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lunedì 15 novembre 2010
«DA CLAUSEWITZ ALLA GUERRA MODERNA:
“tendenza all’estremo” e rischio nucleare»
di Michele Nobile
Tra i tanti scritti sulle guerre, la guerra e le questioni internazionali, questo fa coppia con un altro articolo: «Armamenti e accumulazione nel capitalismo sviluppato», Giano n. 56, giugno-luglio 2007.
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«Abbiamo voluto soltanto dimostrare che ogni epoca ha le sue proprie forme di guerra, le sue condizioni restrittive, i suoi pregiudizi. Ogni epoca dovrebbe dunque avere anche la sua teoria speciale della guerra, anche se si fosse disposti in tutti i tempi a concretarla secondo criteri puramente razionali» (1)
Questo è, a mio parere, il passo metodologicamente più importante del Vom Kriege di Carl von Clausewitz. Posto al termine di un breve excursus storico e quasi sociologico sulle trasformazioni della guerra, esso condensa anche ciò che differenzia l’approccio clausewitziano non solo dalle teorie «idealistiche» o liberali o cosmopolitiche del rapporto tra pace e guerra, ma anche da quelle neorealistiche.
Per Clausewitz le guerre del suo tempo costituivano una discontinuità che andava compresa con concetti storicamente determinati. Di esse enfatizzava la sinergia tra forze vive di natura sociale e la centralità dei fattori «morali» e spirituali. Dal talento e dal coup d’oeil del comandante alla virtù militare dell’esercito e al sentimento nazionale, i fattori «morali» sono assai difficili da valutare, «sfuggono al sapere attinto nei libri, non si lasciano ridurre in cifre né in categorie; debbono essere veduti e sentiti» (Clausewitz, p. 184), producono dinamiche impreviste. Ne risultano una concezione non lineare della dinamica bellica, congenitamente esposta all’incertezza, e il rifiuto del «metodismo» volto ad astrarre unilateralmente aspetti di una totalità complessa ed a fornire schemi geometrici e formule «a tavolino».
Il neorealismo si serve invece della storia per illustrare concetti, primo fra tutti quello dell’equilibrio di potenza, che non sono, a loro volta, storicamente determinati; divarica la dinamica della struttura del sistema interstatale (multi o bipolare, in equilibrio o sbilanciato) dalle dinamiche interne e, analogamente, l’economia dalla politica, considerando essenzialmente la variazione dei rapporti di forza sul piano materiale.
Gli approcci liberali e cosmopolitici vanno oltre le dicotomie tipiche del neorealismo. Essi si scontrano però con quella che pare una tendenza insopprimibile della guerra moderna, colta teoricamente dal Clausewitz quando ancora muoveva i suoi primi passi: la tendenza a oltrepassare tutti i limiti, la «tendenza agli estremi» (die Tendenz zum Äußersten).
Per contrastare la «tendenza agli estremi» occorre riconoscerne la realtà e definirne le ragioni nella totalità sociale in cui essa si radica. Il significato della celeberrima tesi
«La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» (Clausewitz, p. 38.).
va approfondito chiedendosi quale sia la peculiarità del potere di classe che assume la forma del «dis-incorporamento» dei rapporti economici dallo Stato, per dirla con Polanyi.
Andare oltre Clausewitz significa allora svilupparne la lezione superando le concezioni che riducono il complesso (la totalità sociale) e l’articolazione dell’economico e del politico, del nazionale e del mondiale, al semplice.
Il riduzionismo politico strutturalista del neorealismo, il riduzionismo economico del liberalismo e il riduzionismo legalistico del «pacifismo cosmopolitico», con diverse intersezioni e combinazioni tra i diversi approcci, scaturiscono appunto dalla constatazione e dall’assenza di una spiegazione di quel del «dis-incorporamento». Le diverse forme di riduzionismo comportano in definitiva la feticizzazione dello Stato (e del sistema degli Stati) e/o dell’economia, ovvero delle strutture fondamentali dell’ordine esistente e della violenza. E questo è il motivo per cui la metodologia delle teorie riduzioniste è, in senso lato, positivistica. Esse sono orientate al problem-solving il cui fine è stabilizzare gli stessi rapporti sociali che generano i problemi affrontati, si tratti della guerra o della povertà o del clima globale, della struttura del sistema interstatale o dell’economia mondiale (2).
Da ciò anche la divaricazione tra l’analisi di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, del Sein e del Sollen, particolarmente marcata proprio quando si parla di pace e di guerra.
Le teorie delle relazioni internazionali presentano un’omologia concettuale con la teoria economica ortodossa: come in questa si tratta di calcolare le condizioni dell’equilibrio e le ragioni per cui la realtà si discosta da esso. Ma il sistema conduce a crisi proprio perché non è mai in equilibrio: il dinamismo dell’economia capitalistica si basa proprio su questo suo continuo oltrepassare i limiti. E’ semmai la crisi il momento in cui si stabilisce un parziale e temporaneo equilibrio, e nuovi rapporti di di potere economico e sociale, attraverso la svalorizzazione e la distruzione di risorse.
Clausewitz intendeva la guerra come la «soluzione sanguinosa di una crisi» (Clausewitz, p. 57). Un processo nel quale, mediante la distruzione della forza militare dell’avversario e della sua volontà di lotta, si perviene alla decisione (Entscheidung) circa il rapporto di potere.
La guerra aperta è dunque propria di un momento particolare del rapporto di potere, quello in cui esso viene posto in discussione. Ma essa è anche immanente a quel rapporto, un suo prodotto.
Bisogna chiedersi quali siano le peculiarità storiche della totalità sociale che genera la tendenza all’ascesa verso l’estremo.
2 La violenza che dobbiamo fare all’avversario dipende dalla grandezza delle reciproche pretese politiche
L’immagine con cui si apre il Vom Kriege è quella della guerra come un duello, nel quale i contendenti sono spinti, dalla reciprocità delle azioni, ad una tensione estrema delle forze fisiche, della fatica e della sofferenza (Körperlicher Anstrengungen und Leiden: le parole di Clausewitz rimandano alla fisicità).
Ma, scrisse il Clausewitz, nel mondo reale intervengono delle «modificazioni»: altrimenti, sulla base del solo concetto astratto, «saremmo condotti ad estremi i quali sarebbero semplici giochi del pensiero, seguenti un filo appena visibile di sottigliezze logiche» (Clausewitz, p. 23). In breve, la guerra reale « non è atto completamente isolato», senza nessi con la vita politica che la precede; «non consiste in un solo urto istantaneo»; l’esito «non deve essere considerato assoluto e definitivo; lo Stato vinto non vi scorge spesso che un male transitorio, al quale i rapporti politici avvenire possono apportare un rimedio» (Clausewitz, p. 27). Sono queste le ragioni che, insieme all’attrito, possono moderare la lotta, impedendone lo sviluppo fino alla possibilità estrema dell’annientamento e del completo soggiogamento del nemico.
La discussione tra gli interpreti di Clausewitz è stata alimentata proprio dalla distinzione tra guerra ideale e reale e dalla diversità di accenti sui loro rapporti che corre tra il primo libro del Vom Kriege, l’ultimo ad essere scritto ed il solo che l’autore considerava compiuto, e l’ottavo libro, nel quale Clausewitz giudicò la guerra con obiettivi limitati (quindi con predominanza della politica) una Halbding, alla lettera una «mezza-cosa». Ai rapporti tra i due tipi di guerra si connette anche la divisione tra chi ha considerato il prussiano un fanatico apostolo dell’offensiva e della guerra totale e chi, invece, ha scorto nei suoi argomenti la possibilità di moderare le pulsioni bellicistiche attraverso il primato della politica.
A ben vedere, del duello rimangono nella guerra solo l’ostilità e la mortale reciprocità. Più che modello ideale della guerra il duello definisce ciò che la guerra non è, cioè «un’unico colpo senza durata» (einem einzigen Schlag ohne Dauer) o una serie di colpi simultanei, qualcosa che non ha un prima né un dopo, che non ha una storia. Quell’esempio iniziale astrae dalla totalità dei rapporti sociali che conferisce alla guerra le sue cause e le sue caratteristiche. Ma per Clausewitz ogni guerra si definiva invece come un processo complesso sottoposto a vincoli, attriti, carenze informative, incertezze, asimmetrie di potenza e di scopi, «fattori morali», da un insieme di condizioni proprie di uno spazio-tempo sociale e naturale determinato. Ogni guerra è uno svolgimento intrinsecamente politico, non solo per la decisione iniziale e per il risultato finale ma, anche, nel suo «mezzo»: ad esempio nel considerare se i risultati conseguiti nell’esercizio del mezzo della guerra non possano portare a modificarne il fine politico. Ciò che può effettivamente differenziare tipologicamente le guerre in effetti non è la loro distanza dal caso del duello, ma l’importanza e la durata degli interessi in conflitto: «la violenza che dobbiamo fare all’avversario dipende dalla grandezza delle reciproche pretese politiche» (Clausewitz, p. 781). La guerra in cui più forte è l’impulso ad ascendere verso gli estremi dello sforzo, della passione e dello scatenamento della violenza, in cui la guerra appare nella sua «assolutezza», sarà dunque proprio quella dove più alta è la posta politica in gioco: la guerra per l’egemonia, regionale o planetaria, la guerra costituente (3), e anche, si può aggiungere dopo Clausewitz, la guerra in cui in discussione sono le basi di classe dell’ordine nazionale e internazionale.
3 La nuova qualità della guerra e dello Stato
La peculiarità della guerra moderna si rivelò a Clausewitz a partire dall’esperienza
«la guerra, divenendo dapprima per l’una parte poi per l’altra una causa nazionale, cambiò interamente di natura; o piuttosto si avvicinò molto alla sua essenza originaria, alla sua perfezione assoluta. I mezzi impiegati non ebbero più limiti» (Clausewitz, p. 793, corsivo mio).
Volendo, il passo può essere interpretato hegelianamente come il compiuto realizzarsi nel tempo presente dell’essenza della guerra; questione analoga pone l’idea marxiana secondo cui «l’anatomia dell’uomo fornisce la chiave per l’anatomia della scimmia». Ma a mio parere sia Clausewitz che Marx intendevano sottolineare non la continuità di sviluppo di un’essenza ma, al contrario, la discontinuità dell’epoca rispetto a quelle precedenti.
E’ proprio la differenza qualitativa del rapporto sociale capitalistico rispetto a tutte le altre forme sociali che, per Marx, consente di elaborare categorie generali come ricambio organico tra società e natura» che esistono sempre in forme determinate; oppure di chiarire perché il «mercato» e la «moneta» sono presupposti del capitalismo e nello stesso tempo cambiano di qualità quando sono posti dal capitalismo stesso.
Senza voler fare di Clausewitz un dialettico proto-marxista e senza pretendere di ricondurre la sua opera nell’ambito concettuale di una qualche tendenza della filosofia tedesca (della quale pure si avverte la suggestione e la spinta a comprendere teoricamente), credo che una lettura di questo tipo sia coerente con la necessità che per ogni epoca si dia una «teoria speciale della guerra» e con la critica della riduzione della teoria della guerra « ad una specie di operazione algebrica». Clausewitz non teorizzò dei caratteri invarianti della guerra ma sentì forte la discontinuità della guerra moderna: una lezione per quei teorici che sentono di poter applicare le stesse «astrazioni indeterminate» alla guerra del Peloponneso, a quella del 1618-1648 e fino ed oltre la «guerra fredda». Ciò è palese nel rapporto che egli stesso stabilì tra realtà storica e genesi della teoria:
«Sono le ultime guerre che hanno reso possibile alla teoria di adempiere a questo compito in modo efficace. Senza questi esempi ammonitori della potenza distruttrice dell’elemento scatenato, la teoria griderebbe invano nel deserto: nessuno crederebbe possibile ciò che tutti hanno visto recentemente» (Clausewitz, p. 777).
Si tratta delle guerre della Rivoluzione francese e di Bonaparte, l’erede del Termidoro antigiacobino che seppe genialmente sviluppare le potenzialità militari dello Stato-nazione scaturito dalla rivoluzione. E’ a partire dalla discontinuità, posta da Clausewitz nei termini del rapporto tra guerra e politica e da Marx in termini di modo di produzione, che ci si può chiedere se esista una logica sociale di sviluppo della guerra moderna o, se si vuole, un «finalismo» storicamente determinato che conduce ad una sua forma «perfetta».
Il trattato clausewitziano è la razionalizzazione, dal punto di vista militare, di un momento cruciale e decisivo del lungo processo di formazione dello Stato moderno. Se le grandi guerre tra il XVI° e XVIII° secolo furono l’impulso più potente per lo sviluppo di un apparato amministrativo che, con le sue ramificazioni, superò la frammentazione della sovranità tipica del feudalesimo, la guerra condotta con truppe mercenarie al fine della contrattazione politica tra apparati dinastici era però altra cosa dalla guerra in cui, con la rivoluzione politica, la levée en masse e la Marsigliese, entrava in scena un nuovo soggetto: il popolo-nazione.
Clausewitz escludeva che le «ultime guerre» potessero intendersi come meri «affari del governo» al pari di quelle degli Stati assolutistici del ‘700. Se considerava il governo l’elemento della «pura e semplice ragione», il popolo-nazione portava nella guerra la «violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto»: seconda tendenza dell’ «aspetto totale» (Gesamterscheinungen) e trinitario (Dreifaltigkeit) del fenomeno della guerra, mutevole come un camaleonte. La terza tendenza è il «gioco delle probabilità e del caso, che imprimono alla guerra il carattere di una libera attività dell’anima», di cui sono soggetti il condottiero e il suo esercito (Clausewitz, p. 40).
Alla maniera di Foucault è possibile considerare il triedo della guerra come parte di un insieme di pratiche e di discorsi volti a disciplinare la popolazione: in questo caso si tratta di organizzarne la mobilitazione, e l’offerta dei corpi, e di produrre il consenso politico per la guerra (4). Ma si trattava, appunto, di un modo nuovo di fare e pensare la guerra nel quale si esprimeva la crisi dello Stato assolutistico e l’emergere di una nuova realtà della statualità.
La nazione come soggetto di passione ma oggetto indiviso della direzione politico-militare strategica sollecita a riflettere sul carattere artificiale del popolo-nazione, a intenderlo non come presupposto dello Stato ma come qualcosa che è posto dallo Stato moderno o che, comunque, si definisce in rapporto alla lotta per un proprio Stato (5). Questo permette di riconoscere le potenzialità «totalitarie» e bellicistiche della statualità, alle quali concorrono due tendenze: quella a «chiudere» un territorio, omogeneizzandolo, e quella a proiettare la potenza dello Stato al di là dei suoi confini. Il razzismo, la pulizia etnica e i «muri» di frontiera, così come la deumanizzazione e l’annientamento della popolazione e delle strutture della vita sociale del nemico, sono tendenze complementari e sempre presenti, presentando intensità e articolandosi tra loro a seconda del modo di combinarsi delle dinamiche politiche interne e internazionali. La «giustificazione» dello scatenamento del terrore di Stato può valersi anche di argomenti arcaici e della ricostruzione di una tradizione remota, ma è potenzialmente contenuta nella modernissima realtà politica del popolo-nazione e nella feticizzazione dello Stato, ovvero nel suo porsi come unità di neutralizzazione degli antagonismi sociali, si diano questi all’interno od all’esterno dei suoi confini. Si tratta di una logica che si presenta con modi e meccanismi causali diversi nelle diverse configurazioni dell’economia mondiale e del sistema internazionale degli Stati, ma la cui operatività si è vista e si vede nei conflitti scaturiti dalla fine dei «socialismi di Stato» (dalla ex Jugoslavia alla ex Unione Sovietica) e dalla crisi degli Stati post-coloniali africani nonché, su scala incomparabilmente più vasta, nelle tesi ispirate allo «scontro di civiltà» e della lotta al male assoluto del «terrorismo fondamentalista».
Carl Schmitt aveva buone ragioni per considerare la relazione amico/nemico come costitutiva del politico e il sovrano colui che, al limite, può decidere lo stato di eccezione. Respingere nell’inconscio politico il fatto che la capacità di esercitare la violenza, interna ed esterna, è condizione costitutiva ed esistenziale dello Stato e del complesso dei suoi apparati, compresi quelli civili e d’intervento economico e sociale degli Stati detti liberaldemocratici, è una forma di patologia teorica.
4 L’incertezza di tutti i dati
I termini della trinità governo-popolo-esercito sono come poli magnetici d’attrazione (Anziehungspunkten, centri di attrazione) che agiscono in ciascuno dei campi e nella totalità superiore che è la lotta stessa, di modo che la loro sinergia conferisce alla guerra una natura «camaleontica» e una dinamica nella quale le previsioni iniziali possono rovesciarsi.
La natura essenzialmente interattiva della guerra ne fa quindi qualcosa di indissociabile dall’«incertezza di tutti i dati» (Ungewißheit aller Datis): «L’arte della guerra si muove nel campo delle forze viventi e delle forze morali e non può quindi mai raggiungere l’assoluto e la certezza. Le restano dovunque, nei grandi casi come nei minimi eventi, larghe lacune per l’improvviso e l’ignoto» (Clausewitz, p. 36).
E’ la natura dell’oggetto che invalida l’utilità di una dottrina positiva o scientifica della guerra: tanto più si sale nella scala gerarchica e si passa dalla preparazione alla condotta della guerra, dalla tattica alla strategia, tanto più rilevanti diventano i fattori «morali». In guerra «i fatti sono così variabili e molteplici da rendere impossibile un imperativo così universale da meritare il nome di legge» e «nessun genere di attività umana è così costantemente e generalmente in rapporto con il caso, come la guerra. Ma con il caso viene ad avere anche gran parte l’elemento incertezza, e con questo l’elemento fortuna» (Clausewitz, pp. 133 e 35).
Si può accostare la guerra alla scienza a causa della sua natura sperimentale, ma l’esperienza di cui parlava il Clausewitz non è riducibile ad un metodo «scientifico» di stampo deterministico. Scopo di una teoria della guerra che sia utile alla prassi è spingere alla riflessione (Betrachtung) su di essa, guidando così lo spirito del futuro comandante all’educazione di se stesso (Clausewitz, p. 118). Ma essa, in definitiva, non è né arte né scienza: la guerra appartiene «al dominio della vita sociale».
Occorre allora un «tatto del raziocinio» che sappia discriminare grandezze e condizioni ma che è distinto dalla deduzione rigorosa, che deve considerare le alleanze e i possibili effetti della guerra su altri stati e gli scopi e le forze di entrambe le parti: «il carattere del Governo e della nazione avversa e delle loro attitudini a fare anche altrettanto per quanto riguarda noi». Entra in gioco una tale massa di «multiformi e molteplici elementi così variamente intrecciantisi» da dar luogo «ad un problema d’algebra capace di spaventare un Newton» (Clausewitz, p. 782).
In termini contemporanei quelle del Clausewitz possono intendersi come indicazioni per l’analisi delle «percezioni» nei rapporti internazionali. Ma anche per qualcosa di più.
Il discorso di Clausewitz è aperto non solo alla rischiosità, che può essere affrontata con il calcolo delle probabilità, ma alla più radicale incertezza per la quale mancano le basi per calcolare la probabilità. Si tratta di questione di grande importanza nella critica del postulato della conoscenza perfetta e delle proprietà di equilibrio spontaneo del mercato (6). E si tratta anche di questione rilevante per comprendere la dinamica di quelle guerre che sfuggono alle convenzioni ed alle aspettative fiduciose.
Si considerino le attuali situazioni di crisi politico-militare in Afghanistan, in Libano, in Iraq, in Palestina, in Colombia, in Cecenia. Si ha l’impressione che i capi politici e militari delle grandi potenze, forti dell’accertata capacità di distruzione dei loro eserciti e del calcolo dei rapporti materiali, applichino quella «certa abilità meccanica» che è cosa diversa dall’intelligenza del «genio» politico e militare.
Essi finiscono però con scontrarsi con resistenze popolari la cui tenacia, assurda in base al mero calcolo delle forze materiali, è però comprensibile in forza di fattori «morali» e sociali che rovesciano gli esiti previsti dai pianificatori del terrore.
A questa non-intelligenza della complessità e multidimensionalità del fenomeno delle resistenze popolari non si può supplire «meccanicamente» con la propaganda, il rafforzamento delle operazioni di spionaggio e di provocazione, il controllo tecnologico delle comunicazioni e la sorveglianza dallo spazio. Come la guerra statunitense in Indocina ha già dimostrato, spedire più truppe in Iraq ed allargare il conflitto ad altri Stati della regione è impresa ad alto rischio e che, nella sua unilateralità, può creare difficoltà anche agli alleati più volenterosi.
5 L’industrializzazione della guerra, il capitalismo e la guerra totale
In due volumi dedicati alla critica del materialismo storico Anthony Giddens, indubbiamente uno dei massimi sociologi viventi, ha respinto l’opposizione tra le moderne società «occidentali», capitalistiche ed industrializzate, e le «società militari» tradizionali, sostenendo con forza che le guerre siano state un fondamentale fattore nella trasformazione della società moderna.
La riflessione più interessante di Giddens è forse quella per cui quanto più si differenzia il potere civile da quello militare, tanto più si accresce la dipendenza dei militari dalla produzione civile nel quadro dell’autorità statale.
Eppure, Giddens ritiene che l’industria fornisca solo i mezzi della guerra, essendo quest’ultima risultato non di un «vorace capitalismo in espansione» ma degli Stati-nazione (7)
Viene così riproposta la dicotomia tra statualità ed economia che oggi viene spesso argomentata, in omaggio alla cosiddetta globalizzazione, mediante il contrasto tra due principii di diversa natura: quello «territoriale» dello Stato e quello «cosmopolitico» del capitale (8).
Se l’economia è assunta solo come «base» della potenza militare perde in determinatezza sociale: così la guerra, in sostanza, perderà la sua specificità storica: sarà sempre la stessa «cosa», soltanto resa più distruttiva a causa del progresso tecnologico. Con la riduzione dell’industria alla dimensione tecnico-materiale non si potrà rendere conto di quella fondamentale peculiarità del capitalismo che è la necessità (endogena) dell’innovazione tecnologica ed organizzativa, ai fini non solo della competizione tra i molteplici capitali ma, in modo più fondamentale, dell’estrazione tendenzialmente illimitata di lavoro vivo, ovvero della crescita della produttività della forza-lavoro «libera». Se questa peculiarità del sistema non spiega perché si facciano determinate guerre, l’industrializzazione della guerra e l’ascesa continua nel perfezionamento tecnologico delle capacità distruttive dei suoi mezzi risultano però inseparabili dallo sviluppo di questo determinato rapporto sociale.
D’altra parte, se i rapporti sociali di produzione sono rapporti di potere tra classi, si intende che essi non possano essere separati, né nella dimensione nazionale né in quella internazionale, dalla possibilità di crisi sanguinose. Ponendo il rapporto sociale in questi termini si può rompere l’unità potenzialmente «totalitaria» del popolo-nazione intorno allo Stato ed alla guerra.
Inoltre, il capitalismo ha determinato la possibilità e la necessità di coinvolgere direttamente nella guerra l’insieme delle capacità produttive e della popolazione, facendo delle città bersagli strategici, proprio perché ha sviluppato una divisione del lavoro sociale di complessità e integrazione senza precedenti storici. Anche la cancellazione della differenza tra fronte e retrovie e tra forze militari e forze civili rivela l’omogeneità tra sfera del potere economico e sfera del potere statale.
Paradossalmente, è proprio il sistema sociale nel quale il potere di gestione dei mezzi della ricchezza economica si separa strutturalmente dal potere di esercitare la violenza, e nel quale l’apparato militare è, di norma, più dipendente dall’apparato civile, che genera le condizioni materiali e politiche dell’ascesa della guerra verso l’estremo.
6 La «rivoluzione nucleare»
Clausewitz si chiese se le guerre future avrebbero ancora una volta mostrato la tendenza all’estremo, al dispiegamento della «potenza assoluta». Senza addentrarsi nell’argomento, rispose che è «improbabile che le guerre conservino sempre, d’ora in poi, questo carattere grandioso, quanto che vengano ristabilite le barriere artificiali che le sono state una volta aperte» e che «quegli intralci i quali, in certo qual modo, esistevano solo per chi mancava della coscienza di quanto sia possibile compiere, una volta eliminati non potranno esser facilmente ristabiliti» (Clausewitz, pp. 794-795). Questo nell’ottavo libro; nel primo scrisse che nella guerra tra le nazioni civili sono i «rapporti sociali che la determinano, la limitano, la moderano». Ma, subito precisò, «mai si potrà introdurre un principio moderatore nell’essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità». In effetti, il motivo per cui «i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi» è semplicemente il fatto che l’intelligenza «ha loro rivelato l’esistenza di mezzi d’impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell’istinto».
Sicché «la guerra, essendo atto di violenza, ha necessarie attinenze col sentimento; se essa non ne trae origine, vi farà capo tuttavia più o meno, a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto» (Clausewitz, 21).
Dopo Clausewitz, dopo le guerre di conquista o di repressione coloniale, specialmente a partire dal 1914, la storia ha dimostrato al di là di qualsiasi dubbio che nelle «nazioni civili» le pulsioni di morte ed i «sentimenti di ostilità» possono essere artatamente manipolati ed asserviti mediante le tecniche materiali e organizzative più moderne.
Per Raymond Aron «Clausewitz provava davanti alla guerra spinta ai suoi estremi una specie di sacro orrore, di attrazione comparabile a quella che le catastrofi cosmiche risvegliano nell’anima» (9).
Indubbiamente l’intelligenza dei «popoli civili» si è applicata nel modo più creativo all’invenzione d’armi capaci di annientare ben più che «città e villaggi».
Dopo Hiroshima e Nagasaki la forma «perfetta» assunta dalla guerra moderna è quella di una catastrofe di portata cosmica, ma prodotta dall’uomo: la guerra atomica generale e totale, la «guerra spasmodica o insensata» che è il 44° gradino dello schema di escalation militare di Herman Kahn.
A questo punto si verifica però un paradosso: se la vita sociale può essere letteralmente fusa nelle esplosioni termonucleari, annichilendo la civiltà e, con ogni probabilità, lo stesso genere umano, allora il nesso tra guerra e politica si spezza. Il paradosso venne formulato nel 1946 da Bernard Brodie in un libro dal titolo significativo: The absolute weapon. Ma allora, perché Stati Uniti e Unione Sovietica si impegnarono in una corsa a costruire ed a perfezionare armi nucleari? La risposta alla domanda riguarda non solo il passato ma il futuro.
Mary Kaldor può essere presa come rappresentante di un certo tipo di interessante risposta: la guerra fredda non sarebbe stata conseguenza delle pulsioni del totalitarismo sovietico (come per i cold war warriors), né effetto della spinta di fattori interni agli Stati Uniti (come per gli studiosi «revisionisti» e, in genere, di sinistra), né un confronto tradizionale tra grandi potenze (come per i «postrevisionisti»), ma una imaginary war. La funzione della guerra immaginaria era la regolazione degli affari interni delle due superpotenze e dei rapporti interstatali entro le rispettive sfere d’influenza. Quel che viene enfatizzato è la complementarietà ed il mutuo rafforzamento del sistema atlantico e di quello «socialista», l’uso strumentale di un’immaginaria minaccia esterna per reprimere le reali minacce interne alle rispettive sfere d’influenza (10).
Ritengo che in questa tesi ci sia una buona «dose» di verità. Essa è però criticabile per due motivi: per la sottovalutazione della fondamentale differenza tra «socialismo di Stato» e capitalismo; e per la sottovalutazione della realtà del rischio nucleare passato e, specialmente, futuro.
Lo sviluppo dell’economia mondiale capitalistica genera ineguaglianza non solo all’interno delle singole formazioni sociali ma tra esse: si può dunque dire che essa produca eterogeneità. Il sottosviluppo del rapporto di lavoro salariato è l’altra faccia dell’ineguale sviluppo dell’accumulazione di capitale e dello scambio ineguale conseguente dai differenziali di produttività. Esso è la radice della miseria e della fame di gran parte dell’umanità, nonché della fragilità o dell’inesistenza dei diritti civili e politici nella maggior parte degli stati.
Detto questo, bisogna vedere l’altra faccia dello sviluppo ineguale e combinato dell’economia mondiale capitalistica (11). Se le sue parti non tendono alla omogeneità nel senso della convergenza dei livelli di sviluppo e delle condizioni di vita (che è il presupposto della tesi della «globalizzazione», se si usa il termine in modo sensato e non perché in preda a un crampo linguistico), esse tendono però a divenire omogenee nel rapporto sociale fondamentale, il lavoro di tipo salariato. A differenza di altri modi di produzione, sia per impulso dei suoi centri economicamente più avanzati e militarmente più potenti, sia come condizione dello sviluppo della borghesia interna, il capitalismo deve corrodere o distruggere le formazioni di diversa natura. Rapporti sociali di origine non capitalistica persistono nella misura in cui sono necessari per la sopravvivenza di masse impoverite che esercitano sul mercato del lavoro una pressione tale che la forza lavoro possa essere retribuita sotto il valore necessario alla loro sopravvivenza.
Il capitalismo è la «specie» sociale più dinamica, trasformatrice, espansiva ed aggressiva della storia umana. Se c’è una causa generale della guerra non è la stagnazione del capitalismo ma le conseguenze del suo sviluppo mondiale, ineguale e combinato, che è il nocciolo della problematica dell’imperialismo.
In passato e tuttora, gli Stati Uniti sono l’avanguardia del «rivoluzionamento» capitalistico del mondo, oltre che della repressione delle esplosioni sociali che esso genera.
Inversamente, l’Unione Sovietica cessò precocemente di essere l’avanguardia della rivoluzione mondiale e impostò la propria politica estera in funzione degli interessi «nazionali» dello Stato sovietico o, meglio, della casta in esso dominante. Né il discorso è diverso, ma, forse, peggiore per la Cina, almeno da quando, alla conferenza di Ginevra del 1954, Chu En-lai, spalleggiato da Molotov, «svendette» alla Francia ed agli Stati Uniti la posizione politica conquistata dal Vietminh sul campo di battaglia di Dienbienphu.
La nomenklatura rovesciò la strategia di costruzione della solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli oppressi in «giusta causa» di repressione dei movimenti operai indipendenti e di riforma politica all’interno della propria sfera d’influenza; teorizzando la possibilità del «socialismo in un solo paese» si orientò di fatto, ben prima del 1956, a coesistere con il capitalismo; per la stessa ragione, i partiti comunisti di osservanza moscovita e pechinese, orientandosi alla collaborazione con le frazioni antifasciste e «nazionali» della borghesia, si impegnarono e si impegnano a frenare, piuttosto che a intensificare, la lotta di classe, con ciò andando incontro ad una serie di crisi sanguinose e disastrose, dalla Spagna al Cile. La borghesia non ha mai rinunciato all’investimento estero come modalità di «esportazione» del rapporto sociale capitalistico o mezzo di consolidamento ed estensione di rapporti di dipendenza. La nomenklatura dei «socialismi di Stato», con l’eccezione di Cuba mentre era vivo Guevara, ha invece rinunciato a promuovere la rottura con il capitalismo: in Jugoslavia, Albania, Cina, Cuba, rottura ci fu nonostante o indipendentemente dalla politica sovietica. In altri termini, la nomenklatura del «socialismo di Stato» non solo si basa sull’isolamento nazionale della rivoluzione ma ha la propria condizione di esistenza in un indirizzo politico nazionalistico e statalistico. Può fare il «gioco» della contrattazione tra grandi potenze e può costruire arsenali nucleari: che sono la concreta negazione di una politica di fraternizzazione con i lavoratori e le lavoratrici degli Stati imperialistici, oltre che del senso dell’umanità; può perfino muovere in armi contro altre nomenklature al potere, come è accaduto nel caso degli scontri tra Unione Sovietica e Cina o della guerra tra Cina o Vietnam o tra Vietnam e Cambogia (che ebbe il positivo risvolto di fermare la politica genocida dei khmer «rossi» appoggiati dalla Cina). Ma per quella che è la propria natura sociale la nomenklatura non ha neanche lontanamente la terribile capacità delle grandi potenze capitalistiche di «rivoluzionare» il mondo.
Al contrario, il «socialismo di Stato» è stato ed è soggetto alla dinamica dell’economia mondiale capitalistica, al punto che negli anni settanta molti governi del blocco sovietico si indebitarono pesantemente con le banche «occidentali» e l’attuale «miracolo cinese» si basa sul flusso di investimenti diretti dall’estero.
A differenza di Mary Kaldor, dunque, ritengo che il conflitto inter-sistemico fosse (e sia) un fatto reale, non una «guerra immaginaria», ma anche che esso fosse, diciamo così, asimmetrico: uno solo dei contendenti era impegnato effettivamente ad atterrare l’altro che, da parte sua, giocava in difesa. Realtà e asimmetria del conflitto che, per motivi diversi, non possono essere spiegati dalle maggiori correnti interpretative odierne perché esse non sono in grado di definire la specificità dei sistemi sociali. E’ invece confermata, almeno come inizio di un ragionamento, la validità dell’analisi di Trotsky negli anni Trenta del secolo scorso, secondo cui quella sovietica era una formazione instabile, esposta tanto alla rivoluzione quanto alla restaurazione del capitalismo ad opera della stessa nomenklatura dominante. Sbagliava nella valutazione dei tempi, ma non nel metodo, che spicca decisamente su quello di coloro per cui l’implosione sovietica è un «mistero» o una tragedia assoluta.
7 L’ultima mezzanotte del mondo?
Ciò porta alla seconda obiezione alla linea della Kaldor. Gli Stati Uniti (e la Nato) hanno cercato di uscire dal dilemma della «mutua distruzione assicurata» sviluppando prima tecnologie e dottrine che consentissero un uso «flessibile» e graduato dell’arma nucleare e poi orientandosi anche alla costruzione di uno «scudo» protettivo. Concordo con l’idea che questi sviluppi hanno molto a che fare con motivi interni all’apparato militare-industriale e con i rapporti tra gli alleati più che con la minaccia «comunista» o, oggi, con quella del «terrorismo» o dei cosiddetti rogue states.
Resta il fatto gli Stati Uniti hanno fatto e fanno il possibile per poter combattere realmente una guerra nucleare. Anche contro nemici non nucleari. E che oggi la soglia del passaggio dallo scontro convenzionale a quello nucleare è molto più bassa che in passato. Ci si può allora chiedere quando e contro chi potrebbe essere combattuta una guerra che possa comportare l’uso di armi nucleari.
Esistono studi che individuano una dinamica ciclica delle grandi guerre per l’egemonia, o costituenti, in particolare nell’ambito della world system analysis: in questa linea si può prevedere la prossima guerra mondiale intorno al terzo decennio del XXI secolo. Ma per quanto gli studi sul lungo periodo siano sempre stimolanti, i modelli ciclici dell’egemonia presuppongono l’esistenza di cicli economici lunghi alla Kondratieff in cui si alternano fasi di espansione e di contrazione: il che è discutibile sul piano empirico e teorico (13). Un andamento ciclico presuppone un automatismo del sistema e più precisamente un determinismo economico nello scatenamento delle grandi guerre. Bisognerebbe inoltre stabilire se esse siano in rapporto con le fasi espansive o di contrazione, anche questo poco chiaro. Individuare periodi storici distinti è cosa diversa da definire un modello ciclico della storia.
Credo che il criterio sociale indicato prima a proposito della «guerra fredda» possa applicarsi anche ai rapporti futuri tra Cina e Stati Uniti. John Mearsheimer, ad esempio, sostiene, alla luce della sua variante «offensiva» del neorealismo, che il pericolo maggiore per gli Stati Uniti sia appunto costituito dalla possibilità che la Cina cerchi di acquisire l’egemonia regionale in Asia.
Si può obiettare a questa tesi con il mirabile esempio sovietico: anche in Cina una parte della nomenklatura potrebbe decidere di «suicidare» il sistema sociale per porre su nuove e più brillanti basi i propri privilegi.
Ma potrebbe verificarsi anche qualcosa di diverso. A causa della penetrazione del capitalismo e delle contraddizioni del «socialismo di Stato» i conflitti sociali potrebbero estendersi ed intensificarsi al punto di mettere in grave pericolo il potere della nomenklatura, ragion per cui una sua frazione «tradizionalista» potrebbe giocare la carta del nazionalismo invadendo Taiwan, al fine di ristabilire il controllo sul popolo-nazione e liquidare gli innovatori propensi alla restaurazione del capitalismo. A quel punto potrebbero aprirsi le porte dell’inferno.
Quel che si può dire con sicurezza è che la complessità del mondo reale è tale che possono innescarsi dinamiche che sfuggono al controllo ed alle intenzioni del ceto politico e degli strateghi e che quel che poteva considerarsi improbabile, addirittura impossibile, potrebbe realizzarsi. Uno scontro nucleare, tra Stati Uniti e Cina o tra Pakistan e India o un attacco nucleare israeliano contro l’Iran, considerando le condizioni attuali può essere valutato come improbabile, oltre che moralmente «inconcepibile». Nondimeno le armi nucleari esistono e ciò che esiste può essere usato, in condizioni e per ragioni che, nel momento presente e sulla base del «calcolo razionale» possono sfuggire, ma che potrebbero verificarsi, proprio in forza della relativa imprevedibilità delle dinamiche sociali interne agli Stati, oltre che dei rapporti di forza internazionali.
Non vedo le ragioni per cui in un sistema macroscopicamente irrazionale il «calcolo razionale» delle conseguenze debba prevalere nel momento più critico.
Il mondo non è un meccanismo che porta inesorabilmente da qualche parte. Ma si ricordi la lezione di Clausewitz sulla tendenza della guerra moderna, e del potere su cui essa si fonda: allora, la metafora dell’orologio che scandisce l’avvicinarsi dell’ultima mezzanotte deve essere assimilata, perché se ne possa fermare il ticchettio che già oggi fa strage.
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Note
1) Carl Philipp Gottfried von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; trad. ital. Della guerra, Mondadori, Milano 1970, p. 794. D’ora in poi indicato con Clausewitz e la pagina dell’edizione italiana.
2) Si veda «Realism, positivism, and historicism» di Robert Cox, in Approaches to world order, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
3) Si vedano i lavori di Luigi Bonanate in bibliografia.
4) Così Michael J. Shapiro, «Representing world politics: the sport/war intertext», in Shapiro, Michael J. e Der Derian James (a cura di), International/intertextual relations, New York, Macmillan, , 1989, pp. 74-75.
5) Si vedano a proposito i testi di Anderson, Hobsbawm e, specialmente, L'état, le pouvoir, le socialisme, Paris, Presses Universitaries de France, 1978, di Nicos Poulantzas e di Ellen Meiksins Wood, «The "economic" and the "political" in capitalism», in Democracy against capital, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.
6) Si vedano ad esempio il Trattato sulla probabilità di Keynes e i post-keynesiani.
7) Anthony Giddens, The nation-state and violence. Vol. two of A contemporary critique of historical capitalism, Cambridge, Polity Press, 1985, p. 226.
8) Si vedano Il lungo XX secolo, di Giovanni Arrighi (che ritengo, concettualmente, il miglior lavoro nell’ambito della world-system analysis) e The new imperialism, di David Harvey, Oxford, Oxford University Press, 2003, che interpreta il new imperialism di Bush jr. alla luce di quel dualismo. La tesi della coesistenza simbiotica di due logiche di diversa natura può, forse, applicarsi ad un contesto socioeconomico e politico premoderno o di transizione alla modernità, ma non a un contesto nel quale la dinamica mondiale è posta dal capitalismo stesso. Inoltre, e non casualmente, essa dipende (di certo in Arrighi), dalla concezione di matrice marginalistica dello Stato e dell’impresa, forme istituzionali gerarchiche rispetto alle quali il mercato è posto come il dato originario. In questa prospettiva le istituzioni risultano dai «costi di transazione» del mercato reale e dai «costi di protezione» del violento mondo reale. Ma in uno spazio sociale ideale, livellato e senza attrito, il mercato sarebbe il regno della libertà e del cosmopolitismo. In generale, tutte le analisi che presuppongono la cosiddetta globalizzazione, la de-territorializzazione cosmopolitica del capitale, l’obsolescenza dei poteri statuali e magari l’Impero mondiale, si basano su questa doppia logica, in fondo quanto mai ortodossa ed economicistica. Si veda Market and non-market hierarchies: theory of capitalist institutional crisis, di Christos Pitelis, Oxford, Blackwell, 1991.
9) In Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Edizioni di Comunità, 1970, p. 44.
10) Mary Kaldor, The imaginary war. Understanding the East-West conflict, Oxford e Cambridge (Mass.), Blackwell, 1990.
11) Sullo sviluppo ineguale e combinato come forma dell’economia mondiale capitalistica e concezione alternativa a quella della globalizzazione mi permetto di rimandare al mio Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Bolsena, Massari editore, 2006
12) Si veda la ricostruzione di Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano, 1989.
13) Si veda Solomos Solomou, Phases of economic growth, 1850-1973: Kondratieff waves and Kuznets swings, Cambridge U. P., Cambridge, 1987, «Kondratieff long waves in economic growth», 1850-1913, in Review, X, 3, winter 1987; per la questione di metodo in particolare «The theory of the long cycle: Kondratiev, Trotsky, Mandel» di Richard A. Day, in New left review, n. 99, sett.-ott. 1976.
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Pubblicato in Giano n. 55, marzo 2007.
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