LA SCUOLA LIBERISTA E AZIENDALE DI MATTEO RENZI
di Matteo Saudino
Ancora una volta nella recente storia d’Italia è un governo di centro-sinistra a realizzare una riforma politica dall’impianto liberista, autoritario e aziendale tipica degli esecutivi conservatori di centro-destra. In passato è accaduto per la riforma delle pensioni (prima Dini e poi Fornero), per la riforma del lavoro (pacchetto Treu) e per l’istituzione dei centri di detenzione per immigrati senza permesso di soggiorno (legge Turco-Napolitano).
Ora è il turno della scuola. Al di là delle strumentali, ma molto significative, dichiarazioni dell’ex Ministro dell’Istruzione Gelmini (“Il patto educativo di Renzi raccoglie e realizza le proposte di cambiamento della scuola portate avanti da Forza Italia”), e dell’ex sottosegretario Aprea (“le proposte di Renzi sono una riproposizione del mio progetto”), la “buona scuola” renziana rappresenta a tutti gli effetti il punto di arrivo di decenni di tentativi di trasformare la scuola pubblica italiana in un’azienda funzionale alle esigenze delle imprese e del mercato.
La “buona scuola”, di cui si stanno gettando le fondamenta, non deve più formare i cittadini (se non a parole), non deve più offrire gli strumenti culturali per decodificare la realtà, e nemmeno stimolare la crescita del pensiero critico, che sta alla base delle possibilità di autodeterminazione e di emancipazione individuale e collettiva. La nuova scuola italiana deve rottamare il passato; deve essere più moderna, flessibile, meritocratica (nuova mantra salvifico e rigenerante) e deve stare al passo con le sfide che il dinamico sistema economico capitalistico costantemente propone. Chi si ferma è perduto.
Per questo occorre cambiare la scuola e per questo il governo si appresta a varare l’ennesima riforma scolastica (la quarta in poco più di dieci anni- unico paese al mondo che può vantare tale primato).
Per completare la trasformazione della scuola italiana secondo il modello aziendale, Renzi ha avuto una trovata geniale: in una fase storica caratterizzata da disoccupazione giovanile di massa, l’ex sindaco di Firenze afferma che il sistema scolastico del futuro dovrà fondarsi sul lavoro. Giù il cappello; siamo in presenza di una trovata propagandistica degna del miglior Berlusconi.
Chi, infatti, non vorrebbe al termine del proprio percorso di formazione trovare un’occupazione affine ai propri studi? Chi in carenza di risorse non è disposto a salutare positivamente l’ingresso di capitali privati nella scuola pubblica? Chi non reputa utile sacrificare alcune ore di italiano, latino, storia, filosofia o letteratura, in cambio di discipline come informatica o inglese? Chi non giudica una grande opportunità alternare ore di studio con ore di lavoro-apprendimento presso imprese, in cui magari un domani trovare un posto di lavoro? Praticamente quasi nessuno, se non i nostalgici di una paideia classica, oggi per lo più riservata ai soli figli della medio-alta borghesia, che aspirano (o che sono indotti ad aspirare) a diventare futura classe dirigente. Chi, infatti, dopo essere stato affamato e disidratato per anni, sceglierebbe di passare del tempo in biblioteca, al cinema o a teatro, anziché mangiare e bere una succulenta ciotola di pane e acqua?
L’impoverimento, generato dalla lunga crisi sociale e economica che stiamo vivendo, ha tolto agli studenti le aspirazioni ad avere un futuro migliore di quello che hanno sognato i loro genitori. Il realismo si è tramutato in pessimismo, e le lotte di solidarietà per avere più torte da mangiare si sono tramutate in ciniche competizioni per accaparrarsi l’ultima fetta disponibile. Pertanto basta con la vecchia scuola figlia del ’68: ma quale democrazia e partecipazione, ma quale egualitarismo e solidarietà, ma quale fantasia e creatività, ma quale contrattazione sindacale, ma quale centralità degli organi collegiali! I tempi sono cambiati: servono più disciplina, più potere decisionale nelle mani dei dirigenti scolastici, più privato e meno pubblico, meno libri cartacei e più tecnologia (da sempre la panacea ad ogni problema, il vero motore di ogni modernità).
Serve una scuola al passo con i tempi, serve una buona scuola che prepari gli studenti al futuro che li attende; così i ragazzi e le ragazze saranno pronti ad entrare in un mercato del lavoro flessibile, in continuo mutamento, che richiede soggetti pronti a cavalcarlo, pronti a vivere in un mondo in cui prima vengono i doveri e poi i diritti, in cui prima si è consumatori e poi cittadini.
La buona scuola renziana è quella che ti prepara al mondo del lavoro di oggi! Cioè poco lavoro, precario, sottopagato e per lo più poco qualificato. La classe dirigente nostrana, nonostante menta continuamente, è ben consapevole che il vero problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità, bensì la scarsa necessità di lavoro qualificato e specializzato. Il nostro Paese ha perso e sta perdendo tutti i poli industriali e di ricerca di qualità. In questo contesto, legare la scuola al lavoro significa in realtà offrire manodopera manuale e intellettuale alle imprese già in età scolastica!
Nella proposta Renzi non si parla più, per gli istituti tecnici e professionali, di stage lavorativi (fondamentali in un percorso di formazione), ma si parla di 200 (!!!!) ore curriculari, in gran parte sottratte ad altre discipline, da svolgere in un luogo di lavoro. Questa non è più una scuola che affonda le proprie radici nell’istruzione, ma sullo sfruttamento del lavoro e sulle differenze di classe.
La scuola della repubblica, è bene ribadirlo, non si fonda sul lavoro, ma sul diritto allo studio e al sapere (scientifico e umanistico), promuovendo i diritti di cittadinanza, la crescita personale di ogni individuo, la mobilità sociale e la costruzione di una comunità solidale. Per non essere fraintesi: non vi è nessun età dell’oro della scuola di cui avere grande nostalgia. Il sistema scolastico italiano, come la maggior parte di quelli europei, è sempre stato, nel suo complesso, uno strumento di riproduzione dello status quo, delle differenze di classe, ma aveva formalmente (e speriamo continui ad avere) un impianto fortemente democratico e universalista, figlio della Costituzione nata dalla Resistenza e dei grandi cicli di lotte del movimento studentesco, operaio e femminista.
Ciò che ora Renzi vuole fare è rompere questa prospettiva costituzionale con un progetto ambizioso, estremamente ideologico e al contempo pragmatico: l’obiettivo è trasformare, nella sostanza e nella forma, la scuola in un’azienda gestita da un preside manager, il quale con i suoi collaboratori, detta le linee politiche della scuola, in accordo con le risorse del territorio, ovvero con gli enti politici (es. Comuni e Regioni) e soprattutto con le imprese private. Si vuole costruire la scuola della competizione: tra istituti, tra docenti e tra studenti.
La competizione è il sale della crescita economica liberista, è il motore del mercato e la scuola non può più essere un dinosauro che promuove, anche solo formalmente, cooperazione, solidarietà, integrazione e orizzontalità. La scuola deve diventare il volano ideologico e materiale di questo subordinamento della cultura, del sapere e dei diritti alle esigenze totalizzanti del mercato e della crescita capitalistica, la quale nel sud Europa è sempre più difficile, sempre più lenta e sempre più iniqua.
Per cambiare in modo così profondo la scuola pubblica servono degli strumenti operativi, e la Riforma renziana ne individua due su tutti: la possibilità di valutare il merito degli insegnanti e far entrare i capitali privati all’interno della scuole. E’ questo il cuore pulsante della Buona Scuola di Renzi, il quale, ben consapevole della portata di tale proposta, chiede agli insegnati e ai sindacati un vero e proprio patto: da un lato l’esecutivo offre la stabilizzazione di 150.000 docenti abilitati inseriti nelle Gae (graduatorie ed esaurimento), che da anni svolgono supplenze annuali, permettendo il regolare funzionamento della scuola, dall’altro il governo chiede l’accettazione di un sistema di valutazione del merito degli insegnanti, a cui collegare la carriera e gli aumenti di stipendio, e l’ingresso ufficiale di sponsor privati nella scuola pubblica, con potere di incidere sulle politiche scolastiche.
Anche in questo caso Matteo Renzi e i suoi collaboratori sono più abili e scaltri dei venditori di gelati al Polo Nord. Il governo promette, senza copertura finanziaria accertata, di assumere i 150.000 docenti tra un anno, mentre propone-impone nell’immediato il blocco degli stipendi e l’accettazione della trasformazione della scuola in un’azienda.
Come dire di no ad un piano di assunzioni così imponente? Poco importa se i nuovi docenti assunti dovranno migrare di provincia in provincia e forse non insegnare la materia in cui si sono specializzati. Poco importa se verranno cancellate le graduatorie d’istituto con i loro 500.000 insegnanti che svolgono le supplenze brevi. E poco importa se l’assunzione dei precari storici genera l’ennesima guerra tra poveri, in quanto gli abilitati Pas e TFA si sentono esclusi da tale piano di stabilizzazione. Di fronte a questa svolta politica il governo è sicuro di trovare il consenso necessario per procedere.
Ancora una volta la strategia del divide et impera darà i suoi frutti. Probabilmente sarà così. Il corpo docenti è stanco, diviso e stremato da decenni di riforme, salari bassi, precarietà e innalzamento dell’età pensionabile. Inoltre come non brindare, nonostante gli incancellabili torti subiti, all’assunzione di decine di migliaia di insegnanti, dopo interminabili anni di precarietà?
Renzi e i suoi collaboratori hanno cucinato una polpetta avvelenata a cui sembra difficile dire di no. Ed è proprio sulla questione delle 150.000 assunzioni che occorre fare chiarezza. Va, infatti, ricordato che il governo italiano si trova costretto a stabilizzare entro il 2015 tali docenti, in quanto la Corte di Giustizia Europea ha richiamato l’Italia per abuso di contratti a tempo determinato superiore ai 36 mesi all’interno della pubblica amministrazione e sta per infliggerle una multa salata; per anni il Miur ha assunto in maniera reiterata, ma indebita, decine di migliaia di insegnanti a settembre per poi licenziarli, in modo che lo Stato possa non retribuire due mensilità e possa assumere sempre con un contratto di inizio carriera con paga minima. Siamo in presenza, ancora una volta, di un genio della comunicazione o forse di una popolazione perlomeno stanca e distratta?
Ricapitoliamo. Renzi, in cambio di assunzioni dovute e tardive, chiede che finalmente si possa valutare il lavoro degli insegnanti. In cambio di lavoro stabile chiede agli insegnati di far crollare l’ultimo tabù della scuola: valutare chi valuta! Ma di cosa si tratta? Proviamo, scusate il gioco di parole, ad entrare nel merito. Secondo il governo per migliorare la scuola serve valutare i docenti. Il merito degli insegnanti è veramente il problema che affligge la scuola italiana?
Il governo ha provato a consultare a tal proposito gli studenti e i genitori? La tanto sbandierata questione della valutazione è, in realtà, un falso problema; è il classico dito che nasconde la luna. La questione del merito serve a spostare l’attenzione dai veri problemi della scuola (classi sovraffollate, salari bassi, mancanza di laboratori, edifici non a norma di sicurezza, palestre obsolete, insegnanti in cattedra sino a 68 e 65 anni) e a soddisfare la pancia dell’opinione pubblica che vede nei lavoratori statali dei privilegiati, mai licenziabili, mai valutabili, con troppe ferie, nullafacenti.
Gli insegnanti, infatti, non temono di essere valutati, ma respingono la valutazione come premio ad azioni servili nei confronti dei dirigenti scolastici e dei loro collaboratori. In cosa consiste, infatti, il merito per i novelli riformatori? Questi ultimi dichiarano di voler “cominciare a considerare gli insegnanti finalmente come persone e come professionisti disposti ad assumersi impegni diversi”, contro il “grigiore dei trattamenti indifferenziati” e di “competizione al ribasso”.
Secondo le indicazioni della riforma, bisognerà valutare la qualità dell’insegnamento in classe e la capacità di migliorare il livello di apprendimento degli studenti. In realtà si tratta di elementi difficili da misurare e se la riforma intende farlo attraverso le prove INVALSI non potrà che raccogliere informazioni fuorvianti. Difatti non rileverebbe i livelli di miglioramento (non esiste un test sulle condizioni di ingresso) né terrebbe in considerazione il contesto socio economico e culturale degli allievi né quello territoriale. Inoltre si vorrebbe premiare “l’attività di ricerca e la produzione scientifica che alcuni intendono promuovere”: un buon insegnante dunque dovrebbe pubblicare articoli e libri?
Infine, chi fornirà la valutazione? Il documento fa cenno ad una commissione composta da tre persone: il dirigente, un’altra persona interna all’istituto ed un esterno. Il portfolio del docente verrà vagliato dal Nucleo di Valutazione interno di ogni scuola, a cui parteciperà anche un membro esterno (Chi? Un genitore? Colui che dona dei soldi alla scuola? Un vip? Un imprenditore del territorio? E perché non una casalinga o un operaio?).
La verità è che verrà premiato chi più asseconderà tutte le richieste del dirigente scolastico. Il servilismo verrà a coincidere con il merito. Inoltre, si stabilisce per legge che solo il 66% sarà meritevole e dunque premiabile con un aumento salariale deciso dal governo. E per i non meritevoli? Niente aumento e ci mancherebbe, non sono dei bravi insegnanti e peccato per gli studenti che dovranno averli come docenti (a meno che la prevista pubblicazione on-line del profilo di ogni professore non permetta in futuro alla famiglia—cliente di comprarsi il docente-prodotto che preferisce; siamo o non siamo in una società di mercato?)
Ecco che la scuola azienda-gerarchizzata prende forma. La scuola dei sommersi e dei salvati. Se si volesse veramente valutare il merito degli insegnanti perché non si inizia con il premiare già da ora i docenti che operano in situazioni chiaramente disagiate: classi sovraffollate, periferie e zone degradate, mancanza di sussidi informatici? La verità è che il merito serve ad affamare ancora di più la bestia, in modo che essa diventi ancor più ricattabile e dunque obbediente.
Collegare gli aumenti di stipendio ad un meccanismo così clientelare significa innescare una guerra tra poveri, tra piccole mediocrità, che peggiorerà il clima all’interno delle scuole, peggiorandone i meccanismi di apprendimento. Fare della scuola un luogo di competizione è il modo migliore per farla ammalare e morire, per poi spolparla e venderne in seguito i pezzi sul mercato, dove qualcuno, a poco prezzo, la comprerà e, dopo averla privatizzata del tutto, ne rivenderà i servizi allo Stato. Da bene comune di tutti, a bene privato per alcuni: il gioco è fatto.
8 settembre 2014
dal sito Sinistra Anticapitalista
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
Nessun commento:
Posta un commento