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giovedì 11 novembre 2010
L’INTERPRETAZIONE DEL BERLUSCONISMO
L’INTERPRETAZIONE DEL BERLUSCONISMO
di Michele Nobile
Pubblichiamo la quinta parte del saggio "La postdemocrazia internazionale e la crisi di legittimità strisciante del sistema dei partiti in Italia". Le prime tre parti sono apparse il 17 e 18 ottobre (Vedere anche "Etichette" sotto la voce Nobile Michele).
La quarta parte "Analisi delle tendenze reali in Italia: una crisi strisciante dei rappresentatività e di legittimazione" verrà pubblicata nei prossimi giorni.
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ORA CHE BERLUSCONI PARE ALLA FRUTTA, E' PURE IL MOMENTO DI FARE I CONTI CON QUANTI HANNO AGITATO LO SPAURACCHIO DEL «REGIME», AL FINE DI APPOGGIARSI AL MENO PEGGIO E RITORNARE IN PARLAMENTO.
V. Parole al vento: populismo, bonapartismo, carisma. L’interpretazione del berlusconismo.
1. Dunque, se le differenze nella politica economica e sociale e internazionale tra le due coalizioni sono di grado e di modi, piuttosto che di sostanza, se le durate complessive dei governi di centrosinistra e di centrodestra sono, fino ad ora, pressoché equivalenti, e se l’astensione esprime un profondo disagio politico e sociale che tende a colpire entrambe le coalizioni, sarebbe più corretto parlare di un sistema politico in comproprietà tra centrosinistra e centrodestra, piuttosto che di regime «berlusconiano».
Eppure, passività e omissioni, collaborazione e «inciuci» tra le due coalizioni, si alternano a periodi ed a discorsi nei quali i competitori mettono in discussione la capacità, o anche la legittimità, dell’avversario a governare, con toni da «guerra fredda» quasi a riproporre, ma in modo simmetrico, la vecchia logica della conventio ad excludendum nei confronti del Pci. Nel frattempo, notabili e spezzoni di apparato migrano da uno schieramento all’altro.
I politologi hanno notato l’anomalia per cui in un sistema bipolare come quello italiano (ma non bipartitico), nel quale l’alternanza di governo dovrebbe essere riconosciuta come fatto normale e scontata la legittimità del competitore, le campagne elettorali (quasi permanenti) comportano una forte componente di contrapposizione «ideologica» (le virgolette sono d’obbligo perché un vero scontro di ideologie o tra alternative visioni del mondo sarebbe benvenuto; ma non è il nostro caso). L’effetto risulta contraddittorio: da una parte si può avere una «mobilitazione drammatizzante» dell’elettorato,
«dall’altra, l’accresciuto senso di disincanto di un elettorato che sembra percepire ambiguità e debolezze, “splendori e miserie” dei leader mediatici, così impegnati a costruire eventi televisivi e controversie di campagna da apparire sempre più ai suoi occhi come le fragili vedettes di un lungo, sconclusionato “spettacolo politico» («Interesse per la politica, appartenenza di coalizione e giudizio sui leader: gli effetti della campagna elettorale», di Mauro Barisone, in Dall'Ulivo al governo Berlusconi. Le elezioni del 13 maggio 2001 e il sistema politico italiano, a cura di Gianfranco Pasquino, Il mulino, Bologna 2002, p. 178).
Ciò può spiegare il fenomeno dell’astensionismo asimmetrico. Ma sulla spettacolarizzazione della politica tornerò più avanti.
La tesi circa l’avvento di un regime peculiarmente berlusconiano è parte di questa «mobilitazione drammatizzante». Essa verte, essenzialmente, su due punti: sul tipo di rapporto corrente tra l’elettorato e il capo della coalizione di governo, definito con termini come carismatico, populistico, bonapartistico soft; e sulla creazione di una cintura di immunità, sia attraverso leggi ad personam, sia attraverso la delegittimazione di settori della magistratura e la «riforma» della stessa, di modo da invalidare il principio di eguaglianza davanti alla legge e da alterare i rapporti tra i diversi poteri dello Stato.
La connessione tra i due punti è costituita dalla concentrazione berlusconiana del controllo sui mass media, con quel che ne consegue sulle potenziali capacità di influenzare unilateralmente l’opinione pubblica e in termini di conflitto di interessi; e dal rafforzamento del potere dell’esecutivo, funzionale alla «personalizzazione» della direzione politica. E’ dunque possibile un discorso secondo il quale la coalizione di centrodestra, nell’insieme estranea all’esperienza della unità antifascista e della Costituente, comprensiva di un partito di originaria matrice neo-fascista e di un altro dai connotati populisti xenofobi e retoricamente «secessionisti», muove in direzione opposta allo spirito ed alle norme ed agli istituti di garanzia propri della Costituzione repubblicana. La lesione berlusconiana dello Stato di diritto è completata dalla diffusa corruzione dei suoi seguaci nell’amministrazione pubblica, sulla «patrimonializzazione» della stessa o, come si diceva in riferimento alla Dc, sulla «occupazione dello Stato», e nella promozione dell’illegalità diffusa, ma specialmente a favore dei più ricchi.
Resta, ancora da comprendere perché la competizione nel mercato politico italiano possa raggiungere i livelli della reciproca delegittimazione e se si possa utilmente caratterizzare il berlusconismo, almeno per affinità o analogia, con una delle categorie in uso nella storiografia e nella sociologia politica quali populismo, bonapartismo, potere carismatico.
2. La profonda crisi di legittimazione dei partiti del vecchio centrosinistra obiettivamente assegnava al mutante del vecchio Pci, solo grande partito sopravvissuto a «tangentopoli», la responsabilità di stabilizzare la scena politica. In assenza di una forza opposta e paragonabile, il rischio era che si liberassero delle energie sociali che iniziassero a fare i conti con gli squilibri, i dualismi, le «patologie» che affliggono la società italiana più che altri paesi di analogo livello di sviluppo capitalistico. Ciò, sia chiaro, non a causa ma nonostante l’orientamento degli ex-Pci: questi, dal canto loro, fecero quanto potevano per mantenere la crisi del «regime democristiano» entro i limiti della riforma istituzionale, facendo della modifica regressiva della legge elettorale il perno del nuovo «Risorgimento» nazionale.
Quali che siano stati i calcoli di interesse personale, Berlusconi «scese in campo» per evitare che l’Italia finisse in mano ai «comunisti». Demagogia pura, certo. Per farsi principe dei gattopardi Berlusconi dovette improvvisare con tempi da record una macchina elettorale con quel che aveva a disposizione, l’apparato del suo gruppo mediatico e finanziario. E, necessariamente non poteva che mettere insieme «cani e porci» e puntare sulla convergenza di motivi ideologici e interessi socio-economici contraddittori: sul settore di elettorato democristiano più clericale, su coloro che più erano attaccati al vecchio centrosinistra e al Psi craxiano, decisionista e della «Milano da bere», ma anche su quello che aveva sviluppato un’avversione nei confronti della Dc e del vecchio centrosinistra, rappresentato dalla Lega nord (che nel 1992 aveva già, in assoluto, più votanti che nel 2008, 3,3 milioni contro 3 o, in percentuale sugli adv, il 7,1% contro il 6,4%, dati elezioni per la Camera); nonché sul serbatoio di voti visceralmente anticomunisti del Msi. Doveva riuscire a combinare l’antistatalismo della «rivolta fiscale» del ricco Nord contro «Roma ladrona» con il clientelismo statalista nel Mezzogiorno, il nazionalismo dei «nostalgici» del Msi, in parte «sdoganati» da Craxi, con il secessionismo padano, la volgarità amorale televisiva con il tradizionalismo bigotto e il familismo cattolico.
Berlusconi ha saputo far leva su una parte importante della «biografia della nazione»: e la parte peggiore, in termini di valori. Ma bisogna tener presente che ciò in cui crede un elettore non risponde automaticamente a quel che è la «natura» del partito di riferimento: il centrodestra non è una formazione politica che semplicemente promuove il self-made man padano, né è semplicemente clericale e meno che mai nostalgica del fascismo. Non è realmente una formazione di «destra», non più di quanto il centrosinistra abbia un cuore di «sinistra». Prendere sul serio la «preoccupazione per la disoccupazione» del centrosinistra e la critica dell’inerzia del governo Berlusconi nella crisi è cadere in preda a un miraggio, esattamente quanto credere nel «buon governo» e nelle promesse, con tanto di «contratto» firmato in televisione, di Berlusconi.
Dal punto di vista del marketing politico nella società dello spettacolo e della spettacolarizzazione politica, il centrosinistra soffre della difficoltà di offrire l’immagine di un «prodotto» forte e simpatico. Berlusconi è invece un «animale spettacolare» per eccellenza. Ma è anche «animale politico» che gioca, in modo affatto privo di scrupoli, sulla dicotomia politica per eccellenza tra amico e nemico, e in un modo che, in definitiva, per ora si è risolto a suo vantaggio; o, perlomeno, gli permette di ridurre danni che, in altro paese, sarebbero irreparabili. Si tratta di uno dei paradossi del personaggio, già paladino della libera impresa eppure oligopolista, difensore della famiglia cristiana e utilizzatore di escort.
Dietro il berlusconismo ci sono i dualismi peculiari dell’Italia, e la strana saldatura, in un blocco solidamente controllato dal centrodestra, di due aree territoriali agli antipodi, non solo geografici: il nord, specialmente il nord-est, e la Sicilia: l’area più sviluppata, ricca e competitiva nell’economia italiana, e una delle aree meno sviluppate, più povere, più clientelari. Oltre la «zona rossa» dell’Italia centrale, nel quale il vecchio Pci e il nuovo centrosinistra sono anch’essi saldamente al potere (nonostante le recenti «incursioni» elettorali leghiste), le altre regioni sono contendibili.
3. Si intende bene perché, chi prenda sul serio il principio «la legge è uguale per tutti» e il parlamentarismo, e sia sinceramente e onestamente antifascista e antirazzista, debba odiare Berlusconi e il centrodestra. Non credo che nel secondo dopoguerra, in Italia e probabilmente in Europa occidentale, ci siano stati uomini di Stato che più di Silvio Berlusconi abbiano contribuito a screditare il potere giudiziario e l’istituzione parlamentare come luogo di elaborazione ideologica dell’«interesse generale»; un paragone forse si può fare con Richard Nixon, più che con De Gaulle. Nella sua persona e nella sua qualità di capo di una coalizione, Berlusconi incarna la crisi del parlamentarismo italiano. E l’incarna nel modo più rozzo, così come, nell’origine, nel comportamento e nella retorica, il centrodestra incarna quanto di peggio e di schiettamente incivile possa rintracciarsi nella «biografia della nazione». «Nazione» che quasi due secoli or sono, e in particolare nei suoi ceti benestanti, Leopardi vedeva intrisa di cinismo e portata a ridere senza ritegno di sé e del prossimo. Ma, in un’inconsapevole applicazione di quello che molto più tardi si dirà «legge» dello sviluppo ineguale e combinato, pur nella sua arretratezza e mancanza di «società stretta», quell’Italia leopardiana non faceva che esprimere, nella sua filosofia di vita, la meschina verità della ragione calcolatrice della più moderna ed avanzata Europa (capitalistica, e «società stretta» perché retta dagli intensi scambi mercantili propri di un’articolata e crescente divisione sociale del lavoro i quali, per svolgersi tranquillamente, richiedono che si debba avere un minimo di illusioni, di fiducia, di cura per la pubblica opinione e, almeno, che non ci si rida in faccia; Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, marzo 1824).
Quel che sfugge agli anti-berlusconiani è però il fatto che in Italia il parlamentarismo è in crisi per motivi che prescindono da Berlusconi e soci, che hanno un’origine e una dimensione internazionale, e che implicano, con responsabilità determinanti, anche la coalizione di centrosinistra, in particolare il partito in essa più importante. Paradossale, ad esempio, la non volontà del centrosinistra di risolvere la questione del conflitto di interesse e della concentrazione televisiva, quando avrebbe potuto: frutto di miopia o di opportunismo tattico o di una combinazione dei due elementi ma, in fondo e obiettivamente, espressioni del politicismo elitario che accomuna la casta politica.
I ripetuti attacchi delegittimatori all’operato di settori della magistratura, le proposte di riformarne la struttura, le leggi ad personam e a protezione dei vertici del potere politico, i condoni e le depenalizzazioni, tentate o attuate a favore dei più ricchi, configurano, nell’insieme, un attacco al principio di eguaglianza davanti alla legge. Questa spudoratezza è cosa grave anche dal punto di vista dell’opinione pubblica internazionale sinceramente liberale; ed è significativa della continuità di fatto tra il «berlusconismo» e il clientelismo associati alla vecchia Dc o, meglio, della continuità con i dispositivi e la mentalità corruttivi dilaganti negli anni Ottanta. Non è un caso che la sedicente «capitale morale» d’Italia fosse «base» sia per Berlusconi che per Craxi: tra i due (ancor più che tra Berlusconi e la Dc) furono strettissimi sia la reciproca complicità e sostegno sia la visione e lo stile politici.
Questo, al di là dell’apparenza di Berlusconi come «uomo nuovo», è il più importante aspetto di continuità reale con il «regime democristiano», nel formato degli anni Ottanta, e il paradosso della «seconda repubblica».
Ma, nello stesso tempo, è anche un grave fattore limitante per la costruzione di un «regime berlusconiano». Nonostante i caratteri postdemocratici dello Stato italiano esso resta, e non può che restare, uno Stato parlamentare e di diritto (per quanto leso, anche da quel «diritto penale d’emergenza» al quale il Pci tanto contribuì): in questo quadro, la persistenza del conflitto di interessi e la protervia con cui Berlusconi si scaglia su parte della magistratura, muovono in senso contrario alla stabilizzazione politica, alla sua legittimazione e alla capacità di integrare e dare coerenza all’insieme degli apparati statali. La contraddizione rimarrà anche se il centrodestra riuscirà a produrre una cintura protettiva intorno alle più alte cariche dello Stato.
Il problema di fondo di questa coalizione è proprio andare oltre la personalizzazione dello scontro politico: di questo sono consapevoli i «centristi» e Fini. Si tratta però di una contraddizione che è difficile superare, almeno fino alla morte del caudillo. Quando tale contraddizione fosse superata verrebbe meno un grave fattore «distorsivo» e polarizzante della scena politica e istituzionale italiana, intorno al quale si concentrano grandi energie e attività istituzionali, e che rende più problematica l’alternanza di governo.
Bisogna ricordare che il fenomeno del conflitto di interessi e di scandali che interessano i più alti livelli del governo non è peculiare dell’Italia, ma che da noi si presenta in forma esasperata, con facce che più che nel bronzo paiono forgiate nell’acciaio inox. E ricordare anche che la corruzione non è esclusività del centrodestra, come mostrano i fatti della Campania e dell’Abruzzo, o i sogni di voli finanziari intorno alla Unipol.
4. Insieme allo stile politico di Berlusconi, la crisi di legittimazione e di rappresentatività partitica del «regime democristiano» costituiscono, in prima approssimazione, argomenti favorevoli a caratterizzare il berlusconismo mediante analogie con categorie quali populismo, bonapartismo, fascismo. E’ il caso di prendere in considerazione testi non giornalistici e con un impianto teorico e storico.
Delle tre categorie quella più ambigua, meno definita e meno autonoma, ma anche la più utilizzata, è "populismo".
Ora, se per «populismo» si intendono la demagogia, il fare promesse o creare aspettative che poi non saranno mantenute, uno stile del linguaggio verbale e non verbale nella comunicazione di massa, un modo di rivolgersi direttamente al «popolo» da parte di una personalità, si può concordare che Berlusconi sia, in questo senso, «populista». Ma questa è accezione molto riduttiva e mistificante del termine. Innanzitutto perché, allora, il Cavaliere è il populista di maggior successo sulla scena politica italiana, oltre che un ghiotto bersaglio, ma certamente non è l’unico. Anzi, la retorica nazional-populista è stata massicciamente immessa nella politica italiana dai «progressisti», da coloro che fecero della riforma della legge elettorale il nuovo Risorgimento del popolo italiano. Populista è la retorica della sinistra di «terza via», che ha abbandonato ogni riferimento alle classi; populista è Barack Obama. Strumento di populismo plebiscitario sono le elezioni primarie; il successo di Vendola può essere letto in chiave populista, e populista era sicuramente il già citato manifesto di Rifondazione e altre trovate retoriche analoghe.
Questa è una fenomenologia che può essere detta "populista"; ma è «populismo» giornalistico e che si riferisce al linguaggio e all’organizzazione dello spettacolo politico. Nel nostro caso presuppone che sua Emittenza si rivolga unilateralmente al popolo atomizzato degli spettatori televisivi.
Ma populismo vero è molto di più.
Il populismo per eccellenza, il più grande e appassionante fenomeno politico e culturale che sia così definito, fu quello russo, negli ultimi decenni del XIX secolo e fino ai primi anni della rivoluzione sovietica. Fu vicenda assai complessa, magistralmente ricostruita nella monumentale opera di Franco Venturi. Personalmente ritengo che la storia dell’«andare verso il popolo» della giovane intellighenzia russa sia tra le più appassionanti e commoventi dell’Europa moderna. Ma quel che conta ora è che il movimento populista per eccellenza non fu affatto di destra: fu anche anarchico; il terrorismo antizarista fu approvato e visto con speranza da Marx ed Engels; i socialisti rivoluzionari di sinistra furono parte integrante della rivoluzione russa e del primo governo sovietico: la loro espulsione da quel governo fu parte dell’involuzione della rivoluzione.
Aleksandr Ulianov venne impiccato nel 1887 per aver progettato, con altri militanti della populista Narodnaja volja (La volontà del popolo), la liquidazione fisica dello zar Alessandro III: suo fratello Vladimir, allora diciassettenne, sarà poi noto con lo pseudonimo Lenin.
Corretta, e applicabile anche al campo politico, è la definizione di Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo (1965) , sottotitolo Il populismo nella letteratura italiana:
«L’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello» (p. 13, ed. 1976).
La storia di Asor Rosa inizia con Gioberti e Mazzini e termina con Pasolini (nel capitolo sulla crisi del populismo): e in mezzo si trova il populismo resistenziale del Pci, il più autentico e importante della storia italiana del Novecento. E poiché Asor Rosa populista non era, definì i limiti politici dei populisti in termini validi anche per il Pci:
«Il loro programma potrebbe essere riassunto nella formula: contro il grande capitale (quindi, spesso, anche contro la grande borghesia), in nome del popolo, contro ogni organizzazione autonoma della classe operaia» (p. 17).
Espressione questa della relativa arretratezza di gran parte della cultura italiana.
Fatto è che il termine «populismo» da solo non può affatto servire per caratterizzare in modo peculiare fenomeni politici di destra ed autoritari. Come nel caso di «nazionalismo» si deve distinguere tra partiti o correnti orientate alla liberazione nazionale e alla lotta all’imperialismo e partiti o correnti volti ad opprimere altre nazionalità e all’imperialismo, così per il «populismo» si devono distinguere partiti o correnti anti-oligarchiche, progressiste, orientate in senso democratico (non equivalente a liberale) e partiti o correnti nei quali il richiamo al «popolo» è la copertura di politiche volte a ristabilire il dominio di classe.
Fino a questo punto il discorso riguarda i movimenti populisti: e nell’Italia di fine XX secolo il solo movimento populista era lo pseudonazionalismo padano e retrogrado della Lega lombarda. E scrivo era perché non mi pare proprio che nei comuni e nelle regioni dove la Lega è una forza di potere essa abbia creato un regime populista. Certo, i suoi capoccia possono fare discorsi immondi (ed assolutamente irresponsabili come uomini di governo: vedi il caso della maglietta antiislamica di Calderoli finemente esposta in tv); le amministrazioni comunali possono negare moschee e diritti agli immigrati, e scrivere le indicazioni stradali anche in lingua locale (che a malapena capiranno gli indigeni); e si può anche conquistare il «federalismo», ma in chiave opposta a quella di Carlo Cattaneo. Ma tutto ciò è cosa diversa sia da un vero e militante nazionalismo di liberazione da «Roma ladrona», che è ridotto ad annuale liturgia anche perché capita che i leghisti da Roma governino, sia, e specialmente, dal tessuto di istituzioni che costituiscono uno specifico regime politico. Perché il punto è proprio questo: caratteri e possibilità di un potere, di una politica statale, di istituzioni, che sulla base dell’esperienza storica possano dirsi propriamente populisti.
5. Per Nicola Tranfaglia, ad esempio, quello di Berlusconi è un «populismo autoritario» nel senso di un vero e proprio regime personale (La resistibile ascesa di Silvio B. Dieci anni alle prese con la corte dei miracoli, Baldini Castoldi Dalai, Milano, e Il populismo autoritario. Autobiografia di una nazione, entrambi per Baldini Castoldi Dalai, Milano, rispettivamente 2004 e 2010).
Come storico di professione Tranfaglia non può fare a meno di ricordare il populismo russo, ma solo en passant. Ritiene, invece, che «nel Novecento il populismo abbia trovato la sua espressione maggiore e più evidente nel nazionalsocialismo tedesco di Adolf Hitler» e, subito dopo, precisa che nel populista coesistono due visioni del popolo,
«una è l’immagine del popolo come massa salvifica, l’altra come massa incolta. Il popolo incarna, in ogni caso, valori salvifici e se è incolto, entra in gioco il capo carismatico che dichiara che la cultura di quella razza è superiore e universale» (Il populismo autoritario, 29).
Direi che ciò mutila la caratterizzazione del nazismo e riduce il «populismo» a fatto della destra estrema, con conseguenze concettualmente disastrose per l’interpretazione storiografica e la politica contemporanea. Qui lo storico ha ceduto completamente il campo al militante politico.
L’assimilazione di populismo e autoritarismo è indicativa dell’inconsapevole (?) assorbimento di un pregiudizio liberale: quello per cui il potere del popolo, cioè la democrazia, coincida con il dispotismo. In questo caso, il restringimento dell’ambiguità connessa al termine «populismo» confonde, invece che chiarire, il senso dell’eventuale «populismo» berlusconiano.
Ma in fondo Tranfaglia si rende conto di quanto sia debole la sua prima caratterizzazione del populismo. Deve precisare (contraddicendo la precedente schematizzazione) che l’equiparazione delle dittature di destra con il populismo è un errore; e allontanarsi dall’Europa del fascismo e del nazismo, per ricorrere agli «archetipi» sudamericani del brasiliano Getulio Vargas e dell’argentino Juan Domingo Perón. Specie al peronismo, per cui
«una forte personalizzazione che esalta la guida carismatica, distrugge la democrazia e instaura un regime autoritario nel quale la divisione dei poteri diventa una parola vana e il leader comanda su tutto, senza controlli né freni» (ibidem, p. 48).
Secondo Tranfaglia l’affinità tra Perón e Berlusconi è tanto forte che egli teme che gli italiani possano essere «costretti a sopportare ancora per molti anni l’egemonia trionfante dell’erede (peggiorato) di Perón nel nostro paese» (ibidem, p. 138, corsivo mio).
Ma dal «populismo» nazista a quello sudamericano, da Hitler a Vargas o a Perón, esiste una distanza enorme, qualitativa, non semplicemente geografica. Tanto grande che mi trovo in imbarazzo: una seria comparazione del peronismo con altri «populismi», veri o presunti, richiederebbe prima che si spiegasse cosa era il peronismo, e troppe pagine in più. Me la cavo con una citazione, dall’Introduzione di Roberto Massari a Il peronismo, secondo il quale una serie di circostanze favorevoli, nazionali e internazionali,
«abbiano contribuito insieme ad altri elementi a produrre un fenomeno senza precedenti e cioè il fatto che nella più grande mobilitazione operaia della storia latinoamericana il ruolo di guida sia spettato per quasi un decennio al partito dell’ala più dinamica della borghesia nazionale, sulla base di un programma economico-sociale di pura ripartizione del reddito e di aggiornamento della legislazione esistente.
Ciò spiega perché, a differenza di altri movimenti nazional-popolari latinoamericani (come l’aprismo, il varghismo ecc.), all’interno del peronismo sia potuta proseguire la lotta delle correnti più propriamente operaie (per composizione ed ideologia) contro la direzione e il programma borghese del movimento, nell’ambito di un quadro unitario e senza che le divergenze politiche arrivassero ad esprimersi in programmi alternativi (...)
Il peronismo è stato dal 1945 in poi, fino agli ultimi anni del primo governo (1955), una forma particolare di bonapartismo, fondata sull’equilibrio instabile tra una borghesia nazionale ricca e interessata a ricontrattare il rapporto di dipendenza, e un movimento operaio combattivo, ma riformista, e quindi interessato ad aumentare la propria quota di partecipazione nella ripartizione dei benefici prodotti da una serie di circostanze eccezionali» (Il peronismo, a cura di Roberto Massari Erre emme edizioni, Bolsena 1997, pp. 15-16, nuova ed. di Peronismo e movimento operaio, Jaca book, Milano 1975).
Gino Germani, invece, enfatizzava gli effetti, per ampiezza e specialmente per rapidità, delle trasformazioni strutturali dell’Argentina negli anni 1935-1947, in particolare la disponibilità alla mobilitazione politica derivante dalla migrazione interna e dalla crescita degli addetti all’industria. In questa prospettiva il peronismo è una fase di integrazione nazionale, politica, culturale e sociale: «gli strati popolari trovarono un loro posto riconosciuto e legittimo – nella misura normale per una avanzata società di classe» (in Momenti dell'esperienza politica latino-americana, il Mulino, Bologna 1974, a cura di Ludovico Garruccio, con saggi anche sulla Bolivia e il Brasile).
Perón era un militare, ma il fondamento del suo potere era il proletariato urbano, organizzato in sindacati, molti dei quali creati dallo stesso regime. Questo lo pone in tutt’altra logica politica di quella di Berlusconi: si riesce a immaginare un berlusconismo che abbia come nocciolo duro la burocrazia sindacale?
Arrestato dai militari il 9 ottobre 1945, quando non era ancora Presidente, Perón venne liberato a furor di popolo. Berlusconi, l’oligarca e plutocrate oligopolista, «liberista», antisindacale e prono all’imperialismo Usa, circondato da «azzurri» in giacca e cravatta, non ha nulla a che fare con il peronismo dei descamisados argentini. Semmai, in quei contesti, Berlusconi sarebbe stato tra i golpisti anti-Perón o anti-Allende o tra quelli anti-Chávez (pure citato semplicisticamente da Tranfaglia, ma almeno in questo caso la comparazione con Perón è meno fantastorica). La differenza tra peronismo e berlusconismo traspare in un accenno nel libro di Tranfaglia: «quello che differenzia il populismo berlusconiano rispetto agli esempi latino-americani è la politica economica a cui si ispira la coalizione di centro-destra» (Tranfaglia, op. cit., p. 94).
Appunto: ma la politica economica non è un accessorio secondario che si aggiunge alla politica: si può dire che ne esprima la sostanza, le contraddizioni, il quadro delle alleanze e dei conflitti sociali. Il regime peronista era una forma di bonapartismo, di una complessità e contraddittorietà che col «berlusconismo» non ha nulla a che fare. Ma chi può riuscire a concepire un «berlusconismo di sinistra» (o anche un «leghismo di sinistra») che pratichi la lotta armata per l’indipendenza nazionale e la giustizia sociale, come fu per diverse organizzazioni e frazioni del «peronismo di sinistra», dal Movimiento revolucionario peronista (1964), di cui le Fuerzas armadas peronistas erano il braccio militare, ai montoneros? A sentire una cosa del genere temo che un argentino con conoscenza delle cose italiane si metterebbe le mani nei capelli, o più probabilmente si sbellicherebbe dalle risate.
6. Il peronismo, si è detto sopra, può essere inteso come una variante del bonapartismo. Ma anche questa categoria può essere definita e usata in modi diversi.
Per Nicos Poulantzas prima maniera, in Pouvoir politique et classes sociales (1968), il bonapartismo è quanto caratterizza il tipo capitalistico di Stato nella sua autonomia relativa dall’economia. Il bonapartismo è qualità intrinseca dello Stato capitalistico in quanto, da una parte, solo eccezionalmente la borghesia giunge a dominare direttamente sul piano politico, a causa anche della sua divisione in frazioni in lotta; dall’altra, per esercitare la propria funzione egemonica nei confronti delle classi dominate, lo Stato capitalista deve mantenere la sua autonomia dalla borghesia.
Anche per Domenico Losurdo il bonapartismo è una costante della politica nella società capitalistica, ma in modo molto diverso che in Poulanzas. Per quest’ultimo il bonapartismo è una costante strutturale dello Stato, direi il risultato, peculiare del modo di produzione capitalistico, della separazione e concentrazione dei poteri economici e di quelli politici in sfere ed in apparati distinte. Per Losurdo il bonapartismo è piuttosto la risposta della borghesia liberale alle istanze democratiche della classe dominata,
«un nuovo modello di controllo politico e sociale delle masse, nell’ambito del quale il suffragio universale è neutralizzato dalla posizione assolutamente eminente del presidente della repubblica o del capo dell’esecutivo che, da una parte cerca di ingraziarsi le classi considerate pericolose mediante alcune limitate concessioni (sviluppo dei lavori pubblici, calmiere ai fitti nelle grandi città ecc.), dall’altra cerca di incanalare e deviare il malcontento verso l’esterno, inalberando lo stendardo della Francia nel mondo» (Democrazia o bonapartismo, p. 60).
Su Poulantzas (del 1968), Losurdo guadagna in specificità storica, e rende meglio l’idea marxiana che l’ascesa di Luigi Bonaparte fu la vittoria «del potere esecutivo sul potere legislativo, della forza senza frase sulla forza della frase», che con lui «lo Stato sembra essere diventato completamente indipendente», al punto di poter cadere preda di un avventuriero che ha comprato la soldataglia con acquavite e salsicce.
Per Losurdo il bonapartismo soft berlusconiano è l’aspirazione al presidenzialismo, combinata con un enorme potere mediatico, il modellarsi della propaganda politica sulla pubblicità commerciale, il sistema elettorale uninominale, la campagna ossessiva e «terroristica» contro i partiti e le organizzazioni «pesanti». Egli assimila il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica a due altri «movimenti reazionari» italiani, quello della fine del XIX secolo e il fascismo, tutti caratterizzati da un «colpo di Stato o tentativo di colpo di Stato [che] si dispiega su un arco di tempo abbastanza prolungato», come successione di «strappi istituzionali» (La seconda repubblica, p. 52).
Qui abbiamo diversi problemi:
a) il bonapartismo soft non è il fascismo, ma l’inserimento nella medesima categoria dei «movimenti reazionari», che procedono per golpes più o meno striscianti, non è affatto innocente. Il punto è che il fascismo non fu solo «uno dei periodici movimenti di reazione con cui la borghesia depura o cerca di depurare il più possibile il regime liberale degli elementi di natura democratica o sociale considerati spuri» (ibidem, p. 40). Non è scoperta di chi scrive che il fascismo, germogliato sotto uno Stato liberale, fu una forma di Stato (capitalistica) diversa da quella liberale, e che esso non «depurò», ma annientò le organizzazioni del movimento operaio. Questo Losurdo lo sa, ma, di nuovo, la passione politica gioca brutti scherzi.
b) I libri di Losurdo citati risalgono al 1993 e al 1994. Da allora il colpo di Stato strisciante ha concluso il suo corso oppure no? O ci stiamo avvicinando, dopo alcuni lustri, al momento fatale? La tempistica è importante per comprendere la natura del regime politico, per la ragione che dico avanti.
c) Nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica hanno certamente svolto un ruolo importante attori reazionari, quali Cossiga, «il picconatore» già ministro degli interni nei governi appoggiati dal Pci, e la Lega. Ma non solo loro. Alla campagna reazionaria di riforma del sistema elettorale in senso maggioritario parteciparono non solo gli organi di stampa «progressisti» ma esponenti del Pds (Augusto Barbera, innanzitutto); il Pds, con Cesare Salvi capo gruppo nella commissione parlamentare per le riforme istituzionali, sosteneva per il Senato un sistema al 70% maggioritario con doppio turno alla francese, e un sistema più arzigogolato per la Camera, maggioritario-uninominale a un turno per il 52% dei seggi, il resto con attribuzione proporzionale tra i non eletti. Il risultato del referendum abrogativo relativo al sistema elettorale del senato, 82,7% di sì, e il 77% degli adv, non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della «sinistra progressista». Il neo (o post) fascista Msi, da cui derivò An, invece, era contrario.
d) Come già detto, presidenzialismo e/o sistema uninominale non sono esclusivi dell’Italia: il che dice molto sulla liberaldemocrazia, ma meno sui «movimenti reazionari» in senso proprio. I presidenti Kennedy o Mitterand erano «reazionari»? Per pura ipotesi: Bertinotti presidente in una Repubblica presidenziale sarebbe «reazionario»?
La concezione dello Stato di Poulantzas (del 1968) ha, su Losurdo, il pregio di evidenziarne la natura capitalistica indipendentemente dal regime politico e dai dettagli istituzionali, quella «separatezza bonapartistica» che fa anche del regime parlamentare una forma non-democratica, e di demistificare la nozione di «sovranità popolare» facendo del «popolo» qualcosa che si costituisce attraverso la rappresentanza indipendente dagli elettori. Losurdo, invece, è attaccato all’idea dei partiti di massa come mandatari del «popolo». E questo non solo contrasta con la realtà della sovranità del sistema dei partiti sul popolo, ma elimina la questione della burocratizzazione e della interna mutazione dei partiti nati dal movimento operaio.
7. Ma il problema comune agli usi del bonapartismo di Poulantzas (1968) e di Losurdo, e che è comune ad altri modi di definire il berlusconismo, è che il bonapartismo, come il fascismo, è una forma di Stato (capitalista) d’eccezione. Dopo Pouvoir politique, in Fascisme et dictature (1970), lo stesso Poulatzas pose il problema di comprendere come «specie differenti e particolari di crisi, sfocino ciascuna in forme di regime d’eccezione – bonapartismo, dittature militari, fascismo – specifiche della forma dello Stato d’eccezione» (p. 66).
Condizione minima perché si possa usare in modo sensato la nozione di bonapartismo è una situazione di crisi acuta del conflitto tra le classi sociali, tale che tra esse esista una sorta di equilibrio, anche se non paritario, sicché il Bonaparte di turno possa atteggiarsi ad arbitro e «salvatore della nazione».
Negli ultimi quattro decenni qualcuno ha visto una crisi di questo genere in Italia?
Sorge allora la domanda: a che genere di crisi corrisponderebbe un «regime berlusconiano»? Non certo alla crisi del «regime democristiano», giacché negli anni Novanta il nostro candidato Bonaparte governò poco più di sei mesi e in modo inconcludente, al contrario del lungo «regno» dei suoi competitori. Peraltro, negli anni decisivi della crisi egli era stato preceduto dai governi di Amato e Ciampi, «governi tecnici» ma riconducibili all’area ampia di «centrosinistra», e garantiti dal Presidente Scalfaro: ecco, lo spazio nel quale avrebbe dovuto inserirsi un novello Bonaparte italiano venne occupato dal Presidente. Si può ben dire che di fatto nel 1993-1994 il regime politico italiano sia stato di fatto presidenzialista, che Scalfaro abbia sganciato il governo dalla crisi di legittimità e rappresentatività del vecchio centrosinistra, così garantendo l’autonomia dello stesso, nella logica del bonapartismo come tratto generico dello Stato nel Poulantzas di Pouvoir politique.
Ma... Scalfaro come Bonaparte? Non scherziamo.
Berlusconi può aver riorganizzato parte del vecchio elettorato democristiano e craxiano, rivendicando una certa continuità «anti-giustizialista», ma ciò è l’opposto del bonapartismo che, per definizione, si contrappone ai vecchi partiti. Semmai, fu l’area dell’attuale centrosinistra, centrata sul partito mutante derivato dal Pci, ad essere protagonista della neutralizzazione della crisi del «regime democristiano».
Si può dire che il sistema elettorale proporzionale e un regime parlamentare «puro» rafforzino sia la «rappresentatività» che la «democraticità» di un regime liberaldemocratico e, viceversa, che l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, grazie al sostegno del maggior partito della «sinistra» italiana, e il presidenzialismo di un Berlusconi sono fatti, tra numerosi altri, indicativi del degrado del livello di «democraticità» del sistema politico italiano. Ma in quanto tali non hanno un carattere «eccezionale» né preludono a un regime d’eccezione, quale la dittatura, il bonapartismo o il fascismo. In Italia non esiste alcuna ragione per cui si abbia un regime d’eccezione.
Piuttosto, da una parte il sistema politico italiano sembra allinearsi a quello di altri paesi a capitalismo avanzato; dall’altra, proprio le peculiarità italiane drammatizzano, con ciò evidenziandole, tendenze internazionali.
Meglio che in altri paesi a capitalismo avanzato, in Italia è più chiaro che siamo in presenza di un’involuzione storica della liberaldemocrazia, che le «riforme» istituzionali puntano a rafforzare i privilegi della casta politica e la «governabilità» e che, specialmente le «riforme» avanzate dal centrodestra, sono viziate da palese strumentalità, quali l’autodifesa di Berlusconi, e da contingenze tattiche, quali la necessità di dare soddisfazione alla Lega nord.
Nonostante la retorica e il narcisismo megalomane, a Berlusconi e soci manca l’ampiezza della visione politica necessaria a costruire un «regime» peculiare, come il fascismo o il peronismo; e, in realtà, gli mancano perfino gli strumenti politico-economici, in forza delle privatizzazioni e dell’unione monetaria. Per esercitare un ruolo politico direttivo nei processi socio-economici era meglio e più attrezzata la Dc fanfaniana della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Valendosi di nuovi investimenti nell’industria di Stato la Dc fu protagonista di un’iniziativa di alta politica, riuscendo, sia pur parzialmente, a modificare i rapporti interni al capitalismo italiano e tra questo e il capitalismo internazionale.
Il «berlusconismo», non meno del centrosinistra, è invece «vittima» consenziente e godente del cosiddetto «liberismo»: il che significa che sia il centrosinistra che il centrodestra sono meno capaci di direzione politica dei processi socio-economici, quindi di grande iniziativa politica. Ad entrambe le coalizioni mancano grandi politici; i dirigenti di entrambe le coalizioni si pongono, invece, come amministratori di tendenze «spontanee».
Ma, se rispetto al grande capitale ed alle istituzioni internazionali il centrosinistra può vantare, e gli viene riconosciuto, il successo politico per l’opera di privatizzazione e di convergenza intorno ai parametri di Maastricht, migliori capacità amministrative e di rigore fiscale, nonché nella neutralizzazione delle tensioni nei sindacati, il successo interno del berlusconismo risiede, più che nelle sue capacità «creative», nel suo essere in sintonia con queste tendenze spontanee, con gli interessi immediati e diffusi del capitale «nazionale» più bisognoso di protezione. E, senza più la possibilità di svalutazioni competitive, la «protezione» più facile risiede nell’avere mano la più libera possibile nello sfruttamento della forza-lavoro e pagare meno tasse che si può. Questo è il capitalismo più piccolo, non solo nel senso dimensionale: quello meno capace di grandi operazioni finanziarie, che meno accede ai circuiti del credito, che non ha capitale da impiegare nella ricerca e nell’innovazione, che meno sopporta anche un minimo di tutela sindacale. E’ un capitalismo perdente.
L’argomentazione recentemente portata dalla ministra della pubblica istruzione, secondo la quale lo spostamento a ottobre dell’inizio dell’anno scolastico sarebbe nell’interesse dell’industria del turismo, è un esempio grottesco dell’adeguamento all’interesse immediato di un settore del capitalismo nazionale a danno dell’«interesse generale» dello stesso. Su un piano diverso, si possono ricordare la rivendicazione, leghista e di Tremonti, di misure protettive dell’industria tessile e dell’abbigliamento italiana a fronte della concorrenza cinese, quando arrivò a scadenza (2005) l’accordo multifibre, le critiche alla passività dell’Unione europea e le affermazioni, demagogiche, sull’euro: tutti segni del disagio di un capitalismo «nazionale» la cui struttura delle esportazioni è irrimediabilmente arretrata, che è preso tra l’incudine della concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione e a salari irragiungibilmente «competitivi» e il martello del «mercantilismo» tedesco e delle esportazioni a più alto contenuto tecnologico.
Come imprenditore Berlusconi stesso è l’emblema vivente delle caratteristiche e dei limiti del capitalismo italiano: non solo è vicino ad una posizione monopolistica, non solo ripete il controllo familiare sul gruppo, ma opera in mercati obiettivamente protetti dalla concorrenza estera, quali l’edilizia e le comunicazioni.
8. Prima ho indicato il materiale con cui Berlusconi doveva necessariamente partire. Ma il Cavaliere non ha solo assemblato pezzi preesistenti. Ha realizzato una sintesi. Per questo carattere sintetico è difficile restringere la caratterizzazione del principe dei gattopardi in un’etichetta esaustiva, in una categoria politologica tradizionale. Grande comunicatore e venditore di sogni, caso esemplare di personalizzazione della politica, potrebbe far pensare a un politico carismatico (una lettura di Berlusconi attraverso le categorie weberiane in Paul Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003.
Ma per Max Weber:
«il carisma è una potenza in linea di principio straordinaria, e quindi necessariamente extra-economica, ma minacciata nella sua virulenza non appena gli interessi della vita economica quotidiana prevalgono come minaccia di accadere ovunque» (Max Weber, Economia e società. IV. Sociologia politica, Edizioni di comunità, 1995, p. 228)
Il carisma è un «dono» che conferisce potere non per scelta ma per doveroso riconoscimento dei destinatari del messaggio; è qualcosa che è pertinente al campo dello straordinario e ad una missione con la quale il capo è identificato, è congenitamente instabile e in opposizione al potere di tipo patriarcale o burocratico. Ora, se è vero che
«Il condottiero e il suo seguito cercano la preda; il detentore del potere plebiscitario o il capo carismatico di partito cercano i mezzi materiali della loro potenza, ed il primo soprattutto cerca lo splendore materiale del potere per consolidare il prestigio del suo dominio»
è pur vero che
«Ciò che tutti disprezzano – finché esiste un genuino potere carismatico – è l’economia ordinaria di carattere tradizionale o razionale, con l’obiettivo di “introiti” regolari conseguiti mediante un’attività continuativa diretta a tale scopo» (Max Weber, Economia e società. I. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di comunità, 1995, p. 241, corsivo mio.)
Dunque, per alcuni tratti il personaggio politico Berlusconi somiglia a un capo carismatico; ma per altri decisivi ne diverge. Un capo carismatico non dispone di un’organizzazione burocratica razionale quale un’impresa capitalistica, men che mai di un grande gruppo finanziario; non può vantare un successo economico né presentare un «conflitto d’interesse». Non è uomo dell’economia ordinaria e razionale. E’ antitetico al capitalismo; è invece, per Weber, un sostegno del «comunismo, se con questo termine intendiamo la mancanza della “contabilità” nel consumo dei beni e non l’organizzazione razionale della produzione dei beni in vista di un “calcolo” in qualche modo comune (“socialismo”)» (Max Weber, Economia e società. IV. Sociologia politica, Edizioni di comunità, 1995, p. 227.).
Neanche il potere di tipo patrimoniale si presta a concettualizzare la figura politica di Berlusconi. Volendo se ne può vedere un tratto nell’utilizzo dell’apparato amministrativo personale per estendere il potere del signore al di fuori della sfera «domestica», ma il patrimonialismo tende a rompere con la razionalità formale, cioè di tipo capitalistico, orientata al profitto: o regolamentando l’economia «in senso materiale, cioè in base a ideali “culturali” di carattere utilitaristico o etico-sociale e materiale» o in forza dell’arbitrio fiscale (Max Weber, Economia e società. I. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di comunità, 1995, p. 235.).
Insomma, per un certo verso Berlusconi potrà anche essere un sultano «patrimonialista», ma il vero patrimonialismo cozza con il «neoliberismo», la deregolamentazione, la detassazione.
In effetti, presi in se stessi i tipi ideali weberiani del potere carismatico e del potere patrimonialistico non si prestano a caratterizzare la politica di uno Stato capitalistico, per il semplice motivo che queste forme del potere legittimo vennero concepite in contrasto con la moderna forma razionale del potere burocratico, nel quale la razionalità è condotta dominata dalla regola, impersonalità della gerarchia contrapposta al potere personale, obiettività della legge contrapposta all’arbitrio soggettivo. Per Weber il potere burocratico può svilupparsi compiutamente solo in un’economia monetaria, sia perché solo questa può assicurare le entrate necessarie a retribuire i funzionari, sia perché l’agire economicamente razionale, tale perché basato sul calcolo monetario, richiede che anche il funzionamento del potere politico sia «calcolabile» e prevedibile.
9. Weber fu teorico del potere burocratico come «guscio d’acciaio» della modernità, dell’analogia tra la macchina inanimata «come spirito rappreso» e la burocrazia come «macchina vivente», ineliminabile anche con la scomparsa del capitalismo.
Ma Weber, e se non bastasse il resto qui fu veramente grande, riconobbe pure la necessità del potere carismatico ai vertici della società capitalistica. Perché se la burocrazia, pubblica e privata, è l’ossatura del potere nel mondo moderno, il funzionario-macchina può fare osservazioni su un ordine ma in definitiva è un esecutore tenuto all’obbedienza. Fantasia, coraggio e innovazione non sono, diciamo così, il suo forte, non devono esserlo. Ma per il dirigente, politico o imprenditore, che sia effettivamente tale, le cose stanno altrimenti:
«Il funzionario deve stare «al di sopra dei partiti”, cioè in realtà al di fuori della lotta per acquisire una potenza propria. Invece la lotta per la conquista della potenza e della responsabilità personale di fronte alla propria causa, che da essa deriva, costituisce l’elemento vitale del politico e dell’imprenditore» (Max Weber, Economia e società. IV. Sociologia politica, op. cit., p. 504).
Il punto venne riconosciuto da Marcuse: il dominio formalmente razionale dell’amministrazione burocratica non è altro che l’apoteosi della reificazione della ragione e della ragione reificata come mezzo, strumento. Ma questo strumento formalmente razionale deve avere uno scopo fuori di se: e questo è dato dalla « lotta per la conquista della potenza e della responsabilità personale». Così la razionalità formale dell’apparato come mezzo richiede l’irrazionalità del potere carismatico del dirigente impegnato nella lotta come fine. E mentre l’apparato burocratico si sottomette al capo carismatico, il carisma stesso si rovescia modernamente in dominio di interessi. L’amministrazione «effettivamente razionale tenderebbe ad eliminare il dominio», ma essendo l’apparato costruito «sul terreno del dominio», è necessario limitare e manipolare la «democratizzazione» (formale) che l’amministrazione richiede. La soluzione della contraddizione
«ha la sua espressione classica nella democrazia plebiscitaria, in cui le masse destituiscono periodicamente i loro capi e ne determinano la politica, sotto condizioni predeterminate e ben controllate dai capi. Così per Max Weber il suffragio universale non è soltanto risultato, ma anche strumento del dominio nel periodo della sua perfezione tecnica. La democrazia plebiscitaria è l’espressione politica dell’irrazionalità diventata ragione» (Herbert Marcuse, «Industrializzazione e capitalismo nell'opera di Max Weber», relazione del 1964, in Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969, p. 257, corsivo mio).
Penso che queste osservazioni di Marcuse siano utilissime, oggi più che al momento in cui vennero formulate, per porre in relazione il carisma e la burocrazia partitica e statale (o meglio, partitico-statale). Qui la questione non è tanto quella del carisma del capo in condizioni di crisi e dello Stato d’eccezione anti-parlamentare, ma del carisma in regime parlamentare, con regolari e periodiche elezioni, l’esistenza di un’opinione pubblica, insomma della vita politica in una «democrazia rappresentativa» matura. Quale, ad esempio, quella italiana.
In questa prospettiva il personaggio Berlusconi potrà essere visto nella sua peculiarità ma anche nella sua normalità, per quel che lo rende più carismatico rispetto ai grigi burocrati di centrosinistra, ma anche per quel che essi hanno in comune.
In entrambi i casi i capi puntano al riconoscimento carismatico, all’investitura «popolare», ma non possono essere compresi al di fuori della crescita del potere dell’amministrazione e dello svuotamento del parlamentarismo.
Questo discorso può integrarsi con quello di Debord circa la società dello spettacolo, non come mero risultato dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, ma del rapporto sociale capitalistico.
Sotto il profilo socio-economico, «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale», apoteosi del consumo di massa alienato, sussunzione totale del valore d’uso al denaro come valore che valorizza se stesso e che, in quanto equivalente generale della totalità delle merci perviene a un grado di autonomia tale da divenire protagonista di uno spettacolo di cui guardare, e subire, le conseguenze.
Sotto il profilo politico lo spettacolo è il momento dell’unificazione che riproduce la separazione, della istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro e del potere rispetto agli spettatori:
«E’ la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo è quindi un’attività specializzata che parla per l’insieme delle altre. E’ la rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove ogni altra parola è bandita. Il più moderno qui è anche il più arcaico» (ibidem, p. 49).
Qui c’è molto di quello che sarà poi il postmoderno, ma senza il postmodernismo. Ciò di cui parlava Debord è la società dello spettacolo come modalità d’esistenza del capitalismo avanzato (con un parallelo circa il sedicente «socialismo realizzato» come «spettacolare concentrato» e per questo dominato dalla polizia). In una società in cui «il più moderno qui è anche il più arcaico», può darsi un movimento di banalizzazione per il quale la repressione morale può «combinarsi come un’unica cosa con l’affermazione ridondante del godimento di questo mondo, questo mondo essendo prodotto solo come pseudogodimento che sostiene in sé la repressione» (ibidem, p. 66). Ed ora,
«Concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile, la vedette, rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente, concentra dunque questa banalità. La condizione di vedette è la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto d’identificazione alla vita apparente senza profondità, che deve compensare il frazionamento delle specializzazioni produttive effettivamente vissute. Le vedette esistono per rappresentare tipi variati di stili di vita e di stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente»
«L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo per se stesso come ovviamente per gli altri» (ibidem, p. 67).
10. Oltre trent’anni fa Alan Wolfe notava, a proposito di un dibattito televisivo del 1973 tra il segretario del Partito comunista francese Georges Marchais e il futuro presidente Valery Giscard d’Estaing, che esso rivelava
«un singolare scambio tra i ruoli. Marchais era il più realista che usava il linguaggio della concretezza dei programmi e delle tappe necessarie all’ingresso al governo; Giscard appariva invece come l’utopista che descrive le immagini di un futuro tecnocratico, finalmente immune dal conflitto in campo sociale e tecnologico e in grado di offrire a tutti una vita migliore. Una identica inversione di ruoli si verifica anche nel campo della teoria» (I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981, p. 462).
Traeva poi alcune conclusioni generali sulla politica nella società tardocapitalistica:
«La paura del conflitto di classe trasforma i cultori dell’utopia in pragmatisti, mentre l’ambizione del potere fa vestire a quest’ultimi i panni degli utopisti (...)
A quel fenomeno che nel capitolo precedente ho descritto in termini di “reificazione dello Stato” si accompagna perciò l’idolatria del potere, che prescinde completamente dai fini cui esso è rivolto. Il potere non va più temuto, ma esaltato. Il potere è bene, realizza, rende puri, e se è potere assoluto, rende assolutamente puri (...) In una simile prospettiva, unica finalità del sistema politico diviene l’accumulazione e distribuzione del potere, e in tale sistema entra a far parte della élite solo chi adempie a tali funzioni (...).
Nel capitalismo maturo, la reificazione dello Stato ed il taglio operato sull’immaginario politico conducono al formarsi di una ideologia rivolta ai mezzi della azione, non ai fini. E poiché non è affatto facile motivare la gente su problemi di mezzi, una volta che la classe dirigente abbia distrutto i fini, sempre più difficile diviene il compito di produzione ideologica dello Stato e dei suoi apparati. Di fronte a questa difficoltà, come una persona impaurita che riacquisti contemporaneamente la fiducia nelle proprie forze e nell’intervento della provvidenza, le classi dominanti subiscono simultaneamente il fascino della Realpolitik più spietata e della più caritatevole delle utopie.
La società tardocapitalistica insomma, di necessità fa virtù, del cinismo un’utopia e del nichilismo una missione» (ibidem, pp. 463-464)
La «personalizzazione» della politica è tentativo di costruire un’immagine carismatica, ma il carisma del moderno spettacolo politico richiede un apparato, è fattore che presiede alla centralizzazione e unificazione dell’amministrazione sotto un vertice, è costruzione artificiosa e intrinsecamente contraddittoria perché legata a un processo di alienazione politica in cui è la macchina d’apparato a dominare. Quali sono le «missioni» di cui gli aspiranti leaders possono farsi portatori? La «missione» del centrosinistra fu portare l’Italia «in Europa», nel secolo scorso. E ora?
Berlusconi ha dimostrato di essere il miglior «animale politico» in campo perché, rispetto ai «concorrenti», concentra e gestisce al meglio le contraddittorie caratteristiche comuni dello statista tardocapitalistico: «di necessità fa virtù, del cinismo un’utopia e del nichilismo una missione».
Il migliore, ma non tanto da «berlusconizzare» la società, e probabilmente non tanto da non rimanerne ammaccato.
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