CINEMA

lunedì 11 settembre 2017

GLI ARTIGLI DELL’AQUILA di Teresio Spalla






GLI ARTIGLI DELL’AQUILA
di Teresio Spalla


Questo numero dell’Almanacco contiene due articoli sulla condizione contemporanea degli indiani d’America.
Il primo, risalente al 1986, fu pubblicato su “Filmcronache”. Il secondo, scritto nel 2011, in occasione dell’avvenimento di cui si parla, rimase inedito.
Li pubblico insieme solo ora, continuativi l’uno all’altro per evidenti motivi, riveduti e aggiornati ma nemmeno tanto, poiché, in questo 2016, è accaduto qualcosa di cui si parla nell’epilogo, altrettanto inedito.
Tutti e tre i testi, riuniti insieme, saranno editi dalla rivista “Scenario”.

Il motivo di questo assemblaggio, che sarà comprensibilissimo a chi lo leggerà, è che, da quando mi dedicai, per la prima volta, non alla vicenda storica ricostruita al cinema e nella letteratura dei pellerossa, ma all’esplorazione antropologica della loro autentica esistenza contemporanea, sono, apparentemente, cambiate molte cose.
Ma, dal punto di vista della rinascita culturale e sociale, nel momento in cui scrivo, marzo 2016, non è sostanzialmente cambiato niente per gli ex indomiti cavalieri della prateria del nord ovest come a tutte le nazioni indiane dalla frontiera canadese al confine messicano degli Stati Uniti.

Credo comunque che, leggere il primo testo, redatto quando si era in piena devolution e anche i diritti delle minoranze etniche erano messe in soffitta insieme al pensiero progressivo del ventesimo secolo, possa dare la sensazione di come, in fondo, a distanza di trent’anni esatti, siano cambiate moltissimo le modalità ma il genocidio, il segregazionismo, il razzismo, imperino più di allora e con una sfacciataggine senza più ipocrite pudicizie.
Stupirà che allora il computer, anzi il “socialcomputer” come lo chiamavano i patrocinatori pellerossa intervistati, era ancora un oggetto semisconosciuto ma già temuto nel suo uso comune. E, con esso, tutto il mondo industriale che c’era già ai quei tempi dietro la costruzione delle macchine informatiche e dei loro accessori.






A . MA NON PER ME  (1986)


“Non puoi vendere la terra sulla quale cammini". Le parole di Cavallo Pazzo si leggono appena sul grande cartello blu ai margini della strada polverosa che ricorda le sue gesta. Qui, nei pressi di Pine Ridge, nello stato del Dakota, abitano ancora gli Oglala, quelli che sono rimasti della la tribù tra le più fiere della nazione sioux.
Dove siano i resti di Cavallo Pazzo nessuno lo ha mai saputo. Era un guerriero indomabile : non firmo mai un trattato coi “visi pallidi”, non si fece mai fotografare.
E quando i soldati del 7°Cavalleria lo ammazzarono a tradimento, i suoi pellerossa si ripresero il suo corpo e andarono a nasconderlo nel cuore delle Bad Lands, le “mauvaises terres” come le avevano chiamate i francesi, i primi arrivati in quella zona impervia e desolata.
Il 7°Cavalleria ero lo stesso reggimento che, ricostituito, era stato guidato alla celebre battaglia del “Little Big Horn” (25 giugno 1876) dal generale George Armstrong Custer il quale, in realtà, era un colonnello degradato e aspirava, con una vittoria sugli indiani del nord ovest, alla presidenza degli Stati Uniti nelle fila del partito democratico che allora era ancora quello costruito – tra il 1824 e il 1877 - dal presidente Andrew Jackson.
Jackson, come militare di inarrestabile carriera, fu uno dei più grandi criminali di guerra della Storia e autore del più drammatico genocidio dei pellerossa viventi dei territori dall’oceano Atlantico al fiume Missouri nei primi decenni del XIX° secolo, tra il 1803 e il 1818. Come presidente, in nome dei poveri pionieri ma anche dei grandi allevatori e latifondisti, assecondò e stimolò politicamente il massacro sistematico dei pellerossa nel west e l’incremento dello schiavismo nel sud-est.
La vittoria dei pellerossa su Custer, sull’altopiano del Little Big Horn, fu l’unica significativa vittoria militare degli indiani sulla cavalleria nel periodo successivo all’indipendenza degli Usa. Un po’ perché Toro Seduto e Nuvola Rossa avevano unificato le tribù nomadi dei Sioux e dei Cheyenne, è un po’ perché il “generale” commise, per fame di gloria, errori militari che poi si tentò di attribuire ai suoi più stretti collaboratori rimasti vivi in colonne distanti dal luogo che gli americani bianchi chiamarono del “massacro”.

Questa vittoria costò agli indiani più di ogni altra sconfitta. Ci volle un decennio perché il favore di cui godevano presso gli autentici democratici (allora militanti quasi tutti nel partito repubblicano, ma non stupitevi : la storia politica statunitense è zeppa di contraddizioni incomprensibili ad occhi troppo attualistici) a Washington e nelle città dell’est, fosse riacquistato, e solo in parte.
Cavallo Pazzo (Crazy Horse - Tashunka Uitk in lingua lakota – 1840-1877) non riuscì a fermare gli usurpatori sul campo di battaglia come gli altri due capi, e (tralasciando la Storia per altro molto conosciuta, quasi ovvia, dagli appassionati del west e del western i quali, una volta, erano una miriade e oggi sono un centinaio di incompresi dalle nuove generazioni) ora i suoi discendenti sembrano aver perso anche il confronto ingaggiato con i bianchi su un terreno apparentemente meno cruento, ma solo apparentemente nel paese dove gli avvocati sono abitualmente considerati, insieme ai politici, gli avvoltoi umani di una società in piena crisi ideale e sociale.

I sioux rivorrebbero la restituzione delle terre loro ingiustamente strappate.
Già nel maggio 1981, appena insediato Reagan, una sezione della corte d’appello a Washington respinse la loro richiesta, mettendo così fine, alla restituzione delle terre che avevano ottenute nell’80 dal presidente Carter.
Lì i loro floridi territori d’un secolo prima s’erano trasformati in campi, cintati di filo spinato, spesso privi dei servizi essenziali, mentre l’unico sistema per guadagnare denaro e investirlo nella coltura delle terre erano i “casinò indiani” un’iniziativa che solo negli Stati Uniti poteva rimandare a una definizione quasi positiva, prima che i bianchi, con i loro investimenti, mettessero prima il becco e poi gli artigli sulla “la piccola Las Vegas dei pellerossa”.

La vertenza legale fu definita da un giudice della Corte Suprema : “La più lunga e complicata vicenda legale nella storia degli Stati Uniti”. Forse era in buona fede quando lo diceva ma mentiva. Ce ne sono state e ce ne saranno di più arzigogolate.
La realtà è che, quando ci sono di mezzo i pellerossa le battaglie diventano massacri e le questioni giuridiche diventano immediatamente farraginose, complicate, soggette a mille cavilli.

“Lei avrà sentito parlare del “trattato di Fort Laramie” ci dice Mario Gonzales, capo dell’equipe che difende i sioux-oglala. “Da quel giorno in avanti – il 15 aprile 1868 – tutte le guerre tra gli Stati Uniti e la nazione Sioux finiranno per sempre” c’era scritto. Ma, come hanno ripetuto i capi pellerossa in mille film western, “quando mai i visi pallidi hanno rispettato gli accordi ?”.
“Pochi anni dopo” continua Gonzales “scoprirono che c’erano giacimenti d’oro nelle Colline Nere, parte della porzione di territorio lasciata agli indiani in cambio della cessione di una enorme distesa di terra tra gli attuali stati del Dakota, Nebraska, Wyoming e Montana.
Volevano ricomprarle le Colline Nere, una zona considerata sacra nella nostra comunità religiosa panteista. Ma noi rifiutammo e – com’è noto nella nostra tradizione e come, molto diversamente, nella consuetudine narrativa e cinematografica dei bianchi – ci furono tremende stragi e vergognosi incidenti. E, alla fine, il Congresso risolse tutto con uno dei soliti soprusi, ratificando l’atto di vendita che non avevamo mai accettato”.
In realtà Gonzales non è preciso. L’atto di vendita venne ratificato a un gruppo di Sioux, figuranti in falsa rappresentazione di tutto il loro popolo, che s’erano venduti per ben poco ai politicanti democratici che difendevano gli interessi dei coloni e dei cercatori d’oro.

Poi, quando si parla di quest’ultimi, andrebbe precisato che la figura del vecchio solitario in cerca di fortuna, era, in realtà, una rarità, uno dei tanti personaggi che la leggenda ha trasformato in un prototipo.
I cercatori d’oro furono, in genere, gli agenti delle grandi compagnie minerarie.
E qui entra in gioco il partito repubblicano. La “macchina” che controllava il centro dei due partiti - e ne teneva insieme i lembi condizionati dalle più diverse politiche statali - si sfasciò proprio in quel periodo.
O, se non vogliamo usare un verbo forse troppo acceso, diciamo che smise la funzione di ago della bilancia e diventò il coagulo (a volte efficientissimo) non della destra e della sinistra (di quest’ultima qualcosa rimase, tra i repubblicani, il partito di Lincoln, tra gli acerrimi antischiavisti e gli autori delle primordiali scaramucce per i diritti civili) ma della corruzione locale su cui si basava la corruzione statale su cui si basava la corruzione federale, destinata a durare sino agli anni Trenta.
In questo senso i due partiti si trovarono uniti nel proteggere quelle compagnie che finanziavano ora l’uno e ora l’altro oppure tutti e due.
Questi “finanziamenti”, spesso considerati legali anche quando erano illegali, erano contratti, del resto, principalmente a livello di contea. Ci pensava poi la “macchina” a portarne quote alle sede centrali dei due amalgama politici ormai privi di un’ideologia precisa. Se mai l’hanno veramente avuta.

Cosa potevano fare gli indiani di fronte alle immense risorse finanziarie delle compagnie aurifere, argentiere, carbonifere, a loro volta alimentate dalle grandi banche e dai nascenti imperi finanziari di Rotschild e Pierpont Morgan se anche il mondo politico avanzato era contro di loro dopo che, spinto da organizzazioni egualitarie e religiose, pur aveva avuto una qualche simpatia per la loro causa ?
Comunque sia stato, dal 1881, i sioux non hanno smesso di chiedere giustizia. La sola cosa che hanno ottenuto è la promessa di un risarcimento di quaranta milioni di dollari.

Intanto il presidente R.H.Hayes, nel 1883, poteva vantarsi, coi suoi lobbisti, di aver sancito la lottizzazione di quaranta milioni di ettari di naturale proprietà Sioux. Ogni appezzamento, che andava dai 30 ai 60 ettari, restava, beffa nella beffa, proprietà dei nativi, ma il governo federale si riserva la possibilità di sfruttare o far sfruttare le risorse minerarie, energetiche e naturali, oltre che di lucrare e lasciar lucrare sul piano imprenditoriale.
Infatti quando, più tardi, l’Oklahoma diventerà terra petrolifera, gli indiani riceveranno una cifra irrisoria, beffarda rispetto all’enormità della confisca.

La Corte Suprema, che anni fa gli attribuì formalmente i quaranta milioni originari, sentenziò, nel 1982 che, : “Questa lite è diventata un pasticcio incontrollabile, non si può andare avanti all’infinito”.
Commentava ancora Gonzales : “Questo significa che, ai prezzi di oggi, il terreno da costruzione al centro delle città viene valutato un centesimo al metro. Come possono imporci una cosa simile?”.
Possono, poterono, potranno forse ancora.

Mario Gonzales appartiene alla generazione dei nuovi leader pellerossa, quelli che hanno studiato e non sognano di disseppellire un giorno il tomahawk per vendicare i torti subiti dai pellerossa. Anche se in realtà gli indiani, almeno quelli costituiti precedentemente in nazioni o sopravvissuti ai grandi genocidi, smisero tale sogno da ben prima che finissero le guerre con i bianchi.
Quella che il cinema western ci ha spesso mostrato come un conflitto impari con folle di uomini rossi assetati di vendetta, fu, dagli anni Settanta del XIX° secolo alla resa di Geronimo nel 1886, la guerriglia che pochi gruppi di indiani furono costretti a combattere per evitare il massacro o la prigionia, la segregazione e l’apartheid.

In ogni modo Gonzales, l’uomo che da un decennio patrocina la causa pellerossa, è anche a capo degli Oglala e, come nome nativo, benché tradotto in inglese, ha Cavallo Americano. Suo nonno si batteva con Alce Nero, il capo cheyenne, ma è anche un tipo molto indaffarato, con gli occhiali a stanghetta sul naso troppo largo, la scrivania con sei o sette apparecchi telefonici e ingombra di scartoffie. Forse ha pensato fosse necessario celare il suo cuore indiano dietro l’apparenza di quelli che oggi chiamiamo yuppie.
L’aria condizionata va a tutto volume nel suo ufficio di “presidente del consiglio tribale” dove l’unica nota folclorica rimane un ritratto a tempera di Nuvola Rossa. Lo sguardo del grande capo lo domina sotto il colorito copricapo di penne d’aquila e di falco.

E’ chiaro che, nell’America degli anni Ottanta come in quella di oggi, bisogna che gli indiani siano guidati dalle generazioni perdute verso l’era moderna. Ma il sentiero della riscossa è arduo e non se ne vede la fine.
Sono stati definiti “La minoranza più maltrattata e miserabile d’America” e, dopo più di un secolo dalla fine degli scontri armati con l’uomo bianco, la loro condizione di reietti non è mutata.
I sopravvissuti sono circa un milione. Appartengono a duecentonovanta tribù. Parlano centocinque idiomi diversi. Per due terzi vivono ancora nelle riserve.

“Anche gli indiani hanno un’anima” riconobbe, nel 1537, una bolla papale, la “Sublimis Deus”, emanata più che altro per il genocidio degli indios dell’America centrale e meridionale dove i conquistadores, arricchiti oltre misura, minacciavano di far concorrenza alla cattolicissima madre patria di Spagna.
Ma quelli del nord America hanno dovuto attendere sino al 1924 (!) per ottenere, dopo “opportuni” esami, la cittadinanza americana e il diritto di voto. Anche se intanto morivano, senza opportunità d’emendarsi da soldati semplici, nelle guerre statunitensi a Cuba e nelle Filippine, infine nella Prima guerra mondiale.

Qualcuno ce l’ha fatta. Gli aqua calienda, una sparuta tribù californiana di cui non a caso non si è mai sentito parlare nei film western (in qualche romanzetto sì, ma poca roba) sono riusciti a controllare buona parte del mercato immobiliare di Palm Springs. Gli apaches del New Mexico in parte si sono arricchiti col petrolio, si sono buttati nell’industria del cinema e del turismo.
Nel Michigan - uno degli stati dove, quand’era ancora una provincia inglese, furono sistematicamente massacrati dai coloni scotoirlandesi senza che le truppe di Re Giorgio potessero far niente - i pochi chippewa rimasti hanno aperto un altro casinò chiamando il posto “La Las Vegas del nord”.
E c’è qualcuno che, indossato il colletto duro e la cravatta d’ordinanza, nascondendo accuratamente i tratti somatici con plastiche facciali, sono riusciti ad entrare nel tempio della finanza dell’uomo bianco – Wall Street – dove forse avranno fatto qualche investimento azionario per i loro fratelli falcidiati dall’alcol, dalla tossicodipendenza, dalla povertà e dalla sottoccupazione.

Ma, nelle riserve, la vita è sempre un inferno. La disoccupazione raggiunge punte dell’ottanta per cento; il reddito medio è cinque volte al di sotto del livello di povertà fissato dalle diverse enclave finanziarie succedutasi sino ad oggi. Nove famiglie su dieci vivono in baracche, roulotte o rifugi di fortuna : grotte, tubi di cemento e amianto, torrette sugli alberi in paludi insalubri e tempestate da insetti famelici e portatori di malanni implacabili per i bambini.
Tra gli indiani si registrano i più alti tassi di mortalità infantile e di suicidi. Solo il quindici per cento dei ragazzi arriva alle scuole superiori (per studiare libri di storia sistematicamente dalla parte dei bianchi) e l’un per cento giunge all’università dove, a dir il vero poteva ancora sperare - come negli anni Sessanta e Settanta - in un’educazione veramente libera e compiuta. Ma per immettersi in una società che, fuori dai college pubblici, è sempre contro di loro.

Non bisogna poi pensare che il dramma resti quello delle riserve. Gli stessi tassi si registrano tra chi è andato in città e ha tentato l’urbanizzazione nelle metropoli giacché dai piccoli centri sarebbero stati cacciati come cent’anni prima.

Dei nativi, come adesso è opportunamente e politicamente corretto chiamarli, si occupa un organismo, creato nel 1824 dal governo all’interno del Dipartimento di Stato : il famoso “dipartimento degli affari indiani” dove hanno avuto peso anche Carl Schurz – un ex rivoluzionario tedesco, fautore degli albori del socialismo in patria e in Francia – che, fuggito alle persecuzioni europee si fece strada nell’estrema sinistra del partito repubblicano dopo aver combattuto contro lo schiavismo nella guerra civile. E non si può dimenticare Eli Parker Donehogawa, della tribù degli irochesi, che ricoprì la carica con qualche risultato tra cui divenire celebre, in Italia, grazie ai fumetti con Tex Wyller che lo tiene tra i suoi migliori amici e lo ha già salvato da un paio di attentati.

Ma, a parte alcuni altri, la maggior parte di coloro che hanno occupato il posto di direttore del dipartimento, sono stati dei cialtroni, gente degna di certi film che, nell’immediato dopoguerra, svelavano il marciume della politica.
Nel passato del bureau per gli affari indiani ci sono quindi tante efferatezze, inganni, abusi, da aver generato nei confronti dell’istituzione una certa avversione da parte dei pellerossa in grado di tenersi politicamente aggiornati. Infatti non sono pochi, e non necessariamente tra gli estremisti, ad accusarlo di essere un carrozzone disgregato.

Negli anni Sessanta-Settanta - mentre l’America sembrava vivere una nuova primavera sociale con la presidenza Kennedy e il progetto della “grande società” di Lyndon Johnson, mentre Martin Luther King e Malcolm X lottavano e vincevano a favore degli afroamericani – nacque un movimento di rivalutazione degli indiani a Hollywood.
Non che questo non fosse già presente nei film e nella narrativa (e anche in alcune opere teatrali e televisive trascurate successivamente dalla memorialistica del settore) ma, questa volta, furono proprio i divi a muoversi. A cominciare da Jane Fonda, allora l’emblema del divismo radicale prima di trasformarsi nella sacerdotessa del body building, per finire a Marlon Brando il quale, nel 1973, mandò una giovane pellerossa a “rifiutare” polemicamente l’oscar per “Il padrino”.

Ma questa crociata dei ricchi si esaurì in un lustro. Fu piuttosto la pubblicazione di “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” (di Dee Brown, uscito negli Usa nel ’70 e pubblicato in Italia, da Mondadori, nel ’72) a far capire a molti che non conoscevano la questione quale sia stata la disperata storia dello sterminio dei pellerossa vista attraverso i racconti delle vittime.
Una certa America, infervorata dai nuovi movimenti di liberazione che si agitavano in tutto il mondo occidentale; una certa America dove Marcuse, alla Columbia University, poteva insegnare concetti per i quali dieci anni prima sarebbe stato messo in galera dai maccartisti; si rese conto di avere un problema : il “problema rosso”.

Ma i suoi rimorsi non durarono a lungo.
A chi potevano far paura gli indiani salvatisi a stento dall’estinzione e dispersi su milioni di chilometri di lande semidesertiche e remote quando non nelle più spaventose aree periferiche metropolitane ? Gli afroamericani sono una trentina di milioni, gli indiani non raggiungono la cinquina. Ad essi si stanno aggiungendo vorticose le ondate migratorie provenienti dal centro America dove la domenicana sta per divenire la più folta tra le compagini straniere in installazione.

Certamente non tutti hanno rinchiuso la storia dei “nativi” nella smemoratezza dell’uomo medio statunitense. Però gli indiani, ricacciati nel profondo della coscienza pubblica, debbono difendersi da una nuova invasione.
La conquista del West, scatenata già nel 1600 con le guerre anglo-francesi per il dominio del nord est, ha adesso per obiettivo, anziché l’oro o il petrolio, l’uranio e i minerali preziosissimi, indispensabili per le nuove tecnologie, rintanati nella terra rimasta ai pellerossa.
Al posto delle carovane dei pionieri e dei reggimenti di cavalleggeri arrivano ancora bulldozer, trivellatrici, ditte specializzate nella costruzione di costruzioni inaccessibili e incomprensibili dove sta nascendo l’oro del futuro : il “socialcomputer” come si lascia sfuggire qualche tecnico in camice bianco. E, con tutto ciò, giungono schiere di avvocati muniti di contratti che promettono royalties e una prosperità che i pellerossa non comprendono.

“Centodieci anni dopo si ripete il dramma delle Colline Nere” afferma Gonzales-American Horse.
Alle falde dei monti si arriva tagliando canyon e boschi. I sioux si arrampicavano sugli speroni di roccia per essere più vicini al cielo e sottoporsi ai riti di purificazione dei giovani che entrano nella pubertà.
Esaurito l’oro il “National park service” – l’agenzia federale del Dipartimento dell’interno – ne ha fatto un parco nazionale.
Ci si trovano laghetti e prati circondati da bungalow per il week end dell’uomo bianco, sorvegliati dai ranger, vestiti come quelli dei cartoni animati di Yoghi e Bubu, che tutelano i turisti di un’America prospera e disciplinata di cui gli indiani non hanno potuto godere.




Nel 1927 uno scultore megalomane – George Borglum – costruì, su un fianco del monte Rushmore, le facce di quattro presidenti degli Usa – Washington, Jefferson, Lincoln e Theodore Roosevelt – e il monumento fu chiamato “il tempio della democrazia”.
Ma per gli indiani è il simbolo di due presidenti che del genocidio pellerossa fecero uno scopo politico erano tranquilli proprietari di schiavi. Washington e Jefferson, il “padre della Costituzione”, non facevano distinzioni tra i rossi e i neri da mettere in catene.
Anche Lincoln, il “grande emancipatore” combatté nella “guerra di Falco Nero” che spazzò gli indiani più civilizzati e pacifici del continente dall’Atlantico al Missouri.

Però i tentativi di protesta sul posto sono andati sempre male, con la polizia locale e la guardia nazionale impegnata a randellare i protestatari. Nessun americano è, ancor oggi, disposto a mettere in discussione i loro eroi.

La sera, nelle bidonville delle riserve, i vecchi cantano ancora una ballata di Arco rosso (Walter Richards-Red Bow) un cantastorie nativo che è anche un ardente poeta e, in alcune sue strofe, dice : “Se volevate essere giusti perché sul monte Rushmore non avete messo un indiano? Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, Toro Seduto (…) ? Tempio della democrazia. Tempio della libertà. Ma per voi. Ma non per me”.



                                             Red Cloud (Nuvola Rossa)





B. LA PISTA DELLE LACRIME NON E’ ANCORA FINITA ? ( 2011)


Sembra che la lotta dei pellerossa americani per essere indennizzati dal furto delle loro terre – per non parlare del genocidio di tre quarti e passa delle loro nazioni e tribù – sia giunta al termine.
Il Congresso degli Stati Uniti sta per approvare – e sembra che sia sicuro, questione di giorni - il maxirisarcimento di 3.4 miliardi dollari per le confische illegali di terreni secondo una causa avviata nel 1981 e di cui ho raccontato, già dall’86, sulla rivista “Filmcronache”.

Il loro più acceso rappresentante di allora Mario Gonzales (nome ispanizzato di Cavallo americano) è morto nel 2003 e il poeta cantastorie Arco rosso (Walter Richards-Red bow) se n’è andato già dal 1993.
I due maggiori artefici dell’inizio della causa fiscale tra gli indiani e l’uomo bianco, il capo politico e quello artistico, non hanno potuto vedere questo successo che, a distanza di trent’anni, il presidente Obama ha cercato di appianare per quanto, nel Congresso, ci siano ancora senatori pronti a giurare come, in fondo, il massacro degli indiani, lo schiavismo degli afroamericani, il razzismo sociale contro italiani e sudamericani durante la prima metà del Novecento, sia stato necessario per garantire la crescita della democrazia (?) americana.

La causa è stata dura.
Si è dovuto verificare che, dal 1915 ad oggi, sono stati inoltrate più di centocinquanta mascalzonate illegali ma circonfuse di legalità nel dipartimento del tesoro, degli interni, naturalmente in quello “per gli affari indiani” e del “Minerals management service” un’agenzia finita anche in altri scandali per mazzette dell’industria petrolifera.
E, a proposito dei pellerossa, se si fossero spesi per il loro benessere gli stessi quattrini che sono stati elargiti a funzionari federali (senatori, giudici, procuratori, dirigenti dell’Fbi) e funzionari statali (governatori, capi della polizia, deputati) per corromperli a loro sfavore, oggi gli eredi delle nazioni delle grandi pianure del Dakota potrebbero godere di parecchie garanzie socio-economiche in più.

Un’altra causa legale, che era il proseguimento di quella dell’81, è scattata nel ’94 ed ha visto protagonisti, a favore dei nativi, alcuni giganteschi studi legali con sedi un po’ dovunque ci sia da far soldi.
Ma i responsabili dei dipartimenti, né tanto meno i ministri, hanno voluto andare nel profondo della questione durante l’amministrazione Bush sr (1989-1993) e Clinton (1993-2001) cosicché il giudice distrettuale Royce Lambert, che dal 1990 segue la faccenda, ha dichiarato che la causa della mancanza di cura per i diritti reclamati dagli indiani è stata frutto di “irresponsabilità del governo nella sua peggiore forma”.
Infatti, secondo le valutazioni degli economisti arruolati da Lambert, l’ammontare del debito dovuto ai nativi è di circa centocinquanta miliardi di dollari, la somma indicata dagli avvocati dei pellerossa come richiesta di indennizzo.
Francamente mi sembra poco. Sempre che si possa quantificare l’eliminazione programmatica, nel giro di due secoli, di un popolo che viveva dalle coste dell’Atlantico a quelle del Pacifico fino all’arrivo dei primi esploratori bianchi sulle coste della Virginia agli inizi del 1600 e del mitico Mayflower sulla baia di Cape Cod l’11 novembre 1620.
E sempre che si possa quantificare come, quando gli Usa ottennero l’indipendenza, nel 1776, i nativi erano già stati evacuati, tramite sterminio, dalle spiagge occidentali alla catena dei monti Allegani che dividevano gli stati della costa dalla prima frontiera americana – quella che arriva al Mississippi – dove la questione fu risolta definitivamente, tramite deportazioni e massacro di massa – nel 1831, con la “marcia delle lacrime”, che spostò le “cinque tribù civilizzate” dalle terre di origine alle prime riserve per oltre centinaia e centinaia di miglia fatte di stenti e prigionia e, nel 1832, con la “guerra di Falco Nero” che segnò la fine delle nazioni amerinde più evolute e alfabetizzate del nord est.

Dopo la caduta dei repubblicani ci si aspettava da Clinton - militante del partito democratico fin dai tempi di Kennedy e che la moglie Hilary indicò nella prima campagna elettorale come esponente della “new left” (!) degli anni Novanta – un atteggiamento più congruo. Ma la sua amministrazione è stata dura come la precedente e la successiva.
Più che al nuovo partito democratico del “new deal” di Delano Roosevelt - o della “new frontier” di Kennedy o della “great society” di Lyndon Johnson - in questo caso il partito di Clinton ha finito con l’assomigliare di più a quello del presidente Andrew Johnson (1865-1869) che dichiarò “ Se il selvaggio oserà resistere la civiltà dell’uomo bianco, con in dieci comandamenti in mano e la spada nell’altra, il governo imporrà la sua immediata eliminazione”.

Andrew Johnson era una politicante del Tennessee (nato nella Carolina del nord) che, negli anni precedenti alla guerra di secessione, cercò di convogliare gli interessi degli stati del Sud (lo schiavismo in primo luogo) con la necessità di mantenere integra la federazione. Per questa ragione Lincoln - al quale (benché si pensi spesso il contrario) dei problemi razziali importò ben poco finché non gli furono necessari per raggiungere il suo sacrosanto scopo unitarista – lo scelse come vicepresidente, rappresentante dei sudisti moderati e unionisti.
Quando colui che era divenuto “Il grande emancipatore” fu stroncato da un colpo di rivoltella sparato da John Wilkes Booth, divenne quindi presidente un sudista che aveva parteggiato per il Nord ma non contro lo schiavismo.
E fu nella sua stagione che l’apartheid si sostituì allo schiavismo contribuendo a mantenere il partito democratico come quello dei più feroci nemici degli afroamericani che terminò soltanto con Franklyn Delano Roosevelt, il primo presidente democratico a raccogliere i voti afroamericani e mettersi in conflitto con le roccaforti del Sud del suo stesso partito, e poi con John F.Kennedy che iniziò il programma dei diritti civili per tutti che attuò ancor più concretamente Lyndon Johnson, unanimamente identificato come il responsabile dell’ “escalation”in Vietnam ma che, in politica interna, fu il presidente più a sinistra dopo Roosevelt che era stato il suo maestro.

Ricordo che, appunto fino agli anni Trenta, questa tradizione non si interruppe nemmeno con la presidenza di Woodrow Wilson (1913-1921) (il professore di scienze politiche alla Johns-Hopkins University, vincitore della prima guerra mondiale e animato assertore della “Società delle nazioni”, premio Nobel per la pace) il quale, in Europa, si batteva per la fratellanza universale ma, nel suo Paese, non si faceva scrupolo di manifestare severe posizioni sulla condizione dei neri ed era, come hanno spesso ricordato gli storici anticonformisti, fu amico fraterno di Thomas Dixon, l’autore di “The clainsman” (1905) il feroce romanzo razzista che è all’origine del separatismo novecentesco anche grazie alla versione cinematografica che ne fece David W.Griffith, nel 1915, con “Nascita di una nazione” film carismatico per i suoi valori narrativi ma abominevole per le sue teorie, a cominciare dall’elogio sperticato del Ku Klux Klan.

E come ci fu una tradizione razzista per gli afroamericani, fin dagli inizi della loro storia, gli Usa applicarono la tradizione del genocidio e della deportazione ai pellerossa.
E’ poco nota la strenua linea di differenza su cui si batterono gli inglesi per mantenere nei territori americani lo stesso criterio coloniale adottato in India.
Essi, che avevano avuto la “lega degli Irochesi” (comprendente le nazioni dei cayuga, mohawk, oneida, onondaga e seneca; abitanti nei vastissimi territori tra il Canada e gli attuali Usa occidentali, e popolazione civilissime) come alleati nella guerra contro i francesi, miravano a favorirne un mantenimento dei costumi e delle tradizioni favorendone lo sviluppo nell’agricoltura.
Ciò li spinse a incentivare la vita sociale ed economica delle comunità native.
Ma, dopo la guerra d’indipendenza, quest’ultime dovettero rifugiarsi oltre i confini del Canada che non saranno precisati fino al 1813 con relativi massacri in territori di incerta nazionalità dove coloni e boscaioli americani non furono mai sfiorati dall’idea di una pacifica convivenza con chi, prima di loro, abitava da millenni quelle zone.

Oggi come ieri, il governo degli Stati Uniti, non ritenendo gli indiani in grado di saper gestire la cultura dei loro spazi naturali, ha ribadito il diritto a sfruttare le loro risorse.
A guidare i nativi è questa volta Elouise Cobell, che fa parte della nazione dei Piedi neri, e ha fondato, nel Montana, la prima banca nazionale gestita da pellerossa. Con un apparato formato da legali e giuristi derivato da quello messo in piedi da Mario Gonzales, dal 1987, il finanziere Dennis Gingold, messosi al servizio della causa, gestisce l’istituto finanziario.
Da Gingold sono partite tremilaseicento cause che sono convogliate nell’apparentamento delle richieste fiscali espresse dalle confraternite indiane di tutti gli Usa.

Ma non è stata una passeggiata sul velluto. Il giudice distrettuale Royce Lamberth, che aveva accertato l’”irresponsabilità del governo nella sua peggiore formalità” è stato rimosso dal suo incarico. Era colpevole di avere concepito un risarcimento miliardario troppo duro con le istituzioni statali e federali. Gli è succeduto il giudice James Robertson che ha sancito, nel 1999, un risarcimento di soli 476 milioni di dollari contro i 48 miliardi richiesti dal predecessore.
Durante le primarie del 2008 sia il candidato repubblicano John McCain che quello democratico, un certo Barak Obama, promisero, tutti e due, una soluzione equa per i nativi, ben sapendo, tutti e due, che gli indiani che votano sono una tale stretta minoranza da non influenzare l’ascesa di alcun candidato.

Può stupire ma neppure Obama, che pur è di colore e conosce i problemi dell’emarginazione razziale che ancora sussistono in tutta l’Unione, non ha preso in considerazione l’opportunità di condurre i pellerossa a fianco dei neri e dei latini nella lotta per i diritti civili, assicurando ai democratici i loro voti nelle svariate contee dove sono maggioritari.
Forse gli accademici svedesi, prima di dargli il Nobel per la pace più cautelativo della storia, avrebbero dovuto sapere tutto questo. Ma essi vivono in un paese dove la democrazia egualitaria è talmente radicata da non immaginarsi nemmeno quanto sia offesa nel resto del mondo e in specie nella nazione più potente del mondo. Ecco perché sbagliano spesso questa attribuzione mentre la serietà più assoluta e la documentazione più ferrea sono alle radici degli altri premi sia in campo culturale che scientifico.

Ma, come abbiamo visto, la battaglia giuridica e finanziaria degli indiani e dei loro rappresentanti non si è fermato un giorno dai tempi di Mario Gonzales, e, alla fine, anche per coerenza della Corte Suprema e una nuova generazione approdata ai dipartimenti connessi al problema, si è arrivati alla soluzione che Dennis Gingold considera a livelli che non sarebbero superabili se non con altri due o tre secoli di discussioni tribunalizie.
Quindi, ora che il misconosciuto candidato democratico è divenuto presidente e si è preoccupato di saldare alcuni debiti storici contratti quando suo nonno era una schiavo, il segretario alla Giustizia – Eric Holder – e quello agli interni – Ken Salazar – sono giunti, nel dicembre del 2014, all’accordo sui 3,4 miliardi di dollari.
Di questi 1,4 miliardi saranno distribuiti con assegni da 500 a 1500 dollari. Spetterà alla comunità nativa stabilire i criteri di assegnazioni su scala federale. Il che significa che ci potrebbero volere anche cinque o sei anni prima che questi assegni siano incassati.
I due miliardi rimanenti serviranno per l’acquisto delle terre dai nativi ai quali, nel frattempo, saranno restituite. Considerando che nessuna tribù è costretta a vendere e nessun indiano che si sia fatto una proprietà da solo deve per forza cederla, possiamo immaginare che ci vorranno dieci anni almeno, se andrà bene, perché la cifra esca dalle casse federali e raggiunga i suoi legittimi proprietari.
Forse, dichiara Gingold, le pene sono finite ma, forse, non sono finite affatto. Può succedere di tutto nei cinque anni che occorreranno per la riscossione regolare degli assegni e per i dieci calcolati per la redistribuzione delle terre. Nel 2016 ci saranno nuove elezioni presidenziali e nemmeno si sa chi saranno i candidati dei partiti.
Se il partito repubblicano, che si è spinto a destra come non mai dimenticando quasi totalmente i principi laici della sua tradizione, dovesse presentare un candidato che esprimesse avversione verso le minoranze, le controversie coi pellerossa sarebbero le prime ad essere accantonate sine die.

 


C . NON TRASCINARMI TROPPO IN ALTO (2016)


Poco prima dell’inizio delle primarie il giudice Robertson, a cui era stato affidato il controllo del risarcimento di 3,4 miliardi di dollari agli indiani d’America, si è dimesso. Chiunque prenderà il suo posto sarà condizionato da chi sarà eletto presidente l’8 novembre 2016.
In effetti, per ora, il successore, il giudice Hogan, ha convalido tutto. Elouise Cobell nel frattempo è morta anch’essa. Uno dei suoi successori, Cobell V.Salazar (che non è parente del segretario agli interni) ha detto recentemente : ….della somma di 3,4 miliardi stanziata nel 2011 gli indiani d’America non hanno ancora visto che le briciole. L’aquila americana, simbolo orgoglioso dell’amministrazione, per i nativi continua ad essere un uccello spietato e potente che, con i suoi artigli appuntiti, può portarsi via a brandelli tutto quello che non è stato ancora incassato”.
Obama, durante i suoi mandati, non ha fatto niente per accelerare la causa. Del resto l’insofferenza che, proprio in questi giorni, si manifesta dalla sua stessa gente, la gente di colore, verso un governo che aveva promesso mari e monti ma si è rivelato timido e impacciato nella difesa dei diritti dei più deboli, dimostra che la nuova gestione del risarcimento, sempre che se ne occupi, andrà al prossimo presidente.
Se sarà eletta Hilary Clinton le speranze sono ben poche. Nel suo lunghissimo e inusitato duello col candidato democratico Bernie Sanders – socialista e radicale, che ha promesso una nuova risoluzione per risolvere in tempi brevi la distribuzione della somma affidandola ad un’equipe controllata da nativi – non ha detto una parola sulla questione. Salvo indossare il tradizionale copricapo di penne d’aquila quando ha visitato qualche comunità del west.
Ma l’aquila che ha dato le sue penne ai pellerossa non è la stessa che figura nelle icone governative americane.
Per paradosso gli indiani potrebbero più facilmente sperare in un candidato repubblicano che, animato da vocazioni populiste e per farsi perdonare le insenature razziste e scioviniste su cui scorre la politica del partito, potrebbe anche riprendere la stessa politica promessa da Sanders.

Ma l’unico candidato repubblicano capace di tali mosse, giacché i suoi nemici naturali sono stati soprattutto gli immigrati di ultima generazione e i latini, è il tremendo Donald Trump che, a parere personale di chi scrive, con tutta probabilità non vincerà le elezioni ma forse nemmeno le primarie nel partito dell’elefantino a stelle e strisce.
Finora esso è servito da efficace spauracchio per spostare i finanziamenti al partito democratico su Hillary, candidata più sicura e quindi più predisposta a sconfiggerlo (è una menzogna ma ne parleremo in un altro numero, apposito, dell’Almanacco) ma, come insegna la storia delle elezioni americane, il candidato più estremista rimane in sella finché serve.
Poi i due partiti hanno sempre trovato, nella loro bisecolare e non sempre nobile antitesi, un pretendente più moderato, più idealista ma meno colorito, più atto per questo a giustificare la sconfitta, come tante nobili figure di radicali (pensiamo a Henry Wallace e ad Adlaj Stevenson oltre naturalmente a Bernie Sanders benché ancora deciso a far pagare duramente i suoi voti alla signora Clinton e al suo entourage di miliardari) come di tante grotteschi personaggi dell’estrema destra (pensiamo a Barry Goldwater o recentemente a Sarah Palin che forse farà ancora in tempo a cambiare faccia) e, dai tempi in cui Reagan ha completamente affossato il welfare roosveltiano che nemmeno Nixon aveva osato manomettere del tutto, democratici e repubblicani si ritroveranno nella convinzione che il sistema funziona abbastanza perché nulla cambi di sostanziale.

Cosa potrebbero fare, in questa situazione, gli indiani d’America. Ben poco come sempre. Gli artigli dell’aquila americana si avvicinano sempre più al loro sacrosanto risarcimento, ottenuto con tanta fatica e sul genocidio di un intero popolo, e minacciano di privarli di ciò che, finché non c’è stato, fu una solida speranza per cui combattere.
Ora che c’è ma è sostanzialmente negato promette d’essere l’avvio, per i nativi, di una nuova età di disillusione e distacco dalla società in cui, bene o male, sarebbero costretti a vivere. Ma di cui, coerentemente e giustamente, continuano a diffidare. Fine

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Nella foto : Audrey Hepbun in “Gli inesorabili” (1960) di John Huston. 


Anche l’eterea diva hollywoodiana, di nazionalità inglese e inizialmente cresciuta tra Belgio e Olanda, fu una delle tante attrici bianche ad interpretare il personaggio di una pellerossa. Le capitò in questo film di grande successo dove, forse contrariamente a quanto inizialmente auspicato dal regista e dal protagonista maschile (Burt Lancaster) che ne era produttore, deve scegliere, in un contesto tanto contradittorio quanto feroce, fra il fratello comanche che la vuole riportare alla tribù e la famiglia di coloni che l’ha adottata. E, per risolvere efficacemente il conflitto che è in lei, finisce immancabilmente con l’uccidere il fratello indiano e accasarsi col fratellastro bianco. Anche se non è stato l’unico caso, raramente il cinema americano, dal dopoguerra in poi, ha raccontato una storia così crudele e dall’inequivocabile partigianeria razziale. E ciò è così evidente proprio perché gli autori e la produzione rappresentavano l’America intellettuale apparentemente più disponibile al risarcimento morale degli indiani d’America. Ma, nel gestire un soggetto simile, non riuscirono, inconsapevolmente, a rinnegare le radici storiche dell’incompatibilità tra coloni americani e amerindi.




Settembre-Ottobre 2016






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