SI MIGLIORA DAVVERO LA SCUOLA ELIMINANDO GRECO E LATINO?
di Franco Cardini
Il tema è, o almeno sembra, di scottante attualità anche da noi. A Torino si sono recentemente misurati, in un “processo contro il liceo classico”, l’economista Andrea Ichino come accusatore e il semiologo Umberto Eco nei panni del difensore. Il liceo classico è risultato assolto, ma con formula dubitativa: dev’essere riformato. E il problema sta tutto lì: come lo riformiamo?
In Francia, il ministro Najat Vallaud Belkacem, con il collège (la scuola media inferiore) sembra andarci giù per le spicce. Nelle sue prospettive di riforma, peraltro subito impugnate e contestate, il latino e a fortiori il greco quasi spariscono sostituiti da “corsi alternativi” à la carte, che dovrebbero essere gli studenti (e/o le loro famiglie?) a scegliere. Il tutto è francamente un po’ fumoso: si parla di una scuola media inferiore “unica” (e unificata”), ma al tempo stesso si moltiplica un’offerta formativa che secondo alcuni dovrebb’essere meno “umanistica”, più “tecnica” e “scientifica”, ma che non appare in realtà sostenuta da alcun progetto didattico chiaro. Si parla come di un toccasana degli EPI (“Enseignements Pratiques Indisciplinaires”: oh, l’amore per le sigle!...) e di transversalité compétentielle, che più che un programma sembra un obiettivo: favorire nei ragazzi l’interesse per gruppi di problemi presentati come concreti anziché per singole discipline, dichiarate pregiudizialmente “astratte”. Quindi niente grammatica e sintassi greca o latina, roba ovviamente “inutile” (ma inutile rispetto a quale prospettiva), e sì invece, appunto, ad EPI che propongono scopi “caratterizzati da concrete competenze”, quali – udite, udite! – come si fa un giornale, come si organizza un dibattito eccetera. E ciò all’insegna del minore sforzo possibile nell’apprendimento e della massima adesione almeno intenzionale rispetto ai problemi e alle prospettive di natura “pratica”: di quelli che per esempio consentirebbero di trovar prima e meglio lavoro se non addirittura di far più soldi. Stessa fumosità per le lingue straniere: si parla dell’introduzione almeno di una seconda lingua dalla metà circa dell’intero corso di studi di sei anni, ma si resta sul generico per quanto attiene ai due problemi fondamentali, le risorse e la selezione nonché l’aggiornamento dei docenti. Anche per il tema, molto sentito sembra dalle famiglie, dell’horaire d’accompagnement, cioè dei corsi di sostegno per gli studenti la resa didattica dei quali è più debole (e questo è un problema davvero drammatico, e in costante crescita al pari del bullismo), si va sulle tre ore settimanali (poche): ma pare che i professori disponibili facciano difetto. E allora?
Naturalmente, si è levato un coro di proteste. Per la verità stamattina a Parigi nulla sembrava diverso dal solito, ma giornali e TV ci hanno informati su una “grande riunione di docenti e studenti alla Sorbonne” (un centinaio di persone…), cui avrebbero preso parte vecchie glorie quali – senti, senti! – Régis Debrey il quale avrebba da par suo tuonato contro la “miopia della classe dirigente” e l’abisso di oblìo della memoria e della cultura che si sta spalancando davanti alle giovani generazioni.
Morale? Potete giurarci: nulla di fatto. Belkacem – progressista, come tutto il suo governo – andrà avanti, nella prospettiva pratica di una “scuola a due velocità”: pagante e quindi “élitista” per chi potrà permettersi gli istituti privati, gratuita e indifferenziata per gli altri. E’ il progetto dominato dalla vecchia formula liberal-liberista che ben conosciamo: tagliare i fondi a tutto quel ch’è pubblico, poi dichiarare che così non va e lasciare che chi può passi al privato; quindi i proventi della manovra privatizzatrice si risolveranno in dividendi per gli azionisti, l’eventuale deficit sarà accollato, al solito, ai pubblici contribuenti. Perché il punto non è che non va la scuola: è che non va la società civile. Non è la scuola a non rispondere alla domanda di formazione culturale con un’offerta adeguata: è la società, nei suoi centri direzionali e nel suo tessuto sociale, che non formula più tale domanda. Per cui, a che diavolo serve il latino? A nulla, per una società che ha deciso di correre compatta - e i media lo dimostrano - verso il semianalfabetismo di massa.
10 aprile 2015
dal sito http://www.francocardini.net/
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