CINEMA

domenica 26 luglio 2015

IL RITORNO DI MAGNUS E DEL SUO TEX RIVOLUZIONARIO di Luca Telese

                                 



IL RITORNO DI MAGNUS E DEL SUO TEX RIVOLUZIONARIO
di Luca Telese



Magnus è tornato, ancora una volta. Mettiamo che siate di quelli che non conoscono il suo nome: molto probabilmente – vedendo uno qualsiasi dei suoi personaggi – riconoscereste il suo inconfondibile stile: o lo avete già visto, o avete visto qualcuno che lo copia. Anche questo, dopotutto, è il segreto dell’arte: la capacità di inventare i segni che restano.
Magnus è stato (assieme a Max Bunker) il papà di Alan Ford, è il creatore di grandi personaggi di consumo degli anni sessanta come Kriminal e Satanik, ma anche di serie cult come lo Sconosciuto e La Compagnia della Forca. Magnus ritorna, questa volta in libreria, con la meravigliosa ristampa del suo testamento artistico, il famoso “Texone” che disegnò fino alla morte: La valle del terrore (Rizzoli-Lyzard, 200 pp. 22 euro). Malgrado questo, il più grande disegnatore italiano (se non altro per eclettismo produttivo e prolificità) non era chic, non era un mercante, non si promuoveva nei talk-show, e continua a essere ancora oggi un oggetto misterioso per la grande critica. Non è un caso: nessuno prima di lui aveva contaminato l’alto e il basso, le cose più raffinate e quelle più commerciali, il fantastico e il realistico, il grottesco e il fantascientifico e persino (nei tempi delle vacche magre a metà degli anni Ottanta, quando nessuno gli pubblicava nulla) il pornografico.

Magnus è morto quattordici anni fa. Mi era accaduto, per puro caso, di intervistarlo solo una settimana prima della sua scomparsa, il 5 febbraio del 1996. Il mio rapporto con lui era nato da fan, un giorno, durante una presentazione in via Piè di Marmo, a Roma nel 1984, quando aveva incantato l’uditorio in occasione dell’uscita di un volume monografico della Glittering Image su di lui. In quell’ultimo anno, senza sapere nulla, avevo chiesto questa intervista sul texone per mesi, fino a scoraggiarmi. Ma un pomeriggio mentre ero in redazione, aveva squillato il telefono. La voce del Maestro, all’altro capo della cornetta, mi aveva stupito con una autoironia paradossale: “Se non ti sbrighi a venirmi a trovare, il tuo articolo su di me rischia di uscire postumo!”. Subito dopo aveva aggiunto: “Tex sta bene, io non molto...”. Non mi ero fatto ripetere l’invito. Così, in una giornata di pioggia torrenziale sull’appennino emiliano, avevo attraversato il passo della Futa in macchina e mi ero arrampicato fino a Castel del Rio, nella “locanda del Gallo”, il suo buen retiro proprio in mezzo ai boschi incantati dove lui – bolognesissimo di nascita – combatteva contro un male incurabile e con le ultime tavole del suo testamento artistico, il Tex gigante commissionatogli dall’editore principe del fumetto italiano, Sergio Bonelli. Avevamo parlato per un intero pomeriggio: della sua vita rocambolesca, del rapporto con i suoi personaggi, di cultura e persino di politica. Con dei grandi gesti disegnava storie vecchie e nuove sul profilo della montagna: “Ci tengo a raccontarlo a chi viene a trovarmi. Quassù nel 1944 passava la Linea Gotica: da una lato i tedeschi, dall’altro gli inglesi, in mezzo a questi boschi i partigiani… Questo è il mondo in cui sono cresciuto, il mio retroterra: guerra, avventure e tempeste”.

                                               


Roberto Raviola, al secolo Magnus, è stato tutto questo e di più: non solo uno dei più grandi disegnatori italiani, ma uno di quelli che hanno la fortuna di lasciare un segno, cambiare le categorie, creare tendenze, tormentoni e mode. Ancora oggi decine di disegnatori imitano il suo tratteggio, il suo inconfondibile bianco e nero. Se non altro perché Magnus è uno dei pochi che – al pari dei suoi quasi coetanei Milo Manara e Hugo Pratt – con i suoi fumetti non ha inventato solo uno stile, ma un intero mondo, un immaginario visivo e narrativo. Aveva il senso dell’estetismo puro e quello del calembour: come ad esempio il tormentone di inserire un suo alter ego in tutte le storie che disegnava. Al contrario degli altri, però, Magnus ha spaziato fra i generi e fra i diversi pubblici, con una carriera unica. Prima a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta “Kriminal”e “Satanik” avevano dato corpo al noir italiano. Poi con Alan Ford aveva inventato il fumetto satirico e grottesco (che avrebbe trovato fama nazionalpopolare con Supergulp, i fumetti in tv della Rai). Poi negli anni Ottanta si era rinnovato con la fiaba epica della “Compagnia della forca” e il realismo avventuroso de “Lo Sconosciuto”; infine – negli anni Novanta – con le sue ultime storie: il Texone (fino a questa ristampa era esauritissimo e di culto, venduto a quotazioni antiquarie), la saga medievo-fantascientifica de “I briganti”, o uno degli ultimi affreschi il romanzo storico di “Pignata”.




Il dettaglio e l’ossessione


Prendiamo la saga del suo Tex: la storia scritta per lui da Claudio Nizzi, per contratto avrebbe dovuto essere disegnata in sette mesi. Ma quel giorno, quando lo avevo raggiunto a Castel del Rio, la matita di Magnus era al lavoro sulle pagine bianche già da sette anni. Bonelli – che lo adorava – chiamava al telefono disperato: “Trattiene solo per amore la sua rabbia”, mi aveva detto lui, rammaricato e divertito. Avevo chiesto a Magnus il perché di tanto ritardo e lui, sorridendo, mi aveva mostrato una tavola in cui il ranger più famoso d’Italia si beccava una pugnalata: “Adesso ti spiego – iniziò lisciandosi un baffo sale e pepe di foggia ottocentesca – ho dovuto fare dei calcoli. Che tipo di ferita era? Una ferita doppia, da arma da taglio. La lama è entrata lateralmente, si è infilata nella carne, poi è riuscita. Molto sangue, dunque: ma il muscolo non poteva essere leso perché lo sceneggiatore, più avanti mi scrive che Tex continua a sparare. Questo vuol dire – aveva spiegato Magnus facendosi serissimo – che il deltoide doveva essere stato trapassato senza compromettere il tendine. Poi Nizzi vuole che il ranger sia medicato: allora ho dovuto pensare a quanti punti di sutura mi servivano, ho dovuto consultare un amico medico, e ho deciso che ce ne volevano dodici!”.

Era diventato così. Maniacale, perfezionista: Nizzi gli chiedeva di citare Johann Setter, lo svizzero-tedesco che aveva avviato la corsa all’oro? Magnus correva a documentarsi con cataloghi d’epoca per riprodurre il dettaglio di un comodino dell’800. Nizzi scriveva: “Dialogo durante cavalcata”? Lui si faceva certosino: “Quanto parlano? Quando sorge il sole? Quando tramonta? Come sono le ombre? Se partono da ovest e vanno verso est…”.
Forse dipendeva dal fatto che prima di allora, per anni, la vita creativa di Magnus era stata un inferno. Tutto l’opposto, all’insegna dell’iperproduttività e dei salti mortali per sbarcare il lunario e accontentare i committenti e il calendario tirannico. Per questo, voleva la leggenda, aveva rotto il sodalizio con Bunker, nel 1977, rimpianto dai fan. “Per ricominciare a disegnare liberamente ho dovuto abbandonare un personaggio e un reddito certo”. Lui ci rideva su: “Nella vita ho avuto troppi soldi, o troppo pochi. Che è poi l’unico modo per non esserne schiavi”. Quando magnificavano il suo gioco di ombre spiegava: “Altro che invenzione geniale… Quello stile me lo ha imposto il cottimo. Ai tempi di Kriminal e Satanik lavoravo chiuso in una scantinato, dovevo disegnare centinaia di tavole, risolvevo con il pennello, l’impossibilità di definire i dettagli”. In questo modo erano nati il suo leggendario bianco e nero, i giochi di luci, i suoi primi piani quasi fotografici. Lui demitizzava tutto, persino chi diceva che aveva rivoluzionato il montaggio delle vignette avvolgendo in modo tridimensionale le sue maschere: “Ho iniziato a tagliare le tavole in verticale, solo per aggirare la censura e mostrare il corpo femminile nella sua interezza”. Rimanevo incantato di fronte ai suoi cattivi, sempre imperlati di sudore, sempre colti in un momento di dubbio, prima o dopo il crimine: “Il chiaroscuro non è nel tratto, ma nella storia. Sennò non mi diverto”.
Mi aveva raccontato – sempre sfiorando il tema della sua malattia – che negli ultimi anni di vita era ripartito dai classici, come un assassino che torna sul luogo del delitto, sui miti delle sue fantasie adolescenziali: “In ospedale ho letto moltissimo. L’Isola del tesoro di Stevenson, tutte le novelle di Verga, che considero un narratore straordinario, un vino forte e che solo il nostro provincialismo ha degradato a scrittore dialettale. E poi Mastro Don Gesualdo, un romanzo potente, grandissimo”. Alla fine era arrivato, o meglio ritornato a Emilio Salgari: “Non capisco come qualcuno possa considerarlo un autore di serie B. Nei suoi libri c’è uno schema bellissimo, una forma di moltiplicazione dei dialoghi, uno stilema che è arrivato dritto dritto fino a Tex”. Quindi mi aveva sorriso: “Adesso che ho trovato la misura del racconto, non ho più il tempo per inseguire tutti i miei sogni”. Mentre parlava giocava con un pennarello nero su di un foglio bianco. Non avevo avuto il coraggio di chiedere se parlasse del tempo della sua vita, se faceva riferimento al male che aveva dentro.
Mi aveva raccontato che l’Appennino per lui era una miniera di immagini. Le foreste orientali della compagnia della Forca e quelle della Bolivia (di una sua bellissima storia dello Sconosciuto “L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara”) e quelle nordamericane di Tex, le aveva tutte tratte da lì: “Non è divertente immaginare che il ranger si muova nella fauna dell’Emilia Romagna? Eh, eh… Ogni tanto giro con un blocco per questi boschi, alla ricerca di luoghi, volumi, colori: basta solo cercare, e si scopre che la provincia italiana è una frontiera inesauribile e il luogo dove si può ambientare qualsiasi invenzione”. Già all’epoca Magnus era celebrato in Francia, e ho sempre pensato che era uno degli ultimi grandi artigiani italiani, di quelli che non hanno bisogno di altro che del loro talento.
Quando non aveva modelli, infatti, Magnus ricorreva al suo patrimonio più grande, la fantasia: “Una storia dello Sconosciuto l’ho ambientata a Roma, inventando un pezzo di città immaginaria, Largo delle Tre Api. Avevo disegnato una basilica romana, un colonnato, dei palazzi di architettura papalina, una fontanella con una simbologia araldica scolpita nella pietra”. La composizione era riuscita, anche troppo: “Ancora oggi mi chiedono dove si trovi esattamente, protestando perché sul Tuttocittà non è segnalato! Un amico regista dopo aver letto la storia mi chiamò dicendo: ‘È un posto bellissimo, ma sai che l’altro giorno non sono riuscito a ritrovarlo, girando per i vicoli? Accompagnami, e andiamo a girare lì’. Fu difficile convincerlo che si trattava di una mia invenzione”.



Orgogliosamente popolare


Quella storia, due anni dopo la sua morte, sarebbe stata raccolta assieme a tutta la prima serie de Lo Sconosciuto in un volume di Stile libero Einaudi, insieme con la grande narrativa. Era la prima elevazione a dignità letteraria, quella che a Magnus, in vita, era mancata: “Se c’è uno dei miei personaggi per cui ho un debole – raccontava il disegnatore – è proprio lui, Unknown”. Quanto alle critiche pregresse e alle lodi tardive, scherzava: “I critici, a parte qualche luminosa eccezione, dovrebbero essere presi tutti a ceffoni. Di loro non mi è mai importato nulla, e ancora meno mi importa adesso, che mi incensano. Il pubblico invece, è davvero tutto. Mi considerano un autore popolare? Bè, io ne sono orgoglioso. Nei momenti più neri io sapevo di avere intorno a me questo affetto”. Magnus spiegava che senza aver mai fatto politica, pensava di avere una grande sensibilità politica: “Ho sofferto per la scissione del Pci come di un trauma familiare”. All’epoca (nel 1996) aggiungeva: “Rifondazione a tratti mi immalinconisce. Malgrado tutto, con mille dubbi continuo a votare l’alberaccio” (ovvero quella Quercia che allora era ancora il Pds). Rivelava di aver scoperto, “da laico”, la religione musulmana: “Quel Dio è già grazia, l’analfabeta Maometto è ispirato da una voce superiore: ma ciò che mi ha avvicinato davvero è stata una lettura intellettuale del Corano”. Poi aveva tratteggiato sul proprio petto con un cenno plastico i malanni delle sue vie biliari, esattamente con lo stesso distacco con cui per resuscitare Lo Sconosciuto – ferito in una sparatoria – aveva consultato un chirurgo. Aveva guardato fuori dalla finestra della locanda e aveva sorriso: “Sai, io questo Tex devo riuscire a finirlo…. È l’ultima impresa della mia vita, un corpo a corpo con un mito. Lui è tutto quello che il mio fumetto non è mai stato, mi piacerebbe dare al mio Tex tutto quello che non ha mai avuto da nessun altro”.
Proprio quando alla fine dell’intervista avevo chiesto di fargli una foto, aveva opposto un gesto pudico, aprendo una cartellina già pronta sul tavolo della locanda. Mi aveva dato due scatti in bianco e nero, in cui c’era lui, al lavoro su alcune pagine del ranger, un anno prima. Sorrideva: “Le tavole, come vedi, sono le stesse e non sono ancora definitive. Ma il mio corpo è stato scavato dalla malattia. Nel servizio vorrei apparire come ero allora. Ti pare una vanità?”. Avevo scosso la testa mentre tornava di nuovo il pensiero della morte che incombeva, mascherato con una battuta sull’allievo di un tempo, Gabriele Romanini (oggi altro grande) con cui aveva firmato La Compagnia della forca: “Ho avuto la fortuna di aver avuto vicino un grande artista e un grande amico. Le due cose, di solito sono impossibili da tenere insieme”. Voleva dire che avrebbe completato lui il lavoro, se lui non ce l’avesse fatta? Ero tornato in redazione e avevo impaginato con fervore religioso. L’intervista era uscita sull’Italia diretta da Pietrangelo Buttafuoco la settimana dopo. Avevo chiamato alla locanda, con una ingenua vanità: “Il maestro ora riposa, ma abbiamo comprato tre copie. È molto contento. Lo chiamo?”. Avevo risposto di no, senza sapere che mi sarei pentito.
Il numero era ancora in edicola quando Guido Tiberga, collega de La Stampa e grande fumettaro mi aveva chiamato commosso, dandomi la bruttissima notizia che aveva avuto da Castel del Rio: “Il maestro non c’è più…”. Al dubbio su Romanini ho trovato la risposta quindici anni dopo, in questo splendido texone, dove Romanini spiega di aver chiuso lui le tavole incomplete, come facevano ai tempi di Alan Ford, quando Magnus non faceva nemmeno in tempo a finire le matite che lui doveva ripassare a china. L’ultima battuta di quel giorno, che Magnus mi aveva detto mostrandomi i suoi boschi, me la sono portata dentro per tutti questi anni, come la sintesi di un bel modo di stare al mondo: “Mi ritengo un fortunato: nella vita ho avuto sempre la fetta imburrata, e non quella secca”. Se siete di quelli che sanno chi è Magnus forse questo viaggio vi ha interessato. Se siete di quelli che non lo conoscono, invece, fate un salto in libreria: provate a entrare nel suo mondo fatato passando per uno dei valichi amerigo-appenninici del Texone. Sarà un bel viaggio.


10 agosto 2011


da "Il Fatto Quotidiano"


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