URANIA E LA NARRATIVA DI GENERE
Conversazione con Giuseppe Lippi
Per chi non lo sapesse, c’è una collana (“di genere”, tra l’altro) attiva da più di sessant’anni. Si tratta di Urania, la serie che ha portato la fantascienza in Italia, e che dal 1952 fa capolino in tutte le edicole con la sua veste inconfondibile. Da ragazzina pensavo che i libri “da edicola” fossero libri leggeri, “da mare”, e ne facevo incetta prima di scendere in spiaggia. Invece, mentre mia madre leggeva gli ancora più famosi Gialli, io per la prima volta scoprivo, incollata sotto l’ombrellonte, i mondi di Dick, Asimov e Lansdale. Con buona pace della crisi editoriale Urania è al numero 1608 (collane figlie a parte), e a dirigerla dal 1990 è Giuseppe Lippi.
Curatore, scrittore e traduttore, tra le altre cose Lippi si è occupato di diverse edizioni dei racconti di Lovecraft e delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis, mica roba da poco. Tra le sue opere segnaliamo Guida alla fantascienza (con Vittorio Curtoni) e 2001 odissea nello spazio: dizionario ragionato.
Nell’intervista che Giuseppe Lippi ci ha concesso ho cercato di capire i motivi di un successo così duraturo, in un paese che sembra perdere sempre più lettori, e dove ancora possa andare la fantascienza. Per chi volesse proseguire, questo è il blog della collana mondadoriana:
http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/
Urania è stata fondata nel 1952, tu allora non eri ancora nato, ma negli anni successivi ne sei diventato lettore. C’erano delle storie o degli autori che ti appassionavano particolarmente?
Ho cominciato a leggere Urania nel 1964 e i miei racconti preferiti erano quelli che riguardavano l’ignoto: sconosciuti fenomeni dello spazio, insidie nel tempo, creature che a buon diritto potevamo definire “i nostri dissimili”, come recitava il titolo di una classica antologia. Ma anche i paradossi sociali, il futuro alla gola insomma, tanto per citare un altro titolo. Non m’interessavano i resoconti di avventure fini a se stesse, battaglie spaziali, gialli della provincia inglese cotti in salsa uraniaise. Volevo rispetto per il cosmo, nella mia Urania. Per il cosmo e per l’ignoto.
In più di sessant’anni la collana ha avuto diversi curatori, da Monicelli a Fruttero e Lucentini, da Montanari fino a te. Quali sono i principali cambiamenti che ciascuno ha apportato?
In origine era una collana popolare e romantica (Monicelli); poi diventò popolare e sofisticata (Fruttero e Lucentini); Montanari cercò di trasformarla in una collezione per moderni connoisseur, dunque ragionevolmente popolare ma rivolta a un pubblico esigente. Oggi resta una collezione economica e riconosciuta da tutti che cerca di mantenere un alto profilo senza snobbare il fattore intrattenimento. Lo ricordiamo anche agli autori italiani: non ci rivolgiamo soltanto all’appassionato duro e puro, ma all’appassionato che ama leggere di tutto e a un pubblico curioso, che abbia voglia di avventure intelligenti.
Per una collana di genere è sorprendente, e in un certo senso confortante, questa vitalità. Come pensi che sia stato possibile portare avanti un progetto editoriale così a lungo?
Per le ragioni dette sopra: l’editore, e i curatori con lui, non hanno mai creduto che Urania dovesse rivolgersi a una platea chiusa, una setta insomma. E che dovesse catturare l’attenzione dei lettori che rinnovano i propri interessi.
Urania nasce da un’idea di rivista sul modello di quelle americane, anche se, purtroppo. “Urania rivista” è rimasta in vita un solo anno. Questo genere di pubblicazioni ha vissuto una crisi generale anche negli Stati Uniti, tuttavia sono state per molto tempo un grande veicolo di diffusione della letteratura di genere e un bacino per fare scouting. Lo stesso Stephen King ha pubblicato i suoi primi racconti sui periodici. Secondo te perché l’esperimento è stato abbandonato così presto? E non ci sarebbero gli spazi per proporre di nuovo un’idea del genere, forse più vicina alle abitudini di lettura di tanti giovani?
Come giustamente osservi, la rivista è in declino anche in America e presto o tardi rimarranno soltanto le e-zine o webzine. Da un punto di vista editoriale sono oggetti molto belli, ma il grosso del pubblico continua a preferire i romanzi. Anche negli anni Cinquanta le pubblicazioni a base di racconti non avevano vita facile e Mondadori dovette chiudere la sua per ragioni economiche. Detto questo, ho pensato più volte a inaugurare una sezione di Urania che, di tanto in tanto, riportasse in vita il concetto di rivista con racconti e articoli. Vedremo.
Nella vostra storia avete pubblicato prevalentemente autori anglosassoni, aprendovi poi agli italiani. Tuttavia la presenza di scrittori di altri paesi è sempre rimasta molto bassa. Non pensi che questo tolga prospettive alla collana? Per intenderci, ultimamente la Nova Delphi – una piccola casa editrice romana – ha pubblicato Apocalisse, una raccolta di racconti sulle origini della fantascienza latinoamericana. Io l’ho trovata bellissima e mi sono chiesta come mai nessuno avesse pensato prima di esplorare altri luoghi dell’immaginario. Non pensi che ormai la nostra immaginazione, anche nel campo della fantascienza, si sia fossilizzata su certi canoni della letteratura e del cinema anglosassone, e che dovremmo fare uno sforzo per spostare la nostra immaginazione altrove?
Direi di sì, ma nello stesso tempo vedo che con questa domanda sposti l’obbiettivo da Urania e la sua realtà editoriale a quella di una piccola casa editrice specializzata in letteratura. Due mondi molto diversi che per fortuna coesistono… Devo dire che una parte dei nostri titoli sono altrettanto sofisticati di quelli dei piccoli o medi editori, ma c’è un limite alla nostra capacità di penetrare in quella nicchia. Ti faccio degli esempi pratici: in più riprese abbiamo provato a battere altre strade, in particolare nell’ambito delle culture orientali, traducendo due raccolte di sf cinese e un classico della letteratura giapponese come Edogawa Ranpo. Senza contare l’Europa non anglofona, cui abbiamo attinto per Stanislaw Lem, i fratelli Strugatskji e alcuni classici francesi come Jacques Spitz o René Barjavel. È ancora poco, certo, ma devo confessare che queste operazioni non ci hanno dato le soddisfazioni che speravamo. In ogni caso, qualcosa si è mosso e altro ancora si muoverà.
Urania è stata un grande luogo di scouting per gli autori italiani, in parte grazie al Premio Urania. Al di là del Premio, quali sono i vostri canali per conoscere gli scrittori di casa?
Non li cerchiamo con la lanterna, se è a questo che pensi, perché non possiamo fare più di tot titoli d’essai all’anno, e viviamo ancora in un mondo in cui l’autore italiano è seguito soltanto da una parte dei lettori, proprio come al cinema i film impegnati. A prescindere da queste considerazioni, gli autori sono tutto intorno a noi, li incontriamo alle convention, fanno parte delle nostre amicizie personali, ne riceviamo manoscritti, file e libri stampati. E poi ci sono i siti internet che meritevolmente li pubblicano, e dove possiamo leggerli.
Più in generale, come avviene il processo di scouting? Come lavora la redazione per mettere insieme il piano editoriale?
Riceviamo una parte del materiale dagli editori stranieri, sotto forma di manoscritti non ancora pubblicati o volumi finiti. Seguiamo le novità e personalmente acquisto una certa quantità di titoli che leggo con un occhio alla valutazione... Sfogliando riviste e recensioni, ci si imbatte inevitabilmente nei pareri di lettori intelligenti o di autori che raccomandano i propri lavori o quelli dei migliori colleghi. Ma il piano editoriale deve tener conto di numerosi fattori: numero di pagine, costo dei diritti, aspirazione degli autori (vorrebbero uscire tutti in libreria, non in edicola…). A volte perdiamo titoli importanti come La ragazza meccanica di Paolo Bacigalupi o, più recentemente, Ancillary Justice di Ann Leckie perché gli autori e i loro agenti hanno chiesto anticipi troppo alti o hanno preferito vendere a collane librarie.
Tra il 1989 e il 1992 si è tentato di lanciare anche una collana sulla letteratura horror, Oscar Horror appunto. Cosa pensi di quel progetto? Secondo te perché non ha funzionato? In questi ultimi anni Urania stessa ha voluto dare spazio a una collana figlia su questo genere, come si inserisce tutto questo nel vostro progetto?
Negli Oscar Horror, una collana cui personalmente tenevo molto, abbiamo fatto un lavoro dedicato ad alcuni classici del Novecento, che paradossalmente sono anche i meno noti presso il grande pubblico. Pubblicavamo un certo numero di autori emergenti insieme a firme più illustri, ma né gli uni né le altre avevano il bel suono familiare di un “Bram Stoker!”, “Edith Wharton!”, “M.R. James!”. I classici neri della prima parte del XX secolo non sono mai assurti alla relativa popolarità di quelli ottocenteschi (che oltretutto agli editori non costano niente, perché sono di pubblico dominio) e tantomeno di quelli venuti sulla scia di Stephen King e Clive Barker. Il fatto che alcuni scrittori degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta siano stati tra i più originali nell’ambito dell’horror non li ha salvati dall’inevitabile confronto con i bestseller (esiste una sola eccezione: H.P. Lovecraft). La nuova Urania Horror punterà essenzialmente sui contemporanei ma offrirà qualche inatteso ripescaggio.
Più in generale, perché avete sentito il bisogno di creare delle sotto-collane di Urania?
Per ampliare il ventaglio della nostra offerta, per coprire una gamma il più possibile completa del romanzo e del racconto fantastico. Se poi questo ci aiuta a vendere qualche migliaio di copie in più, come è accaduto con il “Jumbo” dell’anno scorso dedicato al lungo Fiume degli dei di Ian McDonald, l’editore è contento e il pubblico rimane soddisfatto.
Negli anni è cambiata Urania ma sono cambiati anche i lettori. Si sono toccate tirature da 50.000 copie mentre ora mi pare che ci sia assestati sulle 15.000, correggimi se sbaglio… pensi che siano cambiati i gusti dei lettori o che ci sia un problema più generale di crisi? E come si pone Urania di fronte a questi nuovi lettori? Alcuni letterati, lettori, o anche operatori stessi del settore editoriale considerano la letteratura di genere con un certo snobismo, come una “letteratura di serie B”. Pensi che questo giudizio, o pregiudizio, sia in parte giustificato? E secondo te perché ci portiamo dietro ancora un retaggio culturale che distingue la letteratura dalla narrativa di intrattenimento, senza che anche quest’ultima possa essere letteratura?
Ma queste sono quattro domande in una, e tutte lunghe! Comunque, comincerò col dire che Urania non “si pone”, tutt’al più indossa la sua veste bianca (nelle tipografie Mondadori), esce a passeggio, si ferma all’edicola e lì fa l’occhiolino ai giovanotti e alle ragazze che vogliono comprarla. Ha sessantadue anni ma il suo belletto piace ancora, soprattutto a chi la segue da tempo. La chiave della sua fortuna sta nella fidelizzazione, anche se il ricambio generazionale è indispensabile, e qualora dovesse venire meno del tutto sarebbero guai. Oggi manca una successione fra i lettori paragonabile a quella di una volta perché i giovanissimi leggono meno e i più fini nutrono pregiudizi sulla narrativa popolare, proprio come dici tu. Ora, se questi signori tornassero a casa e leggessero i Minima moralia oppure – per qualcosa di più leggero – le commedie di Goldoni, incasserei e starei zitto. Ma se, sotto sotto, vanno poi a sfogarsi con uno Stephen King o Terry Brooks, John Grisham o Clive Cussler, ebbene, dico che sono dei grandi imbroglioni perché quella è narrativa d’intrattenimento al pari di tanta science fiction. No hay diferencia. C’è da aggiungere, a loro discolpa, che Clive Cussler o Joe Lansdale (un ottimo autore scoperto proprio da Urania) si trovano in tutte le librerie, i nostri volumi soltanto all’edicola; cercarli è dunque un po’ meno scontato, ma è solo questione di abitudini.
Infine, vorrei fare qualche considerazione sul perché di certi pregiudizi letterari (“è colpa di Croce!”) e sulla loro legittima o illegittima natura. Sappi dunque che non è tutto pregiudizio quel che nuoce: voglio dire che nelle accuse dei lettori crociani, ex-marxisti, neorealisti e così via c’è una base di verità, e sta nel fatto che, ovviamente, le differenze di qualità tra prodotti culturali esistono. Lo dimentichiamo troppo facilmente quando difendiamo i nostri beniamini dagli attacchi della critica miope, ma lo vediamo bene oggi, quando la letteratura pop rischia di sommergere tutto quel che resta, come è già avvenuto per la musica. Chi sa distinguere riconosce benissimo l’intento di un autore serio in senso commerciale da quello di chi è serio nella ricerca delle idee e dello stile. Il che, mi affretto ad aggiungere, non dovrebbe indurre a boicottare né l’uno né l’altro, ma solo spingere chi legge a cercare l’eventuale freschezza e originalità nella voce di entrambi. È qui che la critica dei puristi letterari diventa pretestuosa (nel senso che prescinde dal testo) e in ultima analisi poco fondata, perché non è in grado di riconoscere le qualità delle varie opere – ammesso che ve ne siano – ciascuna al proprio livello, per quello che hanno da dire nei rispettivi campi. Lo spessore, e qualche volta la grandezza di uno scrittore sono dovuti a ciò che propone fuori del coro, a un’intelligenza dei propri mezzi che non si può fare a meno di apprezzare, ma perché questo apprezzamento sia possibile è necessario non irrigidirsi in un canone. La letteratura, la cultura stessa sono frutto di codici che si mescolano ed evolvono continuamente, ma la capacità di riconoscere il merito deve funzionare come un radar e andare oltre la nebbia. Questo è tanto più vero se si pensa che originalità e verve possono mancare al più accanito dei romanzieri di consumo come al più togato degli autori letterari (ormai essi stessi produttori di un ‘genere’: quello che vince i premi); o essere, invece, miracolosamente presenti… In ogni caso il problema centrale, nella nostra epoca, non è la bravura dell’artista colto oppure pop; è piuttosto che l’editoria, come la scuola, non si pone alcun obbiettivo di formazione. Questo fa sì che le facoltà critiche e le possibilità di scelta da parte del pubblico si appiattiscano progressivamente. Per portare fino in fondo la nostra controaccusa, diremmo che scuola ed editoria scoraggino attivamente l’originalità del sapere in nome di precetti commerciali o qualunquistici. La politica fa la sua parte tagliando fondi e riscrivendo i programmi dell’istruzione, in modo da favorire la manipolabilità. Quello che si vuole ottenere è un consumatore, non un cittadino, e un consumatore che non discuta troppo. In questo senso, la crisi economica risospinge tutti indietro ma apre gli occhi sui beni reali, su quello che conta contrapposto alla fuffa. Una speranza concreta può venire dal calderone di internet: rivoluzione dalla base, nel male e nel bene.
In Urania viene dato uno spazio molto minore ai racconti rispetto ai romanzi, questo perché? Ritieni che il racconto sia una forma di narrativa meno efficace per questo genere o che ci siano altri problemi legati alla sensibilità degli scrittori e dei lettori?
Devo dire che il racconto di fantascienza ha perso un po’ del suo mordente, tende ad essere a volte un apologo e a volte un romanzo in miniatura. O soltanto un esperimento. Ne pubblichiamo meno, dunque, anche perché il pubblico li gradisce meno. Non è un caso che uno dei gruppi Facebook più attivi nel settore si chiami “Romanzi di fantascienza”, stop: lo cura un insieme di persone che fa capo a Sandro Pergameno, uno degli storici esperti italiani. Detto questo, ritengo che dovremmo aumentare la nostra quota di short stories, preparando ogni tanto un numero-rivista come ho accennato in precedenza.
Ultima domanda: come pensi che andrà avanti Urania nel futuro? Riuscirà ad imporsi anche nel digitale? Quali sono i vostri prossimi progetti?
Nel digitale siamo ormai da due anni e ci stiamo provando. Di un titolo particolarmente atteso, Incontro con Rama, abbiamo venduto circa duemila copie in formato elettronico. L’avvenire si gioca un po’ qui, anche se mi auguro che continueremo ad avere la carta ancora per diversi anni.
21 luglio 2014
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