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giovedì 18 novembre 2010
MARCHIONNE, L'ITALIA E IL SERVILISMO DI UNA CLASSE POLITICO-SINDACALE
di Lorenzo Dorato
La recente intervista a Marchionne nella trasmissione di Fabio Fazio, in cui il manager-capitalista della Fiat dichiarava impunemente che senza l’Italia la Fiat farebbe molto meglio, ha scatenato una serie di reazioni politiche di diversa natura.
La Fiat, tramite la sua dirigenza, sta perseguendo da alcuni mesi a questa parte una vera e propria strategia provocatoria per minare materialmente e culturalmente le ultime resistenze agli “inevitabili frutti delle necessità espresse dalla concorrenza internazionale”. Gli obiettivi finali naturalmente sono i seguenti:
1-tenere sotto scacco e sotto pressione lo Stato italiano, sia in termini di rapporti di forza geopolitici (qui entrano in gioco complessi intrecci internazionali che mostrano la Fiat come indiretta emanazione di interessi USA in Italia), sia in termini di assistenza al capitale (di cui la Fiat ha da sempre beneficiato e che da trent’anni a questa parte non riceve più alcuna contropartita in termini di sviluppo e occupazione).
2- infliggere un durissimo colpo alle resistenze sindacali e politiche all’operazione di smantellamento definitivo del contratto di lavoro nazionale e alla conseguente contro-rivoluzione delle relazioni industriali (retrocedendo di almeno 60 anni nei rapporti di forza tra capitale e lavoro).
Ogni singola azione e dichiarazione fatta propria dalla dirigenza del Lingotto negli ultimi tempi ha il preciso obiettivo di surriscaldare il clima sociale e politico mostrando in forme dirette la consueta arroganza del gruppo dirigenziale FIAT nel dettare legge. I toni vengono esasperati volutamente pur sapendo che susciteranno oltre a forme di protesta sociale (inevitabili) anche qualche tiepido e formale malcontento politico….tanto poi il malcontento passa, il messaggio è filtrato, la minaccia viene fatta assimilare a livello sociale e politico e si può sempre dire: “Marchionne sbaglia nei toni, ma la sostanza del suo monito in fondo è giusta”.
L’Amministratore delegato di FIAT può ostentare senza paura la propria parte di manager che mira solo al profitto, poiché non rischia nulla fintanto che esiste da un lato un asservimento totale della classe politica, dall’altro una struttura politico-istituzionale che cede spazio ad una totale ed incondizionata libertà del capitale non più soggetto ad alcun vincolo in termini contrattuali e soprattutto spaziali.
Marchionne afferma castronerie vergognose sia in tema di sussidi statali (mentendo fra l’altro quando asserisce che FIAT non ha chiesto alcun aiuto negli ultimi due anni, l’aiuto è stato semplicemente rifiutato da parte del governo) sia a proposito della presunta scarsa competitività ed efficienza della produzione italiana. Su quest’ultimo punto l’a.d. FIAT insiste con particolare accanimento, perché si tratta del centro della questione. Se l’Italia non è competitiva me ne vado ad investire altrove. Cita paesi a noi vicini come Francia e Germania, salvo poi fare espresso riferimento alla Polonia (e quindi implicitamente ai suoi ritmi di lavoro più massacranti) quando si tratta di commisurare i diversi livelli di produzione per stabilimento. Parla di non responsabilità diretta dei lavoratori nella mancanza di competitività italiana e se la prende con un generico contesto istituzionale bloccato, secondo il solito copione di luoghi comuni sull’Italia burocratizzata, gerontocratica e poco dinamica. Quello stesso contesto istituzionale che ha permesso ai profitti del gruppo FIAT di fiorire per decenni, salvando l’ azienda dalle proprie crisi periodiche causate dalle difficoltà di vendita nel mercato internazionale e dalla mancanza di investimenti nella filiera produttiva.
Alla fine i nodi vengono al pettine. Il problema non è certo la produttività del lavoro in sé o la scarsa efficienza del “sistema Italia” (orrenda espressione imprenditoriale abusata negli ultimi anni). Il problema non è l’assenteismo negli stabilimenti (qui Marchionne riporta cifre e numeri totalmente inventati, dando prova di rara sfacciataggine), né l’entità delle pause e dei ritmi di lavoro dei lavoratori italiani.
Le questioni sono solo e semplicemente due:
1- la prima è la massimizzazione del profitto dell’impresa FIAT che, secondo una normale logica capitalistica, vuole spostare (come tutte le imprese) la propria produzione dove costa meno e dove, fra le altre cose (vedi i paesi ex-socialisti) esiste altresì una contemporanea tradizione di qualità del lavoro operaio (che esiste naturalmente anche in Italia ma a costi più elevati). Nulla a che vedere con l’avidità di manager o capitalisti che eccedono. Semplice logica intrinseca del capitale.
2- la seconda questione è l’esistenza di un quadro politico-istituzionale che permette, anzi favorisce e spesso incentiva la delocalizzazione della produzione nei paesi a basso costo di manodopera. Oggi, all’interno dell’UE, e in parte anche all’esterno, delocalizzare non costa nulla così come non costa nulla riesportare poi le merci in madrepatria. Due piccioni con una fava. Si produce all’estero a basso costo e si mantiene integro il mercato interno italiano ed europeo con la sua domanda di merci (in questo caso di auto). Un quadro istituzionale di questo tipo naturalmente produce un meccanismo perverso di concorrenza al ribasso sui costi di produzione, poiché tutte le aziende perseguono lo stesso obiettivo e possono giocare con i differenziali salariali e normativi (tasse sulle società) delle diverse nazioni per competere sul prezzo mantenendo alti margini di profitto. A quel punto la strada è spianata in termini di coerenza logica interna per far leva sull’ l’argomento della competitività. Ma il problema non è la coerenza logica interna, bensì la cornice istituzionale e sistemica che la rende possibile e la fa apparire persino ovvia e naturale.
E così con la scusa della competitività e della naturale ricerca del massimo profitto in un contesto di imprese in concorrenza tra loro, si può procedere allo smantellamento dei fondamenti del diritto del lavoro delle nazioni europee in cui il compromesso tra capitale e lavoro aveva raggiunto (grazie anche a decenni di lotte sociali) i livelli più alti. Con la stessa scusa si smantella lo Stato Sociale e si riducono i salari diretti e indiretti (secondo una tendenza ormai più che ventennale).
Alla luce di queste considerazioni le reazioni degli esponenti politici italiani appaiono particolarmente grottesche. Da un lato si hanno gli svergognati apologeti di Marchionne e delle sue verità sulla non competitività dell’Italia: tra di essi Casini e l’incredibile sindacalista giallo Bonanni che ormai non rinuncia a nessuna occasione per ribadire la sua totale adesione al massacro sociale in atto. Dall’altro lato si hanno timidi rimproveri alle esuberanze dell’A.D. Fiat che naturalmente non vanno a scalfire né le intenzione né la capacità ricattatoria dell’azienda torinese. E non le vanno a scalfire perché nessuno osa parlare del problema politico che rende possibile alla FIAT di tenere sotto scacco i governi (ieri con i sussidi senza contropartita sociale-occupazionale, oggi ancora con i sussidi e in più con la minaccia permanente di una delocalizzazione a costo zero).
E così l’ineffabile Marchionne, agente del capitalismo italiano delle industrie decotte, continua a portare avanti la sua strategia “terroristica”, ottenendo insieme due obiettivi:
1- nuovi soldi da spremere ai cittadini contribuenti.
2- fungere da punta di lancia, boicottando persino la stessa unità confindustriale, dell’attacco frontale al diritto del lavoro. Il problema, e Marchionne lo sa benissimo, non sono i dieci minuti di pausa nello stabilimento di Pomigliano (cavillo su cui la propaganda insiste per mostrare la presunta testardaggine della FIOM), ma è l’insieme di un accordo, come quello di Pomigliano, che oltre a risultare complessivamente gravoso per i lavoratori, deroga pesantemente al contratto collettivo nazionale creando così un pericolosissimo precedente che potrà essere usato per sconvolgere i cardini delle relazioni industriali in Italia.
Le proteste di politici che reclamano una maggior prudenza di linguaggio, ma che concordano con Marchionne sui fondamentali della sua strategia, oltre a non servire a nulla, non fanno altro che mostrare il grado di ipocrisia e insieme di debolezza e viltà della classe politica italiana.
La parola d’ordine comune è quella di “modernizzare il paese” che Sacconi, Tremonti, condividono con il loro colleghi dell’opposizione parlamentare (dal Pd, all’Udc, passando per l’Idv) e con la dirigenza Confindustriale. Si tratta del trampolino di lancio ideologico per imporre una nuova configurazione dei rapporti sociali che, facendo leva anche sull’atomismo individualistico (come orizzonte culturale), elimini di fatto ogni forma di compromesso politico tra la parte più debole (e produttiva) della società e le oligarchie capitalistiche.
Sia benvenuta, dunque, ogni resistenza alla modernizzazione capitalistica. La condizione affinché tale resistenza (oggi espressa ad esempio almeno parzialmente dal sindacato FIOM al di là di tutti i propri limiti) diventi produttiva e coerente è che si riempia di contenuti politici e non puramente rivendicativi
28 ottobre 2010
dal sito http://www.comunismoecomunita.org/?p=1789
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