RAGIONE E PASSIONE RIVOLUZIONARIA
di Roberto Massari
Trascrizione (rivista) del discorso tenuto per l’80° anniversario dell’uccisione di Rosa Luxemburg (a Viterbo nel locale Arci «Il Mulino» di via S. Leonardo, 22 maggio 1999). L’iniziativa era stata organizzata dall’Associazione Italia-Nicaragua (Giulio Vittorangeli) e dal Forum delle donne/Donne in nero. Vi partecipò anche Lidia Menapace, che espresse l’intenzione di costituire in Italia una Fondazione «Rosa Luxemburg». All’epoca Menapace era considerata una voce antimperialistica nel novero del pacifismo italiano: ma questo perché non era ancora stata eletta senatrice nelle liste del Prc/Centrosinistra; non aveva ancora tentato (vanamente) di assumere la presidenza della Commissione Difesa del Senato nell’ambito del 2° governo Prodi; non aveva ancora votato a favore di tutte le missioni militari all’estero dell’imperialismo italiano (Afghanistan, Libano ecc.), né per l’aumento smisurato delle spese militari verificatosi nell’infausto biennio di quel governo. (Si vedano le parti a lei dedicate nel volume I Forchettoni rossi.). Insomma, non era ancora diventata Lidia «Menaguerra», come poi è stata scherzosamente denominata.
Ciò spiega perché io abbia accettato nel 1999 di celebrare insieme a lei l’anniversario della grande rivoluzionaria polacca. Diverso è il discorso per Socialismo rivoluzionario/Utopia socialista che ha invece espressamente invitato la Menaguerra a celebrare il 90° di Rosa Luxemburg nella propria conferenza fiorentina del maggio 2009, in piena consapevolezza dei trascorsi a dir poco «antiluxemburghiani» sopra citati.
Rosa Luxemburg va inserita a pieno titolo nel novero dei grandi del pensiero che si sono impegnati in forma militante nella lotta contro l’imbarbarimento indotto dalla crisi epocale del sistema capitalistico. La sua esperienza di vita e il suo contributo teorico rappresentano uno dei punti più alti di sintesi fra teoria e prassi: essi hanno dato veste - politica e scientifica allo stesso tempo - alla formulazione della grande alternativa del nostro tempo, da lei sintetizzata nella formula «socialismo o barbarie» (in un celebre brano dell’aprile 1915, nella cosiddetta Juniusbrochüre).
Rosa può essere considerata a più di un titolo la numero uno nella storia del movimento operaio, tra i più diretti discendenti del padre fondatore Marx. Ma sarebbe più giusto dire il numero uno, perché non cadere nell’ambiguità linguistica di considerarla solo l’esempio più alto di rivoluzionaria rispetto al mondo delle donne in generale o di quelle marxiste in particolare: è stata l’incarnazione più alta del connubio teoria-prassi rispetto a tutti pensatori e a tutte le pensatrici marxiste che la storia del movimento operaio ha prodotto fino ad oggi.
Essa ha abbracciato con la sua esperienza di vita e la sua produzione teorica due epoche importantissime: il passaggio dall’Ottocento al Novecento, nonché il passaggio dalla Seconda internazionale alla Terza, vivendo esperienze cruciali come la nascita del movimento operaio rivoluzionario in Polonia, la crisi della Socialdemocrazia tedesca nel momento della sua massima espansione, la Rivoluzione russa del 1905, l’opposizione internazionale alla prima guerra interimperialistica, l’inizio di degenerazione della Rivoluzione d’Ottobre, il tentativo di Rivoluzione tedesca del 1918. Viene da chiedersi che conseguenze avrebbe avuto una sua presenza attiva nelle crisi degli anni ‘30 - salute precaria e sicari di Noske consentendo.
Questa grande teorica, militante appassionata nella lotta per le più radicali prospettive di azione rivoluzionaria, fece da tramite fra due epoche, polemizzando agguerrita nella Seconda internazionale, ma anticipando nel proprio agire gli aspetti migliori della Terza (non ancora fondata), contro la cui degenerazione avrebbe certamente combattuto con tutte le sue forze.
Va ricordato che un suo ruolo pionieristico fondamentale era consistito nel contrastare la degenerazione del marxismo nella Seconda internazionale, combattendo inizialmente contro le derive teoriche del revisionismo (in primis Eduard Bernstein, ma in seguito anche Karl Kautsky e altri). Un periodo cruciale che dalla fine dell’Ottocento si estende al primo ventennio del Novecento, vale a dire un periodo in cui solo un alto livello di astrazione nell’analisi (marxista) poteva permettere di cogliere la barbarie sostanziale insita nel sistema capitalistico.
Non dimentichiamo che, fino alla Prima guerra mondiale, tale sistema si presentava nella sua veste migliore, dotato delle massime potenzialità di sviluppo e di un’apparente capacità di risolvere in forma endogena e relativamente consensuale (tra le classi) le proprie interne contraddizioni. Grande dinamica produttiva conseguente al ritmo dell’innovazione tecnologica; ampliamento mondiale dei mercati; crescita pressoché ininterrotta delle forze produttive nell’Impero austroungarico (ma non solo); espansione qualitativa e quantitativa in ogni settore della vita sociale; capacità di autorisolvere le crisi; effettivo miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (all’interno dei principali paesi capitalistici). Non era certo il sistema sociale che si era presentato agli occhi di Marx, anche se questi era stato capace di elevarsi ai massimi livelli di astrazione consentiti dal proprio materialismo storico per descrivere il sistema del capitale non quale esso appariva in forma contingente nel cuore dell’800, ma quale si sarebbe potuto conformare come modello generale, fondato su proprie categorie strutturali, indipendente dalle forme nazionali storicamente mutevoli.
Personalmente considero questo, a tutt’oggi, il lascito teorico fondamentale di Marx nell’analisi della forma di merce capitalistica e delle categorie che da essa deducono o che con essa si compenetrano. E su tale terreno di capacità di astrazione teorica, ma pur sempre all’interno di un quadro sociale storicamente determinato, credo che Rosa sia stata la migliore e più lungimirante allieva di Marx. Lo dico, indipendentemente dalle discrepanze che pure caratterizzarono la sua interpretazione degli schemi marxiani della riproduzione allargata (a loro volta discutibili e comunque non esenti da possibilità di letture diverse) a dalla sua visione riduttiva del rapporto in processo di continua trasformazione tra capitalismo sviluppato e settori non-capitalistici ad esso interni o esterni.
La Rosa Luxemburg dell’Accumulazione del capitale era una studiosa dell’economia che all’epoca si poteva anche definire come una «marxista ortodossa» che guardava ciononostante al di là delle coordinate puramente economiche del mondo occidentale del primo Novecento e anticipava problematiche che sono ancora (o forse, «finalmente») d’attualità nell’analisi del sistema di mercato e nella rete di rapporti di produzione su scala internazionale quale essa si configura agli occhi di noi posteri, giunti alle soglie del Duemila. Ma Rosa ebbe anche il coraggio di formulare concezioni e visioni «eterodosse», che scandalizzarono celebri teste pensanti del movimento socialdemocratico ed europeo in un momento in cui questo era invece costretto a fare i conti con la scuola del Revisionismo austro-tedesco e con il contagio che esso provocava in altri paesi (citiamo ad esempi Pëtr B. Struve nella socialdemocrazia russa o Louis B. Boudin negli Usa).
Rosa non dovette combattere solo contro le deformazioni in campo puramente teorico che Bernstein e altri (in forme diverse Heinrich Cunow, Tugan-Baranowsky, Conrad Schmidt, Otto Bauer, successivamente Kautsky e altri) stavano introducendo nella concezione del marxismo e della lotta per il socialismo, ma anche contro determinati stati d’animo che si andavano diffondendo e che col tempo, purtroppo, prevarrano maggioritariamente nei partiti socialisti o comunisti staliniani del mondo intero. Tra tutti, l’illusione sulle intrinseche capacità del sistema capitalistico di risolvere non solo le proprie contraddizioni interne, ma anche i grandi drammi sociali della nostra epoca.
Ovviamente non erano ancora o non erano tutti i principali drammi di cui parliamo comunemente ai giorni nostri. Non si parlava ancora (e nemmeno Rosa lo fece) di ecologia o di degrado dell’ambiente, di tendenziale esaurimento delle fonti di approvvigionamento delle materie prime, di alienazione da società industriale o di unidimensionalizzazione dell’individuo, di società dello spettacolo o di mortificazione mercantile, di conformismo di massa o di alienazione nello sviluppo psichico della specie umana. Non erano ancora apparsi Reich, Marcuse, Naville e i pochi altri vivisezionatori dell’alienazione industrial-capitalitica; mentre di psicoanalisi ancora non si parlava comunemente, se non per ammirare con stupore il lavoro di quel bizzarro medico austriaco che proprio all’alba del ‘900 pubblicherà L’interpretazione dei sogni.
E se si parlava di femminismo (Rosa non lo fece esplicitamente; anzi impedì fermamente ai vertici della burocrazia del Spd che la ghettizzassero in quanto donna nelle problematiche specifiche dei movimenti femminili dell’epoca sua), lo si faceva sul terreno strettamente emancipatorio (e non di liberazione), in riferimento alla condizione sociale delle lavoratrici o in difesa dei diritti politici delle donne (come fece più di chiunque altra Clara Zetkin, ma anche Angelica Balabanoff e tante altre, ma poi soprattutto Aleksandra Kollontaj).
Anche le problematiche fondamentali dei paesi dipendenti (ciò che in seguito e alla meno peggio verrà definito «Terzo mondo») erano estranee alle preoccupazioni del marxismo dell’epoca, se si ecludono i riferimenti approssimativi ad alcune situazioni nazionali specifiche, come per es. l’insorgente nazionalismo turco o le lotte anticoloniali in India e in Cina.
Lo sfruttamento e la spoliazione dei popoli coloniali erano presenti nelle teorie macroeconomiche dell’epoca più oggettivamente che soggettivamente. Nessun teorico - nemmeno tra i grandi pionieri delle moderne teorie dell’imperialismo (Hobson, Hilferding) - era ancora arrivato a considerare in tutta la sua portata il ruolo fondamentale che lo «sviluppo del sottosviluppo» aveva e ha per l’estensione planetaria del sistema capitalistico, sia come mercato potenziale per un incremento massiccio nell’esportazione dei capitali, sia come settore produttore del surplus essenziale per il funzionamento del modello della «moderna» (novecentesca) accumulazione capitalistica. Si denunciava lo sfruttamento dei popoli «arretrati», ma ancora si ragionava in termini di ricerca dell’equilibrio endogeno come linea di tendenza nell’analisi del funzionamento del modello metropolitano (che non era così definito), mentre infuriavano le teorie del crollo del capitalismo e dilagavano formulazioni aperte o larvate apertamente sottoconsumistiche.
Rosa sottoconsumista non fu. Studiò attentamente le teorie dello sviluppo capitalistico e la natura del capitale finanziario dell’epoca, dimostrando una padronanza assoluta della letteratura sull’argomento, ma ci mise poi del suo, arrivando a formulare una teoria dell’imperialismo, di fatto inaccettabile per i suoi contemporanei, e che nel passato è stata riduttivamente esemplificata nell’accusa di «ultraimperialismo». L’estensione del capitalismo sarebbe dilagata talmente su scala mondiale da ridurre via via le aree non ancora capitalistiche in cui procedere alla realizzazione del plusvalore accumulato (risparmiato) nel normale processo di produzione capitalistica, costringendo il sistema a sfruttare sempre più intensamente le aree non-capitalistiche presenti al proprio interno, nei paesi madrepatria del capitale finanziario.
Di qui non una nuova teoria del crollo, ma la descrizione della grande vulnerabilità del sistema rispetto al meccanismo delle crisi nel modello dominante di accumulazione. Rosa non fu attendista e sostenne a spada tratta per tutta la sua relativamente breve vita che la rivoluzione socialista avrebbe dovuto o potuto precedere sul piano dell’azione di massa la crisi risolutiva del sistema. Compito delle masse conquistate all’idea del socialismo non sarebbe stato dare al sistema la classica spallata, ma anticipare con la rivoluzione il cammino senza sbocco finale in cui il sistema era avviato su scala internazionale.
Questo, a nostro avviso, il significato storico dell’antitesi luxemburghiana di «socialismo o barbarie». Una lucida visione macroeconomica che includeva l’intervento soggettivo delle masse rivoluzionarie come fattore attivo e dirompente all’interno di un complesso quadro teorico minuziosamente costruito.
Sono intuizioni teoriche che Rosa accennò nella sua Introduzione all’economia politica (elaborata per lo più tra il 1906 e il 1908) e affrontò dettagliatamente nell’Accumulazione del capitale (pubblicata nel 1913) nonché nella successiva Anticritica (1917). Qui possiamo solo nominarle di sfuggita, perché una loro trattazione richiederebbe molto più tempo; ma anche perché, francamente, non se ne sente nemmeno tanto il bisogno, vista la grande attenzione che il marxismo (anche il migliore) e le più attendibili storie del pensiero economico (da Tom Kemp a Paul Sweezy a Oskar Negt [Storia del marxismo, II, Einaudi 1979] e molti altri) hanno dedicato alle teorie economiche di Rosa Luxemburg, sia pure con indubbia discontinuità. Il testo sull’accumulazione (con l’introduzione all’edizione inglese di Joan Robinson) è ancor oggi oggetto di interi semestri di studio in un luogo prestigioso come la London School of Economics.
La visione dello sviluppo imperialistico di Rosa - ridicolizzata negli anni dello stalinismo imperante, benché ammirata originariamente (in Kommunismus nel 1921) dal György Lukács di Storia e coscienza di classe (cioè agli inizi della celebrità teorica di questo ingombrante studioso ungherese che con lo stalinismo è poi riuscito convivere opportunisticamente per quasi tutta la sua lunga vita ) - ci deve sorprendere ancora per la sua freschezza e attualità. Non mi riferisco a questo o quel singolo aspetto, contestabile o addirittura obsoleto, ma all’approccio onnipervasivo (da intendersi in senso diverso dall’astratta categoria della «totalità» cui Lukács darà estremo risalto per la Luxemburg, in ciò seguìto da Lelio Basso) con cui venne affrontata l’analisi del sistema su scala mondiale. Nulla di paragonabile alle tante superficialità e al pressapochismo giornalistico con cui si parla oggigiorno di «globalizzazione», quasi si trattasse di una nuova fase (la terza) di sviluppo capitalistico o di una nuova dimensione teorica che i grandi del pensiero marxista non avrebbero saputo prevedere agli albori dell’imperialismo.
Non si può non restare affascinati dalla onnipervasività dell’analisi con cui Rosa affrontò il problema che cominciava ad essere fondamentale nell’epoca sua e che continua ad esserlo oggi più che mai: la crescita, contraddittoria quanto si vuole, ma nazionale e mondiale del capitalismo sviluppato e la sua penetrazione - per l’appunto «onnipervasiva» - in ogni manifestazione della vita sociale e culturale. E non posso non chiedermi quali conseguenze teoriche i presupposti di tale analisi avrebbero avuto se Rosa fosse vissuta abbastanza per confrontarsi con l’altro polo di tale metodo d’indagine, vale a dire la teoria dello sviluppo ineguale e combinato.
Questa era stata elaborata originariamente da Trotsky (con intuizione iniziale di Parvus) e dalla stessa Rosa implicitamente accettata come valida (per es. nell’intervento al V Congresso del Posdr, Londra 1907, come riconosce anche Giorgio Migliardi che ha potuto esaminare i verbali del Congresso). Ma fu definitivamente avvalorata dal trionfo della rivoluzione in Russia, cioè nel paese per il quale essa era stata originariamente concepita e riassunta nella celebre formula di «teoria della rivoluzione permanente». (Ho ampiamente analizzato ed esemplificato i fondamenti di tale teoria nel mio Trotsky e la ragione rivoluzionaria [Massari ed., 1990, 2004, pp. 102-64] e a tale contributo è necessario rinviare.)
Se Rosa avesse avuto il temo di misurarsi direttamente con i fondamenti teorici di questo grande contributo trotskiano (ancor oggi indispensabile per l’elaborazione di qualsiasi teoria rivoluzionaria di transizione al socialismo), a loro volta ampliati e approfonditi da Trotsky negli anni dell’esilio, dal 1929 in poi, avremmo assistito a uno sviluppo fantastico del pensiero marxista: a una sorta di «sviluppo ineguale e combinato» di tale pensiero. Ma ognuno conosce le ragioni tragiche per le quali tale intreccio non si è potuto realizzare: Rosa fu uccisa dalla socialdemocrazia e Trotsky dallo stalinismo. (E qui tralascio di evocare i nomi di tutti coloro che avrebbero potuto dare un valido contributo a tale intreccio teorico e che furono invece sterminati dallo stalinismo: dal polacco Karl Radek al bulgaro Christian Rakovskij, dall’ucraino David Rjazanov al russo Evgenij Preobazˇ enskij, passando per Nikolaj Kondrat’ev e infine, perché no?, lo stesso Nikolaj Bucharin dell’Economia mondiale e l’imperialismo.)
Evocare Rosa come grande studiosa e anticipatrice delle moderne teorie dell’imperialismo, senza parlare della Rosa militante e dirigente politica, impegnata a combattere contro i processi di burocratizzazione dei partiti del suo tempo, sarebbe come andare in carrozza senza cavallo. Non solo Rosa fu interprete diretta nel processo di costruzione del primo partito rivoluzionario polacco (lo Sdkpil - Socialdemocrazia del regno di Polonia e Lituania) e del primo partito rivoluzionario tedesco (lo Spartacusbund, poi ribattezzato in Kpd, destinato purtroppo a trasformarsi dopo la sua morte nel Partito comunista tedesco staliniano), non solo ebbe modo di frequentare tutti i principali partiti aderenti alla Seconda internazionale, nonché le loro ali sinistre nel movimento zimmerwaldiano contro la Prima guerra mondiale, ma fu testimone diretta della degenerazione burocratica del Spd, il possente Partito socialdemocratico tedesco e il principale partito del movimento operaio internazionale sino all’avvento del bolscevismo e alla vittoria di Hitler.
Il processo d’involuzione burocratica del Spd - partito-Stato cui Rosa dedicò il meglio delle proprie energie teoriche e militanti - era già stato descritto minuziosamente e con dovizia di dati statistici da Roberto Michels, nella sua celebre opera La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911, 1925): un’opera che continua ad essere fondamentale non solo per il pensiero rivoluzionario, ma per qualsiasi storicizzazione dell’itinerario della forma partito in epoca moderna.
Rosa diede battaglia contro la degenerazione della socialdemocrazia, ai vertici come ai livelli intermedi, ma esitò a lungo prima di rompere col Spd per confluire nell’Uspd (i socialdemocratici «indipendenti»), fino a rendere autonoma da quest’ultimo, sia pure con tragico ritardo, la Lega Spartacus (lo Spartacusbund), il partito di cui fu fondatrice, teorica, dirigente e infine simbolo imperituro, avendo trovato la morte in combattimento tra le sue file - per mano di assassini socialdemocratic - insieme a Karl Liebknecht, Leo Jogiches e altri.
Non abbiamo difficoltà a ricostruire la battaglia di Rosa contro l’apparato dirigente della socialdemocrazia tedesca perché disponiamo di vari testi (più o meno estesi) in cui lei sviluppò tale battaglia. Vogliamo però sottolineare che quando decise di partire all’attacco contro i vertici dell’opportunismo in seno al movimento operaio, essa era già pienamente inserita nella vita e nella direzione di tale partito, incaricata di mansioni importanti (come i corsi di formazione in economia politica o la collaborazione ai principali organi di stampa), stimata e accolta con simpatia nelle varie istanze dell’organizzazione. Questa celebrità e il fatto di godere a sua volta di posizioni privilegiate nell’apparato non le impedirono comunque, a un momento determinato, di partire lancia in resta contro tutto ciò che essa considerava un autentico tradimento degli ideali del socialismo, esigendo coerenza, onestà e disponibilità all’azione di massa. Sappiamo che dal Spd non ottenne nulla di tutto ciò, ma le testimonianze dell’epoca ci dicono che l’impatto fu notevole. La storia della socialdemocrazia tedesca non sarebbe stata la stessa, senza la sua lotta antiburocratica.
Rosa si misurò anche con l’altra grande esperienza partitica dell’epoca sua, con la concezione dell’organizzazione politica che viene in genere sintetizzata nella formula molto imprecisa di «teoria leninista del partito». Tale teoria - soggetta a modifiche e oscillazioni continue da parte dello stesso Lenin fino agli ultimi giorni della sua vita - era stata però codificata in alcuni celebri testi (come il Che fare? o Un passo avanti e due indietro), che condensavano le origini del dibattito svoltosi nel Partito socialdemocratico russo, spaccatosi nel 1903 in due ali - bolscevichi e menscevichi - riunificatesi e poi separatesi con alterne vicende fino al 1917.
Rosa intervenne pesantemente in quella polemica, anche per ragioni di appartenenza nazionale: era un’ebrea polacca, con formazione russa dovuta al fatto di essere nata nel settore (il Regno di Polonia) annesso dall’Impero zarista. Parlava benissimo il russo e seguiva con estrema attenzione le vicende di quel grande Paese. Ciò continuerà anche dopo il trasferimento in Germania e la sua, diciamo così, «naturalizzazione» tedesca.
Il suo principale biografo, Peter Nettl, ha fatto un lavoro quasi pionieristico per ricostruire la parte polacca del suo sviluppo teorico e politico, sul quale nel passato si era invece preferito sorvolare. Ciò era dovuto al fatto pratico che la lingua polacca non era famigliare agli storici (con la nobile eccezione del polacco Isaac Deutscher) e al fatto tragico che, a partire dalla seconda metà degli anni ‘30, Stalin aveva fatto distruggere il gruppo dirigente e i residuo di apparato del Partito comunista polacco, spezzando qualsiasi continuità con le vicende dell’epoca luxemburghiana. Da posteri sappiamo che lo sterminio di quel partito doveva aprire la strada all’accordo con Hitler e all’invasione della Polonia, in accordo alla parte che il Protocollo segreto del Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939 assegnerà all’Urss.
I massacri di Katyn - tragica conseguenza, ma anche simbolo dell’intesa raggiunta fra i due totalitarismi più disumani prodotti dalle vicende della lotta di classe nel Novecento - saranno il punto di arrivo di questa feroce ostilità nazionalistica grande-russa dimostrata dallo stalinismo verso il popolo, l’esercito e le forze politiche della Polonia, Partito comunista incluso. È noto, comunque, che anche nella manifestazione di questa ferocia snazionalizzatrice (come del resto in altri aspetti della sua politica verso le minoranze nazionali o i popoli sottomessi), lo stalinismo recuperava una tradizione ultrasecolare dell’Impero zarista e che ciò non fu vero solo per l’odio antipolacco da parte dell’egemonismo granderusso.
Ebbene, nella fase più burrascosa della polemica sulla questione del partito, Rosa intervenne con forza e passione (Problemi d’organizzazione della socialdemocrazia russa, luglio 1904) contro le ipotesi «ipercentralistiche» di Lenin, come lei le definiva, così come contemporaneamente faceva Trotsky nel suo Rapporto della delegazione siberiana e soprattutto ne I nostri compiti politici (1904). E alla pari di Trotsky, su tali questioni anche Rosa non si schierò coi bolscevichi né coi menscevichi, ma affrontò a viso aperto il problema della democrazia politica all’interno delle organizzazioni partitiche o di massa: problema fondamentale anche nella nostra epoca e a tutt’oggi irrisolto. Anzi, di ancor più bruciante attualità, visto che la violazione dei princìpi della democrazia da parte degli apparati politici avviene in periodi di relativa pace sociale e non in un contesto molto speciale com’era la clandestinità, con le necessità di autodifesa organizzativa dalla repressione zarista.
Lenin ebbe torto in quella polemica, cambiò successivamente (in bene o in peggio) molte delle sue posizioni originarie e non ebbe comunque il coraggio di rispondere seriamente ai due critici più insidiosi - Rosa e Trotsky - che lo criticarono «da sinistra» e in nome di una prospettiva rivoluzionaria socialista quale si deduceva dalla teoria della rivoluzione permanente che all’epoca Lenin non accettava. (Si ricordi la sua posizione a favore della «dittatura democratica degli operai e dei contadini», abbandonata definitivamente solo nell’aprile 1917.)
A un testo demolitore delle concezioni organizzative (I nostri compiti politici di Trotsky, già citato) Lenin non se la sentì di rispondere e si limitò a offrirne un riassunto caricaturale in una lettera alla Stasova (14 ottobre 1904). Ma la sua risposta fu assolutamente insufficiente anche rispetto al principale testo teorico di Rosa sull’argomento, quello che si concludeva con la celeberrima epigrafe:
«I passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurbilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior “comitato centrale”» (Scritti politici a cura di L. Basso, p. 236).
Di qui nacque la leggenda nera di Rosa Luxemburg «spontaneista», un po’ per le sciocchezze che scrisse Lukács, in momentanea fase ultraleninistica (saggi raccolti in Storia e coscienza di classe), e un po’ per effetto della grande falsificazione storica dello stalinismo. Alla fine degli anni ‘60-primi anni ‘70, il militante giovane e inesperto che si fosse avvicinato alla politica in quel periodo - preso tra i nostalgici di una presunta «teoria leninista del partito» e l’esplodere dell’isteria maoista - avrebbe udito tra gli insulti politici più ricorrenti quello di presunte adesioni a una concezione spontaneistica dell’organizzazione e alla teoria del «partito-processo» - entrambe attribuite a Rosa Luxemburg, senza la benché minima fondatezza storica o testuale. Quel tipo di militante e i Caronti responsabili del suo traghettamento dall’irrazionalismo della disperazione piccolo-borghese a quello delle feree gerarchie d’apparato ignoravano bellamente il fatto che nell’arco della sua vita, Rosa fondò ben due partiti rivoluzionari (Sdkpil e Spartacusbund, poi Kpd) e fu militante devota del secondo fino alle ultime ore della sua vita.
Non teorizzò mai lo spontaneismo, né negò il ruolo di avanguardia dell’organizzazione politica rivoluzionaria. Solo che considerò sempre quest’ultima uno strumento in funzione delle necessità dei movimenti e non viceversa, come si verifica con la teoria del partito-apparato che utilizza i movimenti per i propri fini, che ai movimenti si lega quando gli è necessario, ma da loro può anche prescindere in funzione della propria ascesa istituzionale, economica, elettoralistica o da società dello spettacolo. A voler utilizzare una sigla, certamente riduttiva ma utile per chiarire il concetto, si potrebbe dire che contro la teoria del «partito-apparato» Rosa sviluppò la teoria del «partito-movimento», considerando quest’ultimo indissolubilmete legato alle esigenze dell’azione, della lotta di massa, del conseguimento rivoluzionario del fine.
Rosa non arrivò a scriverlo, ma si deduce da tutti i suoi scritti e dal suo esempio pratico che la prospettiva di tale partito sarebbe stata una graduale estinzione nella forma di compenetrazione sempre più profonda nelle strutture di mobilitazione del movimento di massa, mano a mano che questi avesse realizzato i proprio fini sociali, a loro volta marxisticamente (storicamente) determinati. Tutto il contrario di ciò che si è verificato nella tragica traiettoria del Partito bolscevico.
Ricordiamo che tali posizioni organizzative erano grosso modo condivise non solo da Trotsky (anche se questi successivamente le rinnegherà, a suo mortale discapito), ma anche da Parvus, l’ebreo di origine lituana che aveva avuto l’intuizione originaria della teoria della rivoluzione permanente. Non si rifletterà mai abbastanza sulla concordanza tra Rosa, Parvus e Trotsky nelle concezioni organizzative, ma anche sulla prospettiva del socialismo senza soluzione di continuità, sull’internazionalismo integrale e sulla strenua difesa degli organismi consiliari di massa contro le prevaricazioni partitiche. Una coincidenza teorica che dovrebbe insegnarci ad affrontare la questione organizzativa in relazione al programma che s’intende realizzare e non in astratto, sulla base di vuote dichiarazioni di principio.
Il 4 agosto 1914 rappresenta una cesura epocale: è il giorno in cui la Socialdemocrazia tedesca vota i crediti di guerra a favore della propria borghesia e per l’intervento nella prima guerra interimperialistica della nostra epoca. Quella data segna un prima e un poi nella storia del movimento operaio internazionale. (Che all’epoca, però, era essenzialmente europeo per concezioni e peso organizzativo, con la nobile eccezione del sindacalismo rivoluzionario degli Usa, il grande movimento degli Wobblies - Industrial Workers of the World - che successivamente arriveranno addirittura ad aderire alla Terza internazionale: in via temporanea, ovviamente, e fin quando in questa vi fu un clima di relativa democrazia e solidarietà di classe.)
A partire dal 4 agosto Rosa divenne il simbolo più fulgido dell’antimilitarismo rivoluzionario, insieme a Karl Liebknecht (ricordiamo che questi votò i crediti per disciplina, ma si era battuto perché il Spd non lo facesse e comunque alla seconda votazione votò contro, purtroppo da solo). Vano sarebbe il tentativo di fare di lei un simbolo del pacifismo, perché il suo slogan di muovere guerra alla guerra e di utilizzare la guerra per fomentare la rivoluzione significava in termini politici la trasformazione della guerra imperialistica in guerra rivoluzionaria contro la propria borghesia.
Esistono testi scritti da Rosa sull’antimilitarismo rivoluzionario che meriterebbero di essere riletti oggigiorno, quando vediamo governi presuntamente di sinistra (Prodi, D’Alema) partecipare alle avventure colonialistiche degli Usa, prestando le basi, aerei e piloti per bombardare la ex Jugoslavia, la Serbia, Belgrado. [Era il 1999. Ancora non c’era stato il voto del 2006 da parte del Prc, del Pdci e dei Verdi a favore dell’intervento dell’imperialismo italiano in Afghanistan, in Libano e in altri paesi (n.d.a.).] L’antimilitarismo di Rosa sarebbe incompatibile con simili comportamenti.
I problemi da affrontare sarebbero molti altri, per dare un quadro esauriente del contributo di Rosa a una teoria della rivoluzione socialista nel Novecento e per situare storicamente il grande contributo teorico che essa ha dato, in via diretta, al movimento operaio polacco, russo, tedesco e austriaco; in via indiretta al resto del mondo.
Non possiamo trascurare, tuttavia, l’ultimo grande contributo da lei fornito nell’analisi precisa e realistica dell’involuzione della Rivoluzione d’Ottobre, pur stando in carcere e pur avendo un accesso limitato a informazioni di prima mano. Universalmente noto, infatti, è il suo testo su La rivoluzione russa, dell’ottobre 1918 [Massari editore, 2004, con nostra introduzione] che rappresenta storicamente la prima denuncia dell’involuzione burocratica della Repubblica dei soviet in campo comunista, in una fase in cui le migliori intelligenze del marxismo internazionale tendevano ad esaltarne tutti i provvedimenti repressivi e a illudersi ciononostante sulle prospettive storiche di una ancor possibile transizione al socialismo. Non fu questo l’errore di Rosa, che invece ripeté sino alla nausea, nei discorsi e negli scritti, insieme a Liebknecht e allo Spartacusbund che la Rivoluzione russa si sarebbe potuta salvare solo con la vittoria della Rivoluzione tedesca.
Questa vittoria non ci fu, lo stalinismo in ascesa fece definitivamente propria la teoria menscevica del «socialismo in un solo paese» e la Rivoluzione russa si trasformò in un’immane tragedia da cui quel popolo non è ancora riuscito a riprendersi. Rosa fotografò, in un certo senso, i primi passi sbagliati di quel grande processo rivoluzionario, ne analizzò i procedimenti antidemocratici, pronosticò una crescente deresponsabilizzazione delle stesse masse che avevano reso possibile la vittoria - a favore di un potere gerarchico istituzionale calato dall’alto - e intuì che quei meccanismi avrebbero portato alla trasformazione dei dirigenti bolscevichi in un casta dotata di potere assoluto. Ed ebbe questa intuizione ancor prima che la burocrazia si fosse realmente costituita.
Tutto ciò non fu oggetto di un’elaborata sistemazione teorica (per la quale non ebbe il tempo di vita necessario), ma lo si ricostruisce facilmente dalle critiche rivolte esplicitamente - anche se con affetto e stima - a Lenin e Trotsky, da lei considerati i massimi dirigenti della Rivoluzione russa e quindi anche i massimi responsabili del suo declino.
Non è poco se si pensa alla contemporanea cecità di molte altre grandi menti del comunismo internazionale, come il Lukács già citato, o Gramsci e Bordiga (per restare in Italia). Rosa non rivendica un’idea astratta di democrazia o ancor meno un ritorno alla democrazia borghese. Afferma molto semplicemente che il processo di transizione al socialismo deve significare un totale sconvolgimento dei meccanismi della democrazia borghese e che tale risultato lo si ottiene non eliminando o limitando i suoi strumenti, bensì ampliandoli al massimo e facendoli investire dalla partecipazione delle masse: quelle stesse masse rivoluzionarie che hanno costruito i propri soviet e i propri comitati di fabbrica non per dare voce alle vecchie classi dominanti, ma per occupare quegli spazi in prima persona e trasformarli in strumenti della propria lotta per il socialismo.
Tale trasformazione si può ottenere cambiando i loro contenuti, ampliando il loro seguito di massa, affiancandoli ai nuovi organismi della democrazia diretta, inserendoli in un processo rivoluzionario più generale dell’intera società. Tutto il contrario di ciò che i bolscevichi avevano cominciato a fare, dapprima impercettibilmente (a partire dalle cosiddette «Istruzioni sul controllo operaio» del dicembre 1917), poi via via più scopertamente (illegalizzazione degli altri partiti soviettisti, proibizione delle correnti al proprio interno, imbrigliamento dei sindacati) fino alla totale liquidazione dei soviet come struttura alternativa allo Stato burocratico, culminata simbolicamente nel massacro del soviet di Kronsˇ tadt.
Come è noto, Rosa morirà pochi mesi (tre mesi circa) dopo aver scritto la sua critica della politica bolscevica e senza poter vedere realizzato il processo di sistematica demolizione degli organi della democrazia rivoluzionaria, che erano stati poi anche gli organi della mobilitazione popolare e di classe nel processo di ricostruzione dell’economia, di guerra all’aggressione esterna, dell’avvio del processo di edificazione di una società socialista.
Lo stalinismo la calunnierà soprattutto per questo suo ultimo decisivo contributo, mentre la socialdemocrazia tenterà a più riprese di appropriarsene per dimostrare l’inevitabilità della degenerazione della Rivoluzione russa. Ma non ci riuscirà mai, non solo perché il solo fatto di pronunciare il nome di Rosa Luxemburg evoca scioperi di massa, insurrezioni e lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, ma anche perché il suo comportamento e la sua testimonianza scritta sono la prova evidente che le cose si potevano capire già un anno dopo l’Ottobre, che, volendo, si sarebbero potuti prendere in tempo i provvedimenti adeguati e che ancora una volta la teoria avrebbe potuto precedere la pratica, dando a quest’ultima una direzione razionale e conforme alle necessità dello sviluppo storico.
Il riferimento a quest’ultimo contributo in difesa della democrarzia soviettistica ci riporta al dicorso iniziale sull’alternativa «Socialismo o barbarie» e ci fa intravedere di quali contenuti sociali e politici tale disgiuntiva si sarebbe dovuta riempire secondo la grande rivoluzionaria polacca. Si capisce che per lei il socialismo non è un’oasi, un punto di arrivo, bensì è un processo di lotte di massa, in cui il soggetto sociale della trasformazione opera già in accordo con i fini dichiarati e ricercati. Ciò lo si vede nel tipo di partito-movimento in cui si milita; nel rifiuto della dimensione nazionalistica, a tutto favore di quella internazionalistica; nel rapporto che si instaura fra strutture della democrazia borghese e strutture della democrazia socialista; lo si vede nella passione che si dedica all’elaborazione teorica, così come nella difesa della massima libertà di critica, che è sempre la libertà di chi la pensa diversamente, secondo un celebre aforisma di Rosa contenuto nella sua critica della Rivoluzione russa. Ma si veda anche la formulazione più organica dello stesso principio, contenuta in La crisi della socialdemocrazia (la Juniusbroschüre dell’aprile 1915):
«Il socialismo è il primo movimento popolare nella storia del mondo che si ponga come scopo e sia chiamato dalla storia a portare nell’agire sociale degli uomini un senso cosciente, un pensiero pianificato e con ciò il libero volere» (in Scritti politici, p. 447).
Il testo in cui vengono espressi con maggiore chiarezza e ricchezza di argomentazioni queste e altre caratteristiche indispensabili per avviare lo sviluppo di un processo rivoluzionario in senso socialista, è certamente Sciopero di massa, partito e sindacati del settembre 1906. Al di là delle polemiche sulla maggiore o minore utilità dello sciopero generale, Rosa sviluppa in forma organica e matura la concezione secondo cui il partito deve agire in funzione delle lotte di massa. Anzi, questa è la precondizione perché si possa realizzare un movimento politico dei lavoratori volto nella direzione del socialismo, il cui punto di arrivo è costituito dalla massima fusione tra masse e partiti, senza che questi rinuncino alle loro caratteristiche di organismi d’avanguardia o al loro diritto di proporre, correggere, anticipare o formulare le linee di azione che ritengano più consone alla crescita del movimento. Ma è all’interno delle strutture di massa (di mobilitazione nella lotta) che si verranno via via costituendo - dai sindacati, come nel 1904 in Italia (citati da rosa), ai soviet, come nel 1905 in Russia - che i partiti dovranno presentare i propri punti di vista, laddove gli organismi di massa avranno il potere decisionale.
La trasformazione sociale cui pensa Rosa implica una visione generale globale delle forze sociali in gioco e per realizzarla occorre il concorso, tra queste, di tutte le forze disponibili. In tal senso si può correttamente parlare di «utopia» (il socialismo) contrapposta alla «distopia» (la barbarie capitalistica), sperando di non dover ascoltare la ripetizione stucchevole delle solite frasi fatte e obsolete sulla presunta irrealizzabilità dell’utopia. Qui si tratta di un’autentica utopia organica, cioè di una visione globale della trasformazione sociale per la quale si fissano delle mete storicamente determinate e si richiede il concorso di tutte le forze sociali disponibili, vale a dire di una gran parte dell’umanità o della sua stragrande maggioranza.
Per Rosa - ma per chiunque abbia una visione del processo rivoluzionario realistica ed etica allo stesso tempo - la grande trasformazione non sarà mai opera di un’avanguardia (piccola o grande che sia) costituitasi indipendentemente dalle strutture di mobilitazione delle forze sociali decisive per la trasformazione stessa. Non sarà opera di una minorité agissante, come si diceva un tempo sulla scia di una semplificazione ingiustificata della tradizione giacobina; non sarà opera di singoli partiti o sindacati, e nemmeno di una federazione degli uni o degli altri. È lo spirito intrinseco dell’utopia, propositiva, costruttiva e realistica che si sprigiona dai testi e dalla vita di Rosa, e che essa racchiuse nella sua concezione originalissima del Massenstreik.
Due parole ancora su alcuni temi che non hanno visto un impegno reale (pratico o teorico) da parte di Rosa Luxemburg.
Uno è stato già nominato - la questione femminile - ricordando che invece la sua carissima amica Clara Zetkin su tale terreno è stata fortemente impegnata e il suo nome è ricordato come fondamentale nella storia del movimento delle donne.
Una seconda questione riguarda i problemi della cultura generale d’avanguardia, non necessariamente rivoluzionaria. Non si può negare un certo disinteresse, se non un vero e proprio atteggiamento settario. Rosa ha una grande formazione teorica nelle discipline che ricevono l’attenzione del marxismo nella sua epoca. Una grande formazione storica ed economica, uno studio infaticabile dello sviluppo dei popoli, una grande familiarità con i classici antichi e moderni, in funzione però delle «superdiscipline» di cui sopra. Da persona colta qual è - lettrice, ascoltatrice di musica, frequentatrice di mostre - stupisce il suo franco disinteresse per es. per le grandi correnti di avanguardia che fioriscono in quegli anni nelle arti figurative e musicali: il movimento die Brücke, i prodromi dell’espressionismo, der Blaue Reiter, il superamento del sistema musicale fondato sulla tonalità (dodecafonia, Schönberg, che tra l’altro fece parte anche del Blaue Reiter), il sorgere delle moderne tendenze razionalizzatrici in architettura ecc. Nei suoi scritti non troviamo tracce significative di movimenti di avanguardia così caratteristici e destinati a lasciare tracce profonde nello sviluppo della storia della cultura tra le due guerre.
In ciò è molto diversa da Trotsky, autore di opere di critica letteraria ancor oggi fondamentali per chi voglia studiare la letteratura russa del tempo. Grande conoscitore di quella ed altre letterature, non cessò di occuparsene nemmeno negli anni 1917-1919, arrivando a produrre la sua opera più matura in tale campo (Letteratura e rivoluzione) nel 1924, vale a dire in anni che hanno visto il suo massimo impegno sul fronte militare e di edificazione della nuova economia. Tra gli enormi meriti storici di Trotsky, non si può non includere anche l’introduzione della psicoanalisi in Russia, in evidente polemica (ma non in rottura) con il meccanicismo pavloviano.
Parlando di due giganti del pensiero, mi si permetta di formulare il paragone seguente, senza incorrere in irrispettose semplificazioni: né Rosa né Parvus - per citare gli altri due poli dell’insostituibile terzetto - seppero assimilare così profondamente le principali manifestazioni artistiche e intellettuali del loro tempo, arrivando a dotarsi di una visione globale sovranazionale del rapporto avanguardia-masse in campo culturale come riuscì invece a Trotsky. E questo fermandoci all’anno della morte di Rosa (1919), senza considerare i successivi sviluppi del pensiero trotskiano fino al 1940.
Una terza questione ce la dice direttamente Peter Nettl, l’insuperato biografo: Rosa dimostrò poca attenzione ai meccanismi costitutivi dell’organizzazione sociale in senso lato, in piena analogia con atteggiamenti simili molto comuni nell’àmbito dei grandi pensatori marxisti dell’epoca. Ed effettivamente dobbiamo riconoscere che sono assenti la problematica dei mass-media (in un’epoca di grandi trasformazioni e giganteschi sviluppi), l’avvento della «società di massa» (ideologia della società industriale, l’emergere di una cultura consumistica, nuovi modelli di alienazione), le modifiche strutturali nell’organizzazione del lavoro (in fabbrica, soprattutto, ma anche nel terziario, nel rapporto città-campagna), i nuovi flussi di urbanizzazione (le metropoli, il traffico ecc.), il cinematografo...
Ma stiamo parlando di un fiore molto particolare, di una Rosa rossa che più rossa e più spinosa non si può, reciso in un momento di tempesta epocale foriera di quella «mezzanotte nel secolo» di cui parlerà un suo diretto discendente spirituale: Victor Serge. Da quanto detto fin qui, siamo portati a credere che, se non fosse stata uccisa a gennaio del 1919, Rosa avrebbe affrontato alcune di queste o altre problematiche significative anche per l’elaborazione di un discorso rivoluzionario, con la stesso connubio di passione e lucida razionalità con cui si era impadronita dei principali strumenti teorici dell’epoca sua: strumenti che essa considerava indispensabili per analizzare il rapporto borghesia-lotta di classe su scala internazionale e l’alternativa socialismo-barbarie in campo sociale e ideologico.
Anche per questo, memori del tentativo compiuto dallo stalinismo di diffamare il ricordo di questa grande rivoluzionaria, ci sembra utile continuare ad approfondire lo studio del suo pensiero, con il proposito esplicito di dare un nuovo significato storico e un valore sempre attuale all’avviso che Trotsky scagliò a giugno del 1932 contro il despota georgiano - grande-russo di adozione - affossatore della Rivoluzione dei soviet: «Giù le mani da Rosa Luxemburg!».
Nessun commento:
Posta un commento