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sabato 13 novembre 2010
ETICA E POLITICA IN MACHIAVELLI di Michele Nobile
ETICA E POLITICA IN MACHIAVELLI
di Michele Nobile
1. Il problema posto da Machiavelli
In qualsiasi lingua, «machiavellico» è aggettivo che qualifica comportamenti e un modo di essere moralmente deprecabili: è relativo all’azione astuta, all’inganno e alla slealtà che preparano trappole letali, alla ricerca del potere fine a se stessa e alla sua spietata e cinica amministrazione. «Machiavellico» è sinonimo di nichilismo morale. In questa prospettiva, il pensiero di Machiavelli può essere inteso come la prima anticipazione moderna del «totalitarismo» e della «politica di potenza» spinta fino alla costruzione di arsenali nucleari in grado di distruggere la civiltà, se non la vita.
Quel che è accaduto al nome di Machiavelli non è fatto insolito: i nomi di diverse personalità sono diventati radici di parole indicanti qualcosa che, spesso, ha poco o nulla a che fare con il pensiero, l’azione e i fini dell’individuo reale [1]. Il meccanismo tipico è l’aggiunta del suffisso ismo (o esimo) o, per lo più in funzione dispregiativa e ad opera dei nemici del personaggio in questione.
Nel caso di Niccolò Machiavelli, perché accadde? Una prima risposta è questa:
«La dottrina machiavellica fu come un pugnale che, conficcato nel corpo politico della umanità occidentale, le strappò grida di dolore e ribellione. Non poteva accadere diversamente; questa dottrina feriva a sangue non solo il sentimento morale naturale, ma anche il sentimento cristiano di tutte le chiese e di tutte le sette, minacciando così di spezzare il più forte vincolo unitario degli uomini e dei popoli, la più alta forza spirituale che dominasse i loro animi» [2].
Ma perché feriva tanto il sentimento cristiano? Non per professione di ateismo o per eterodossie teologiche, o perché Machiavelli proponesse ai singoli comportamenti e criteri di giudizio morale diversi da quelli esistenti. Il fatto rivoluzionario consisteva nel considerare la religione nel suo significato terreno: per i suoi effetti sulle virtù civili dei singoli in quanto cittadini (o sudditi) e sulla forza dell’ordinamento politico, sull’esempio pagano romano-repubblicano, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (d’ora in poi opera indicata solo come Discorsi); nel considerare criticamente, e in modo radicalmente negativo, il ruolo storico dello Stato della Chiesa nonché la moralità degli alti prelati; e nell’assumere anche la religiosità come strumento per la conquista e il mantenimento del potere, nel famigerato Principe.
Infine, a coronare questo approccio, v’era la tesi che nel ragionare di politica e della cosa pubblica occorre partire da quel che è, non da ciò che dovrebbe essere in base ai precetti cristiani, pur validi nell’ambito privato.
Nel campo della politica la Chiesa e la religione venivano dunque radicalmente relativizzate e mondanizzate, le altezze celesti riportate alla «bassezza» del terrestre: il procedimento argomentativo si separava dagli assoluti dogmatici e teologici, sovvertendo così quanto consacrato da una tradizione millenaria. Si intende perché il Principe, in particolare, potesse essere considerato un libro satanico e tutte le opere del Machiavelli fossero poste al bando dalla Chiesa già nel primo Index librorum prohibitorum del 1558 (insieme al De monarchia di Dante e al Decameron di Boccaccio, tra i tanti altri).
Con ciò iniziava a porsi una questione che, attraverso secoli di storia reale e di pensiero politico, continua ancora oggi ad essere fondamentale per il destino della società umana: quella del rapporto tra i mezzi e il fine dell’agire politico.
La questione è di speciale interesse per chi il mondo intende cambiarlo: si tratta di sapere se un fine determinato possa essere raggiunto con qualsiasi mezzo o se, al contrario, l’impiego di certi mezzi sia tale da produrre un risultato diverso o opposto a quello che ci si era prefissi. Nel mondo moderno questo è il problema fondamentale dei movimenti e dei partiti socialisti, per i quali i mezzi impiegati sono stati o il riformismo, con il risultato dell’integrazione nello Stato e nel sistema capitalistico, o la dittatura partitico-statale sui lavoratori, in nome e per conto degli stessi e del socialismo, in realtà contro gli uni e l’altro.
Per quel che riguarda la produzione teorica, si tratta del rapporto tra la comprensione di quel che è, e di quel che si fa, da una parte, e la prescrizione di quel che dovrebbe essere, e si dovrebbe fare, dall’altra. Il che rimanda alla questione di cosa sia la comprensione scientifica del mondo sociale, al rapporto tra la teoria e la prassi, e tra la teoria e i valori: quindi, al valore, al senso, al metodo e ai contenuti di ogni produzione culturale della vita sociale.
Non si tratta «semplicemente» del valore e del contenuto dell’azione politica. Quel che è in discussione sono il valore e il contenuto della vita sociale, di quel che essa è e di quel che essa dovrebbe essere: e, se si accetta che l’essere umano è per sua natura «sociale» («politico», cioè della comunità cittadina, diceva Aristotele), allora si tratta anche del senso della vita (o di una parte essenziale di essa) di ciascun individuo.
La tesi che sostengo è che il pensiero di Machiavelli non corrisponda affatto al «machiavellismo»: che, a partire dal realistico riconoscimento di quel che è, i mezzi proposti fossero in lui coerenti con un fine determinato, che salvaguardava, su basi diverse da quelle tradizionali, una eticità della politica. Machiavelli è sinonimo di alta politica.
2. Una rivoluzione «copernicana» nella riflessione sulla società.
Non possono esserci dubbi sul fatto che Niccolò Machiavelli sia l’iniziatore della riflessione moderna, «scientifica», sulla società o, in termini più restrittivi ma non scorretti, che
«La grandezza di Machiavelli consiste nel fatto che agli albori della nuova società egli ha riconosciuto la possibilità di una scienza della politica che nei suoi principî corrisponde alla fisica e alla psicologia moderne, e di averne formulato in modo semplice e preciso i lineamenti fondamentali» [3].
La relativizzazione della religione corrispondeva all’autonomizzazione del discorso politico: parte integrante, e cronologicamente prima, della formazione del pensiero scientifico come comprensione razionale del mondo sociale e naturale.
La modernità di Machiavelli risiede nel suo approccio integralmente mondano e immanentistico ai problemi della fondazione e della gestione dello Stato e nella discussione del ruolo che nella dinamica politica hanno le classi e le forze sociali (definite approssimativamente). Esistono delle determinate ragioni storiche, non solo locali, italiane e fiorentine, ma anche europee, per cui la riflessione sulla società inizi dal problema del potere politico e dello Stato; ma, considerando l’insieme dell’opera di Machiavelli, in particolare il Principe e i Discorsi [4], è chiaro che il problema politico, della forma del potere e dei modi di usarlo (e, quindi, anche la questione militare, nell’Arte della guerra), è in lui strettamente connesso a quello dei rapporti tra i gruppi sociali fondamentali. Dentro il discorso sulla politica c’è dunque un discorso sulla natura sociale della politica e della costituzione dello Stato, fondato sull’esperienza e sull’osservazione diretta e sull’osservazione indiretta dei casi storici: e questo particolare naturalismo è quanto, nello stesso tempo, avvicina e differenzia Machiavelli dai filosofi naturalisti rinascimentali, quali Pietro Pomponazzi (1462-1525), tra gli aristotelici eterodossi. Si tratta di un naturalismo integralmente storico, sociale e sperimentale che, in effetti, avvicina metodologicamente Machiavelli più ai protagonisti della rivoluzione astronomica, iniziatori della moderna scienza fisica, a Copernico (1473-1543), Galilei e Keplero, che allo stile argomentativo filosofico.
Machiavelli allontanò completamente il trascendente dalla storia sociale e, con questo, compì una peculiare rivoluzione, speculare a quella astronomica. Questa, facendo della Terra un satellite del Sole, iniziava a ripensare l’ordine cosmico annullando la differenza tra mondo sublunare e sfere celesti: la scienza della natura si faceva strada spodestando l’umanità dal centro dell’universo. Machiavelli, invece, pose l’uomo in carne ed ossa, con la sua intelligenza e la sua psicologia, con gli interessi e le passioni, grandezze e meschinità, quale autore della propria storia.
Ciò si vede bene dal modo in cui Machiavelli trattò gli esempi biblici (Moisé), la Chiesa e i papi, la responsabilità principale del papato nella rovina d’Italia, e la religione in generale, e la cristiana in particolare, non solo come strumento del potere ma nella sua funzione sociale. Discutendo del perché gli antichi amassero la libertà più dei moderni e, quindi, del perché nell’antichità vi fossero più repubbliche che nei suoi tempi, scrisse:
«La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle» (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, 2, corsivi miei.).
Il cristianesimo come «oppio dei popoli», dunque: il che non è poco, benché semplicistico; e dimostra quanto radicalmente mondano fosse l’approccio di Machiavelli. L’interpretazione partiva dalla verità effettuale degli effetti osservati e, da qui, risaliva a «leggi» generali, con un movimento concettuale opposto a quello tipico dello stile argomentativo filosofico e, semmai, più vicino a quello della nuova fisica sperimentale non aristotelica.
Il modo assolutamente spregiudicato con cui Machiavelli trattò la massima autorità morale europea era espressione di una visione «materialista» della storia, che contrastava non solo con il modello scolastico medievale dello speculum principis, lo «specchio del principe perfetto», ma anche con l’idealizzazione del principe che ancora persisteva negli umanisti quattrocenteschi, malgrado in questi i motivi e le virtù mondane avessero sostituito quelli religiosi. Della novità del suo approccio Machiavelli era, e si dichiarava, consapevole ed orgoglioso (ad es., si vedano la Dedica e l’inizio del cp. XV del Principe).
L’obiettivo politico della trattatistica dell’Umanesimo del secondo ‘400 era la legittimazione del potere signorile, per lo più nuovo e usurpatore; sul piano del metodo, la tradizione medioevale si ripresentava, ma trasformata, nella identificazione «tra il principe ideale e l’essere umano ideale» [5], che ciò avvenisse sui modelli del buon padre di famiglia, come in Leon Battista Alberti, o del re-filosofo come in Marsilio Ficino. Nel neoplatonismo di quest’ultimo «re» non era il detentore di una carica istituzionale e di un potere reale, ma l’uomo più saggio ed integro. A confronto del catalogo di virtù, cristiane o laiche, di altri autori, i capitoli dal quindicesimo al diciannovesimo del Principe costituiscono una specie di anti-catalogo (in particolare nell’enumerazione degli opposti nel XVI capitolo), per il quale il concetto di virtù è spogliato di ogni attributo che non sia propriamente politico e basato sull’esperienza. Un esempio, oltre a quelli ovvi: alla magnificentia spendacciona del Principe umanistico-rinascimentale, Machiavelli opponeva che
«di quello che non è tuo, o di sudditi tua, si può essere più largo donatore: come fu Ciro, Cesare et Alessandro; perché lo spendere quello d’altri non ti toglie reputazione, ma te ne aggiugne; solamente lo spendere el tuo è quello che ti nuoce. E non ci è cosa che consumi sé stessa quanto la liberalità: la quale mentre che tu usi, perdi la facultà di usarla; e diventi, o povero e contennendo, o, per fuggire la povertà, rapace et odioso. Et intra tutte le cose di che uno principe si debbe guardare, è lo essere contennendo et odioso; e la liberalità all'una e l'altra cosa ti conduce. Per tanto è più sapienzia tenersi el nome del misero, che partorisce una infamia sanza odio, che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce una infamia con odio».
Si noti come la liberalità principesca sia da evitarsi anche per non estorcere denaro ai sudditi. Meglio taccagno che povero o rapace.
3. Il machiavellico antimachiavellismo.
La lotta contro gli aspetti rivoluzionari di Machiavelli ebbe (e ha) due forme: «gli uni combatterono a caso contro di lui come contro il demone malvagio, gli altri combattevano anche ostentatamente contro di esso, ma ne prendevano a prestito le dottrine» [6].
Lasciando da parte la pura e semplice demonizzazione, fatto notevole è che l’anti-machiavellismo è essenzialmente un «machiavellismo» travestito, edulcorato e diretto a fini diversi da quelli del Machiavelli.
La riflessione del fiorentino verteva intorno ai «principati al tutto nuovi e di principe e di stato», in concreto sull’obiettivo politico della fondazione di uno Stato nella particolare situazione dell’Italia del primo ‘500, ad opera di una figura non dissimile dal condottiere che da «privato» sapesse farsi principe: e se la virtù politica e militare richiede prudenza, in Machiavelli l’enfasi cadeva sull’audacia e l’impetuosità, sul saper osare per dar forma nuova alla materia politica. La sua fu essenzialmente teorizzazione dell’azione che, perché radicale e costruttiva, non poteva che essere spregiudicata.
La «bestialità» del principe non rappresenta solo la necessità dell’impiego della guerra e dell’astuzia per espandere un principato. Essa rappresenta concretamente il fatto che l’impiego della forza è la condizione affinché possa costruirsi un nuovo ordinamento istituzionale, il primato dei rapporti di forza politici e sociali rispetto alla «legge». Il legalitarismo è, come il legittimismo dinastico, essenzialmente conservatore, il modo nel quale una violenza costitutiva cerca di assicurare se stessa dagli imitatori e di mettere al bando una violenza innovatrice. La complementarietà tra azione violenta, distruttiva di un dato ordine, e di azione normativa costruttiva è chiara nei Discorsi, dove il principe è non solo capo militare ma legislatore.
Qui è in essenza la distinzione corrente tra quell’insieme di teorie politiche dette «realistiche» e l’altro insieme di teorie dette «normativistiche (o «idealistiche»): le prime assumono o partono da ciò che è ed enfatizzano l’importanza dei rapporti di forza, delle risorse materiali, degli interessi sociali e politici (e statali); le altre sono accomunate dall’enfasi su ciò che deve essere, sulla base del diritto esistente o di un principio di giustizia. L’utilità di questa dicotomia è però limitata: perché in ciascuno di quegli insiemi sono comprese prospettive politiche opposte, conservatrici, riformatrici, rivoluzionarie. Se un approccio realistico si limita ad assumere quel che esiste, la sua prospettiva politico-sociale sarà conservatrice; viceversa, una prospettiva di trasformazione sociale necessariamente si fonda su un’idea di quel che deve essere e su una qualche idea di quel che è giustizia. Il carattere più o meno scientifico e radicale di una prospettiva politica risiede nel modo in cui concretamente si combinano quel che sono, genericamente, il «realismo» e l’«idealismo», la comprensione del mondo come è e il modo in cui quel mondo si vuole trasformare, in una formula, dal rapporto tra i mezzi ed i fini.
L’obiettivo politico dei teorici successivi fu invece legittimare e stabilizzare gli Stati esistenti quali si erano venuti evolvendo sul tronco delle monarchie medievali; il concetto fondamentale intorno al quale ragionavano i militanti gesuiti della Controriforma era quello della ragion di Stato, così definita da Giovanni Botero (1544?-1617) nel 1589:
«Stato è un dominio fermo sopra popoli e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio così fatto. Egli è vero che, sebbene assolutamente parlando ella si stende alle tre parti suddette, nondimeno pare che più strettamente abbracci la conservazione che l’altre, e dell’altre più l’ampliazione che la fondazione, imperocché la Ragione di Stato suppone il prencipe e lo Stato (quello quasi come artefice, questo come materia), che non suppone, anzi, la fondazione affatto, l’ampliazione, in parte, precede» [7].
In questi teorici della ragion di Stato, scrisse Federico Chabod,
«invece della passionale fede del Machiavelli, che parlava al Principe, ma non gli sacrificava la sua dignità di uomo, si faceva luce un pacato e accorto consigliare di chi sapeva di accettare un ufficio»;
«Non era meraviglia quindi se riapparivano in gran copia anche gli spiccioli precetti machiavellici, ripresi e svolti, anzi, con sí profonda indifferenza d’animo, con tale quietudine di accento, da fare avvertire che ogni sentimento personale era morto; se il Botero rivolgeva al suo monarca precetti non dissimili dai tanto esecrati assiomi del Fiorentino, mentre il Rivadeneyra rinveniva formule di squisita eleganza per acquetare ogni scrupolo»;
Ma «il nuovo questa volta non consisteva più in un allargamento delle basi sociali dello Stato e dell’entità spirituale del suo capo, ma nell’accordo tra lo Stato e la Chiesa, nel compromesso tra il monarca e la Curia pontificia, che concedeva al sovrano il suo appoggio a condizione di penetrare nei più intimi recessi della vita pubblica. Lo Stato confessionale trionfava; e il concreto si era l’intromissione della Chiesa nell’atto singolo di governo, per mezzo degli ordini religiosi, dei confessori e dei consiglieri canonici dei principi» [8].
Se Machiavelli dichiarava apertamente che «a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo», saper essere golpe e lione, adoperare le leggi quanto la forza brutale, il principe degli anti-machiavelliani, pur comportandosi bestialmente, non è più definibile bestia, a condizione che usi «ogni studio e diligenza per introdurre la religione e la pietà e per accrescerla nel suo Stato» e che prima di deliberare nel consiglio di Stato passi attraverso un «conseglio di conscienza, nel quale intervenissero dottori eccellenti in teologia ed in ragione canonica». Il manto religioso copre il lupo principesco. Mentre Machiavelli proclamava la strumentalità dell’apparire pio cristiano del principe, o inclinava verso una religiosità civile di marca romano-repubblicana, della religiosità i gesuiti valorizzavano proprio la sua funzione «oppiacea»:
«la religione è quasi madre d’ogni virtù; rende i sudditi obedienti al suo principe, coraggiosi nell’imprese, arditi ne’ pericoli, larghi ne’ bisogni, pronti in ogni necessità della republica, concosiaché sanno che, servendo il prencipe, fanno servizio a Dio, di cui egli tiene il luogo».
Botero ricorda poi il consiglio di Mecenate a Augusto Cesare: onora Dio, «perché quelli che alterano la religione, spingono molti all’alterazione delle cose, onde nascono congiure, sedizioni e conventicole: cose poco a proposito per il principato» [9].
Questi furono gli uomini che consideravano Machiavelli Organum Satanae, inventarono il «machiavellico», che ritenevano che «l’insegnare ex professo i modi e i mezzi d’operare per ragione di Stato ne’ rei governi è opera non da uomini onorati ma da scrittori iniqui ed empi, come il Machiavello e i seguaci suoi» [10].
Come spiego più avanti, nella virtù del principe di Machiavelli è compreso un aspetto fondamentale della formazione dello Stato moderno, il superamento della decentralizzazione del potere politico-militare, che era tipica della società feudale. Ma, paradossalmente, furono proprio gli antimachiavellici a formulare il concetto della assoluta sovranità dello Stato. Nei Six Livres de la République (1576) di Jean Bodin [11] : «Per sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato» e «la sovranità non è limitata né quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo» (libro I, VIII). Da ciò conseguivano precetti «machiavellici»: «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso» e «Il principe che giuri di osservare le leggi civili si trova costretto o ad abdicare alla sua sovranità o a divenire spergiuro» (libro I, VIII).
Il principe di Machiavelli doveva farsi temere dal popolo, ma guardarsi bene dal farsi odiare, essendo la sua spietatezza rivolta essenzialmente contro i potenti:
«si astenga dalla roba de' sua cittadini e de' sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta; ma, sopra tutto, astenersi dalla roba d'altri; perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio» (Il principe, cp. XVII).
Ma nel caso del sovrano assoluto
«non è lecito ad alcuno, né a un suddito in particolare, né a tutti i sudditi a titolo collettivo, attentare alla vita e all’onore del monarca, abbia pur questi commesso tutte le malvagità empietà e crudeltà che si possono enumerare» (Six Livres, l. II, V).
Il progresso di Bodin su Machiavelli è nella elaborazione della nozione di sovranità nella sua purezza, come potere assoluto, incontrollabile e senza uguali; e sull’onda della rivoluzione inglese, nel paese che per primo si avviava sulla strada del capitalismo, Hobbes dimostrerà un secolo dopo come l’individualismo, che nello «stato di natura» si manifesta nella lotta di tutti contro tutti, richieda un sovrano assoluto (nel Leviatano, 1651; in quanto monarchico Hobbes visse a lungo in esilio a Parigi) [12]. L’assolutezza del potere, sia il regime politico dittatoriale o parlamentare, è la caratteristica fondamentale dello Stato moderno come apparato di potere specializzato e separato dai cittadini. E’ in questa assolutezza che risiede la possibilità che, in determinate congiunture storiche, lo Stato da liberale assuma la forma del fascismo, del tutto compatibile con il capitalismo proprio perché questo presuppone che i poteri economici e quelli politici si concentrino in istituzioni specializzate e separate, le imprese e lo Stato. In un approccio marxiano questa separazione è il modo specifico nel quale si articolano il modo di produzione e si organizza il potere della classe dominante; in un approccio liberale, inversamente, quella separazione è condizione della libertà economica (privata) e della libertà politica (dei cittadini). Nel caso dei paesi detti socialisti, la valutazione da un punto di vista «interno», cioè con criteri marxiani è relativamente semplice: in questi l’assolutezza dello Stato ha origine da una rottura col capitalismo, ma essa esprime un fatto comune con il capitalismo: che il potere politico ed economico non è socializzato, ma monopolio di una casta burocratica che domina i lavoratori. Marxianamente, invece, l’emancipazione può essere opera solo degli sfruttati non di un partito o dello Stato: i poteri economici e politici dovrebbero essere socializzati, cioè ri-uniti e gestiti direttamente da istituti dei lavoratori.
Al confronto il principe machiavelliano, nonostante il suo «machiavellismo», appare come una figura sfocata, concettualmente incerta, un avventuriero come tanti condottieri italiani dell’epoca: si è detto che a Machiavelli mancasse il senso del fattore della legittimità dinastica e che confondeva il mercenariato delle compagni di ventura italiane, in vendita al miglior offerente, con il mercenariato delle grandi monarchie europee, direttamente controllato dallo Stato sovrano. Le osservazioni sono giuste; ma il punto è che il fine di Machiavelli non era l’assolutismo del sovrano.
4. La verità e il fine politico
All’inizio dei Discorsi Machiavelli scrisse:
«Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti pericoloso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassimo».
I modi e gli ordini nuovi della politica costituiscono dunque un’avventura pericolosa come l’esplorazione del Mare Oceano e delle terre incognite del Nuovo mondo, da poco scoperto. Come in diversi luoghi del Principe, c’è qui la consapevolezza e l’orgoglio di fare qualcosa di nuovo, di produrre, come uno degli artisti suoi contemporanei, un’opera mai vista; e traspare anche la consapevolezza che quel che si fa non sarà gradito a molti. La novità non è nei fatti, ma nel metodo, nell’intendere operare «sanza alcuno rispetto» se non della «verità effettuale».
Che l’opera di Machiavelli sia stata teoricamente rivoluzionaria e fondativa del discorso moderno sulla politica (e sulla società) è assodato. La considerazione è però, a mio parere, non sufficiente alla piena comprensione del come e del perché ciò sia potuto accadere, perché proprio in quel momento, in quell’area politico-culturale, per mano di quell’uomo. Ma, ancor più importante è che, limitandosi a constatare la «rivoluzionarietà» del metodo, si può elevare il Fiorentino nell’Olimpo dei grandi pensatori mentre, nello stesso tempo, si perde di vista una questione che è della massima rilevanza per la comprensione del pensiero sociale, e in particolare di quello più critico ed innovativo: quella del rapporto, genetico e funzionale, tra la pratica e la teoria, tra la visione del mondo e gli obiettivi politici da essa conseguenti, da una parte, e la riflessione consapevole (teorica) sul mondo sociale.
La tesi che sostengo è che la radicalità teorica di Machiavelli non è separabile dalla radicalità della sua visione della situazione storica e dai suoi obiettivi politici. In questa prospettiva l’esortazione a liberare l’Italia dai barbari, o più precisamente a costruire un principato nuovo mediante la virtù d’un principe nuovo, non è affatto, come spesso sostenuto, una sorta di ornamento retorico, né è espressione dei limiti della visione di Machiavelli, un appello che sarebbe utopistico perché risultante da insufficienti strumenti intellettuali.
Fu la radicalità del fine ad aprire una via non «ancora da alcuno trita», fu l’intento di voler andare alla radice della situazione storica a rendere possibile la produzione di una teoria rivoluzionaria dell’agire politico.
Se è così, allora Il principe di Machiavelli ci dice, obiettivamente, che la scienza non è tale perché avalutativa, che la scientificità non è caratterizzata dalla distanza da valori «extrascientifici», dal suo essere «pura» e «disinteressata», separata da consapevoli finalità politiche. La questione da porre, semmai, è altra: quale prospettiva storico-sociale (che comprende dei consapevoli fini politici) permette di sviluppare una comprensione «scientifica» della società? Se la scienza moderna nasce rompendo con la subordinazione del pensiero all’auctorictas dei testi sacri, per afferrare il vero nel mondo sociale non pare sia questione di allontanare i valori dalla teoria, quanto di quali valori si tratta. La capacità di scavare in profondità per raggiungere le radici dei fatti, per spiegarli nelle loro cause «ultime» e derivare «leggi» della vita sociale, in altri termini ciò che ragionevolmente può dirsi scienza della società, allora, lungi dall’essere l’antitesi dell’impegno esplicito, della passione, dei valori, sembra essere direttamente proporzionale alla radicalità dei fini.
Il nesso tra scientificità del metodo e radicalità della prospettiva politica si manifesta anche nello stile di Machiavelli nel Principe, nel procedere del ragionamento per alternative segnate da «o» disgiuntive: come Machiavelli rifuggiva dall’ornamento zuccheroso e dalla prosa involuta necessaria a giustificare e inzuccherare la prassi reale, così rifuggiva dalle mezze misure. Il tutto è complicato dal fatto che tempi diversi richiedono modi diversi, che la difficoltà dell’essere virtuosi (nel suo senso) è anche la difficoltà di adattare la pratica al variare della «fortuna»: che come le donne, scrisse, è «amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano» (cp. XXV). Qui non si tratta solo dell’immaginazione che interviene a coprire un vuoto concettuale. Nell’immagine della fortuna-donna si rappresenta concretamente una verità dell’agire politico, tanto più dell’alta politica fondatrice di qualcosa di nuovo: il fatto che la politica è lotta che comporta rischi elevati, sicché l’esito è sempre incerto e tanto più quanto è fiacca l’azione nella situazione critica, che presenta una biforcazione delle vie e la necessità di metodi che forzino ad entrare in quella nuova. Ma questa determinazione pratica richiede pure saldezza del fine.
Paradossalmente, colui che è diventato la personificazione dell’azione senza scrupoli e del nichilismo morale iniziò la scienza sociale perché animato da valori e passione.
Il che aiuta a risolvere il paradosso interpretativo individuato da coloro che, come Rousseau o Diderot, riabilitarono Machiavelli come travestito smascheratore dell’iniquità del potere
«Quando Machiavelli scrisse il suo trattato del principe, è come se avesse detto ai suoi concittadini: leggete bene quest’opera. Se mai accetterete un padrone, egli sarà così come ve lo dipingo: ecco la bestia feroce alla quale vi abbandonerete. Così è colpa dei suoi contemporanei se non riconobbero il suo fine: presero una satira per un elogio» (voce «Machiavellismo» nell’Enciclopedia, quasi certamente di Diderot).
Giudizio analogo in Rousseau: «fingendo di dare delle lezioni ai re, egli ne ha dato di grandi ai popoli. Il principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani» [13].
Non è condivisibile che Il principe fosse, in realtà, una satira e che Machiavelli intendesse così rivelare, mascherandola da elogio, l’iniquità del potere. Il punto non è così semplice e lineare e moralmente soddisfacente: il principe nuovo era per lui un’autentica necessità. E però, obiettivamente, il paradosso resta: per l’autentico «machiavellismo» non è possibile scrivere un’opera come Il principe, per la quale la verità effettuale è rivelata senza fronzoli in tutta la sua «bestialità»
«La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare».
Il «machiavellismo» pratico richiede, come minimo, quella che Torquato Accetto chiamava dissimulazione onesta:
«pur si concede talor il mutar manto per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con l’intenzion di fare, ma di non patir danno, ch’è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si vuol valere della dissimulazione, che però non è frode», purché «si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene».
La menzogna è vizio, ma nascondere la verità è applicazione della virtù della prudenza. Se la virtù machiavellica è aspra e sulfurea, ma schietta e senza ornamenti e addolcimenti, Accetto intende «di rappresentar il serpente e la colomba insieme, con intenzion di raddolcir il veleno dell'uno e custodir il candor dell'altra» [14]. Tipico dell’ambiguità «gesuitica» controriformistica, perché il confine tra la dissimulazione onesta e la disonesta simulazione è breve, specie se entrambe hanno come motivazione il «non patir danno» e il «minor male».
I veri «machiavellici» furono, e sono, gli epigoni anti-machiavellici: furono costoro gli autentici consiglieri dei principi, di cui legittimarono la prassi perché compiuta dal potere come tale e al fine di conservare quel determinato potere, ma battezzato cristiano. Aveva ragione Accetto nel dire che «in sostanza, il dissimular è una professione, della quale non si può far professione se non nella scola del proprio pensiero» [15]. Simulazione, dissimulazione, argomentazioni «barocche» e discorsi «vuoti» di contenuti concreti e «pieni» di proclamazioni ideali sono tanto più necessari quanto più i mezzi si allontanano dal fine e la politica è «bassa».
5. Il fine politico di Machiavelli.
Ma quale era la prospettiva storico-sociale e l’obiettivo politico di Machiavelli?
Si consideri questo passo, nella Dedica del Principe:
«perché, cosí come coloro che disegnono e' paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongano alto sopra monti, similmente, a conoscere bene la natura de' populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de' principi, bisogna essere populare».
Nel Principe, opera «monarchica», dalla quale si possono trarre i precetti per la costruzione di uno Stato assolutistico (e che, quindi, ridimensioni l’autonomia politica dei grandi signori feudali) il punto di vista di Machiavelli sul principe, come si dà nel suo stile comparativo e concreto, è esplicitamente «populare». I concetti più importanti di questo e del precedente paragrafo coincidono ampiamente con l’interpretazione di Gramsci:
«Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito”. Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva”».
E poco dopo:
«Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo “genericamente” inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro “logico” non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato» [16].
La figura del principe machiavelliano ha un rilievo plastico, fatto di luce e ombra, se non oscurità; è, ancora con Gramsci, un emblema della grande o alta politica. Ma non era una figura «mitica: tale può esser detto tale solo in considerazione del fatto che l’obiettivo di costruire uno Stato nuovo nell’Italia centrale, in prospettiva abbracciante l’intera penisola, non si poté realizzare. Ancora, questo è, se si vuole l’aspetto «utopistico» del fine machiavelliano: ma ciò è solo retrospettivamente. Col senno di poi della fase storica conclusa, e dei secoli trascorsi, tutte le possibilità che non si sono realizzate sono catalogabili come «utopie» astratte, di cui può darsi razionale spiegazione. In questo caso, ad esempio, bisogna ben chiedersi quale «popolo» avrebbe dovuto coagularsi intorno al nuovo principe e quale Stato, in definitiva sarebbe risultato dal nuovo principato, e con quale contenuto sociale. Insomma, non è difficile vedere le mancanze dell’iniziatore, ma proprio per questo occorre guardarsi dall’anacronismo [17].
La possibilità non si è realizzata, nondimeno ciò non vuol dire che l’obiettivo di Machiavelli fosse un’«utopia» nel senso comunemente impiegato, di qualcosa d’impossibile o di estraneo al tempo e allo spazio determinati:
«Ma basta conoscere a grandi linee la storia della costituzione degli Stati nazionali per vedere che Machiavelli non fa altro che pensare le condizioni di esistenza e di classe di quella formazione di transizione tra il feudalesimo e il capitalismo che è la monarchia assoluta» [18].
Secondo Althusser, Machiavelli poneva il problema italiano in una prospettiva politica, e sociale, europea: occorreva costruire uno Stato unitario, nel quale «con il suo potere il principe popolare tenga a distanza la lotta di classe tra i grandi e il popolo, a vantaggio del popolo» [19], che poi sarebbe l’emergente borghesia. Il modello è dunque quello dello Stato assolutistico interpretato come campo di forze in equilibrio tra antichi poteri feudali e nuova iniziativa sociale «popolare», cioè borghese, che a lungo termine gioca a favore della seconda. Quella di Machiavelli era, nel quadro europeo, l’unica prospettiva realistica possibile: recuperare il tempo perso e costruire uno Stato nazionale. Il problema non è quindi in un presunto «utopismo» di Machiavelli, ma nella contraddizione reale dell’Italia dell’epoca, che si trovava a subire, dopo essere stata all’avanguardia in tutti i campi (e proprio per questo), «il vantaggio dell’ultimo arrivato»: quello di essere superata, sulla strada dell’assolutismo, dalle monarchie di Francia e Spagna, di ben altre dimensioni «nazionali» piuttosto che regionali, e, in particolare la seconda, arricchita del tesoro americano.
E’ una posizione condivisibile, con due importanti qualificazioni. La prima è che la società nella quale sorse lo Stato assolutistico, se pur definibile di transizione (al capitalismo), possa considerarsi in modo assai diverso dal modello dell’«equilibrio» tra forze sociali arbitrato dal monarca. Questa è un’interpretazione che vede, insieme, l’importante novità dell’emergere dello Stato assolutistico e la relativa continuità del potere aristocratico di origine medioevale:
«Nella sua essenza, l’assolutismo fu proprio questo: un apparato di dominio feudale ripristinato e reimpiegato col preciso scopo di respingere le masse contadine nella loro posizione sociale tradizionale, nonostante i risultati conquistati con la diffusa commutazione dei censi e in aperta opposizione a essa. In altre parole, lo Stato assoluto non fu mai l’arbitro dello scontro tra borghesia e aristocrazia, e ancor meno rappresentò uno strumento dell’ancor giovane borghesia contro l’aristocrazia: esso fu invece la nuova crosta politica di una nobiltà minacciata» nel quale «la proprietà fondiaria tese a divenire sempre meno “condizionata”, mentre la sovranità diventava in corrispondente misura più “assoluta”» [20].
A parte la questione della caratterizzazione della natura sociale degli Stati assolutistici europei (bisogna pur rendere conto delle rivoluzioni anti-assolutistiche, inglese e francese), l’altra qualificazione, peraltro presente in Althusser, è che la «popolarità» di Machiavelli si concretizza nel fatto che lo Stato forte e che dura, capace di difendersi e di espandersi, non era per lui quello monarchico ma la repubblica con costituzione mista. Il realismo politico del Fiorentino è dato anche dal fatto che egli distingueva il momento della fondazione dello Stato dalla forma e dall’ordinamento dello Stato che dura, dall’assetto definitivo dello Stato: nel primo momento l’elemento della forza e della guida centralizzata è in primissimo piano, tanto che
«Debbe adunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda» (cp. XIV)
e il «redentore» dell’esortazione finale deve aver chiaro che «tutt'i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono» (cp. VII). Non si fonda un ordine nuovo senza violenza e senza armi proprie. Se si tiene bene a mente la differenza tra i due momenti, scompare anche l’apparente contraddittorietà tra Il principe e I discorsi sulla prima deca di Tito Livio, tra il momento principesco, del condottiero, e quello repubblicano. Del resto, anche nei Discorsi Machiavelli sottolineava il potere monocratico nel momento fondativo:
«E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione» (Discorsi, l. I, 9, p. 90.).
Sempre nei Discorsi, c’è un passaggio sul potere monocratico:
«Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere» (Discorsi, l. I, 9, p. 90.)
da confrontarsi con uno analogo nel Principe:
«nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo» (Principe, XVIII)
Questi sono i passi che si possono ridurre alla massima: il fine giustifica i mezzi. E in questo caso per fine si intende la conquista e il mantenimento del potere, di qualsiasi potere: così che il dominio, svincolato da ogni limite, diventa un fine in sé. «Machiavellismo», appunto.
Ma se si fa attenzione, si vedrà Machiavelli pone la questione in modo meno semplice di quanto appaia a prima vista o, meglio, di come risulti dalla nota formula, che non è sua.
Innanzitutto, nel passo del Principe citato, le azioni del principe possono essere giustificate perché hanno successo e perché nessun principe che ha successo può essere portato davanti ad un tribunale («dove non è iudizio da reclamare»). Come a dire che la forza vince la legge: un assioma del realismo politico-sociale contrapposto all’idealismo normativistico e legalitario. I processi li fanno solo i vincitori.
Ma il punto più interessante è che nei Discorsi l’«effetto» che giustifica i mezzi non è un effetto qualsiasi: Machiavelli non sta lodando qualsiasi tipo di potere, purché vigente. Quel che loda è la virtù del capo capace di fondare e «ordinare» uno Stato, e di farlo in modo tale che l’esercizio del potere cessi di essere monocratico:
«Se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo» (Discorsi, l. I, 9, p. 90.).
Il repubblicanesimo di Machiavelli è un tutt’uno con la sua idea di Stato forte; e lo Stato più forte è quello dotato di capacità espansiva, come Roma piuttosto che Sparta o Venezia: e se Roma è l’esempio, ciò è per ragioni che, considerando l’importanza che nei secoli a venire avranno la subordinazione del suddito, l’armonia e la pace sociale e, nei nostri giorni, la «governabilità» rispetto alla «rappresentatività» e al conflitto sociale, suonano del tutto eterodosse:
«Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta, fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei, non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco» (Discorsi, l. I, 6, Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica, p. 85.).
Uno Stato forte richiede dunque un «popolo numeroso ed armato» che non è manovrabile a piacere né da un monarca né da una ristretta oligarchia. Non solo:
«Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero». (ibidem, pp. 82-83.)
Discorsi, l. I, 6, pp. 82-83.
E’ stupefacente che nel XVI si trovi una concezione della politica così dinamica e radicata nella materia sociale, per la quale il conflitto sociale non è un male necessario da tollerare e da minimizzare, ma parte necessaria, positiva e costruttiva della vita politica: le buone leggi nascono dalla lotta tra classi diverse, dai tumulti del popolo contro il Senato. L’ammirazione di Machiavelli per la Repubblica romana nasceva dalla forza che essa fu capace di esprimere nella combinazione di Principato, potere degli Ottimati (il Senato, o il principio aristocratico), e Popolo. Una costituzione mista che «fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato» (Discorsi, l. I, 2.). La Repubblica romana è qui idealizzata, ma è vivente esempio politico, non fatto d’antiquariato; sarebbe anacronistico attribuire a Machiavelli una patente di democratico, ma nel conflittuale dualismo istituzionale e sociale tra Plebe e Senato c’è più «democrazia» che nella riduzione a procedura elettorale demagogico-oligarchica che oggi passa per tale. Se c’è qualcosa di «utopistico» in Machiavelli è proprio questo voler far rivivere la libertà (idealizzata) della repubblica romana.
Il repubblicanesimo machiavelliano non è assente neanche dal Principe, opera «monarchica». Ad esempio, si sente un orgoglio repubblicano, nel quinto capitolo:
«più facilmente si tiene una città usa a vivere libera con il mezzo de' sua cittadini, che in alcuno altro modo, volendola preservare»; «Ma nelle repubbliche è maggiore vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi».
Nel IX capitolo (Del Principato Civile) si trova anche l’idea della superiorità etico-politica del popolo rispetto ai «grandi»:
«Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi; e nasce da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare et opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de' tre effetti, o principato o libertà o licenzia»;
«Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a' grandi e sanza iniuria d'altri, ma sí bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. Preterea, del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi; de' grandi si può assicurare, per essere pochi».
Nel Principe la differenza di interessi del popolo e dei grandi è centrale per il successo del principe e del principato nuovo, nonché nella spiegazione della situazione italiana: se «re di Napoli, duca di Milano et altri» hanno perso il regno «si vedrà alcuno di loro o che avuto inimici e' populi, o, se arà avuto el popolo amico, non si sarà saputo assicurare de' grandi» (cp. XXIV, Per quale cagione li principi di Italia hanno perso li stati loro.). Regnando contro il popolo non si dura, ma gli esempi del Turco a positivo, del Regno di Francia a negativo, mostrano che una burocrazia dipendente dal principe o dei grandi troppo potenti sono, rispettivamente, causa di forza e di debolezza dello Stato (cp. IV).
Due compiti sono essenziali per il principe nuovo. Il primo è centralizzare il potere, stroncando l’autonomia politica dei grandi, ovvero dei magnati che combinano potere economico e politico. Incarnata nel principe, questa è già la creazione della sovranità moderna. Gran parte del realismo e dell’«immoralismo» del principe è legato a questo primo compito, «assicurarsi» dei grandi in ogni modo: sono questi a minacciare direttamente il principe, ed è nei loro confronti che esso deve esercitare le virtù della volpe e del leone.
L’altro è la fedeltà del popolo, e questa è condizione delle «armi proprie»:
«Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi e' sua sudditi; anzi, quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati; perché, armandosi, quelle arme diventono tua, diventono fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli che erano fedeli si mantengono e di sudditi si fanno tua partigiani» (cp. XX).
Il popolo armato è l’anello di congiunzione tra il Principato e la Repubblica, campo della lotta tra i «dua umori diversi»: le «armi proprie» del principe sono l’embrione della milizia repubblicana, realizzata secoli dopo dalla repubblica rivoluzionaria francese in nome di liberté, egalité, fraternité. Qui i mezzi ed il fine si congiungono, molto meglio che nei sostenitori di una politica «etica» che esporta democrazia e libertà sulle ali dei bombardieri.
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Bibliografia
-Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, (1641), in Politici e moralisti del Seicento, a cura di Benedetto Croce e Santino Caramella, G. Laterza, Bari 1930.
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-Perry Anderson, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980.
-Jean Bodin, I sei libri dello Stato (1576), a cura di M. Isnardi Parente, Torino 1964.
-Giovanni Botero, Della ragion di Stato, (1589), a cura di L. Firpo, Torino 1948, e Donzelli, Roma 1997.
-Federico Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1993.
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-Antonio Gramsci, «Noterelle sul Machiavelli» (1932-1934), in Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975.
-Max Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia, Einaudi, Torino 1978.
-Niccolò Machiavelli, Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1971.
-C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, ISEDI, Milano 1973.
-Friedrich Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, (1924), Sansoni, Firenze 1977.
-Alberto Tenenti, Stato: un'idea, una logica. Dal comune italiano all'assolutismo francese, Il Mulino, Bologna, 1987.
-Ludovico Zuccolo, Della ragion di Stato, (1621), in Politici e moralisti del Seicento, a cura di Benedetto Croce e Santino Caramella, G. Laterza, Bari 1930.
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Note
[1] E’ il caso di Cristo e di Marx, tra i massimi: è un rischio al quale i rivoluzionari sono più esposti dei mediocri.
[2] Friedrich Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Sansoni, Firenze 1977, p. 49; prima ed. Monaco-Berlino 1924.
[3] Max Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia, Einaudi, Torino 1978, p. 5, corsivo mio; prima ed. Frankfurt am Main 1930. Si intende, dal titolo del libro, che Machiavelli è interpretato come iniziatore del pensiero storico borghese. La genesi sociale, però, non invalida il fatto che quel pensiero possa essere stato un progresso verso la verità: relativizzare non significa destituire di qualsiasi fondamento.
[4] Questi vennero iniziati nel ritiro di San Casciano nel 1513, sospesi per scrivere Il Principe e poi ripresi.
[5] Felix Gilbert, «Il concetto umanistico di principe e Il principe di Machiavelli» (1939), in Machiavelli e il suo tempo, il Mulino, Bologna 1977.
[6] Friedrich Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Sansoni, Firenze 1977, p. 50.
[7] Giovanni Botero, Della Ragion di Stato, l. I, 1, a cura di L. Firpo, UTET, Torino 1948, p. 55, corsivi miei.
[8] Federico Chabod, «Del Principe di Niccolò Machiavelli» (1925), in Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1993, pp. 128, 129, 130.
[9] Giovanni Botero, op. cit., l. II, XV.
[10] Ludovico Zuccolo, Della ragion di Stato, 1621, in Politici e moralisti del Seicento, a cura di Benedetto Croce e Santino Caramella, G. Laterza, Bari 1930.
[11] Jean Bodin, I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente, Torino 1964.
[12] Hobbes compendia nel modo logicamente più rigoroso, e perciò poco utilizzabile al fine della legittimazione degli Stati liberali, i principi di quello che Macpherson chiama l’individualismo possessivo, comuni sia alla linea ideologica assolutistica che a quella liberale.
1) Ciò che rende umano un uomo è l’essere libero dalla dipendenza dalle volontà altrui.
2) Libertà da tale dipendenza significa libertà da qualsiasi relazione con gli altri, tranne quelle che individuo intraprende spontaneamente nel proprio interesse.
3) L’individuo è essenzialmente proprietario della propria persona e delle proprie capacità, per cui non deve nulla alla società.
4) L’individuo non può alienare in modo totale la propria persona, ma può alienare la propria capacità lavorativa.
5) La società umana consiste in una serie di relazioni mercantili.
6) La libertà può essere limitata solo da obblighi e norme necessari per assicurare ad altri la stessa libertà.
7) La società politica è un’invenzione dell’uomo per la tutela della proprietà individuale della propria persona e dei propri beni, quindi per il mantenimento di relazioni mercantili disciplinate tra individui proprietari di se stessi. C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, ISEDI,Milano 1973, p. 298
[13] Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale, l. III, cp. VI «Della monarchia».
[14] Ludovico Zuccolo, op. cit., cp. I.
[15] Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, cp. V, in Politici e moralisti del Seicento, pp. 151-152.
[16] Antonio Gramsci, «Noterelle sul Machiavelli» (1932-1934), in Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1555, 1556.
[17] Semmai, bisognerebbe rileggere criticamente il trasferimento gramsciano nel partito comunista e leninista di alcuni dei caratteri «antropomorfici» ed elitari del principe machiavelliano, a scapito della gestione diretta del potere da parte dei lavoratori.
[18] Louis Althusser, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, p. 167.
[19] ibidem, p. 167.
[20] Perry Anderson, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980, pp. 20, 21, corsivi miei.
Un articolo davvero interessante e chiarificatore su molti aspetti dell'etica e della scienza politica del Rinascimento che poi saranno ripresi, per la critica della morale cattolico ecclesiastica, da F.W. Nietzsche, che quasi sicuramente trasse anche dal Machiavelli la sua concezione di una trasvalutazione dei valori, fondamento anche di ciò che definiva "grande politica". Sarebbe auspicabile un suo approfondimento su tale argomento, che evidenziasse meglio in quale misura il pensiero Rinascimentale in generale e del Machiavelli in particolare, possa attraverso l'elaborazione nietzschiana informare ed ispirare un processo di trasformazione della società in senso socialista e di superamento della fase critica del capitalismo avanzato e della globalizzazione del mercato, con tutto ciò che questo comporta nel coinvolgimento di valori morali, condizioni esistenziali e significato del rapporto uomo-natura (e progresso scientifico-tecnologico). Grazie per il fantastico articolo. Antonio
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