CINEMA

sabato 4 dicembre 2010

IL "CHE" (introduzione a un libro censurato) di Antonio Moscato




IL "CHE"
(introduzione a un libro censurato)

di Antonio Moscato





INTRODUZIONE A UN LIBRO CENSURATO

Questa doveva essere l'introduzione a un'ampia antologia in due volumi che doveva uscire presso la Feltrinelli, ricavata, per ragioni di diritti, dalla ricomposizione di due antologie acquistate dalla Ocean Press poco prima che quest’ultima vendesse i diritti su tutte le opere di Guevara alla Mondadori. L’una (in inglese) era destinata al pubblico australiano, l’altra all’America Latina, dove il pensiero del Che era in genere ugualmente poco conosciuto dopo anni di dittature. Erano state acquistate perché era l’unico modo per ottenere i diritti su una serie di scritti contenuti nelle due antologie, allo scopo di farne una più organica in due volumi in ordine cronologico. Una clausola trabocchetto contenuta nel contratto ha impedito qualsiasi modifica o aggiunta di note esplicative. Per non perdere tutto sono state pubblicate in fretta e furia così com’erano, con sovrapposizioni e lacune, e un apparato di note del tutto inadeguato. Infatti c’era un’altra trappola, la perdita di ogni diritto se non pubblicate entro ottobre 2005. Evidentemente i diritti erano stati venduti alla Feltrinelli mentre era già in corso la trattativa della Ocean con la Mondadori, ed era stato predisposto il meccanismo per mandare a monte il primo contratto. Un comportamento a dir poco scorretto.


Ernesto Guevara, detto il Che, anche se è morto quasi quarant’anni fa, continua ad essere al centro di un’attenzione insolita, ben più di tanti altri protagonisti di quegli anni, di cui a malapena si ricorda il nome. In realtà non si tratta solo della “persistenza di un mito”, ma piuttosto di un ritorno di interesse, dopo quasi venti anni in cui la stessa sinistra, per ragioni diverse, lo aveva accantonato o dimenticato. Bisogna arrivare infatti al 1987, venti anni dopo la sua scomparsa, perché nella stessa Cuba si ricominciasse a riflettere sul suo lascito morale e politico. Era possibile solo perché quel “socialismo reale” che egli aveva criticato lucidamente stava avviandosi al suo crollo. Lo stesso Fidel Castro, che per oltre quindici anni era sembrato ormai indissolubilmente legato al gruppo dirigente sovietico, aveva cominciato a staccarsene, e a cercare una motivazione ideologica per questa nuova, difficile, posizione.
Dopo la tragica fine del Che, che era parsa a molti la sconfitta inevitabile di una strategia, si erano affermati nuovi miti, che dovevano a distanza di anni rivelarsi illusori. Gli Stati Uniti, che con Kennedy avevano lanciato la cosiddetta “Alleanza per il Progresso”, che doveva assicurare sviluppo e benessere all’America Latina, si erano impantanati sempre più nella guerra del Vietnam ed erano tornati ad appoggiare ovunque le peggiori dittature; la sinistra di tutto il mondo era stata affascinata dall’esperienza cilena di Salvador Allende, iniziata appena tre anni dopo la scomparsa del Che in Bolivia, e si era illusa che potesse resistere ed anzi estendersi ad altri paesi. I giornali dei partiti comunisti, e anche intellettuali sofisticati come Régis Debray, che in passato aveva teorizzato la riproduzione quasi meccanica dell’esperienza castrista, avevano cominciato a contrapporre la “concretezza” di Allende al presunto “avventurismo” del Che.
Guevara era stato poi dimenticato o liquidato sprezzantemente da gran parte della “nuova sinistra” europea e mondiale affascinata dal mito della rivoluzione culturale di Mao. Chi considerava Cuba semplicemente come un’appendice dell’Urss, aveva fretta di dimenticare il Che, che aveva avuto il “torto” di proporre a Urss e Cina un “fronte unico” in difesa del Vietnam aggredito, pur considerando quei paesi – meno diversi tra loro di quanto pretendevano - oggettivamente complici dell’imperialismo. Per i sostenitori acritici di Mosca, che consideravano “nazista” Mao, o per quelli di Pechino, che consideravano il “socialimperialismo” sovietico il “nemico principale”, era scandalosa sia l’assimilazione tra i due regimi, sia la sostituzione delle scomuniche con una proposta di azione comune.
Quanto all’esperienza di Allende, era comunque finita presto ben più tragicamente della guerriglia del Che, trascinando con sé molte migliaia di cileni ignari del pericolo, ed era stata archiviata esaltando l’eroismo di Allende e ripetendo sui ritmi degli Inti Illimani lo slogan (risultato tutt’altro che profetico) “el pueblo unido, jamás será vencido”, evitando di trarre qualche conclusione dalla sua sconfitta.
Le esperienze di riformismo militare in Perù, Ecuador, ecc., che dopo quella di Unidad Popular erano state ugualmente esaltate dalla sinistra nel mondo, si erano concluse senza risolvere nulla dei problemi di quei paesi e, accanto al Cile di Pinochet, l’America Latina aveva visto il moltiplicarsi di regimi militari orribili, dal Brasile all’Argentina, dal Guatemala all’Uruguay, mentre con l’aiuto statunitense sopravvivevano feroci dittature personali nel Nicaragua di Somoza, o nella Haiti di Duvalier.
La durata di questi sanguinari regimi è stata varia, ma sufficiente a distruggere intere generazioni di giovani militanti, cancellando perfino il ricordo degli appassionati dibattiti degli anni Sessanta. E le fragili democrazie che ne prendevano il posto non erano solo corrotte, ma anche condizionate dal permanere della spada di Damocle rappresentata dagli eserciti golpisti, non processati né processabili, e tanto meno epurati. I militari, sconfitti dalla loro incapacità di conquistare il consenso, erano però sempre pronti a riprendere le armi contro il loro stesso popolo e qualsiasi governo che avesse osato mettere in discussione i loro privilegi e quelli dei loro mandanti. Dopo la dictadura, si ironizzava, è arrivata la democradura
Nonostante tutto, è comparsa in America Latina una nuova generazione di giovani che si sono trovati di fronte compiti difficili e drammatici, nel mondo del "nuovo ordine mondiale", e hanno riscoperto – con qualche anno di ritardo rispetto alla sinistra italiana ed europea - l'opera e il pensiero di quello che Jean Paul Sartre aveva definito giustamente "l'uomo più completo del nostro tempo".
Nel primo incontro mondiale (anzi “intergalattico”, come diceva ironicamente il “Subcomandante Marcos”) contro il neoliberismo, svoltosi nel Chiapas nel 1996, erano apparsi molti giovani argentini, uruguayani, o latinos degli Stati Uniti. La maggior parte di loro non conosceva di Guevara neppure il nome. Pochi anni dopo, nell’esplosione della rabbia dei disoccupati e dei ceti medi defraudati che alla fine del 2001 ha fatto cadere in pochi giorni tre o quattro governi in Argentina, nelle manifestazioni comparivano bandiere argentine in cui il sole d’oro era stato sostituito dal volto del Che.
Questo cambio di atteggiamento si deve al fatto che, almeno in America Latina, le contraddizioni sociali sono in genere più gravi e stridenti di quanto non fossero venticinque o trenta anni fa, e rendono molto più attuali le diagnosi e le indicazioni di Guevara, per tanto tempo irrise come ingenue; ma si deve anche alla scomparsa di altri punti di riferimento, al tempo stesso mitici e materiali, i “paesi socialisti”. Il crollo dell’Urss ha trascinato con sé la maggior parte dei partiti che facevano capo alla “Chiesa di Mosca”, mentre i partitini maoisti sono rimasti disorientati per le aperture della Cina al capitalismo più selvaggio.
La riscoperta di Guevara è stata facilitata soprattutto dal distacco di Cuba dall’Urss, avviato nel 1986 con la campagna di rectificación. Dopo anni di oblio, in cui anche all’Avana Guevara era stato ridotto a pura icona, mentre il suo pensiero originale più maturo era stato dimenticato e sostituito da una grossolana riproduzione del “marxismo-leninismo” degli epigoni di Stalin, Castro, in un discorso aveva ammesso che il Che vedendo Cuba sarebbe rimasto inorridito, e aveva raccomandato di studiarlo e seguirne le indicazioni. Per tre o quattro anni c’era stata una fioritura di convegni, che avevano ridato voce ai tanti guevaristi che erano stati emarginati nei quindici anni in cui il dominio ideologico dell’Urss e dei suoi zelanti sostenitori cubani era stato pressoché totale, poi la nuova strada imboccata da Cuba era apparsa così divergente da quelle che erano state le intuizioni e le proposte dell’ultimo Guevara, che non si è fatto più quasi nulla di quanto era stato promesso nel 1987, a partire dalla pubblicazione degli inediti (quasi tutti gli scritti degli ultimi tre anni di permanenza del Che a Cuba). Il Che è tornato a essere di nuovo una merce di esportazione: simbolo, immagine, celebrazione retorica; la pubblicazione dei suoi scritti inediti è stata rinviata di anno in anno, mentre di essi veniva proposto al massimo qualche scritto giovanile di scarso interesse politico.
Eppure l’attrazione per Guevara, anziché ridursi negli anni, è cresciuta al punto di stimolare una straordinaria fioritura editoriale: tra il 1993 e il 1997 sono usciti in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, centinaia di libri, a volte copiati frettolosamente da precedenti edizioni. È significativo che negli anni precedenti il 1987, ventesimo anniversario della morte e anno della “riscoperta” cubana, i titoli disponibili nei cataloghi erano pochissimi, e solo successivamente si sono moltiplicati a velocità impressionante.

Come spiegare questo fenomeno? Ci devono essere dei motivi in più rispetto a quelli già indicati: se è vero che molti miti e punti di riferimento erano crollati negli ultimi quindici o venti anni, perché è stato proprio il Che a prenderne il posto, se il suo pensiero era insufficientemente conosciuto?
Anche se non molti hanno potuto leggere le sue ultime riflessioni, in particolare la sua critica al “socialismo reale” (trasmessa oralmente a Cuba, ma rimasta ancora inedita anche dopo il crollo dell’Urss, probabilmente per non dover spiegare ai cubani perché non se ne è tenuto conto per decenni) e la pubblicazione dei suoi scritti è in quasi tutto il mondo - salvo poche e meritorie eccezioni - lacunosa e casuale, Guevara anche da poche e sommarie letture appare indubbiamente antagonista e “alternativo” rispetto a quanto c’è in circolazione…

In primo luogo per la sua etica: la coerenza tra pensiero, parola e azione (“diceva sempre quello che pensava, e faceva quello che diceva”, ha osservato Eduardo Galeano, aggiungendo che i potenti questo “difetto” non glielo hanno mai perdonato…) appare in totale contrapposizione con le pratiche politiche della maggior parte della stessa sinistra. Anche la sua esposizione in prima persona (che aveva tuttavia un precedente illustre e ugualmente amato nell’apostolo della rivoluzione cubana José Martí) lo rende caro ai giovani di un mondo pieno di politici che predicano “armiamoci e partite”.
Certo le circostanze della sua morte suscitarono una grande emozione, ma neppure questa è una spiegazione sufficiente: la morte tragica dei leader dei movimenti di liberazione è frequente in tutto il terzo mondo (si potrebbe fare un elenco lunghissimo, da Emiliano Zapata a Patrice Lumumba, da Maurice Bishop a Thomas Sankara, senza dimenticare lo stesso Salvador Allende). Nessuno di loro è tuttavia oggetto di un culto e di una venerazione fuori del proprio paese paragonabile a quella del Che.

Altri hanno attribuito il successo di Guevara alla sua immagine, in primo luogo a quella della famosa foto di Korda. Se questa tesi ha qualche fondamento lo si deve tuttavia al fatto che in quella famosa foto scattata mentre assisteva turbato al funerale dei lavoratori uccisi da un attentato statunitense a una nave belga che aveva portato armi all’isola assediata, dagli occhi del Che traspariva un’indignazione e un’emozione sconosciute nella maggior parte dei leader politici. E comunque ciò non spiega perché questo effetto “magico” non è stato immediato, ma è cresciuto negli anni. Ancor meno fondata la tesi di uno dei suoi biografi, attento e intelligente, ma malevolo, Jorge Castañeda (un “pentito” della sinistra messicana divenuto poi per qualche anno ministro degli Esteri con il presidente Fox, esponente della destra messicana), che attribuisce a un “errore tattico” della Cia l’allestimento della camera mortuaria con un Che ripulito e modellato come il Cristo deposto del Mantegna, che lo avrebbe trasformato in oggetto di culto...
In realtà se conoscere bene il pensiero di Guevara non è facile, proprio per la sovrabbondanza di pubblicazioni mal curate sfornate negli ultimi anni, non è neppure impossibile. Ancora nel 1987 nelle librerie italiane si trovava solo, e non facilmente, il Diario di Bolivia, ma poi sono uscite parecchie antologie dei suoi scritti, che comunque consentono di percepire qualcosa di diverso e di ben più attraente di qualsiasi scritto politico di contemporanei.

La spiegazione è semplice: Guevara si riallaccia a una tradizione del movimento operaio che in passato aveva caratterizzato tutti i suoi principali esponenti, da Marx a Gramsci, ma che era stata poi accantonata, quella di ritenere che “la verità è rivoluzionaria”. Da questa convinzione discende il suo stile semplice e diretto, senza i sofisticati termini a cui siamo oggi abituati, e che sono finalizzati non all’esposizione ma all’oscuramento del pensiero. Il Che scrive e parla per essere capito, e da questo dipende la grande comprensibilità del suo messaggio, e la sua radicale differenza da tutto il linguaggio dei politici attuali, anche della sinistra.
Per giunta Guevara è un autodidatta che ha avuto pochi anni, febbrili e densissimi, ma sempre pochi, per la sua preparazione politica. Il Che non è un pensatore originale come Lenin, Kautsky, Rosa Luxemburg, Trotsky o Gramsci: è un “riscopritore del marxismo” su molte questioni: dal giudizio sulla “borghesia nazionale” alla natura e compiti della rivoluzione cubana (“O rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione”). Ma è un riscopritore coraggioso, che va controcorrente, staccandosi dalla vulgata socialdemocratica ma anche da quella stalinista. Un compito molto difficile dopo decenni di mistificazioni, ma le sue conclusioni risultano subito affascinanti per la chiarezza e l’incisività. Per questo, appena cominciano a leggerlo, i giovani lo amano.

Le grandi tappe della formazione culturale e politica di Guevara

Ho verificato spesso, nei corsi universitari che ho dedicato al pensiero di Guevara, che la maggior parte degli studenti non sapevano inizialmente nulla sulla sua figura, e perfino sulle circostanze della sua morte. Anche al termine di conferenze sul Che organizzate da qualche mio studente o laureato nella sua città, qualcuno nella sala mi ha chiesto con imbarazzo qualche “particolare” che avevo omesso nello sforzo di presentare il più compiutamente possibile il suo lascito: Dove è nato Guevara? Dove è morto e quando?
Pensando a questo tipo di giovani, non informati adeguatamente dalla scuola, e a volte raggiunti invece dai luoghi comuni riversati a piene mani negli articoli d’occasione commissionati per le ricorrenze nel quadro di un “uso politico della storia” attraverso i mass media, in appendice fornisco alcuni dati biografici essenziali, concentrandomi qui invece soprattutto sull’evoluzione del suo pensiero, e sulle esperienze che la hanno stimolata.



Ernesto Guevara aveva avuto un'infanzia e un'adolescenza segnate dalla fragilità della sua salute. Era stato colpito all'età di due anni da una forma di asma così grave che la sua famiglia aveva dovuto trasferirsi dalle zone subtropicali dell'alto Paraná dove Ernesto era nato nel 1928 (a Rosario, ai margini di quella che è chiamata la “Mesopotamia argentina”) alla zona collinare e secca di Córdoba per migliorare le sue condizioni di salute. Il padre non aveva esitato per questo ad abbandonare la sua attività, una piantagione di yerba mate (la bevanda nazionale argentina); i genitori avevano preferito non mandare Ernestito a scuola, per poterlo assistere meglio, sicché la sua cultura aveva ricevuto una forte impronta dalla madre, che lo aveva seguito nei primi anni. Anche negli anni successivi, egli era stato costretto spesso a rimanere a casa per lunghi periodi, e aveva approfittato di questa situazione per leggere moltissimo indipendentemente dai programmi scolastici. La biblioteca di famiglia conteneva ogni tipo di romanzi, libri di avventure e di viaggi: vi si trovavano Tolstoj, Gor’kij, Dostoevskij, Kipling, ma anche Salgari, Stevenson, Giulio Verne, Alessandro Dumas e in genere tutti quegli autori che erano stati di svago e di guida a molte generazioni nella prima metà del Novecento.
Ernesto Guevara Linch, il padre del Che, ha detto una volta con modestia di avere imparato tutto dal figlio, e ha fornito anche esempi concreti delle proprie ingenuità e incomprensioni politiche (sul peronismo, o sulla valutazione dei governi radicali in Argentina…). Ma è bellissimo lo scatto di orgoglio con cui il vecchio (molti anni dopo la morte del figlio) ha aggiunto di avergli insegnato ad avere tre principi inderogabili, non mentire, non rubare, non avere paura. Tre consigli apparentemente banali, ma che hanno lasciato una traccia profonda nel Che.
Il non mentire rimarrà un principio praticato e ribadito pubblicamente durante tutta la sua breve vita politica: ad esempio, il Che raccomanderà sempre di non nascondere errori e deficienze nel lavoro, di non esagerare la portata delle difficoltà oggettive (dal blocco americano ai cicloni) e di mettere in primo piano l'esame dei propri errori. Un esempio significativo di questo atteggiamento si trova nel discorso ai membri della Seguridad, [l’ultimo scritto dell’antologia,alle pp.zyz] in cui sottolinea che le critiche severe agli errori compiuti riguardano più che loro, semplici esecutori, soprattutto i membri del governo, a partire da lui stesso.
Il non rubare significherà per il Che non accettare neppure una briciola di privilegio: subito dopo la rivoluzione, ad esempio, rifiuterà inizialmente perfino un'auto dallo Stato cubano e si farà aiutare dal padre a comprare con i suoi soldi una due cavalli Citroën, la più piccola ed economica delle utilitarie allora disponibili. Rifiuterà sempre anche ogni privilegio per la famiglia, e lo ribadirà nella lettera di addio a Fidel: "Non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale ma questo non è per me ragione di pena; mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo Stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi."
Il non avere paura, nel caso del Che, non avrebbe bisogno di commenti, se non per sottrarre la frase a una visione banalizzante. Per il Che, non avere paura vuol dire che la stessa vita di un uomo ha un senso solo se è messa al servizio di qualcosa che la trascende, che è l'umanità e la causa della sua liberazione. È a partire da questa identificazione che è possibile l'eroismo del Che, che non era un eroismo astratto, fine a sé stesso, ma l'eroismo al servizio di una causa.

Dalla famiglia, tuttavia, Guevara ha ricevuto qualcosa in più di quei principi etici semplici e al tempo stesso solidi che abbiamo appena ricordato. Dai suoi genitori, in origine non marxisti ma senza dubbio democratici e antifascisti, ha cominciato, fin da ragazzo, a conoscere gli echi della Guerra di Spagna, di cui seguiva su una carta geografica le battaglie, che riproduceva poi con i coetanei assaltando fortini improvvisati. Sempre da suo padre, Ernesto aveva cominciato a conoscere la guerra del Chaco, per cui tra il 1931 e il 1934 gli eserciti boliviano e paraguayano si erano dissanguati per conto di due diverse multinazionali del petrolio, la Shell e la Standard Oil. Ernesto era troppo piccolo per poterne avere un ricordo diretto, ma le descrizioni ricevute lo colpirono al punto che più volte ricorderà quella vicenda (tra l’altro nell’ultimo scritto riportato in questa antologia) accostandola a un altra tragedia della dipendenza, quella del Congo ex belga, che lo aveva profondamente segnato negli anni della maturità.

I viaggi di studio

La passione per la conoscenza aveva spinto Guevara a seguire i corsi più disparati e, al tempo stesso, egli aveva cominciato a lavorare per periodi più o meno lunghi in un'impresa di lavori stradali, mentre si accingeva allo studio dell'ingegneria, che poi lascerà improvvisamente per la medicina. In ogni caso, il tipo di formazione culturale del giovane Ernesto da un lato gli permetteva di esercitare un notevole fascino sui coetanei, dall'altro lo rendeva irrequieto e refrattario nei confronti dello studio puramente scolastico. Da vari accenni suoi e del padre si comprende che il suo curriculum era abbastanza atipico, che l'impegno nello studio era irregolare, con punte di altissimo impegno e periodi in cui si accontentava semplicemente di ottenere il minimo indispensabile per essere promosso.
Fece anche gli studi medici con disordine e un mediocre profitto iniziale, anche perché presto era riuscito a ottenere un posto di infermiere sulla flotta mercantile argentina, che gli consentì diversi viaggi, ma gli rese più difficili quegli esami che richiedevano una frequenza continuativa alle lezioni e alle esercitazioni pratiche.
Ma sono i viaggi di scoperta del continente come quello eternato nel film di Walter Salles che hanno avuto un ruolo essenziale nella sua formazione. La curiosità per il suo paese lo aveva già spinto negli anni precedenti a esplorare durante le vacanze l'Argentina con i più diversi mezzi di fortuna, tra cui una bicicletta a cui aveva applicato un motorino e con cui percorse migliaia di chilometri, ottenendo le congratulazioni della ditta produttrice che utilizzò la sua foto per la pubblicità. Erano le prime manifestazioni di quella sfida permanente alle costrizioni imposte dal suo fisico, che lo caratterizzerà per tutta la vita e lo porterà ad affrontare senza esitazioni imprese durissime anche per uno sportivo, come l'ascensione del Popocatepetl in Messico, compiuta per prepararsi alle lunghe marce sulla Sierra Maestra.
Al momento del primo grande viaggio panamericano, Ernesto aveva fatto solo la metà degli esami, e gliene rimanevano quindici, che tuttavia superò in pochi mesi al suo ritorno. Il viaggio, con l’amico Alberto Granado fu decisivo per la scoperta della miseria in Cile, in Bolivia, in Perú, ecc., che Ernesto non aveva potuto conoscere prima, dall’interno di un ambiente familiare relativamente privilegiato e molto protettivo. Eppure l'osservazione delle condizioni sociali non era l'obiettivo principale dell'esplorazione.
Nelle prime pagine del Diario si intrecciano la curiosità per i paesaggi insoliti e le avventure picaresche, le descrizioni delle località archeologiche e quelle delle condizioni sanitarie, con solo qualche accenno abbastanza ingenuo ai problemi politici dei paesi attraversati. Archeologia e medicina sono forse gli scopi prevalenti, per i due giovani. Alberto Granado è già laureato in biologia, Ernesto è appunto a metà degli esami di medicina, ma si lasciano credere esperti di lebbra, per poter visitare alcuni dei lazzaretti nella selva amazzonica, e a volte per poter scroccare un pasto negli ospedali in cui arrivavano con lettere di presentazione di qualche medico già incontrato (erano sempre affamatissimi e senza un soldo). In realtà lo studio della lebbra li appassionava veramente, spingendoli alle prime considerazioni sulla funzione sociale del medico, che il Che penserà di sviluppare in seguito, e di cui resta solo l'abbozzo di un capitolo e la bibliografia essenziale, che pubblichiamo per la prima volta in Italia (pp. xzy)
Presentati dal dottor Pesce, uno specialista di lebbra che a Lima li ha ricevuti cordialmente (e che fu probabilmente il primo intellettuale comunista incontrato da Guevara, che ne rimase affascinato), visitano diversi lebbrosari. Il Che osserva compiaciuto: “il nostro viaggio acquista un significato eccezionale per il personale dei lebbrosari della zona”, ma anche e soprattutto per i malati. Questi spesso colmano i due visitatori di piccoli doni: ad esempio i lebbrosi di Lima fanno una colletta di cento soles (che “nelle loro condizioni economiche sono un'enormità”) per regalare ai due giovani un fornello a petrolio, e li salutano con le lacrime agli occhi.
“Tanto affetto dipende dal fatto che eravamo stati con loro senza fare gli schizzinosi e avevamo dato loro la mano come a persone qualsiasi, e ci eravamo seduti fra di loro a parlare e avevamo giocato al calcio con loro. A te sembrerà una bravata inutile, ma è incalcolabile il beneficio psichico che per questi malati, trattati come bestie selvagge, rappresenta il fatto che la gente si comporti con loro come con gli esseri normali, e il pericolo che si corre è assolutamente minimo.”
Il soggiorno più lungo è quello nel sanatorio di San Pablo, su un affluente del Rio delle Amazzoni, dove dopo appassionate partite di calcio, grandi sbornie di pisco (l'acquavite peruviana) e una festa in onore del ventiquattresimo compleanno di Ernesto, i lebbrosi costruirono per i due argentini una rudimentale zattera con cui essi avrebbero dovuto proseguire il viaggio per via fluviale (in realtà dopo pochi giorni di navigazione si incagliò e si sfasciò irreparabilmente). Il viaggio proseguì con altri mezzi di fortuna fino a Caracas, passando per Bogotà. Di tutta questa parte del viaggio (di cui riportiamo solo poche pagine come esempio del suo stile giovanile) ci sono appena accenni fugaci nelle lettere del Che ai genitori; si comprende comunque che il suo interesse per la politica è ancora marginale e occasionale. Ma sono stati gettati i semi che daranno ben presto i frutti, al momento del secondo viaggio e dell'incontro con la rivoluzione boliviana e soprattutto con quella guatemalteca.

Il Guatemala di Jacobo Arbenz

Il Che ha sempre fatto riferimento all'esperienza del Guatemala di Arbenz come decisiva per la sua formazione. A quel paese è dedicato il suo primo articolo politico (vedi pp. xyz). Da quella esperienza ricava alcuni punti fermi del suo orientamento successivo (ad esempio la sfiducia nella cosiddetta "borghesia nazionale", cavallo di battaglia tanto dei comunisti filosovietici che di quelli che si ispireranno a Mao (che estenderà le ipotesi di alleanza perfino ai "prìncipi patriottici", come il re Sihanuk in Cambogia).
Guevara era arrivato in Guatemala alla fine di dicembre del 1953. Era il suo secondo viaggio nell'America Latina, e il suo progetto non era più quello di esplorare il continente come un viaggiatore curioso, ma di lavorare mettendo a frutto la laurea in medicina appena conseguita.
Jacobo Arbenz Guzmán, ex ministro della Guerra, era divenuto presidente dal marzo 1951 su un programma di riforme democratiche: suffragio universale, una legislazione a protezione del lavoro salariato e della libertà sindacale, lotta all'analfabetismo e riforma agraria. Quest'ultima era molto moderata: non investiva tutte le grandi proprietà ma solo quelle non coltivate. Tuttavia colpiva gli interessi della grande multinazionale americana United Fruit (quella della "Banana Chiquita"), che aveva accaparrato gran parte delle terre del paese, molte di più di quante servissero alla sua produzione, proprio per lasciarle incolte e impedire ai contadini di produrre per conto loro. L’obiettivo era quello di mantenere alti i prezzi della frutta (ma i contadini avrebbero avuto comunque enormi difficoltà a commercializzare i loro prodotti), ma soprattutto di evitare che su quelle terre si sviluppasse un’economia di sussistenza, che consentisse ai contadini di sopravvivere senza dovere accettare i salari di fame della grande multinazionale.
Arbenz venne denunciato come "comunista" non solo dalla Casa Bianca (tra gli avvocati della United Fruit spiccavano il Segretario di Stato John Foster Dulles e suo fratello, capo della Cia, Allen Dulles), ma dalla stessa Conferenza dei paesi americani riunita a Caracas nel marzo 1954, che diede il suo assenso alla distruzione violenta dell'esperimento riformista. L'attacco venne sferrato con un'invasione di mercenari (partiti dall'Honduras sotto la guida del colonnello Carlos Castillo Armas), con importanti complicità interne.
Guevara era ancora entusiasta di Arbenz, che in una lettera alla madre definiva "un duro, senza dubbio disposto a morire al suo posto se è necessario". Si era offerto anche per il servizio di pronto soccorso medico e per le brigate giovanili che avrebbero dovuto addestrare militarmente i sostenitori del presidente. Ma la disillusione era stata rapidissima. Arbenz dapprima confida nell'esercito da cui egli stesso proviene, e che si schiera invece con i traditori (che dispongono perfino di aerei e navi evidentemente fornite dagli Stati Uniti), mentre rifiuta di fornire armi al popolo, a cui continua, anche nell'ultimo discorso, a raccomandare la calma... Invece che al popolo, Arbenz si appella alle Nazioni Unite, che naturalmente, allora, come pochi anni prima in Corea e come accadrà sei anni dopo nel Congo, sono utilizzate tranquillamente dagli Stati Uniti per avallare la loro politica. Anche questo rimarrà ben impresso nella coscienza del giovane Guevara, che non lo dimenticherà mai.
Da quella esperienza Guevara esce determinato ad agire e soprattutto impegnato a conoscere meglio il marxismo, a cui fino al 1954 si riferiva in termini assai generici e imprecisi. In Guatemala ha conosciuto un gruppo di intellettuali comunisti, ed aveva inizialmente pensato di iscriversi al Pgt (Partido Guatemalteco del Trabajo, comunista), di cui ammirava l'appoggio deciso alla riforma agraria. Tuttavia esitò, per timore di dovere sottostare a una rigida disciplina e per diffidenza nei confronti del dogmatismo del Pgt, mentre successivamente fu deluso dall’incapacità di questo partito di avere una tattica diversa e indipendente da quella rinunciataria di Arbenz. Comincia così la sua battaglia nei confronti dei partiti comunisti latinoamericani, di cui criticherà implacabilmente l'opportunismo e l'orizzonte esclusivamente istituzionale. In un secondo momento riuscirà anche a comprendere come dietro quella politica ci fossero non solo errori soggettivi, ma l'influenza sovietica mediata da Earl Browder, il segretario del Partito comunista degli Usa, che per anni aveva avuto grandi responsabilità nel Comintern, soprattutto nel continente americano, teorizzando alleanze con i più incredibili rappresentanti della "borghesia nazionale" (a Cuba, negli anni Quaranta, venne considerato tale perfino Fulgencio Batista, nel cui governo entrarono in nome "dell'unità antifascista" due ministri comunisti). Ma questa comprensione è ovviamente ancora da venire nel 1954, quando si rifugia in Messico e comincia il suo apprendistato teorico sotto la guida di Hilda Gadea, che sarà poi sua moglie, e quello politico a fianco e insieme ai militanti del 26 luglio.

Hilda Gadea e le prime letture marxiste

Hilda Gadea era una giovane peruviana militante dell'ala marxista dell'Apra (Alianza Popular Revolucionaria Americana), il movimento riformista fondato nel 1923 da Raúl Haya de la Torre. In un libro di memorie Hilda ha descritto le letture comuni: "Entrambi avevamo letto i romanzi precursori della rivoluzione russa: Tostoj, Gor'kij, Dostoevskij e Le memorie di un rivoluzionario di Kropotkin. I nostri temi abituali di discussione ricadevano anche sul Che fare? e L'imperialismo di Lenin, l'Antidühring, Il manifesto comunista, L'origine della famiglia e altri lavori di Marx ed Engels, oltre a Il socialismo dall'utopia alla scienza di Engels, e Il Capitale di Marx, con cui ero io ad avere maggiore familiarità per i miei studi di economia".
Ernesto Guevara è stato il miglior allievo di tutti i suoi maestri: lo riconobbero Hilda Gadea, Fidel Castro, Salvador Vilaseca (che nel 1959 gli insegnò matematica, e lo guidò anche nel suo studio sistematico del Capitale), i suoi consiglieri economici sovietici e cecoslovacchi. All'origine di questa sua straordinaria capacità di apprendimento, che lo porterà in pochissimi anni (meno di dieci tra i primi passi e la sua piena maturità!) a superare i suoi docenti in tutti i campi, ci sono indubbiamente le sue doti intellettuali, il suo fortissimo impegno di studio, la sua straordinaria tenacia e forza di volontà, ma anche le caratteristiche fin dall'inizio antidogmatiche del suo pensiero.
Così Guevara in Messico comincia a impartire dei corsi su Marx per i cubani del Movimento 26 di luglio, alcuni dei quali ha conosciuto già in Messico. Era stato lui a scegliere i testi marxisti che la polizia messicana ha trovato e sequestrato nel rancho Santa Rosa in cui gli esuli stavano addestrandosi per lo sbarco a Cuba. Nel corso del 1955 e del 1956, nelle lettere alla famiglia, si infittiscono gli accenni a San Carlos (come chiama Marx scherzosamente, anche per eludere la censura). Poco dopo Guevara scriverà: "Prima mi dedicavo più male che bene alla medicina e il tempo libero lo dedicavo allo studio non organico di San Carlos. La nuova fase della mia vita esige anche un mutamento di organizzazione: ora San Carlos è al primo posto, è al centro, e lo sarà per gli anni in cui lo sferoide mi ammetterà nella sua fascia più esterna".

L'incontro con la rivoluzione cubana

In Guatemala Guevara aveva già incontrato alcuni dei cubani che si erano rifugiati in quel paese dopo il fallimento dell'assalto al Cuartel Moncada, una caserma di Santiago, che il 26 luglio 1953 doveva dare il via all'insurrezione nazionale contro il dittatore Fulgencio Batista, che nel 1952, alla vigilia delle elezioni, aveva sospeso la Costituzione. Attraverso le loro descrizioni Il Che (che comincia proprio allora a essere chiamato con questo soprannome, per il suo tipico intercalare argentino) ha cominciato a conoscere la personalità di Fidel Castro, ammirandone il coraggio e la volontà di lotta senza compromessi. Sa che dopo l'autodifesa in tribunale Fidel è divenuto un eroe popolare, le cui ingenuità giovanili (e la stessa approssimazione organizzativa che aveva portato alla sconfitta del tentativo insurrezionale) sono passate in secondo piano, per la coerente determinazione con cui al processo pubblico ha preannunciato la volontà di continuare la lotta contro la dittatura e la dipendenza dagli Stati Uniti, nel famoso discorso pubblicato poi con il titolo La Storia mi assolverà.
In Messico Ernesto ha conosciuto diversi partecipanti all'impresa del Moncada, tra cui Raúl Castro, e ha cominciato a pensare di legare la sua vita alla loro causa. Quando nel novembre 1955 incontra lo stesso Fidel, Ernesto viene colpito dalla sua determinazione. Anche Castro a sua volta apprezza moltissimo il giovane argentino, al quale propone di partecipare allo sbarco a Cuba. Il suo ruolo dovrebbe essere quello di medico della spedizione, ma il Che intanto partecipa come gli altri all'addestramento militare sotto la guida del generale repubblicano spagnolo Alberto Bayo, e diviene anche istruttore politico dei militanti.
A quanto pare, Guevara ricavò il massimo profitto dalle lezioni di Bayo e, durante i primi durissimi giorni di lotta, si rivelerà un guerrigliero validissimo, soprattutto un grande trascinatore. L’impresa era cominciata male: l’imbarcazione acquistata per la traversata dal Messico a Cuba, il Granma, era del tutto insufficiente per 82 persone, e priva di strumentazione adeguata. Così il viaggio durò più a lungo del previsto e, quando i guerriglieri arrivarono sulla costa orientale dell’isola ai primi di dicembre del 1956, erano stati dati per morti dai sostenitori che li avevano attesi per tre giorni, mentre esercito e polizia, che avevano represso una insurrezione di Santiago che doveva servire da diversivo per facilitare lo sbarco, li aspettavano al varco. La maggior parte di loro in quei primi giorni cade in combattimento o è vittima di esecuzioni sommarie. Solo una dozzina di rivoluzionari raggiungono l’interno dell’isola, dove vengono accolti con simpatia da un gruppo di contadini che ha riconosciuto in Castro l’uomo che ha sfidato Batista.
In quella prima fase in cui il piccolo nucleo di rivoluzionari aveva dovuto ritirarsi in condizioni molto difficili percorrendo un sentiero impervio, il Che fu costretto a scegliere tra la cassetta dei medicinali e quella delle munizioni. Scelse la seconda. Da allora diventò un combattente a tutti gli effetti, e presto il principale comandante, insieme a Fidel Castro e a Camilo Cienfuegos.

Le ragioni di una straordinaria vittoria

Il Granma era partito dal Messico con 82 combattenti, e dopo una sola settimana ne rimanevano solo dodici, con pochissime armi leggere. Sembra incredibile che un nucleo così piccolo sia sopravvissuto a tutte le avversità e sia riuscito a vincere in appena due anni.
Il confronto che viene subito in mente è quello con la spedizione dei mercenari anticastristi che nell’aprile 1961 sbarcarono a Playa Girón. Erano 1.600, con mezzi anfibi e armi pesanti, appoggiati da navi ed aerei. E sono stati sconfitti. Poche decine di carbonai e pescatori armati di vecchi fucili li avevano bloccati per alcune ore, fino all’arrivo dei rinforzi dall’Avana. I mercenari in genere combattono bene solo contro gente inerme.
Invece nel dicembre 1959 i dodici sopravvissuti al disastroso sbarco hanno trovato contadini ben disposti, che li hanno sfamati e guidati in posti sicuri. Ci vorrà del tempo perché decidano di unirsi alla loro lotta, ma intanto li hanno protetti e nascosti. Quando i contadini cominciano a entrare nella guerriglia, l’esercito di Batista colpisce a casaccio i villaggi col risultato di spingere soprattutto i giovani a combattere per difendersi. I rivoluzionari, quasi tutti intellettuali urbani, imparano molte cose dai contadini, e inseriscono nel loro programma anche la riforma agraria.
I contadini saranno la base essenziale della apparente invincibilità del piccolo “esercito ribelle”, che diventa una leggenda. Protette e ospitate dai contadini, le due colonne di poche centinaia di uomini guidati da Guevara e Cienfuegos, braccati da aerei e autoblindo, arrivano alla fine del 1958 nella Sierra dell’Escambray, nella parte centro-occidentale dell’isola e da lì partono all’attacco della città più importante che blocca la via verso la capitale, Santa Clara. Qui sarà l’appoggio incondizionato della popolazione a permettere di battere una guarnigione di 5.000 soldati, ben asserragliati in diverse caserme e che hanno a disposizione un treno blindato. Questo viene sabotato dai ferrovieri e incendiato da giovanissimi armati di bottiglie Molotov, mentre i 300 guerriglieri guidati dal Che arrivano di sorpresa vicino alle caserme, perché la popolazione non esita ad abbattere i muri divisori tra una casa e l’altra. Il loro successo (pagato a caro prezzo, con moltissimi morti e feriti, tra cui Guevara) getta nel panico Batista, che fugge negli Stati Uniti col suo tesoro. Arrivare all’Avana per i barbudos a questo punto diventerà una passeggiata trionfale.

Guevara dirigente della rivoluzione

Durante i due anni di lotta armata, Guevara si era conquistato l’amore dei giovani guerriglieri contadini a cui aveva spesso insegnato a leggere, ma anche una fama di intransigenza che spingeva la borghesia cubana - momentaneamente alleata dei barbudos contro Batista - a presentarlo come un pericoloso estremista. E in effetti Guevara si schiera con la versione più rigorosa della riforma agraria, approva la giustizia sommaria con cui in appassionati processi pubblici si puniscono i più sanguinari sbirri di Batista. Continuando nella sua opera educativa, pubblica pagine del suo diario rielaborate col titolo Pasajes de la guerra revolucionaria, in cui non nasconde la durezza della lotta condotta, senza abbellire nulla.
In uno dei suoi capitoli più avvincenti dei Pasajes Guevara affronta con la consueta sincerità un tema inquietante, descrivendo la giustizia sommaria usata contro i banditi che avevano cercato di "appropriarsi del nome e dei beni della rivoluzione". In alcuni casi si trattava di veri banditi, di cui ugualmente il Che parla con comprensione. Di un contadino che aveva violentato un'adolescente, avvalendosi della sua autorità di staffetta dell'Esercito Ribelle, ricorda che rifiutò di essere bendato e morì inneggiando alla rivoluzione. A proposito di un altro contadino che aveva preso contatti con l'esercito, Guevara si domanda se era veramente così colpevole da meritare la morte, e se non poteva essere salvata una vita per la tappa della costruzione rivoluzionaria. La spiegazione che dà è che "la guerra è difficile e dura" e in certi momenti “non si può permettere neppure l'ombra di un tradimento. Mesi prima, per una debolezza ancor più grande della guerriglia, o mesi dopo, per una forza relativamente ben maggiore, forse gli avrei salvato la vita. Ma egli ebbe la sfortuna che le sue debolezze come combattente rivoluzionario coincidessero con il momento preciso in cui eravamo abbastanza forti per punire drasticamente un'azione come la sua, e non abbastanza forti per punirla in altro modo.”
A proposito della fucilazione di altri contadini che si erano appropriati di beni comuni o si erano spacciati per guerriglieri per rubare o per violentare, colpisce il giudizio articolato del Che su costoro: "Questa era la gente con cui si faceva la rivoluzione. Ribelli, inizialmente, contro ogni ingiustizia, ribelli individualisti che si stavano abituando a soddisfare le loro necessità personali e non concepivano una lotta con caratteristiche sociali; quando la Rivoluzione trascurava un istante la sua attività di controllo, commettevano errori che li conducevano al crimine con sorprendente naturalezza. (...) Non erano peggiori di altri delinquenti occasionali che furono perdonati dalla rivoluzione e che oggi stanno anche nel nostro esercito, ma il momento esigeva la mano pesante e un castigo esemplare per frenare ogni tentativo di indisciplina e liquidare gli elementi di anarchia che penetravano in quelle zone non soggette a un governo stabile". Di uno di essi (che "cedendo a non si sa quali tentazioni, aveva cominciato a praticare rapine a mano armata nel territorio della guerriglia"), Guevara pensa che forse poteva diventare un eroe della rivoluzione come due dei suoi fratelli, ufficiali dell'Esercito Ribelle, ma "gli toccò la mala sorte di delinquere in quell'epoca". Ne ricorda anche il nome, perché la "sua fine non fu denigrante", giacché "servì da esempio, tragico ma valido, perché si comprendesse la necessità di fare della nostra Rivoluzione un fatto puro, senza contaminazioni con il banditismo a cui ci avevano abituato gli uomini di Batista". Colpisce la franchezza con cui si descrive una giustizia così sommaria e che in un altro momento storico (ad esempio oggi, nel quadro delle esaltazione della non violenza come unica forma di lotta possibile…) potrebbe essere fraintesa suscitare critiche indignate. Ma questo si deve alla convinzione profonda di Guevara che "la verità è rivoluzionaria", e ha un grande valore pedagogico. È in ogni caso altamente significativo che egli consideri l'abuso della fiducia della Rivoluzione per fini personali un crimine tra i più gravi.

Altri viaggi: Guevara “ambasciatore itinerante” della rivoluzione…

Forse proprio per allontanare da Cuba “l’estremista” Guevara, bestia nera della borghesia “progressista” che non aveva ancora rotto del tutto con la rivoluzione, egli tra il giugno e il settembre 1959 viene mandato, alla testa di una nutrita delegazione economica cubana, a visitare diversi paesi, quasi tutti da poco indipendenti, come Egitto, India, Pakistan, Sri Lanka, Indonesia, Marocco (ma ci sono anche tappe in due paesi che lo interessano molto, ma lo deludono per ragioni diverse, Giappone e Jugoslavia). Quel viaggio risulterà interessante politicamente, sia perché dal Marocco il Che stabilisce contatti con la rivoluzione algerina, mentre a Gaza, allora occupata dall’Egitto, conosce la causa palestinese, sia perché gli permette di stabilire rapporti con altri paesi e presentare al mondo la rivoluzione cubana, ma certo è sostanzialmente infruttuoso dal punto di vista economico, dato che si tratta in genere di paesi che hanno problemi analoghi a Cuba, essendo produttori di materie prime mal retribuite sul mercato mondiale e che pagano carissimi tutti i prodotti tecnologicamente avanzati, e non possono quindi aiutare l’isola. Quanto al Giappone, che Guevara ammira e vorrebbe imitare perché ha costruito la sua ricchezza pur essendo privo di materie prime, è un paese imperialista che non ha nessun interesse ad aiutare Cuba (in ogni caso nel 1959 non potrebbe farlo, dato che è ancora sotto stretta tutela statunitense), mentre la Jugoslavia, il primo paese che si dichiara “socialista” che Guevara abbia visitato, lo delude per molti aspetti della sua “autogestione” che gli sembrano ispirati dal modello capitalistico. Il Che tuttavia apprezza la sua indipendenza (“per esempio il fatto di non aderire a nessun trattato”, che ritiene “perfettamente applicabile alla nostra Cuba di oggi”).
A queste esperienze fa riferimento il suo articolo America dal balcone afroasiatico, che riportiamo perché emerge in esso con chiarezza una concezione internazionalista concreta, e non puramente etica e solidaristica: c’è la consapevolezza della necessità di collegare i paesi produttori di canna da zucchero, o di caucciù o di petrolio, per evitare che la concorrenza tra loro renda “infimi i salari dei lavoratori” di ciascun paese.
Al ritorno Guevara viene nominato capo del Dipartimento di industrializzazione dell’Istituto nazionale per la riforma agraria (Inra) che due anni dopo si trasformerà in Ministero dell’Industria. In novembre in una riunione caotica di quegli anni di improvvisazione guerrigliera, Fidel Castro aveva chiesto chi era economista, e il Che si era dichiarato tale, ed era stato perciò designato presidente della Banca Nazionale. Al termine della riunione, a Fidel che gli diceva di non sapere che fosse economista, Guevara avrebbe dichiarato: “ma io ho capito chi è comunista”. Questa era la versione riportata da molti biografi e dalla memoria popolare, ma per anni avevo ritenuto fosse una barzelletta. Tuttavia Castro ha confermato di recente che le cose sarebbero andate proprio così! In realtà, vera o fantasiosa che sia questa ricostruzione, non c’è dubbio che Guevara a quel momento non aveva una preparazione sistematica in economia. Se la fece tuttavia in pochi anni con uno studio severissimo e sistematico, sotto la guida di alcuni dei consiglieri economici forniti dall’Urss (tra cui dei comunisti spagnoli esuli), e soprattutto di Salvador Vilaseca, professore nella Facoltà di scienze dell’Avana, che impartirà a lui e ai suoi più stretti collaboratori anche lezioni di calcolo differenziale, ecc. La concezione del non rubare per il Che si estendeva anche al meritare davvero lo stipendio, colmando le lacune nella sua preparazione.

Poi, appena un anno dopo, ci furono i viaggi in Urss, Cecoslovacchia, Cina, Corea del Nord e Repubblica Democratica Tedesca.. Cuba, già bloccata dall’embargo, era stata costretta a chiedere l’aiuto dell’Urss, con cui aveva ristabilito i rapporti diplomatici solo nel maggio 1960. Altro che paese fantoccio, altro che Castro marionetta del comunismo! Eppure, ancora oggi, ci sono giornalisti e commentatori che attribuiscono la rivoluzione all’influenza sovietica, e quindi interpretano il bloqueo come una “risposta” legittima a un presunto “espansionismo” di Mosca.
Guevara ritornò da quel viaggio durato due mesi (ottobre e novembre 1960) con un bagaglio di contratti interessanti per la fornitura di prodotti indispensabili di cui Cuba non disponeva più dopo che Stati Uniti avevano interrotto bruscamente rapporti che duravano da oltre un secolo, e soprattutto con accordi per formare in Urss e in altri paesi dell’area ingegneri, medici, economisti. Tornò anche con un entusiasmo eccessivo, di cui era in parte consapevole (“mi chiamerete Alice nel continente della meraviglie”, disse nel suo rapporto alla televisione cubana). Ma questo farà risaltare ancor più lo spirito critico con cui esaminerà i rapporti successivi, la qualità insufficiente delle merci fornite, gli atteggiamenti burocratici di molti tecnici e consiglieri, e si interrogherà sui limiti e le contraddizioni di quei paesi. Ma questa parte della sua riflessione, che affronteremo ampiamente nel secondo volume, è rimasta quasi completamente nascosta: la maggior parte dei suoi scritti degli ultimi tre anni di permanenza a Cuba sono rimasti a tutt’oggi inediti, proprio perché a mano a mano l’influenza materiale e ideologica dell’Urss diventava più forte, e non tollerava che in un “paese fratello” potesse esserci una critica aperta e appunto “fraterna” del sistema.

Le ragioni della sua popolarità

Guevara era arrivato all’Avana circondato da una straordinaria popolarità, che divideva con Fidel Castro e Camilo Cienfuegos (morto tuttavia in un incidente aereo già nel 1959 e passato più rapidamente nel mito).
Una delle ragioni della specialissima ammirazione per il Che è pero legata ad alcuni suoi comportamenti che lo facevano apparire diverso da altri dirigenti, e che colpirono moltissimo già allora, diventando negli anni successivi una vera e propria leggenda tramandata di bocca in bocca: ad esempio nel corso della difficile marcia da oriente verso occidente, il 14 giugno 1958 arrivò con un folto gruppo di guerriglieri a casa di un contadino che sapeva o seppe in quell’occasione che era il trentesimo compleanno di Ernesto, e che pensò bene di festeggiarlo preparando per lui il suo unico pollo, mentre per la truppa c’era solo riso scondito. Guevara se ne accorse e rovesciò il suo pentolino nel calderone comune. Un gesto indimenticabile, evidentemente: ho conosciuto decine di cubani che me lo hanno raccontato come se fossero stati presenti o, se era impossibile per l’età, attribuendo la testimonianza al loro padre o a un altro parente.
Altri ricordano invece che al Che era sfuggito un colpo dalla pistola (e braccati com’erano poteva essere pericoloso, mettendo sulle loro tracce i militari). Egli era severissimo con tutti per ogni tipo di indisciplina o trascuratezza, e si inflisse un digiuno di tre giorni, che era la punizione più frequente. Ma dato che doveva partire il giorno successivo per raggiungere il comando di Castro, rinviò il viaggio di tre giorni perché nessuno pensasse che una volta lontano dall’accampamento sfuggisse alla punizione che si era inflitto.
Di lui si ricorda ancora che mentre era dirigente della Banca Nazionale e dell’Istituto per la Riforma agraria, e successivamente ministro bloccò più volte qualche piccolo privilegio che era stato accordato alla sua famiglia e di cui inizialmente non si era accorto: ad esempio si dice che si fosse irritato con la moglie scoprendo che aveva utilizzato una macchina di scorta per andare a fare la spesa. Quando avevo chiesto alla vedova del Che conferma sull’episodio, ne aveva negato categoricamente la fondatezza. In ogni caso la persistenza e diffusione popolare di certi ricordi, pur non provando che si riferiscano ad episodi realmente avvenuti, ci dice molto sulle ragioni dell’amore per Guevara nella Cuba di oggi, molto meno egualitaria di quella dei primi anni dopo la rivoluzione.
Negli anni in cui fu ministro dell’Industria Guevara – tranne che in occasione dei viaggi all’estero – non mancò mai al “lavoro volontario” del fine settimana, di cui sapeva bene che non aveva un valore economico significativo, dato che un buon tagliatore di canna riusciva a far meglio di lui, o un operaio tessile a controllare i telai più efficacemente, ma che aveva un valore morale altissimo: avere al fianco un ministro impegnato non simbolicamente per un’ora tanto per farsi riprendere dagli operatori, ma per un’intera giornata lavorativa sottratta al pur meritato riposo, rendeva più sopportabile la fatica a tutti. Inoltre il Che riteneva che facesse molto bene ai dirigenti sapere per esperienza diretta quali erano le condizioni di lavoro.
Olenin, uno dei geologi incaricati di cercare la torba nella Ciénaga de Zapata (una vasta palude vicina a Playa Girón), ha descritto con vivissima simpatia e ammirazione la partecipazione del Che alla soluzione dei problemi tecnici che la povertà di mezzi sembrava rendere insormontabili: ad esempio la costruzione di un veicolo anfibio per l'esplorazione delle paludi, utilizzando le scarse risorse e il grande entusiasmo degli operai del vicino "Central azucarero Australia"; Olenin, come altri tecnici e scienziati sovietici, era affascinato da un ministro comunista che si rimboccava letteralmente le maniche e seguiva con passione e umiltà tutti i processi del lavoro, e che condivideva senza problemi le durissime condizioni della vita nelle paludi ancora selvagge.
Analogamente Guevara aveva sperimentato subito, per intere settimane, le prime macchine tagliacanna costruite dai sovietici. Le aveva inizialmente apprezzate ma, avendo trovato i sedili scomodissimi e quindi distruttivi per chi doveva passare otto o dieci ore sulla macchina, chiese che venissero sostituiti con selle più comode, a costo di doverle comprare in dollari all'estero.
Al ministero passava solo le ore della notte, perché la mattina cominciava la giornata visitando le fabbriche: colpiva i lavoratori che non cominciava mai l’ispezione, come è consuetudine, dallo studio del direttore per farsi poi guidare da lui nello stabilimento, ma dal magazzino in cui esaminava i prodotti finiti, esaminava quelli scartati perché difettosi, e accompagnato dagli operai risaliva il processo produttivo – che non era stato fermato – per capire dove ci fossero strozzature o inconvenienti; solo alla fine arrivava da direttore e insieme si recavano in assemblea. Gli operai erano incoraggiati a intervenire criticamente, e se il funzionamento dello stabilimento appariva nel complesso insufficiente, il direttore veniva sostituito per un mese da un operaio o un tecnico dei reparti più efficienti, e veniva inviato a partecipare alla produzione in uno dei punti che dovevano essere riorganizzati. Dopo un mese, al termine di una nuova visita, se le insufficienze erano state superate, il direttore tornava in carica. Queste visite (effettuate anche dai suoi più stretti collaboratori come Borrego) venivano poi discusse al ministero caso per caso settimanalmente, e poi in grandi assemblee allargate ai dirigenti dislocati in provincia in dibattiti bimestrali di grande importanza, i cui verbali venivano trascritti e sono stampati nelle Opere curate da Borrego e Oltuski nel 1967, mentre il Che era in Bolivia.
Le trascrizioni di queste assemblee costituiscono una parte importante degli inediti di Guevara, di cui è stata preannunciata finalmente la pubblicazione. La maggior parte degli interventi del Che esaminano le conseguenze dell’introduzione a Cuba dei criteri sovietici di direzione dell’economia e sono particolarmente utili per capire il cifratissimo dibattito economico del 1963-1964, l’unico in cui Guevara scrive in modo non immediatamente comprensibile, in parte per la difficoltà intrinseca del tema, in parte per ridurre l’impatto della polemica implicita con l’Urss.
Ma in quelle assemblee, che iniziavano con una puntualità sorprendente per Cuba (anche perché chi tardava più di quindici minuti restava fuori della sala), si discutevano molti altri problemi, compresi quelli della morale sessuale (a partire dai rapporti tra dirigenti e segretarie), che esplodevano spesso, scandalizzando il Che se vedeva riaffiorare le tracce di una doppia morale, e di un pregiudizio nei confronti della libertà della donna. Ne parleremo più ampiamente nel secondo volume.

Perché una nuova edizione

Perché una nuova edizione di scritti di Guevara, se ce ne sono tante, e anche tante biografie? Tra le tante, troppe, edizioni dei suoi scritti, ce ne sono alcune pregevoli oggi praticamente introvabili, ma molte poco rigorose. La maggior parte delle pubblicazioni uscite di recente sono apologetiche e, invece di seguire le tracce della sua evoluzione politica, della formazione del suo pensiero sotto lo stimolo delle straordinarie esperienze vissute, lo presentano come se fosse la Bibbia, senza cogliere le fasi della sua maturazione. Ad esempio nelle lettere giovanili alla famiglia ci sono a volte anche citazioni di Stalin, non tanto dei suoi scritti, che non aveva letto, ma del suo nome: erano solo l’eco della grande ondata di celebrazioni negli anni immediatamente successivi alla morte del dittatore. Isolarle, prescindendo dalla successiva riflessione critica sullo stalinismo e sulla sua eredità è assurdo, ma è stato fatto. Un caso limite poi è la pubblicazione di un “Ideario” di Guevara, che è in pratica una specie di libretto di citazioni confezionato a Cuba per fornire il Che in pillole agli studenti, come a Mosca si faceva con Lenin e ancor più a Pechino, quando si lanciava in tutto il mondo il "Maotsetungpensiero" col famigerato Libretto rosso. E come in quei modelli, le citazioni non seguono nessun ordine cronologico, ma sono raccolte per temi, a scopo edificante.
In realtà è necessario seguire l’itinerario di Guevara, che è stato un autodidatta, indubbiamente dotatissimo e geniale ma che, come tutti gli autodidatti, inizialmente ha scelto un po’ casualmente le sue letture. Tra i suoi primi scritti giovanili ne abbiamo proposti alcuni per sottolineare alcune anticipazioni, quasi profetiche, a proposito del Guatemala, o le sue precoci curiosità intellettuali su José Martí, che diverrà poi per lui una guida e un punto di riferimento culturale e soprattutto etico.. Anche i suoi progetti come medico, interessanti per seguire i suoi primi passi come scrittore, non sarebbero ricordati se Ernesto Guevara non fosse diventato il Che.
Quasi tutti gli scritti politici della prima parte del volume servono soprattutto a ricostruire le tappe dell’evoluzione del suo internazionalismo dall’ingenua scoperta di una elementare comunanza di interessi nel resoconto del suo primo viaggio politico (América desde el balcón afroasiatico) alla polemica diretta con Stevenson (e indirettamente con Kennedy) nel Consejo Interamericano Económico Social di Punta del Este, con toni insolitamente poco diplomatici. L’internazionalismo di Guevara matura presto ed è fin dai primi anni lungimirante e ricco di insegnamenti anche per il presente.
Abbiamo invece escluso dalla ricostruzione dell’evoluzione del pensiero di Guevara alcuni scritti che si limitano a ricalcare ingenuamente le sue prime letture, basate ancora sui manuali “formativi” di origine sovietica in circolazione nei partiti comunisti dell’America Latina. Sono in genere gli scritti sul partito (alcuni di essi, piuttosto banali, sono stati raccolti anche in un volumetto con fini edificanti) su cui d’altra parte anche successivamente Guevara non ha fatto grandi passi avanti, limitandosi a ignorare o ad aggirare il problema.
Ma abbiamo lasciato fuori da questa raccolta anche le Note per lo studio della ideologia della Rivoluzione Cubana, uno scritto del 1960 in cui non solo Guevara sosteneva candidamente che a Cuba “si deve essere marxisti con la stessa naturalezza con cui si è «newtoniano» in fisica o «pasteuriano» in biologia”, ma rivelava di non conoscere ancora neppure l’esistenza di diverse scuole marxiste: “A partire dal Marx rivoluzionario – scrive – si forma un gruppo politico con idee concrete che, appoggiandosi ai giganti Marx ed Engels e sviluppandosi attraverso tappe successive, con personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse-tung e i nuovi governanti sovietici e cinesi, costituiscono un corpo di dottrina e, diciamo, un esempio da seguire.” Guevara evidentemente non conosceva ancora la polemica di Lenin con Stalin (la cosiddetta “destalinizzazione” di Chrusciov nel 1956 era stata archiviata e dimenticata, dopo le ripercussioni in Polonia e Ungheria, e sarebbe stata ripresa solo un anno, dopo nel XXII Congresso del PCUS), ma neppure sospettava che “i nuovi governanti sovietici e cinesi” stessero cominciando a combattersi reciprocamente con ogni mezzo, senza sentirsi parte di uno stesso “ corpo di dottrina” e certo non ammettevano di costituire insieme “un esempio da seguire”.
L’esclusione di questi testi non è dovuta a una qualche censura ma semplicemente a ragioni di spazio: l’edizione italiana delle Opere apparsa da Feltrinelli nel 1968-1969 era di 2.048 pagine, e anche la selezione di Scritti scelti pubblicata dalla Erre Emme nel 1993 ne aveva 768. Un’edizione davvero completa, alla luce di quanto è apparso nella raccolta curata da Borrego e Oltuski nel 1967 e riservata ai dirigenti, e da altri scritti allora non conosciuti (il cosiddetto Diario del Congo, varie trascrizioni di suoi discorsi fatte da suoi collaboratori, i “Quaderni di Praga” selezionati e presentati da Borrego nel suo libro Che. El camino del fuego) oggi dovrebbe superare le 3.000 pagine.
Dovendo scegliere, si è preferito eliminare quegli scritti del primo periodo che non presentavano elementi di originalità e che seguivano pedissequamente quei “Manuali” sovietici che nel 1961 aveva ancora difeso a spada tratta con Karol. Lo scrittore polacco, avendo vissuto in Urss per anni, era preoccupato di vedere i manuali di Lisenko, di Mitin, di Konstantinov sugli scaffali delle librerie cubane. Guevara stentava perfino a capire le preoccupazioni del suo interlocutore, dapprima rivendicando il "diritto-dovere di assicurare la formazione politica e ideologica del popolo", dichiarando che in un paese esposto a rischi e compiti immani, "sarebbe criminale e assurdo lasciare alla gente il diritto di esitare tra le buone e le cattive ideologie". Alle pazienti spiegazioni di Karol, che descriveva i difetti di quelle opere, Guevara rispondeva su un terreno più pragmatico: "vogliamo formare i nostri giovani il più rapidamente possibile nell'ideologia socialista e siamo ovviamente costretti a utilizzare i manuali dei paesi socialisti. Ne avete altri da consigliarci?".
Appariva allora abbastanza logico a Guevara che "per imparare a dirigere un paese, a pianificarne l'economia, a costruire il socialismo" si proponesse ai giovani cubani di studiare "i libri dei paesi socialisti che ci hanno preceduto su questa via". Ma successivamente egli cambiato radicalmente il suo giudizio sui manuali: in uno degli ultimi colloqui bimestrali al Ministero dell'Industria disse amareggiato che a Mosca lo accusavano di trotskismo personaggi che usavano "come Bibbia non Il capitale, ma il Manuale di economia politica dell'Accademia delle scienze.
In ogni caso, anche una selezione che privilegi soprattutto gli scritti in cui si riscontra la sua riflessione originale rispetto a quelli più “scolastici”, naturalmente, non nasconde minimamente le tracce del suo percorso. Questo primo volume della raccolta si ferma al 1962, anno di svolta, in cui appaiono già i segni della maturità del Che.
Ci sembrano importanti soprattutto alcuni degli ultimi testi, che non si limitano a denunciare le responsabilità dell’imperialismo, come ha fatto e farà sempre, ma affrontano il problema delle responsabilità soggettive di una parte dei movimenti di liberazione, che inizialmente coglieva solo in parte. Uno scritto è addirittura dell’aprile 1961 (Cuba eccezione storica o avanguardia nella lotta al colonialismo), e contiene già un’intuizione preziosa. Guevara ha capito che ci sono “certi settori” che “per interesse o in buona fede, han preteso di scorgere nella rivoluzione cubana un certo numero di radici e di caratteristiche eccezionali, e ne elevano artificiosamente l’importanza, relativa in confronto al profondo fenomeno storico sociale, fino a definirle determinanti.” Guevara polemizza con gli “eccezionalisti” che, a Cuba o nel resto dell’America Latina, “trovano che la Rivoluzione Cubana sia un avvenimento unici ed inimitabile sulla terra”. Gli “eccezionalisti” sono i membri del vecchio partito comunista, il Partido Socialista Popular, che nel 1953 e nel 1956-1957 hanno diffidato di quello che chiamavano “l’avventurismo” di Castro, si sono uniti ai guerriglieri nell’estate del 1958, ma hanno continuato a sostenere e a far sostenere dai giornali degli altri partiti comunisti che a Cuba c’era solo una rivoluzione borghese.
Un anno dopo, esploderà apertamente una crisi tra il gruppo che ha diretto la rivoluzione e i “settari” del Psp che si sono raccolti intorno ad Aníbal Escalante e hanno tentato di impossessarsi di tutte le leve del potere nelle Ori (Organizzazioni Rivoluzionarie Integrate) nominando in ogni situazione i propri uomini di fiducia al posto di rivoluzionari sperimentati.
Di quel cruciale 1962, che in ottobre vedrà anche la grave crisi con l’Urss per i missili concessi e poi ritirati, sono gli ultimi due scritti, uno del maggio, importantissimo per cogliere i primi segnali di allarme su possibili fenomeni involutivi a Cuba, l’altro forse dell’ottobre (ma pubblicato postumo nel 1968, con qualche frase rituale che potrebbe essere dovuta a una rielaborazione dei curatori).
L’uno e l’altro sono ricchi di osservazioni sulla dinamica della rivoluzione latinoamericana, e presentano una panoramica dei diversi paesi che rivela già una conoscenza approfondita, il rifiuto categorico delle semplicistiche generalizzazioni dell’esempio cubano che già circolavano tra i giovani che rompevano con i vecchi partiti comunisti stalinisti, ma anche alcune note sicuramente profetiche.
Emerge già chiaramente che non ha illusioni sulla Bolivia, sia dal punto di vista geostrategico (e lo ripeterà nel 1965 quando giungerà in quel paese per addestrare i quadri rivoluzionari latinoamericani: “sarà forse l’ultimo paese del continente a liberarsi”); è convinto anche che la lotta sarà inevitabilmente continentale: “Questa nuova tappa dell’emancipazione dell’America si potrebbe forse concepire come un confronto tra due forze locali che lottano per la conquista del potere in un dato territorio? Evidentemente no. La lotta sarà uno scontro mortale tra tutte le forze popolari e tutte le forze della repressione”.
In nessun caso pensa alla Bolivia, casomai ritiene più adatto alla lotta il Perú, a cui nel 1966 rinuncerà solo dopo la notizia della morte o dell’arresto dei rivoluzionari di quel paese su cui contava di più. Riconosce anche che in Cile si presentano possibilità diverse, più favorevoli che in altri paesi del continente, e non esclude che le sinistre possano un giorno arrivare al governo per quella via elettorale che a Cuba era invece preclusa dalla dittatura di Batista. Tuttavia avverte lucidamente:

“In Cile, dove i partiti di sinistra hanno maggiore influenza, una traiettoria vigorosa e una fermezza ideologica che forse non esiste in un altro partito in America” si è “ormai posto il dilemma: o la presa del potere avviene per via pacifica, o deve avvenire per via violenta, e di conseguenza tutti si preparano allo scontro futuro; uno scontro che a mio modo di vedere vi sarà, perché non esiste esperienza storica, e ancora meno può esistere qui in America, che dimostri che, nelle attuali condizioni dello sviluppo della lotta tra le grandi potenze e con l’acuirsi dello scontro tra l’imperialismo e il campo della pace, si possa verificare qui una cessione del potere da parte dell’imperialismo. Dal punto di vista strategico sarebbe ridicolo, quando ancora gli imperialisti dispongono delle armi; per questo la sinistra deve essere molto forte e costringere la reazione a capitolare, ma il Cile non è, almeno per ora, in queste condizioni.”

Già nel 1961 aveva osservato che “quando sentiamo parlare di presa del potere per via elettorale, la nostra domanda è sempre la stessa: se un movimento popolare giunge al governo di un paese spinto da una grande votazione popolare e decidesse, di conseguenza, di dare inizio alle grandi trasformazioni sociali previste dal programma in base al quale ha avuto la vittoria, non entrerebbe immediatamente in conflitto con le classi reazionarie del paese? E non è stato sempre l’esercito lo strumento di oppressione di tali classi? Se così è, è logico dedurre che tale esercito si schiererà dalla parte della sua classe e entrerà in conflitto con il governo costituito”.

Guevara aveva cominciato a studiare seriamente, e soprattutto non aveva dimenticato l’esperienza del Guatemala del 1954 che aveva vissuto personalmente. Tuttavia prevedeva diversi esiti: “Può succedere che il governo venga rovesciato con un colpo di Stato più o meno incruento e che ricominci il gioco che non finisce mai; ma può succedere invece che l’esercito oppressore venga sconfitto grazie all’azione popolare armata mossa in appoggio al proprio governo. Ciò che ci sembra difficile è che le forze armate accettino di buon grado delle riforme sociali profonde e si rassegnino come agnellini alla propria liquidazione come casta”.
Abbiamo accompagnato Guevara fino alla soglia della sua maturazione come pensatore marxista.
Le sue parole ci sembrano profetiche, ma furono allora inascoltate e poi dimenticate o ignorate. Cominciava in quegli anni la sua solitudine come dirigente, e la sensazione di dover correre contro il tempo, per evitare il successo di una controffensiva delle classi dominanti di cui coglieva i segni. Ma questo sarà il tema affrontato nel secondo volume, quello che raccoglie gli scritti della sua piena maturità.

dal sito  http://antoniomoscato.altervista.org/

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