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venerdì 31 dicembre 2010
CUBA 2011:
ANNO DELL'ECONOMIA (DI MERCATO)
(sintesi)
di Roberto Massari
Sabato 18 dicembre 2010 si è svolta la riunione nazionale di Utopia rossa dedicata all’analisi della Cuba odierna, in vista anche della convocazione del VI congresso del Pc cubano per aprile 2011.
[Va ricordato che i congressi precedenti sono stati tenuti a intervalli irrregolari, dalla fondazione ufficiale nel 1965 al I congresso (1975), al II (1980), al III (1986), al IV (1991), al V (1997). Tutti i congressi hanno semplicemente ratificato decisioni già prese dalla direzione e in nessun congresso sono state poste in votazione posizioni di minoranza perché non ne sono mai state presentate.]
La discussione è stata introdotta da un’ampia relazione di Roberto Massari che ha richiamato le linee generali dell’analisi da lui messa per iscritto a giugno del 1975 (e ripubblicata in tempi recenti). Quell’analisi, secondo il relatore, è stata confermata da tutta la successiva storia di Cuba e ha dimostrato la sua ininterrotta validità fino al periodo attuale. Ora, invece, si richiedono delle rettifiche sostanziali, sulle quali la relazione si è soffermata lungamente e delle quali viene qui fornita solo una rapida sintesi.
Elaborata nel pieno del processo di sovietizzazione dell’Isola (cioè negli anni in cui avveniva il ritorno alla monocultura dello zucchero, all’insegna di una nuova monodipendenza: dall’Urss), l’analisi del 1975 affermava che nel corso del 1967-68 era giunto a termine un processo di grande instabilità ed effervescenza politica, animato da forti spinte nazionaliste contrapposte, tra le quali era emersa anche una corrente soggettivamente rivoluzionaria, di tendenziale orientamento internazionalistico, storicamente identificata con Ernesto Guevara (e sostenuta dallo stesso Fidel Castro in alcuni periodi). Dopo la partenza del Che, l’abbandono da parte del governo dei suoi progetti d’industrializzazione, la sconfitta del suo modello di costruzione del socialismo e la sua morte in Bolivia, la direzione castrista aveva cercato un’integrazione crescente - politica, economica e militare - con il blocco sovietico, entrandone a far parte integralmente nonostante le proprie origini antistaliniane e nonostante il carattere sempre più apertamente controrivoluzionario del gruppo dirigente brezneviano. A partire dalla data simbolica di approvazione dell’invasione della Cecoslovacchia (agosto-settembre 1968) e dal successivo fallimento della zafra dei «10 milioni» (1970) a Cuba apparve definitivamente instaurato un regime che con terminologia classica fu da noi definito come «centrista burocratico», nel quadro di un blocco del processo di transizione al socialismo rivelatosi in seguito come irreversibile. Fu quella una definizione analitica caratteristica della corrente internazionale cui apparteneva Massari (Fmr) e che non fu purtroppo condivisa ufficialmente da nessun’altra corrente internazionale, a causa dell’adesione al maoismo degli uni o al filosovietismo degli altri, nonché a varianti apologetiche del castrismo di altri ancora.. Quel centrismo burocratico subì processi involutivi via via crescenti e col tempo si sarebbe certamente trasformato in una dittatura burocratica come negli altri paesi del Comecon se non vi fosse stata la crisi dell’Urss alla fine degli anni ‘80.
Con la partenza dei sovietici e la fine della monodipendenza, l’economia fondata sulla monocultura dello zucchero andò in crisi e il centrismo burocratico dovette cominciare a fare i conti con un contesto internazionale mutato e con gravi problemi di ordine economico: il período especial, una sorta di «comunismo di guerra» caraibico.
La relazione di Massari ha ricostruito quel periodo d’importanza nevralgica per capire i mutamenti attuali in corso a Cuba, soffermandosi in modo particolare sulle «riforme» degli anni 1993-94 fino al 1996: legalizzazione del dollaro; fine del monopolio statale del mercato estero con apertura a investimenti stranieri europei, canadesi e latinoamericani; ripartenza dell’iniziativa privata (lavoro en cuenta propia scomparso dal marzo 1968); trasformazione delle aziende agricole statali in cooperative; apertura dei mercados agropecuarios (libero mercato contadino); avvio di un sistema fiscale; aumenti dei prezzi al consumo; crescita controllata della disoccupazione con parallelo calo di sussidi; tolleranza verso la crescita abnorme del mercato nero; calo degli investimenti nella zafra e aumento nel turismo; crescente penetrazione del capitale straniero nel turismo, ma anche nelle prospezioni petrolifere, miniere (nichel in primo luogo), telecomunicazioni, edilizia, tessile, tabacco e agrumi (soprattutto con Israele); «adozione» di un triplice sistema monetario (peso, dollaro e peso convertibile).
La relazione si è soffermato sulle «riforme» del 1993-96 perché non vi siano dubbi che le attuali «riforme» (proposte nel documento per il VI congresso, «Lineamenti di politica economica e sociale», di 32 pagine e 291 articoli), non rappresentano nulla di nuovo rispetto al passato sul piano dei contenuti. E anzi gli orientamenti attuali sembrerebbero il naturale sviluppo degli orientamenti emersi all’inizio degli anni ‘90 sotto la spinta del período especial e il rischio di crollo del regime dopo la fine dell’Urss.
Va detto che, allora come oggi, il governo cubano non ha mai tentato di coinvolgere i lavoratori nei processi di decisione e realizzazione di tali «riforme». Nessun ruolo ai sindacati, nessuna apertura alla discussione pubblica (che implica spazio per il dissenso), nel partito o sulla stampa, nessun tentativo di dar vita a organismi di mobilitazione dal basso in cui il popolo potesse decidere modi e tempi dei sacrifici da compiere. L’assenza di coinvolgimento dei diretti interessati non poteva che accompagnarsi a un inasprimento sempre più forte delle misure di repressione del dissenso (di destra o di sinistra), della chiusura antidemocratica negli organismi politici e sociali, tra la gioventù studentesca e a tutti i livelli dell’apparato statale. In questo si ripeteva e si ripete l’esperienza negativa della Nep che, mentre concedeva aperture crescenti alla penetrazione del capitalismo, distruggeva ogni residua parvenza di democrazia nel regime dei soviet.
Tra il sistema economico fondato sulle «riforme» del 1993-96 e quelle proposte dal documento congressuale vi sono però anche delle differenze importanti, sulle quali va richiamata l’attenzione. Le si potrebbero considerare differenze quantitative, perché all’epoca il processo di apertura al capitale estero e di tagli allo stato sociale era agli inizi, mentre ora tocca grandi fette dell’economia e milioni di lavoratori. Ma in un’isola piccola come Cuba, priva di risorse importanti, senza alcuna forza competitiva sul mercato estero e con una instabilità economica ormai cronica, acquistano un forte valore qualitativo.
Utilizzando fonti di varia provenienza, la relazione ha descritto la presenza del capitale estero nel settore del turismo, dimostrando che anche se in termini percentuali e quantitativi il controllo maggioritario delle aziende del settore sembrerebbe ancora formalmente (giuridicamente) dello Stato cubano, in realtà, in termini qualitativi il controllo è già in mani capitalistiche, di ben precise aziende multinazionali radicate in paesi imperialistici. Queste dominano in forma diretta e indiretta (ivi compreso il tramite della corruzione) le principali attività turistiche cubane avendo la possibilità di gestire i flussi di turisti dall’estero (agenzie, linee aeree, pubblicità), di garantire una ristorazione di qualità, di assicurare rifornimenti indispensabili (per es. la manutenzione degli alberghi), e soprattutto disponendo di fonti di credito, risorse finanziarie, know-how, strumenti propagandistici ecc. Il turismo, che non è un mezzo di produzione, ma una forma ibrida di sfruttamento dell’ambiente in termini naturali e culturali in cui confluiscono le più diverse attività economiche, è però diventato la principale fonte di reddito per Cuba. Ebbene, il capitale estero ne detiene il controllo essenziale e per giunta un controllo che si irradia in forma via via crescente anche verso altri settori dell’economia.
Tra le molte cifre citate da Massari, va ricordato che Cuba è un paese fondamentalmente agricolo che importa più del 50 per cento del fabbisogno alimentare (oltre il 70% nell’alimento principale: il riso), che le sue esportazioni vanno, in ordine d’importanza, verso la Cina, il Canada, la Spagna, l’Olanda e le sue importazioni provengono, nell’ordine, da Venezuela (30%), Cina, Spagna e Usa (6%).
In tale contesto acquistano un valore particolare le misure proposte dal documento congressuale perché mostrano con estrema chiarezza la volontà da parte del governo di accelerare tutte le tendenze di apertura al capitalismo messe in atto dai primi anni ‘90.
I 291 articoli del documento congressuale sono per lo più una lista abbastanza dettagliata di puri e semplici desideri, vale a dire di ciò che sarebbe utile fare a Cuba nei vari comparti dell’economia, ma che non si potrà fare. In quanto tali non hanno un gran significato, anche perché il popolo cubano è abituato da decenni a sentirsi dire quante cose belle si faranno, dovendo poi far fronte alla drammaticità della vita quotidiana. Nel documento, tra l’altro, del popolo non si parla mai: non è previsto che esso agisca come soggetto attivo e cosciente in questo processo di crescente trasformazione capitalistica dell’economia.
Alcuni (pochi) articoli, però, sono molto concreti e non vi sono dubbi che il governo tenterà di tradurli in pratica. Ecco i più significativi: art. 19, collegamento dei salari alla produttività; art. 23, autonomia decisionale delle aziende nella fissazione dei prezzi e dei servizi (proprio il principio contro cui aveva combattuto duramente il Che all’epoca del debate económico del 1963-64); art. 27, vendita diretta al pubblico da parte delle cooperative agricole senza l’intermediazione statale; art. 49, criteri di produttività (e non più sociali) nella concessione di crediti e facilitazioni alle imprese; art. 51, apertura di credito da parte del sistema bancario statale verso settori di economia non-statale (privata); art. 54, rinvio dell’unificazione monetaria a quando ci saranno le condizioni economiche per farlo (Calende greche); artt. 59, 61, 132, tagli drastici alla spesa sociale, eliminazione dei sussidi alla popolazione bisognosa; artt. 65, 85, 86, 88, pagamento dei debiti con l’estero in forma «estricta» e «rigurosa» (finiscono i velleitari proclami di Fidel Castro sul «non-pagamento» del debito estero, perché se si vuole accedere a nuovi prestiti bisogna pagare quelli passati, come ben sanno i governanti di Brasile, Argentina ecc.); artt. 72, 89, ricerca di vie di collaborazione («associazione») e apertura crescente al capitale straniero nei settori più dinamici dell’economia; artt. 103, 104, far pagare almeno i costi della solidarietà che viene data all’estero; art. 115, sistema di premi e penalizzazioni legati alla produttività del lavoro in azienda; artt. 136, 142, fine dei sussidi (borse di studio) ai lavoratori, in base al principio che chi vuole studiare deve farlo nel proprio tempo libero e secondo le proprie possibilità economiche; art. 152, trasferimento delle attività culturali ove possibile dal settore pubblico a quello privato; art. 167, utilizzo di criteri «monetario-mercantili» nelle relazioni economiche, intesi come base di un «nuovo criterio di gestione»; art. 169, indipendenza crescente delle cooperative dallo Stato; art. 177, legge della domanda e dell’offerta nella fissazione dei prezzi dei prodotti agricoli; art. 184, investimenti statali con criteri di redditività e non-sociali.
E infine quelli che hanno attirato maggiormente l’attenzione dei media (e dei lavoratori cubani): art. 158, ampliamento del lavoro privato (por cuenta propia) con relativa tassazione; art. 159, licenziamenti massicci di una parte della manodopera statale superflua (calcolata a parte in 3,5 milioni, con un 1,3 milioni di licenziamenti da graduare nel tempo, realizzandone 500.000 nell’immediato e assicurando ai licenziati solo 5 mesi di stipendio quasi dimezzato); art. 161, enfasi sul salario a discapito di servizi gratuiti, sussidi personali ecc.; art. 162, eliminazione graduale (quanto graduale?) della libreta («la tessera di razionamento, come noi cubani chiamiamo questo strumento di giustizia», nelle parole di Celia Hart Santamaría); art. 164, fine dei sussidi alle mense operaie ed eliminazione delle stesse mense dove sia possibile.
Si potrebbe continuare, ma questo elenco - velleitario e ingenuo quanto si vuole, e in parte irrealizzabile - mostra una sua coerenza complessiva. Sono misure chiaramente destinate a potenziare il settore capitalistico già esistente e ad ampliare in generale il ruolo del capitale privato a discapito di quello pubblico. Per dirla con le parole di Michele Nobile, intervenuto nel dibattito, le misure proposte coincidono con il classico pacchetto di provvedimenti restrittivi che il Fondo monetario internazionale esige normalmente dai governi per decidere la concessione di crediti.
Insomma, il centrismo burocratico sembra aver deciso di compiere il passo che i colleghi cinesi (e vietnamiti) hanno già compiuto da tempo e che i russi avrebbero probabilmente compiuto con Gorbaciov, se questi ne avesse avuto il tempo: trasformazione controllata in senso capitalistico dei settori economici più dinamici, nel quadro di una privatizzazione più generale dell’economia. Il tutto impedendo qualsiasi manifestazione di democrazia dal basso o di rivendicazioni anche solo sindacali. Insomma, il tentativo di instaurare a Cuba il modello cinese (che in forme divese i due fratelli Castro hanno sempre dimostrato di ammirare intensamente): sviluppo del capitalismo, ma sotto il controllo ferreo di un regime statale identificato con il partito unico e con le Forze armate. In pratica una forma specifica cubana di capitalismo più dittatura burocratica.
Questo progetto, però - come è stato fatto notare nel dibattito - è in controtendenza rispetto all’orientamento capitalistico (in termini populistici, di «centrosinistra» ecc.) che sta prevalendo in altri importanti paesi latinoamericani: non a caso l’Alba è nominata solo di sfuggita, due volte, nell’intero documento. E anche la relazione di Massari ha concluso affermando che il progetto è più che fallimentare perché Cuba non è la Cina, non è competitiva sul mercato estero, non ha importanti risorse naturali, è preda ambìta degli imprenditori di origine cubana residenti in Florida, nonché di altri settori di aziende esportatrici statunitensi. Bisogna inoltre considerare il fatto che a Cuba è stata fatta una vera rivoluzione, c’è stata una costante mobilitazione del popolo in difesa delle proprie conquiste, l’egualitarismo è stato sempre considerato un valore irrinunciabile e il tentativo di dare basi staliniane al regime di centrismo burocratico è sostanzialmente fallito sotto il profilo ideologico. Va ricordato, inoltre, che a Cuba molti di questi aspetti positivi sono stati tradizionalmente identificati con la figura storica del Che (nonostante la mitizzazione fin qui realizzata) e in parte continuano ad esserlo.
È però vero che sulla sequenza impressionante di errori economici compiuti a partire almeno dal 1965-66 con la gestione personalistica di Fidel Castro non si è mai tirato un bilancio e meno che mai se ne parla in questo documento. (Basti pensare alla cosiddetta «offensiva rivoluzionaria» annunciata col discorso del 13 marzo 1968, quando si abolì il poco d’iniziativa privata che restava e funzionava bene in alcuni servizi, nella ristorazione, coi chinchales ecc., e che ora, a 43 anni di distanza, si vuole rivitalizzare.) ,La datazione di quegli errori non sarebbe nemmeno molto difficile perché Castro tacque durante tutto il grande debate económico del 1963-64, quando si contrapposero in termini teorici di buon livello due tendenze industrializzatrici, quella guevariana e quella filosovietica. Ma solo per poi decidere, senza consultarsi con chicchessia (a parte Kosygin in visita a Cuba a giugno del 1967), di rendere definitivo il ritorno alla priorità agricola, cioè alla monocultura della canna, alla monoproduzione dello zucchero e alla monodipendenza dall’Urss: tre aspetti di un’unica decisione rivelatasi disastrosa per lo sviluppo dell’economia cubana e che ha determinato storicamente la cronicità delle difficoltà odierne.
Senza una valutazione onesta di quegli errori e dei tanti altri compiuti in prima persona da Fidel Castro (con l’appoggio sempre unanime del gruppo dirigente del Pcc), è praticamente impossibile varare progetti economici o sociali credibili, realistici e adeguati alle circostanze. Finché le menti più aperte e più capaci di Cuba non avranno fatto questo bilancio, anche la teoria economica e politica continuerà a vivere un suo penoso «período especial». E il culto ormai smaccato della personalità di Fidel non può fare altro che rendere sempre più difficile un processo autenticamente collegiale di elaborazione economica. Basti pensare a come vengono via via liquidati i principali ministri economici (a partire da Carlos Lage e José Luís Rodríguez, seguiti dai ministri dell’agricoltura e dei trasporti) o degli esteri (Roberto Robaina, Felipe Pérez Roque), senza che venga mai spiegato il perché dei mutamenti. Una maldestra ricerca di capri espiatori alla quale ormai non crede più nessuno.
Nel suo intervento, Enzo Valls (di passaggio dall’Argentina) ha sottolineato un’importante contraddizione determinata dal fatto che l’ampio spettro del mondo militante latinoamericano continua a vedere Cuba - con un’infinità di varianti e per un’infinità di motivi - come un faro rivoluzionario, un esempio di resistenza all’imperialismo e di realizzazioni in alcuni campi (educazione, salute, solidarietà internazionalistica ecc.). Bisognerà quindi anche vedere come questo enorme popolo continentale filocubano (non necessariamente filocastrista), accoglierà queste nuove misure, visto che normalmente non le tollera quando a imporle sono il Fmi e i governi servili ad esso legati. Il problema, sempre secondo Valls, è che in America latina sono stati sempre identificati come un tutto unico il popolo e il governo dei Castro e si è quindi radicata la convinzione che se Cuba ha resistito agli Usa per cinquant’anni e sempre sotto la stessa direzione, ciò sarebbe dovuto alla giustezza delle decisioni prese oppure al fatto che molti degli eventuali errori commessi sarebbero giustificati dalle enormi difficoltà che ha dovuto affrontare il processo rivoluzionario cubano, in primo luogo per l’embargo. Tra l’altro, sempre in seguito a questa identificazione, non c’è l’abitudine a distinguere tra chi impone i sacrifici (l’apparato burocratico) e chi li vive davvero, cioè quella parte di popolazione che non ha accesso ai dollari e ad altre situazioni di privilegio. Ciò potrebbe ripetersi anche in questo caso.
Vale pertanto la pena di seguire la discussione per il VI congresso (quella ufficiosa, perché ufficialmente non vi sarà alcuna contrapposizione, nessuna divergenza pubblica o sulla stampa) e vigilare più che mai perché queste gravi scelte filocapitalistiche, destinate a un parziale fallimento, unite alla dipendenza economica per le importazioni di cibo e di alcune medicine anche dagli Usa, rende ancora più vulnerabile il regime cubano nei confronti del grande nemico imperialistico (come di recente ha fatto notare anche James Petras, autore di un’analisi critica dell’economia cubana e per questo coperto di insulti politici dallo stesso Fidel e dal suo portavoce messicano, Pablo González Casanova).
Per il centrismo burocratico che ha regolato la vita dell’Isola per più di quarant’anni è arrivata la resa dei conti. Si trasformerà in capitalismo burocratico come in Cina? si integrerà nell’economia statunitense qualora terminasse l’embargo? svilupperà un proprio capitalismo autoctono con cui integrarsi nelle nuove alleanze economiche latinoamericane tipo l’Alba? Riprenderà la dinamica della rivoluzione originaria?
A ques’ultima domanda si deve purtroppo rispondere negativamente perché ciò sarebbe possibile solo in un contesto di ripresa rivoluzionaria nei Caraibi, in America latina e nel mondo. Non si trascuri, a questo riguardo, l’atteggiamento ostile che la direzione cubana ha avuto fin dal primo momento verso la proposta di costruire una Quinta internazionale, avanzata a novembre 2009 da Chávez e poi maldestramente affondata anche, e forse soprattutto, per il rifiuto cubano di aderirvi.
Sono domande alle quali è impossibile rispondere con certezza per il momento. Come minimo occorre aspettare l’esito del congresso di aprile e soprattutto vedere come reagiranno i lavoratori cubani alle misure restrittive contenute nel pacchetto con cui la direzione castrista spera di convincere il Fmi a riaprire i rubinetti del credito e che in parte si stanno già applicando, in spregio del potere decisionale del congresso stesso.
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