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lunedì 23 febbraio 2015

UNA RIFLESSIONE SU RIFONDAZIONE A CONFRONTO CON SYRIZA di Franco Turigliatto






UNA RIFLESSIONE SU RIFONDAZIONE A CONFRONTO CON SYRIZA
di Franco Turigliatto



In Italia si discute molto dell’esperienza di Syriza in Grecia e di Podemos nello Stato Spagnolo, dei loro successi politici ed elettorali; sono molti ad auspicare nel nostro paese la costruzione di una aggregazione politica che superi le tante divisioni della sinistra italiana, oggi fortemente minoritaria, per affrontare con una diversa forza lo scontro politico e sociale e rendere credibile una alternativa di sinistra e di classe.

La tesi di questo articolo è che una formazione del genere è già esistita in questo paese e che si chiamava Rifondazione, ma che dopo alterne vicende e potenzialità, il progetto originario nato nei primi anni novanta - costruire un partito di alternativa e una rifondazione del pensiero e della prassi comunista - non si è realizzato.

Il Partito della Rifondazione Comunista (PRC) ha riunito vaste forze, la stragrande maggioranza delle correnti e delle famiglie politiche della sinistra conquistandosi un ruolo centrale per oltre 15 anni nelle vicende politiche e sociali del paese. Bisogna dunque capire quel che Rifondazione è stata, le possibilità che ha avuto in alcune fasi, e quel che l’ha confinata in un ruolo marginale, percepito come una sconfitta drammatica dalle molte decine di migliaia di militanti che si erano impegnati in questa organizzazione.[1] La sua sconfitta e l’incapacità a realizzare il progetto originario, un partito anticapitalista con influenza di massa, è stata anche una dura sconfitta della classe lavoratrice che ha pagato il venir meno di una alternativa politica a sinistra. Ricostruire un nuovo progetto è necessario e non è impossibile, ma è molto difficile perché quel tentativo è andato in frantumi e dobbiamo superare macerie ingombranti.

La nascita di Rifondazione e la speranza di un nuovo inizio

Rifondazione comunista è il frutto in primo luogo di una rottura interna al Partito Comunista Italiano (PCI) [2]. Questo partito aveva da tempo un orientamento moderato e una pratica politica di collaborazione di classe; nel cuore degli anni 70 e delle lotte operaie ha sostenuto un governo di unità nazionale con la borghesia che ha aperto la strada al ripiegamento e alla sconfitta del movimento dei lavoratori [3]. Verso la fine degli anni ’80 di fronte alle sue crescenti difficoltà e al suo moderatismo politico si sono formate al suo interno alcune correnti politiche orientate a sinistra. La decisione della maggioranza del partito, guidata dal segretario Achille Occhetto, di considerare chiusa la storia del PCI proponendo di cambiare nome e di orientarsi sempre più verso l’internazionale socialista spinge infine le due correnti di opposizione nel congresso del 1991 a rifiutare la scelta di trasformare il PCI in PDS (Partito Democratico di Sinistra) e di dare vita a un nuovo partito. La prima corrente fa capo al dirigente storico della sinistra del partito Pietro Ingrao (che tuttavia all’ultimo momento deciderà di restare ancora nel PDS), ad alcuni sindacalisti come Garavini, che diventa il segretario del nuovo partito, a quegli esponenti che hanno dato vita in anni precedenti alla rivista “Il Manifesto”. Si tratta di una corrente più attenta ai movimenti sociali e alle lotte operaie, distante dallo stalinismo e dall’URSS, critica della scelte di internità al sistema capitalista. La seconda corrente è molto più piccola, ma storicamente più organizzata; fa capo a un altro dirigente storico, Armando Cossutta, assai “continuista” con la storia del PCI, più legato all’esperienza sovietica, e che ha sempre respinto la posizione del PCI di accettare il quadro della NATO e ha criticato le scelte opportuniste del partito.

A queste due componenti si unisce la principale organizzazione della nuova sinistra radicale formatasi negli anni ‘70, Democrazia Proletaria, in cui da tre anni sono confluite anche le forze della Quarta Internazionale. La nascita del nuovo partito suscita una vasta eco nel paese e vede il ritorno alla speranza e alla militanza di molti quadri degli anni 70 e 80 che si erano messi in disparte. Anche molti militanti dell’altra organizzazione della sinistra rivoluzionaria degli anni ’70, Lotta Continua, poi scioltasi, decidono di partecipare alla nuova esperienza.

I primi mesi e il primo anno del partito vedono un grande euforia politica, il rinnovo di una forte militanza, grandi momenti di partecipazione in un quadro di caos politico in cui gli apparati, pur presenti, non riescono a tenere il controllo della situazione.

Due elementi sono sintomatici: la scissione si produce su un fatto simbolico, la rinuncia al nome comunista senza che sia definita una precisa opzione programmatica alternativa; le scelte moderate dei decenni precedenti avrebbero dovuto spingere ben prima i settori della sinistra a rompere, come avevano sollecitato e sperato a lungo le organizzazioni radicali esterne. Il carattere simbolico della rottura limita l’aspetto innovativo programmatico della scissione; nello stesso tempo è forte la consapevolezza in alcuni settori che il futuro del PRC non può essere solo la presunta continuità “comunista” rispetto al “tradimento” dei vertici del partito.

Grande è il sentimento che occorre un nuovo inizio, che tutto deve essere rivisto e ricomposto. Di qui la grande e caotica discussione del primo congresso nel dicembre 1991 con oltre 4 mila emendamenti che arrivano dalla base e che non potranno essere discussi; la discussione si concentra ancora sul nome del partito, ma i continuisti, che vogliono riprendere la denominazione PCI, vengono battuti da una coalizione che afferma invece il concetto e il nome della “rifondazione” Sono in molti a credere che bisogna ripensare dalle fondamenta il progetto della trasformazione sociale radicale e del comunismo, ma il dibattito esprime come non siano per nulla chiari i contenuti politici e programmatici della rottura e l’evocazione della parola comunismo maschera l’incertezza sui contenuti e sulla strategia: non sarà facile passare dalle speranze ai fatti concreti.

L’effervescenza politica, tuttavia, credo non sia stata inferiore a quella che tanti anni dopo abbiamo visto in Grecia e in Spagna con il movimento degli indignados e la nascita di Podemos.

Occorre però sottolineare differenze strutturali che attengono in primo luogo al diverso periodo storico. Nel 1991 si è già dentro l’offensiva liberista, ma questa era ancora lontana dalla dirompente violenza della crisi iniziata nel 2007 e delle politiche di austerità a 360%. Inoltre la configurazione del movimento operaio e della sinistra è in trasformazione, ma le tradizionali strutture della classe lavoratrice, pur indebolite, sono in piedi; gli iscritti al nuovo partito sono in genere militanti del cosiddetto popolo della sinistra e dei sindacati; la frattura tra “sinistra” e vasti settori sociali non si era ancora prodotta e il processo si colloca dentro una dinamica volta al riorientamento delle forze del movimento operaio e al rilancio delle lotte in una prospettiva antisistema; le lotte degli anni ’70 ed anche ’80 sono ormai finite da tempo, ma sono ancora presenti nell’esperienza e nel ricordo diretto di coloro che vogliono ricostruire una alternativa alle politiche delle classi dominanti.

Rifondazione nasce con aspetti di continuità organizzativa con il vecchio partito, ma con una forte immissione di forze, fino a contare 130 mila iscritti [4], un gruppo parlamentare significativo, migliaia di circoli di base in tutto il paese, anche se pochissimi sul luogo di lavoro. Questo avviene tuttavia in un quadro di grandissimo turn over degli iscritti che raggiunge e supera il 30% ogni anno, e che rivela le difficoltà a darsi un radicamento sociale stabile e strutturato. Il PRC è cioè un partito che attrae più per l’immagine (soprattutto in una seconda fase con il carisma del suo segretario Bertinotti), che non per una capacità di insediamento sociale. Tante è vero che non riuscirà mai ad essere forza decisiva dentro le organizzazioni sindacali, non arriverà mai a dirigere coi suoi quadri un sindacato. Questa situazione di debolezza strutturale quasi mai gli permetterà di intervenire con sufficiente efficacia nelle vicende sociali, pur avendo un ruolo di primo piano nella vita politica. Inoltre l’introduzione di un sistema uninominale elettorale che sostituisce il tradizionale e garantista sistema proporzionale costituisce un elemento del tutto imprevisto per il PRC che finisce ben presto sballottato in ogni scadenza elettorale, in cui è spinto ad allearsi con le forze del centrosinistra che pure vorrebbe contrastare per rappresentare un’alternativa politica.[5]

Il contesto sociale dei primi anni

Rifondazione vive i primi suoi anni in un clima particolarmente convulso sul piano internazionale con lo sfaldamento dell’URSS e la prima guerra del Golfo a cui l’Italia partecipa in prima persona. All’interno del paese le politiche dell’austerità si concretizzano nel 1992 con una manovra economica molto pesante e con la scelta delle organizzazioni sindacali di subordinarsi alla logica e ai bisogni delle imprese.[6]

Inoltre la classe operaia per effetto delle sconfitte e delle ristrutturazioni conosce un indebolimento significativo nelle grandi concentrazioni di fabbrica, motore delle mobilitazioni operaie.

Questa situazione tuttavia non impedisce lo sviluppo di dure lotte di opposizione sociale e sindacale a queste misure che si condensano in episodi anche molto forti di contestazione alle direzioni sindacali, producendo per la prima e unica volta la possibilità di una scissione di massa della stessa CGIL. E nelle fabbriche e nei sindacati esiste ancora una vasta rete di quadri e di militanti, molto attivi e capaci di iniziative indipendenti dalla burocrazia sindacale.

Tutto questo per spiegare che la nascita e lo sviluppo di Rifondazione avviene in un contesto di difficoltà, ma in cui la partita è ancora aperta e così viene interpretata dalle migliaia di militanti che affluiscono al PRC.

Se Rifondazione interpreta bene questa primissima fase, quella della resistenza sociale, tanto da autoproporsi come il “cuore dell’opposizione “, molto più difficile sarà passare alla costruzione, cioè a un organico progetto di sviluppo del partito e del movimento di massa, tanto che ogni volta che si avvicinano le elezioni sia i dirigenti che i militanti di base si dimenticano di essere il “cuore dell’opposizione” e cominciano a discutere di alleanze elettorali. Nel 1993 un tentativo abile di incidere sulle contraddizioni del PDS contrapponendo in alcune città importanti come Milano e Torino ai candidati moderati del centro sinistra dei candidati sindaci di sinistra (provenienti dal PCI o dalla sua area), ottiene un successo notevole, e lo scavalcamento del PDS in termini di voti. Ma il successo non viene utilizzato se non per contrattare un accordo con il PDS in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo.

Le svolte e le controsvolte e le alleanze con il centro sinistra

Dopo i primi due anni e mezzo di opposizione Rifondazione nelle elezioni politiche del 94 partecipa quindi alla “Alleanza dei progressisti” guidata dal segretario del PDS Occhetto; conosce un buon risultato elettorale, ma l’alleanza viene sconfitta dal capo nascente delle Destra, Berlusconi e il “pericolo” di entrare al governo viene scongiurato. Passano pochi anni e dopo la crisi del primo governo Berlusconi e la nascita di un governo di coalizione presieduto da Dini che produce una prima scissione a destra di Rifondazione di alcuni dei suoi fondatori che vogliono sostenere questo governo contro gli orientamenti della maggioranza, il PRC vira ancora e nel 1996 stringe una forte alleanza con la coalizione L’Ulivo guidata da Romano Prodi che vince le elezioni: Rifondazione ottiene in quell’occasione il massimo dei voti della sua storia (l’8,7%, circa 3 milioni e duecentomila voti).[7]

Entra quindi nella maggioranza incalzando il governo sulla necessità di un programma riformatore a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per dare una risposta alla disoccupazione; nello stesso tempo però sostiene il progetto europeo e la nascita dell’euro; dopo duri scontri nella maggioranza all’insegna della parola d’ordine “svolta o rottura”, Rifondazione esce dalla coalizione sperando di ottenere consensi con questa scelta radicale, ma subisce una dolorosissima scissione, guidata da uno dei fondatori, Cossutta, che dà vita a una formazione nostalgica del vecchio PCI, il Partito dei comunisti italiani (Pdci). Le elezioni Europee del 1999 penalizzano Rifondazione che ottiene solo un deludente 4%, mentre il Pdci afferma la sua esistenza con un 2%.

Nelle elezioni regionali del 2000 il PRC si allea di nuovo con il centrosinistra ottenendo buoni risultati, ma resta all’opposizione sul piano nazionale; nelle elezioni politiche del 2001 si presenta da solo; rinuncia a presentare i propri candidati nella parte uninominale concorrendo solo alla ripartizione proporzionale (il 25% degli eletti). Conquista un buon risultato (più del 5%) con circa un milione e 900.000 voti, ma ottiene pochi parlamentari (una quindicina).

Si apre il periodo di maggiore radicalità e alternatività a partire dal sostegno al movimento altermondialista, ma le elezioni del 2006 comportano una nuova svolta a 180 gradi che si concretizza con una nuova alleanza con il centro sinistra e la partecipazione al governo per - si afferma - garantire “il risarcimento alle classi popolari e lavoratrici e una grande riforma sociale”. Ottiene 2 milioni e 200.000 voti alla Camera e 2 milioni e mezzo al Senato, ma l’esperienza governativa si rivela ben presto disastrosa .

Rifondazione è riuscita ad ottenere i migliori risultati elettorali quando ha potuto combinare due elementi: avere alle spalle un periodo di opposizione e di lotte, e contemporaneamente dimostrare una volontà unitaria, presentandosi come l’ala sinistra del centro sinistra. Così ha potuto utilizzare due diverse sensibilità e bacini del “popolo delle sinistre” corrispondenti al livello medio di coscienza della maggioranza degli elettori della sinistra. La spinta all’unità è stata molto forte anche perché dall’altra parte c’è sempre stato lo spauracchio della destra guidata da Berlusconi; la dominanza dell’antiberlusconismo ha impedito a larghi settori del popolo di sinistra di avere una adeguata percezione delle politiche condotte dalle singole forze politiche del centrosinistra.

Le elezioni del 2008 vedranno la costituzione di una lista detta Arcobaleno che riunisce Rifondazione, il PdCI, i verdi ed altre forze, che subirà una cocente sconfitta non superando lo sbarramento del 4%. Per la prima volta nella storia del dopoguerra la sinistra non riesce ad eleggere alcun rappresentante in Parlamento. La sconfitta è drammatica: in questo caso invece di raccogliere a destra e a sinistra Rifondazione perde il consenso di coloro che pensano abbia tirato troppo la corda e di quelli che pensano di abbia ceduto alle posizioni moderate. Vasti settori degli elettori di sinistra si astengono.

La struttura profonda del PRC e il retaggio del passato

Queste continue svolte, mai discusse adeguatamente, mai assimilate e partecipate realmente dai suoi militanti producono un continuo stress all’interno del partito e una dipendenza dalle scelte del segretario: nessun partito può essere costruito seriamente nel tempo con questa metodologia. Risulta evidente che il gruppo dirigente, pur nelle sue diverse composizioni, non ha mai rotto strategicamente con il DS e poi PD, sempre pensando di essere all’interno di quella famiglia politica. Nessuna rottura con il centro sinistra è mai stata strategica, è stata solo finalizzata e conseguire consensi nei settori più radicali dei movimenti e un rapporto di forza utile nella successiva trattativa con il centro sinistra. Alle spalle ci sono posizioni da sempre teorizzate all’interno del PCI, in particolare da Lucio Magri, uno dei fondatori di Rifondazione anche se ne uscirà già nel ’94, il cosiddetto compromesso dinamico, la necessità di un compromesso con la borghesia e i suoi partiti che le forze del movimento operaio devono rendere dinamico, cioè portarlo via via a un livello più alto e favorevole. Le grandi lotte e conquiste degli anni 60 ed 80 potevano alimentare questa illusione, ma le vicende degli anni 80 con la ripresa del controllo delle forze borghesi e del padronato avrebbero già dovuto averla cancellata, mentre invece anche oggi resta diffusa in vari settori della sinistra.

Un altro elemento attiene alla struttura profonda del partito: anche nei periodi di opposizione, si intessono alleanze, nella regioni, nelle province, nei comuni, nelle grandi città con il centro sinistra ottenendo migliaia di consiglieri, ma anche molti assessori; si partecipa così alla gestione locale delle politiche di austerità giustificata ogni volta con l’argomento che a livello locale si possono ottenere risultati parziali, riducendo l’ampiezza di quelle stesse misure….

Si crea un milieu del partito strettamente collegato alle istituzioni; l’attesa di carriera politica ed istituzionale coinvolge tantissimi e permea la vita dell’organizzazione, anche quando sul piano generale si conducono campagne sociali radicali.

Il baricentro del partito non si trasferirà mai sul piano sociale, resterà interno alle istituzioni, impedendogli di affrontare i nodi di fondo dello scontro di classe.

Il primo potenziale big bang rifondativo

Ci sono stati due momenti fondamentali in cui il big bang rifondativo del partito avrebbe potuto o dovuto prodursi.

Il primo è negli anni iniziali quando tutto era in discussione e il paese era ancora percorso da movimenti operai significativi con nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro una fitta rete di delegati, (molti dei quali aderivano o guardavano con simpatia al PRC) che non accettavano passivamente le posizioni delle burocrazia, prendevano iniziative di lotta, di proposte alternative, addirittura proponevano un referendum per l’estensione dei diritti dei lavoratori, costruivano una vasta mobilitazione contro la scelta delle direzioni sindacali di accettare una controriforma del sistema pensionistico.

Rifondazione sostiene tutti questi movimenti, è interna ad essi, ma solo in minima parte ne è dirigente attraverso i suoi quadri.

Siamo al punto massimo di scollatura tra una base sindacale ancora militante e l’apparato burocratico del sindacato; si intravede la possibilità stessa di una scissione di massa della CGIL e la costruzione un altra ampia e forte confederazione sindacale su posizioni di classe. La sua mancanza provocherà per altro la formazione dei sindacati di base, molto combattivi, ma il cui ambito di azione resta limitato ad alcune settori o situazioni.

Ma il partito in quanto tale non riesce ad affrontare la complessità di questi nodi sociali e sindacali, nemmeno a discuterne; il suo funzionamento, le sue strutture, le preoccupazioni dei suoi quadri dirigenti sono altrove, sono, al di là delle correnti di appartenenza, continuisti col passato, rivolti alla gestione politica quotidiana, cioè alle istituzioni. La forza inerziale prodotta dalla rottura finisce anche per produrre un comportamento inerziale, senza reali cambi di passo.

Per altro le forze provenienti dall’estrema sinistra non riescono, sia per la loro forza, sia per scelta (il gruppo dirigente proveniente da Democrazia proletaria sceglierà fin dal 1995 di integrarsi nella maggioranza di Bertinotti) ad essere efficaci nelle loro proposte politiche di rinnovamento.

Un partito che si voleva anticapitalista, militante, di massa, che voleva rifondare il progetto comunista, per il superamento del capitalismo e che su questo aveva rotto col PDS, avrebbe dovuto compiere una serie di azioni corrispondenti al suo nuovo nome.

In primo luogo esprimere appieno l’alternatività strategica e politica alle forze filocapitaliste del centro sinistra, quindi costruendola nell’azione quotidiana sul piano sociale:

In secondo luogo fare i conti con le vecchie reminiscenze staliniste, ma soprattutto con la vulgata togliattiana, rompendo con ogni subordinazione al mito del socialismo reale, ricostruendo l’idea di un progetto socialista e libertario, come per altro il nome del quotidiano del partito “Liberazione” avrebbe dovuto suggerire.

In terzo luogo voleva dire costruire la reale centralità di intervento nella classe lavoratrice e nei movimenti di massa finalizzata a favorire l’autoorganizzazione degli stessi; la storia della classe operaia italiana forniva esperienze fondamentali: i consigli di fabbrica del primo dopoguerra e le elaborazioni di Gramsci, le vicende successive alla seconda guerra mondiale e soprattutto poi il movimento dei consigli degli anni ’70, che pure aveva visto la partecipazione diretta di molti quadri di Rifondazione e a cui si rendeva molte volte un omaggio nostalgico. Avrebbe significato anche un diverso impegno per conquistare la direzione e il rinnovamento delle organizzazioni sindacali.

In quarto luogo sarebbe stata necessaria una rivoluzione culturale e organizzativa totale nel funzionamento del partito, una democratizzazione profonda, e un riorientamento delle priorità dei gruppi dirigenti.

Tutte queste ipotesi di lavoro sono, di volta in volta emerse nella discussione del partito, avanzate e difese da questo o quell’altro settore del partito, ma non hanno mai potuto affermarsi ed esprimersi in un movimento complessivo e vincente.

Tutto questo avrebbe anche significato lo sfondamento elettorale tanto atteso, promesso dai sondaggi elettorali e puntualmente smentito dai fatti? Non è possibile dirlo con certezza. Di certo alla scelta del lavoro paziente, ma risoluto, attento a costruire l’egemonia intorno a un progetto anticapitalista si è preferita la scorciatoia elettorale o la ricerca dell’evento risolutore (quanti conigli dal cappello ha tirato fuori il segretario nelle riunioni della direzione!) che avrebbe dovuto cambiare i rapporti di forza e la storia. Senza successo.

La lotta di classe offre una seconda possibilità

Ma la possibilità di fare un passo in avanti qualitativo nella costruzione dei movimenti contro le politiche liberiste della globalizzazione capitalista e dell’Unione europea e della rifondazione di un soggetto rivoluzionario che integri le nuove forze giovanili riemerge dallo scontro sociale nei primi anni del nuovo secolo.

Il partito ha acquistato per la prima volta, grazie alla svolta a sinistra di quegli anni, una certa forza e credibilità tra i giovani, dispone di una organizzazione giovanile ben presente nel movimento altermondialista a partire dalle drammatiche giornate del luglio 2001 di Genova contro il G8; due anni dopo si sarebbe sviluppato un movimento di massa contro la guerra mai visto prima; la Fiom il principale sindacato dei metalmeccanici ha deciso di porre fine alle politiche di compromissione con le scelte padronali ed avviato una stagione di lotte e mobilitazioni; la stessa GCIL attaccata dal governo di destra di Berlusconi è spinta a dare vita a una delle più grandi manifestazioni a Roma nel 2002 (3 milioni di manifestanti) per la difesa delle norme dello Statuto dei lavoratori, la legge che garantisce diritti e tutele per i salariati.

Il segretario Bertinotti per contrastare la corrente più tradizionale e continuista con il vecchio PCI che pure si era staccata da Cossutta e che l’aveva sostenuto fino a quel momento, decide di aprire una discussione teorica partendo dall’assunzione che la storia ripropone in termini immediati il dilemma socialismo o barbarie. Rilancia la centralità dei movimenti sociali, rimette in discussione il concetto tradizionale di imperialismo sotto l’influenza delle posizioni di Antonio Negri particolarmente condivise dal settore giovanile del partito che lavora ormai strettamente con le formazioni anarchicheggianti dei centri sociali.[8]

Bertinotti avanza la necessità di un superamento definitivo dello stalinismo e dei suoi retaggi culturali; ma nessuna delle componenti del partito, se non le correnti che si richiamano in diversa forma al trotskismo, sottopongono a critica quello che è il nodo politico della storia italiana, il togliattismo. Recupera la categoria della rivoluzione, ma nello stesso tempo introduce la critica al concetto della presa del potere, sviluppando poi la teoria della non violenza, non solo per legarsi ai settori pacifisti del movimento, ma anche, come si vedrà, a favorire un riavvicinamento alle forze del centro sinistra.

Quella che poteva essere l’apertura di una discussione politica e teorica di grande spessore, da una parte è caratterizzata da un grande eclettismo e dall’altra resta alla superficie del dibattito del partito rivolta a finalità tattiche immediate dello scontro interno e alla costruzione di una corrente omogenea intorno al segretario.

Tuttavia nelle giornate del grande movimento di Genova Rifondazione è la sola forza politica presente. E oltre ai sindacati di base è presente il più grande sindacato di categoria italiano e il più combattivo, la FIOM.

Le potenzialità sono grandi: è possibile provare ad unire i diversi movimenti sociali, contro la globalizzazione, contro la guerra, la precarietà la condizione dei giovani e il movimento operaio organizzato ed attivo che riprende voce per difendere salario ed occupazione e che vede al suo interno se pure limitatamente una nuova generazione di operai.

Il PRC sostiene la Fiom, ma le diffidenze tra i due gruppi dirigenti sono grandi; ancora di più quelle tra Bertinotti e il segretario della CGIL Cofferati, di cui teme un passaggio ad un ruolo politico.

Rifondazione è nel movimento in quanto partito; è il riconoscimento positivo di una diversità, ma anche un limite perché il partito non ha alcuna idea su come favorire ed attivare le strutture di autorganizzazione che sarebbero indispensabili per dargli la necessaria continuità e costruire l’unità tra le sue diverse espressioni sociali.

Prevale l’interpretazione per cui i movimenti sono dati e che il compito di Rifondazione è al massimo dare ad essi una qualche forma di rappresentanza istituzionale.

Invece in quel passaggio cruciale della storia servirebbe un partito che aiutasse davvero lo sviluppo dei movimenti, un partito che rimettesse in discussione se stesso e proponesse una Rifondazione della Rifondazione, una costituente aperta e democratica che potesse integrare le nuove forze vive dei giovani con le forze dinamiche del “vecchio movimento operaio” E’ una rivoluzione copernicana forse impossibile per quel partito, che in ogni caso non viene neppure discussa e tanto meno tentata.

All’interno della direzione la nostra corrente politica la propone come compito strategico centrale, ma con scarso successo. La scelta di non fare la nuova rifondazione cambierà il corso degli eventi in senso negativo.[9]

Il PRC di Bertinotti rifiuta la nuova costituente sociale ed anticapitalista, ma rifiuta anche un’altra proposta, moderata, che pure ha una sua logica riformista, quella di un raggruppamento di tutte le forze della sinistra avanzata dal giornale Il Manifesto, che disporrebbe di un 13% di voti potenziali, una forza quindi in grado di condizionare le forze del centro sinistra. Resta a metà del guado ricercando la cosiddetta alleanza politico sociale, che dovrebbe essere costituita da Rifondazione e dalle forze del movimento. Ma i reali movimenti di massa non possono essere rinchiusi in una alleanza di questo genere. E’ la scelta dell’autosufficienza e della strumentalizzazione dei movimenti per favorire l’ultima “grande operazione” di Bertinotti, la nuova alleanza con Prodi nel 2006.

La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni

Per una fase ancora il PRC resta in sintonia con i movimenti e nel 2003 gioca una carta importante per aiutare le resistenze dei lavoratori, quella del referendum per l’estensione ai salariati delle piccole aziende delle tutele previste dell’articolo 18 (prevede il reintegro al posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato) dello Statuto dei Lavoratori. E’ una campagna di massa che si svolge prima con la raccolta delle firme necessarie e che costringe la stessa CGIL all’ultimo momento a schierarsi a favore della proposta. Tutte le forze del centro destra e del centro sinistra si oppongono duramente a questa proposta e caldeggiano la non partecipazione al voto referendario per non far raggiungere il 51% richiesto dalla legge per avere validità.

Il risultato del referendum ha un doppio significato: solo il 25% degli aventi diritti va a votare, ma oltre 10 milioni di cittadine e cittadini sostengono la proposta del PRC. E’ una sconfitta, ma anche una vittoria per un partito che per la prima volta ha raggiunto una platea così ampia costruendo un’alleanza con diversi soggetti sindacali e sociali che riapre la possibilità di una nuova proposta riaggregativa ampia.

Non è la scelta di Bertinotti e del gruppo dirigente, che in due giorni decidono la riconversione verso il centro sinistra con un argomento del tutto sofistico e falso: “il centro sinistra è ora permeabile dalle istanze di movimento, abbiamo quindi la possibilità di condizionarlo e di farci garante di una nuova Grande Riforma”.

La discussione nel partito è furibonda e si conclude al congresso di Venezia (2005) con una maggioranza che resta al di sotto del 60%, gestendo il congresso in modo autoritario ed estromettendo dalle reali istanze di direzione le minoranze.[10] Queste sono divise tra loro, in primo luogo per ragioni politiche (la corrente più forte si oppone alla nuova alleanza non per ragioni strategiche ma per valutazione tattico politica) e non riusciranno a costituire una valida alternativa alla maggioranza.

Nel 2006 l’elezione di un gran numero di parlamentari (41 senatori e 27 senatori) crea una grande euforia e annebbia ancora di più le menti che non comprendono che il percorso verso l’inferno è cominciato.

Il governo Prodi è il governo dell’austerità e dell’applicazione delle norme europee; varerà delle leggi finanziarie pesantissime, confermerà praticamente tutte le misure del precedente governo che aveva promesso di abrogare (a partire dalle leggi di precarizzazione del lavoro), ritirerà in accordo con gli USA le truppe dall’Iraq, ma potenzierà in Afghanistan e in molti altri paesi la presenza militare italiana. Rifondazione accetta di bere una dopo l’altra tutte queste pozioni velenose e finisce in un cul de sac. Ma finisce male anche per il governo che non dispone di una vera maggioranza parlamentare e che agli inizi del 2008 è costretto a rassegnare le dimissioni. La sconfitta elettorale prima richiamata determina l’esplodere di una crisi acuta che porta a una resa dei conti del partito, con la rottura della maggioranza e con un congresso che vede una scissione quasi paritaria delle forze in campo.[11]

La sconfitta è della stessa classe lavoratrice che esce confusa e demoralizzata dal fallimento del centro sinistra e del fallimento di Rifondazione; così come è grande la demoralizzazione dei settori militanti che si erano impegnati nel progetto.

Sono inevitabili le dinamiche centrifughe: quel movimento unitario prodottosi agli inizi degli anni 90 si sfalda, e le varie componenti tornano a dare vita a entità diverse, aumentando la frammentazione.

E’ il duro prezzo del fallimento di un progetto e delle sconfitte sociali e politiche: frustrazione. Rabbia, disillusione traversano il mondo del lavoro e i movimenti sociali dopo l’esperienza del governo Prodi. La sinistra è sempre meno credibile e nelle elezioni del 2013 una larghissima fetta di elettori, compresi molti di quelli che votavano a sinistra, riversano le loro speranze in una forza interclassista come il Movimento 5 Stelle di Grillo.

Un nuovo inizio?

Il Partito della Rifondazione Comunista con Paolo Ferrero come segretario continua ad esistere, ma non è la stessa entità politica ed organizzativa (al di là degli iscritti che sono ancora numerosi e della generosità di alcune migliaia di militanti) del passato. Qualitativamente diversi sono il peso politico, la credibilità e l’efficacia della sua azione. I suoi risultati elettorali, salvo qualche eccezione, non sono travolgenti. Si tratta in fondo della vecchia Democrazia Proletaria integrata da quel che resta della corrente .[12] Il rapporto che ha sempre mantenuto con la Sinistra Europea è stato un punto di appoggio e di forza importante per il mantenimento delle prospettive del partito.

L’altro troncone nato dalla scissione del 2008 è Sinistra Ecologia Libertà (SEL) il cui principale dirigente è il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola; dispone di una rendita elettorale intorno al 3%, ottenuta in un rapporto di alleanza e di dipendenza con il PD con cui sperava di accedere al governo (in molte regioni è già al governo col PD) se quest’ultimo avesse vinto le elezioni del 2013. Come è noto il risultato elettorale ha costretto il PD a fare un’alleanza con forze del centro destra, per cui SEL ha dovuto scegliere la strada dell’opposizione, pagando però il prezzo di una consistente scissione del gruppo parlamentare verso il PD.

Nelle elezioni europee dello scorso anno è stato il movimento delle lotte del popolo greco ad arrivare in soccorso delle deboli e divise forze della sinistra italiana:

L’intervento del leader di Syriza ha permesso la formazione di una lista unitaria, la lista Tsipras promossa da una serie di intellettuali per cui Rifondazione si è subito impegnata; anche Sel alla fine ne è stata coinvolta portando una discreta rendita elettorale. Così è stato superato lo sbarramento del 4% e sono stati eletti tre deputati europei. E’ un nuovo inizio? Difficile pensarlo a partire da questo solo risultato.

L’approccio di queste forze è ancora una volta soprattutto elettorale; per ora nessun serio bilancio è stato fatto della storia passata, non per amore delle autocritiche, ma per capire il perché delle tante sconfitte precedenti. Molto lontana appare ancora la capacità di una iniziativa forte ed unitaria per sostenere i movimenti dei lavoratori che questo autunno hanno avuto una parziale e significativa ripresa.

Sono tutti attoniti di fronte ai successi di Syriza e di Podemos, tutti vorrebbero imitarli, ma come fare? Da dove ripartire. Tutti quanti alla ricerca del Big bang perduto…

Si è riaperta comunque una discussione su che cosa fare e quale soggetto politico alternativo costruire, una discussione e una iniziativa per sostenere la lotta del popolo greco e su come riprendere una azione a livello europeo. Tutto è di certo confuso, molto dipendente dalle idee del passato, molto alla ricerca di un ancor più incerto nuovo e non mancano le manovre politiciste, così come sono ancora in molti che continuano a pensare a nuove convergenze con il PD: una coazione a ripetere assurda.

Resta il fatto che una discussione è ripresa, che ci sono volontà unitarie; tutte queste potranno avere un futuro ma non da sole; solo se contemporaneamente il movimento della classe lavoratrici e i movimenti sociali produrranno nuove lotte e nuove forze militanti e giovani, e se coloro che vogliono ricomporre una aggregazione alternativa, il cosiddetto soggetto politico, sapranno esserne interni e partecipi.

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NOTE

[1] Chi scrive ha vissuto intensamente da militante la storia di questo partito dal suo inizio nel 1991 fino al 2007, entrando anche a far parte della direzione nazionale nel 1996 ed essendo responsabile della costruzione del partito nelle grandi fabbriche. Un’esperienza preziosa in cui ho imparato molte cose; un’esperienza umana anche molto bella nel rapporto con i compagni operai, con la loro dedizione ed impegno. Ero consapevole dei limiti e dell’incerto futuro di questa organizzazione che insieme ad altri abbiamo cercato di orientare nel migliore dei modi possibile perché potesse diventare appieno lo strumento di una alternativa per la classe lavoratrice. Sono stato espulso dal PRC nel febbraio 2007, perché da parlamentare ho votato contro l’intervento militare italiano in Afghanistan, in coerenza con il programma del partito stesso e naturalmente con un fondamentale principio di classe.

[2] Il PCI è stato il più grande partito comunista dei paesi occidentali con un vasto radicamento in tutto il paese, con un milione e mezzo di iscritti( ma ha avuto punte superiori anche ai due milioni) con risultati elettorali intorno al 25%, (in due occasioni ha superato il 30% dei voti), amministrando regioni e città di grande importanza e dirigendo la più grande organizzazione sindacale, la CGIL; ha avuto un’influenza enorme nella vita politica del paese ed è stata la forza egemone del movimento operaio italiano. Di matrice terzointernazionalista e staliniana, ha assunto fin dal secondo dopoguerra anche connotati socialdemocratici: le due ascendenze sono state ben riassunte nel pensiero e nella prassi del suo dirigente storico Palmiro Togliatti, morto nel 64. Non è un caso che per indicare le caratteristiche ideologiche e politiche di questo partito, si usa comunemente il termine di “togliattismo”.

[3] In questo articolo non sono descritte le posizioni delle tante componenti del partito, le diverse lotte e gli scontri interni, se non nei passaggi in cui un richiamo era necessario, perché il suo compito è un altro: provare a individuare i nodi di fondo che hanno reso impossibile la rifondazione.

[4] Oscillerà sempre intorno ai 100.000 iscritti almeno fino al 2008.

[5] Per tre volte il PRC si alleerà nazionalmente con queste forze borghesi: nel 1994, nel 1996 e nel 2006.

[6] Il 31 luglio del 1992 un accordo tra sindacati governo e organizzazioni padronali pone fine a uno strumento essenziale di difesa dei lavoratori: il meccanismo della scala mobile che adeguava automaticamente, anche se non totalmente, i salari all’inflazione; il 23 luglio 1993 un nuovo accordo dei tre soggetti, detto della concertazione, stabilisce che le rivendicazioni operaie dovevano stare all’interno delle compatibilità capitalistiche e delle scelte del governo: nel decennio successivo questo accordo produrrà un deterioramento continuo dei livelli salariali, la crescita della disoccupazione e del lavoro precario.

[7] Ecco i risultati nelle 5 elezioni politiche a cui il PRC ha partecipato:

1992: 2.204.000 voti (5,6%)

1994: 2353.000 voti (6,05%)

1996: 3.213.000 voti (8,57%)

2001: 1.868.707 voti (5,03%)

2006: 2.229.000 voti (5,84%) alla Camera; al Senato i voti sono 2.518.361 (7,37%). La differenza è inquietante, perché rivela una minore presa sull’elettorato tra i 18 e i 21 anni che votano per la Camera e non per il Senato.

[8] I giovani comunisti vengono completamente attratti dal movimento dei cosiddetti disobbedienti dei centri sociali di cui subiscono l’influenza ideologica. Come sempre accade, quando verificheranno la totale mancanza di prospettiva politica di queste aree saranno quelli che sosteranno più di altri la scelta della nuova alleanza di governo; molti di loro abbracceranno una scelta carrieristica ed opportunista di collocazione nelle istituzioni che li porterà su posizioni sempre più moderate

[9] Nel 2009 tra le tante affermazioni molte volte contradditorie che Bertinotti continua a fare ha anche ammesso che “forse occorreva decidere allora di fare la grande apertura e rompere lo schema del PRC per tentare la strada di una nuova costruzione.”

[10] Decisivo nel garantire questa scelta è il ruolo dell’area che fa capo a Ferrero, che 3 anni dopo romperà con Bertinotti e diventerà il segretario di quel che resta di Rifondazione

[11] Due componenti trotskiste se ne sono già andate, quella di Ferrando al momento della proposta della nuova alleanza col centro sinistra, l’altra, Sinistra Critica nel 2007, dopo aver verificato che il partito non reagisce al disastro prodotto dalla presenza al governo.

[12] Il termine “Grassiani” è usato per definire il settore originariamente legato a Cossutta che non ha seguito il vecchio leader al momento della scissione del 1998. Suo principale esponente Claudio Grassi.


22 Febbraio 2015


dal sito Movimento Operaio




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