quanto le percentuali considerano esclusivamente gli assicurati con l’ente. Su questo un approfondimento interessante sono gli articoli che si trovano di seguito, articoli che spiegano bene perché l’Inail ha dati poco attendibili.
Fermiamo la strage quotidiana
Nei primi 6 mesi del 2014 il 12% in più del 2013
Per concludere: come comunista, ma anche come donna abituata al confronto/scontro con gli uomini, e certamente anche come medico, forse un problema c’è davvero!
Ne possiamo parlare?
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NOTE
1 A. Le Brun “Mollate tutto” Ed. Sole Nero pag.57
2 Rita Chiavoni http://www.zeroviolenza.it/
3 Rita Chiavoni idem
4 A. Le Brun “Mollate tutto” Ed. Sole Nero pag. 20
7 luglio 2014
dal sito L'INTERFERENZA
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