CINEMA

lunedì 6 dicembre 2010







LE ULTIME BATTAGLIE DEL "CHE":
CONGO E BOLIVIA

di Antonio Moscato








Dopo "L'introduzione a un libro censurato" di Antonio Moscato, che abbiamo messo in questo blog il 4 dicembre, pubblichiamo le due ultime battaglie del "Che" in Congo ed in Bolivia che costituiscono con lo scritto precedente una biografia sintetica del grande rivoluzionario.


LE RAGIONI DELL'IMPRESA NEL CONGO


Non c’è dubbio ormai che la partecipazione del Che all'impresa congolese fu decisa in fretta per evitare che la fortissima ostilità sovietica verso il Che si ripercuotesse su Cuba. Il Che naturalmente aveva partecipato alla definizione del progetto, in base a una precisa valutazione politica: egli sperava di poter fornire a Cuba la sponda di un'altra rivoluzione vittoriosa, per realizzare quel terzo polo in grado di obbligare URSS e Cina a un fronte unico che non escludesse le polemiche politiche e teoriche, ma assicurasse una difesa comune nei confronti della controffensiva di un imperialismo sempre più aggressivo dopo che le prime vittorie della rivoluzione anticoloniale lo avevano indebolito notevolmente. Un "terzo polo" geografico e politico, non una impossibile "terza via" tra rivoluzione e capitalismo, come si ricominciava a cercare in Europa.
Il fattore decisivo che lo spinse alla partenza, e in tempi così brevi da rendere impossibili le verifiche delle informazioni su cui si erano basati i progetti di intervento tanto nel Congo che in Bolivia, fu la certezza che l'URSS non avrebbe più tollerato un suo ruolo dirigente a Cuba, e avrebbe fatto pagare cara una sua permanenza nel governo. Se i suoi discorsi sempre più espliciti al Ministero dell'Industria erano ben noti da anni ai dirigenti sovietici, se nelle conversazioni con gli studenti a Mosca era stato così franco che era venuta subito fuori l'accusa di trotskismo, fino a quel momento quello che aveva detto non era mai stato reso veramente pubblico a livello mondiale (proprio a ciò si deve il fatto che la maggior parte della sua produzione più matura non sia stata pubblicata), mentre nel Secondo seminario afroasiatico di Algeri Guevara aveva parlato fin troppo chiaro, davanti a molti quadri di movimenti di liberazione ed esponenti di quei paesi di recente indipendenza in cui era in corso uno scontro durissimo per l'egemonia tra l'URSS e la Cina, e con un pubblico tale che quelle accuse terribili di complicità con l'imperialismo non poterono rimanere in una cerchia ristretta ma furono immediatamente pubblicate e conosciute in tutto il mondo.
Per questo, al suo ritorno a Cuba, Guevara passò oltre 30 ore in una serrata discussione con Fidel e Raúl Castro e pochi altri comandanti. Nessuna delle versioni fornite da più parti sull'episodio può essere verificata, ma si può ragionevolmente ipotizzare che si sia discussa proprio e solo in quella sede la futura utilizzazione di Guevara fuori di Cuba, come è confermato dal fatto che la sua partenza per il Congo è avvenuta a scadenza ravvicinatissima, senza aver avuto il tempo di sondare il parere degli interlocutori africani. A mio parere il fatto che essi sapessero dell'invio di consiglieri cubani, ma non della presenza del Che si deve a una sola cosa: questa fu decisa a caldo, per rispondere a quel ricatto sovietico del blocco delle forniture di petrolio e del rallentamento di tutte le forniture a cui alluderà Raúl Castro nel gennaio 1968 nell'accusa alla "microfrazione", ma che fu una permanente spada di Damocle sospesa sopra Cuba prima e dopo il caso Escalante.
Nessuno dei cubani che stavano allenandosi per una "spedizione internazionalista in Africa" (non gli era stato detto esplicitamente, ma lo avevano dedotto dal fatto che erano stati selezionati solo negri o mulatti) sospettava che con loro potesse partire Guevara, che li raggiunse solo nell'ultima fase dell'addestramento. Un'altra conferma indiretta viene dalla lunga resistenza che il Che oppose alla richiesta insistente di Castro perché rientrasse a Cuba dopo il ritiro dal Congo. Come emerge dai diari dei suoi collaboratori, egli diffidava profondamente dei servizi segreti sovietici e degli altri paesi del blocco, e cercò in tutti i modi di far perdere le sue tracce perché non lo ricollegassero a Cuba, facendo pagare alla popolazione dell'isola il prezzo delle sue posizioni così scandalose agli occhi dei burocrati del "socialismo reale".
Ma c’è un’altra conferma: nel suo ultimo viaggio prima della sparizione da Cuba Guevara aveva parlato a lungo con il presidente Julius Nyerere, con i dirigente congolesi Laurent Kabila (oggi presidente della nuova repubblica democratica del Congo) e Gaston Soumaliot, ministro della difesa della "repubblica popolare del Congo" con capitale Stanleyville. Ammettiamo pure per assurdo che "per prudenza" (ma in tal caso preparando tensioni future, dato che avrebbero potuto sentirsi ingannati) Guevara abbia voluto nascondere i suoi progetti a capi verso cui poteva nutrire qualche legittima diffidenza, ma non è possibile pensare che mentisse anche a Pablo Rivalta, ambasciatore in Tanzania e uomo di assoluta fiducia che si era legato al Che fin dalla battaglia di Santa Clara. Lo conferma la testimonianza di Dreke: quando arrivammo a Dar es-Salam, Rivalta ci stava aspettando con alcuni altri compagni, ma "non sapeva che ci sarebbe stato anche il Che". Guevara nel soggiorno precedente, di appena due mesi prima, non aveva mentito: semplicemente non sapeva neanche lui che avrebbe dovuto unirsi a quella spedizione di cui stava solo studiando le condizioni politiche e tecniche.
Per capire l’interesse di Guevara per quella spedizione africana del 1965 bisogna comunque prima di tutto ricordare che egli tra il 1955 e il 1959 era diventato veramente "argentino e cubano", per usare le parole di Nicolás Guillén in Soldadito boliviano,la bellissima canzone musicata da Harold Gramatges. E da Cuba si seguiva con grande attenzione e partecipazione emotiva la rivoluzione anticoloniale in Africa sia perché da essa provenivano gli antenati di buona parte dei cubani, sia perché la rivoluzione del 1953-1959 affondava le sue radici in quelle anticoloniali del secolo precedente.
Nel primo viaggio come "ambasciatore itinerante" della rivoluzione Guevara aveva già visitato alcune delle capitali che ospitavano i leader dei principali movimenti di liberazione, e aveva cominciato a conoscere direttamente la rivoluzione algerina e quella palestinese.
Per diversi anni il suo punto di osservazione principale è l'Algeria, che nel 1962 ha conquistato l'indipendenza: vi stabilisce un rapporto di amicizia profonda con Ahmed Ben Bella, intorno a cui si ritrovano come consiglieri e tecnici molti rivoluzionari provenienti da tutto il mondo. Se non fa in tempo a conoscere direttamente Franz Fanon, che è morto prima dell'indipendenza, ad Algeri stabilisce un importante dialogo con la vedova, Josie, che ne diffonde l'opera; in quella città incontra diversi europei che hanno legato la loro sorte alla rivoluzione algerina, tra cui il trotskista di origine greca Michel Raptis ("Pablo"), che era stato accolto a braccia aperte da Ben Bella perché negli anni precedenti era stato arrestato in Olanda per aver organizzato una rete di sostegno che forniva al FLN algerino passaporti e perfino franchi falsi. Pablo aveva anche contribuito a mettere in piedi con decine di militanti operai della Quarta Internazionale (tra cui molti latinoamericani e in particolare argentini) una piccola fabbrica che produsse alcune migliaia di fucili mitragliatori, semplici ma efficienti. Molti di quei militanti restarono poi dopo la vittoria in Algeria.
In Algeria Guevara conosce la maggior parte dei dirigenti nazionalisti africani in esilio, e con Ben Bella stabilisce un accordo che prevede l'appoggio logistico algerino alle spedizioni di armi e uomini in America Latina, mentre i cubani faranno lo stesso in Africa, in particolare per sostenere le guerriglie nelle colonie portoghesi, in Namibia, e nel Congo ex belga.
Il Che conosce e apprezza Agostinho Neto, Amilcar Cabral, Ben Barka, e diversi dei partigiani di Lumumba, che sostengono di continuarne la lotta, e di cui scoprirà tardivamente i limiti e le menzogne. Il Congo, che tanto lo aveva colpito al momento della contrastata indipendenza, rimane al centro della sua attenzione soprattutto per il suo peso economico, e l'evidente interesse dell'imperialismo nordamericano a soppiantarvi l'influenza dei concorrenti europei.
Proprio a Josie Fanon espose chiaramente in un'intervista del dicembre 1964, quando aveva già presumibilmente deciso di lasciare Cuba, le ragioni per cui considerava l'Africa forse "il più importante campo di battaglia contro tutte le forme di sfruttamento che esistono nel mondo - contro l'imperialismo, il colonialismo e il neocolonialismo".
Guevara temeva che l'imperialismo riuscisse a ripetere in Africa quel che aveva fatto nel secolo scorso in America Latina: vanificare l'indipendenza raggiunta, sostituendo una dominazione neocoloniale facilitata dalle divisioni introdotte spesso artificialmente (si pensi al Centroamerica), creando Stati non autosufficienti da contrapporre l'uno all'altro. Se ci fosse riuscito, osservava lucidamente, l'imperialismo che pure era in crisi avrebbe potuto sopravvivere ancora per decenni, provocando milioni di morti per fame e malattie curabili e non curate.
Inoltre il Che, che non apprezzava la parola "sottosviluppo" perché troppo "oggettiva" e tendente a occultare i meccanismi dello sfruttamento, presentandoli come naturali e inevitabili, denunciava "il fenomeno dello scambio ineguale tra i paesi industrializzati e quelli economicamente dipendenti. "Questo rapporto di ineguaglianza si manifesta nei suoi aspetti più brutali con il colonialismo. Ma i paesi completamente indipendenti rischiano a loro volta di trovarsi chiusi nella prigione del mercato capitalistico perché i grandi paesi industrializzati si impongono sulla base del loro elevato sviluppo tecnico", e dopo alcuni anni maturano le condizioni per una completa dominazione politica oltre che economica.
Guevara concedeva che, a differenza dell'America Latina, dove "la borghesia nazionale non ha altra via che porsi completamente sotto la tutela dell'imperialismo" in alcuni paesi africani indipendenti "la borghesia ha, agli inizi, la possibilità di svilupparsi e svolgere un ruolo relativamente progressista", raggruppando "intorno a sé il popolo e le forze di sinistra, sotto la parola d'ordine della lotta contro l'imperialismo". Evidentemente era disposto a pensare che, grazie alle particolari condizioni in cui si era arrivati all'indipendenza e all'immediato rapporto stabilito con Cuba e con i maggiori paesi "socialisti", ci potesse essere un'eccezione rispetto a quella regola che aveva ricavato dall'esperienza latinoamericana.
Ma nella stessa intervista in cui aveva fatto questa concessione a una possibile variante positiva, il Che denunciava il pericolo che questo ruolo "progressista" finisse rapidamente e "fatalmente", nel "momento in cui la borghesia e il governo che la rappresenta si ritrovano in un vicolo cieco. Per la sua stessa natura, la borghesia non può prendere la strada che il popolo le indica; l'unica strada che le resta è la collaborazione con l'imperialismo e l'oppressione del popolo". Pur ammettendo l'esistenza di grandi possibilità in Africa per fattori soggettivi, Guevara riteneva che "ci sono problemi economici dei quali bisogna tener conto. I rapporti ineguali negli scambi conducono a vicoli ciechi, dai quali è molto facile tendere la mano all'imperialismo e opprimere il popolo, sul quale per una certa fase sembrava che si fosse appoggiati".
Analoghi concetti erano stati espressi da Guevara in una conversazione con i quadri del Ministero dell'Industria tenuta nel marzo 1965, di ritorno dal viaggio esplorativo in cui raccolse gli elementi fondamentali per preparare la "missione internazionalista" nel Congo.
La sua relazione rivelava che la conoscenza dell'Africa era ancora molto sommaria: alcune sviste possono essere dovute ad errori di trascrizione della registrazione (accanto al Senegal viene collocata la Zambia, invece che Gambia), la Sierra Leone viene considerata sottoposta alla Francia mentre era stata colonia e poi protettorato britannico ed era indipendente da 4 anni. Nel testo originale, si parla perfino di un "Caomei che lotta per la sua indipendenza"; nell'edizione italiana è stato corretto in Dahomei, lasciando tuttavia ancora molti dubbi: il Dahomei era in realtà indipendente dal 1960, e casomai in quel periodo era scosso da scontri violenti tra filocinesi e filoccidentali, che si acutizzeranno sboccando in successivi colpi di Stato nel novembre dello stesso anno e nel 1966. Non c'è dubbio che le conoscenze del Che erano approssimative, ma che anche i curatori dei suoi scritti sapevano ben poco di quei paesi, se non erano in grado di correggere sviste così clamorose nella trascrizione del discorso
Anche la descrizione delle strutture sociali e delle suddivisioni culturali e politiche è quasi sempre schematica e piuttosto generica. A Guevara dispiace che tutti i movimenti di liberazione siano divisi in due o tre partiti, esattamente come in America Latina, dice, dove "un aforisma molto cinico ma molto vero" afferma che "ogni gruppo di sinistra è divisibile per due".
È esattamente quanto sta succedendo in Africa: tutto si divide. E l'imperialismo ha le mani in pasta in tutto questo, non direttamente, perché non ne ha bisogno. Lascia cadere mille dollari qui, e dice "prendi, per la tua lotta". Allora arrivano altri, e dicono: anche noi lottiamo, noi siamo migliori". E comincia così la battaglia per i mille dollari, e s dimentica di combattere per la libertà del paese. Questa è la triste realtà dell'Africa; la realtà dell'arretratezza, della mancanza di sviluppo politico e ideologico della gente, frutto delle caratteristiche che l'imperialismo vi ha imposto, ma contro le quali noi non lottiamo con la sufficiente fermezza, con la sufficiente unità, e che possono portare a conseguenze assai gravi.
Tra le cause dell'inquietudine di Guevara per il futuro dell'Africa c'è anche il comportamento dei "paesi socialisti", che "non uniscono i loro sforzi in un'unica direzione". Aiutano un po' tutti, dice, "ma ognuno per proprio conto. Non è stata elaborata una pianificazione degli aiuti e, ancora meno, una pianificazione con un chiaro scopo politico" Per questo il fatto che si sviluppi in alcuni paesi una "lotta violenta non significa affatto che le forze progressiste stiano avendo la meglio". E conclude che per tutte queste ragioni "il capitalismo ha ancora un margine d'azione". E rispetto al Congo ex belga, dove sta preparandosi ad andare, dice che vi "si gioca dunque la grande battaglia decisiva". In caso di una vittoria delle forze antimperialiste, "il Congo influenzerebbe tutto il sud del continente, [...] ma se succede il contrario, con il suo milione e mezzo di chilometri quadrati, la maggiore ricchezza dell'Africa si converte in una colonia nordamericana" (i belgi sono ovviamente poco più che dei "prestanome dei nordamericani"), e in tal caso "l'Africa potrebbe considerarsi perduta per alcune decine di anni". Su questo tema ritorna successivamente più seccamente, rispondendo ad alcune domande:
L'Africa è un colossale serbatoio di ricchezze, veramente colossale. Gli Stati Uniti stanno cercando di fare in Africa la stessa operazione che hanno fatto in America Latina. Gli Stati Uniti non vogliono colonie: da molti anni non vogliono colonie. Vogliono paesi economicamente sviluppati, e con riserve d'importanza pari a quelle dell'America Latina, per premunirsi contro ciò che può succedere in America Latina, perché, nonostante che il centro della lotta sia in Africa, il pericolo maggiore per gli Stati Uniti è in America Latina.
Guevara non si illude affatto, e ritiene probabile che i nordamericani riescano a imporre a breve e medio termine il loro dominio in Africa, dato che la sua importanza economica è fondamentale per l'imperialismo, che non può vivere senza colonie o semicolonie: finchè non toglieremo all'imperialismo l'ultima di esse, "non ci saranno conflitti, non si avrà lo scontro tra la classe operaia e i suoi padroni". In quella stessa conversazione allude anche al Secondo seminario economico di solidarietà afroasiatica in cui il suo intervento sullo scambio ineguale e sulle corresponsabilità dei "paesi socialisti" con l'imperialismo aveva appunto suscitato le ire dei sovietici e dei cinesi, accelerando e rendendo praticamente inevitabile la sua partenza da Cuba.
Va sottolineato il realismo in cui, mentre si preparava a mettere in gioco la sua vita per tentare di bloccare un processo involutivo di cui intuiva le tragiche conseguenze, Guevara sottolineava le difficoltà della battaglia antimperialista in Africa ed esprimeva una notevole inquietudine sulla dinamica del nazionalismo africano. Sarebbe stata la dura esperienza della sua missione congolese a spingerlo a considerazioni ancora più nette, che escludevano categoricamente che anche in Africa fossero possibili quelle "eccezioni" su un momentaneo ruolo progressista di forze borghesi, che aveva ammesso un anno prima nell'intervista a Josie Fanon.

Un problema preliminare: perchè Guevara lascia Cuba

La maggior parte dei biografi del Che non danno una risposta convincente a un interrogativo che sta a monte di tutte le interpretazioni delle spedizioni nel Congo e in Bolivia: perché Guevara ha lasciato Cuba? Senza sottovalutare le ragioni specifiche che portano a scegliere un paese o l'altro, occorre domandarsi come mai un uomo che aveva a Cuba un prestigio eccezionale, che era innegabilmente il numero due della rivoluzione, che era amato almeno quanto Fidel era seguito e rispettato, ed era per giunta l'unico dirigente con cui Castro discuteva da pari a pari, abbia scelto di lasciare l'isola, tentando in un caso e nell'altro di bruciare i tempi, senza un’adeguata preparazione.
Non c'è una spiegazione univoca. Tenteremo di presentare alcune ipotesi, cominciando tuttavia a sgomberare il campo da una leggenda: nel 1965 non ci sono divergenze sostanziali tra il Che e Fidel. Chi cerca di scoprirle dimentica che le parole di Guevara nella lettera di congedo sono inequivocabili e soprattutto che egli aveva un vero culto della verità che rende assurdo non credergli.
Non è assolutamente vero inoltre che Castro fosse ostile alle concezioni del Che in economia, e fautore degli incentivi materiali, come affermano in molti, riprendendo un'affermazione impressionistica di Tad Szulc. Fidel Castro effettivamente non intervenne a sostegno di Guevara durante il dibattito economico del 1963-1964, ma probabilmente solo perché non ne comprendeva completamemte le implicazioni, e doveva in quel momento impegnarsi prioritariamente su altri problemi. D'altra parte la sua fiducia in Guevara era grandissima, e poteva esserci una specie di delega.
Può sembrare incredibile, ma una superficialità diffusa anche nella sinistra fa ripetere infinite volte un argomento che è frutto di un grossolano fraintendimento: Guevara avrebbe contrapposto gli incentivi morali a quelli materiali, mentre Castro avrebbe invece privilegiato questi ultimi. Guevara in realtà ha solo detto che la molla della costruzione dell'uomo nuovo e della nuova società dovevano essere gli incentivi morali, ma chiarendo bene che quelli materiali non dovevano essere soppressi. Casomai puntava a privilegiare il carattere collettivo dei premi, per aumentare il senso di soldarietà tra i lavoratori. Riteneva tuttavia sacrosanto intervenire sul salario, sia per penalizzare assenteismi e ritardi o colpevoli danneggiamenti (su questo terreno era severissimo) sia per premiare risultati meritori, anche se auspicava che la coscienza dei lavoratori ricompensati li portasse a devolvere a fini collettivi l'eventuale aumento ottenuto. Era una questione di priorità di valori, non una fanatica contrapposizione di un livellamento forzato a un sistema retributivo più realistico, come tante volte si è ripetuto.
Il problema è casomai del tutto opposto: dopo la partenza di Guevara Fidel Castro, per quattro anni si impegnò personalmente nella direzione dell'economia cubana, riprendendo le concezioni del Che (o piuttosto, paradossalmente, quelle che gli venivano attribuite dai suoi critici). Fu proprio Castro a cancellare non solo gli incentivi materiali, ma anche l'aggancio del salario alle ore effettivamente lavorate, eliminando le trattenute per i ritardi e persino per le assenze, col risultato immediato di provocare un tracollo della produttività, e a più lungo termine di facilitare la controffensiva dei fautori dell'accettazione piena del modello economico sovietico.
Tantomeno Castro è mai stato favorevole allo sviluppo di una burocrazia modellata su quella sovietica. Quando si è trovato in difficoltà per i suoi errori di volontarismo e le sperimentazioni a volte imprudenti, non ha potuto impedirne la riscossa. Ma identificare Castro col modello burocratico di derivazione sovietica non consentirebbe di spiegare come è stato possibile che, quando Guevara era partito definitivamente da molti mesi e aveva lasciato ogni incarico due anni prima, sia stato pubblicato a Cuba il testo più severo e rigoroso contro la burocrazia che sia mai stato scritto all'interno di un partito comunista al potere: i quattro editoriali apparsi sul “Granma” nel marzo 1967. In quel testo, dal titolo apparentemente neutro e accettabile ovunque di Lotta al burocratismo, si introduceva con chiarezza il concetto di burocrazia come casta parassitaria (anzi, in un caso, si parla di nuova classe) con interessi separati e contrapposti a quelli dei lavoratori.
Il testo, non firmato e quindi collettivo, riprende interi passi degli scritti più significativi di Guevara, ma per il rillievo con cui fu presentato non può non essere stato soppesato in ogni parola da Fidel. E quelle parole erano un grido di battaglia contro la burocrazia cubana, e contro quella sovietica di cui si diceva apertamente che era la fonte ispiratrice di quelle distorsioni. Non era un gesto da niente, tanto più che gli ideologi sovietici non potevano non riconoscere dietro molti di quei concetti l'influenza di Trotsky, il grande nemico.
Queste precisazioni non puntano ovviamente a un'idealizzazione del ruolo di Fidel Castro ma a sgomberare il campo da un equivoco. Non è Fidel la causa della partenza di Guevara, e tanto meno in quanto esecutore di una volontà sovietica. Tra l'altro i conflitti con l'URSS non si attenuano dopo la partenza del Che, e raggiungono punte molto aspre proprio nel corso dei primi mesi del 1968. La lotta contro la "microfrazione", come venne chiamata la rete di contatti avviati da Aníbal Escalante e che gli valsero una condanna a 15 anni di reclusione, fu condotta con grande decisione, espellendo una serie di diplomatici del blocco sovietico e dichiarando pubblicamente nell'atto di accusa non solo che uno dei bersagli del complotto era la persona del Che prima e poi, anche dopo la sua morte, la sua profonda influenza ideologica sulla rivoluzione cubana, ma che un diplomatico sovietico, Rudolf Shliapnikov, aveva esplicitato un pesante ricatto: "A noi ci basta dire al governo cubano che nel porto di Bakù si farà una riparazioni di tre settimane, e già questo è sufficiente".
Denunciare ciò pubblicamente non è proprio il comportamento tipico di un partito e di un gruppo dirigente filosovietico. Tra l'altro nell'atto di accusa di Raúl Castro contro Escalante si afferma apertamente che i congiurati "dicevano che vi era una forte corrente antisovietica, ponendo l'accento sul fatto che l'URSS era il paese egemone. Considerarono l'uscita del comandante Ernesto Guevara Serna dal paese un avvenimento salutare per la rivoluzione, perché ritenevano che il comandante Guevara fosse uno dei più fermi oppositori della politica sovietica". Il Che veniva accusato anche di essere "uno dei rappresentanti delle posizioni cinesi" e al tempo stesso trotskista. Il massimo dell'orrore, per dei filosovietici.
Lo stesso rapporto di Raúl Castro aggiungeva che il gruppo Escalante accusava la direzione cubana "di seguire una linea trotskista di esportazione della rivoluzione", e che per avvalorare l'accusa venivano fatti circolare articoli denigratori scritti da dirigenti comunisti latinoamericani e tratti dai bollettini della Tass e della Novosti. Tra gli altri argomenti forniti dall'accusa, risulta che i filosovietici cubani avevano sollecitato una protesta scritta dell'URSS, ma gli era stato risposto che "se i sovietici avessero mandato una nota al comandante Fidel Castro, questi era capace di pubblicarla, e questo non era conveniente". Non c'è dubbio che l'abitudine di Fidel Castro di dire pane al pane e di rendere pubbliche le polemiche riservate appariva pericolosa e scandalosa agli occhi di un diplomatico sovietico. Non c'è migliore conferma dell'infondatezza dell'ipotesi di una contrapposizione su questo terreno tra Guevara e Fidel Castro e con lo stesso Raúl, pur considerato da sempre il più vicino all'URSS dei dirigenti cubani.
Ma le conferme ci sono anche su altri terreni. Ad esempio nel marzo del 1968 Fidel Castro lanciò la cosiddetta "offensiva rivoluzionaria" che chiudeva di colpo tutte le attività commerciali e artigianali private. Una decisione a mio parere errata, che ha avuto conseguenze molto gravi e durature (tra l'altro costringendo molte attività indispensabili e quindi ineliminabili a divenire clandestine, creando le basi di una diffusa pratica dell'illegalità che condiziona anche la fase attuale in cui il lavoro individuale e il piccolo commercio sono stati legalizzati). Ma una decisione presa liberamente, non certo sotto la pressione di un'Unione Sovietica in cui in quella fase si discutevano apertamente i progetti di riforme che dovevano reintrodurre il mercato. Che in URSS per due decenni non siano riusciti a portare a termine quelle riforme, soprattutto dopo la stretta neostalinista seguita all'intervento dell'agosto 1968 in Cecoslovacchia, è altra questione, che abbiamo trattato in altra sede. Qui ci preme sottolineare ancora una volta che Castro non era un fantoccio dell'URSS come ha ripetuto scioccamente anche una parte della sinistra, fraintendendo la logica di tanti suoi atti.
Altra cosa ancora è che l'attribuzione a Guevara di una funzione di ispiratore di quella decisione sbagliata, attribuzione frequente anche a Cuba, è ancor meno fondata, e si basa su una scarsa conoscenza della maggior parte del pensiero del Che. Di fronte alle prime voci di progetti del governo tendenti a nazionalizzare tutti i chinchales, come a Cuba vengono chiamate le piccole attività commerciali e artigianali, Guevara aveva detto che se uno non voleva credere al governo che aveva escluso di chiuderle, poteva fare una semplice riflessione:

"Ci sono, vi dirò, qualcosa come 150.000 chinchales. Ora, per reperire cinquecento controllori per le fabbriche, ci siamo rotti la testa, e ogni giorno dobbiamo cambiarne qualcuno che non rende. Come faremmo a mettere sotto controllo 150.000 chinchales? Su un piano pratico, come faremmo? Impossibile. Di modo che prescindendo dal fatto che il governo dica o non dica che non lo fa, ed è sicuro che non lo fa, c'è una ragione pratica."

A mio parere, nulla fa pensare che Guevara avrebbe accettato - se fosse stato vivo e ancora dirigente di Cuba - quella misura modificando quel suo giudizio, materialisticamente fondato e basato tanto sull'esperienza che sui suoi sistematici e tenaci studi dell'economia "socialista" come di quella capitalista. L'equivoco è nato probabilmente perché col passar degli anni il Che è sempre stato invocato a Cuba come ispiratore di qualsiasi misura, magari antitetica rispetto alle sue convinzioni, ma anche perché Castro aveva probabilmente seguito con scarsa attenzione la riflessione di Guevara sull'economia, divenuta sempre più lucida negli ultimi anni, e ne aveva raccolto un messaggio semplificato, ridotto quasi solo all'appello alla coscienza e al volontarismo, alla denuncia di privilegi e parassitismi, al rifiuto di ogni sopravvivenza di mentalità derivate dal capitalismo. Ma il Che aveva anche concentrato gran parte della sua attenzione sulla razionalizzazione della produzione, elevando la produttività ed eliminando tutti quei lavori che creavano occupazione fittizia e inutile. In un discorso del 1961 ancora inedito in italiano, Guevara aveva ad esempio affermato:

"Ci sono compagni che ritenevano che il loro dovere fondamentale era occupare più gente, altri quello di produrre in qualsiasi modo, e in generale, se si esaminano le uscite di quest'anno comparandole con quelle dell'anno precedente, si vede che sono aumentate notevolmente. Eppure una delle premesse fondamentali per il successo del sistema socialista è quella di rendere più economica la produzione, aumentare la produttività dei lavoratori, in modo che si crei un eccedente che deve essere destinato alla costruzione di nuove fabbriche, di un apparato industriale sempre più perfetto; nel nostro caso le industrie, ma lo stesso deve avvenire in agricoltura o nel settore dei trasporti. Bisogna pensare dunque che ogni atto nella fabbrica deve essere ispirato da un'idea centrale, quella del risparmio dell'energia umana e delle stesse materie prime, per rendere la fabbrica più produttiva. Cioé la produzione da ora in poi deve farsi in base a questi elementi e non semplicemente in base a un aumento dello sforzo retribuito; l'aumento del numero di operai nello stesso luogo e del consumo indiscriminato di materie prime nella produzione permetterebbero di realizzare solo il piano di produzione, che è certo la base di tutti i piani di sviluppo industriale, ma non del piano dei costi. In questo modo alla fine dell'anno, se tutti facessimo così, ci troveremmo con la nostra fabbrica che non ha prodotto un eccedente e quindi tutto il lavoro degli operai nelle diverse unità produttive sarebbe stato utilizzato solo per il soddisfacimento delle necessità degli operai, senza che resti nulla per l'enorme sviluppo che è indispensabile realizzare negli anni a venire, in questo quadriennio. È assolutamente impossibile, come può capire molto chiaramente chiunque rifletta sul fatto che la produttività è essenziale per il successo della nostra rivoluzione”.

Guevara cercava dunque tenacemente di introdurre criteri razionali di valutazione dei costi, e in questo quadro aveva più volte sottolineato che se una piccola impresa privata funzionava meglio di una statale, bisognava farla funzionare senza scandalizzarsi se il padrone nell'assolvere una funzione socialmente utile (ad esempio fornire a buon mercato alle imprese statali pezzi di ricambio altrimenti introvabili) ricavava anche un discreto guadagno personale. Occorreva vigilare insieme agli operai che rispettasse norme di sicurezza e livelli retributivi, ma farlo lavorare. Invece Guevara era preoccupatissimo dalla tendenza al rigonfiamento degli organici nelle imprese nazionalizzate:

"Non serve stare attenti a risparmiare un po' di elettricità o di qualche altra cosa se nel frattempo si sono aumentati gli occupati di venti persone [...] passando da 20 a 40 mentre la produzione che era di 10 arriva solo a 15. [...] Dobbiamo stare sempre entro i limiti imposti dalle leggi economiche che non possono essere ignorate. [...] Dobbiamo porre un operaio dove è veramente indispensabile: il compagno che ritiene di avere qualche guadagno e che può quindi assumere un operaio in più, crede di fare un favore alla classe operaia sistemando un disoccupato, ma non è così. Oggi non possiamo mettere a lavorare gente in luoghi dove il suo lavoro non comporti una produzione superiore alla retribuzione che si dà per il lavoro fatto. Per porre la questione in termini concreti, non dobbiamo occupare un nuovo operaio che produca qualcosa che abbia un valore di 5 pesos al giorno se lo paghiamo 6 pesos. È un'assurdità, ma si sta facendo e inoltre non si è curato a sufficienza un criterio generale di risparmio."

Guevara aveva affrontato dunque il problema di una pianificazione realistica basata su un sistema di calcolo rigoroso, prevedendo che si procedesse di pari passo alla riduzione di organici gonfiati ed inutili e alla collocazione in nuove fabbriche, anche migliorando nettamente le condizioni di salario e di vita nei settori in cui scarseggiava la manodopera (ad esempio quello minerario). Conoscendo una parte notevole dei suoi scritti economici inediti, non possiamo in alcun modo considerarlo l'ispiratore della cosiddetta "offensiva rivoluzionaria" voluta da Fidel Castro, ma è assai probabile che Castro ritenesse sinceramente di proseguire l'opera avviata dal Che. Se nel periodo 1962-1964 avesse prestato veramente attenzione alla ricchisssima elaborazione del Che, anche la fase successiva al 1968 di più stretta collaborazione con l'URSS non avrebbe assunto le caratteristiche di copiadera che sono state denunciate successivamente dallo stesso Castro, né Fidel avrebbe potuto manifestare tanto stupore sul carattere "profetico" del pensiero economico del Che quando ha cominciato a rileggerlo e a studiarlo sistematicamente, al momento della perestrojka e alla vigilia di quell'imprevedibile crollo dell'URSS che invece il Che, inascoltato, aveva previsto con decenni di anticipo.
In definitiva Castro ha tentato di seguire le tracce del Che, senza riuscirci, non solo per le pressioni materiali dei sovietici, dei filosovietici e della burocrazia cubana, ma anche per un diverso livello teorico, soprattutto sul terreno economico. L'esempio più clamoroso è quello della grande zafra dei dieci milioni di tonnellate di zuccero dell'inverno 1970-1971, che fallì per il carattere esasperatamente volontaristico (che richiama più che il Che il "grande balzo in avanti" e le comuni della Cina del 1958), e soprattutto per l'incapacità di valutare materialisticamente costi e ricavi: per raggiungere questo risultato di alto valore simbolico, si provocò il dissesto di quasi tutti gli altri settori dell'economia, compresi i trasporti, privati di uomini e di mezzi, sicché anche gli otto milioni e mezzo raggiunti andarono in parte sprecati. L'intenzione era nobile (l'autosufficienza cubana dall'URSS, attraverso un surplus da immettere sui mercati occidentali) ma la gestione fu pienamente in linea con altre imprese dissennate del "socialismo reale" in URSS e in Cina.
Anche un'altra decisione del gruppo dirigente cubano dopo la morte di Guevara, quella di accettare i crediti offerti "generosamente" intorno al 1975 dalle banche europee stracolme di petrodollari, aveva una natura contraddittoria: corrispondeva effettivamente a una preoccupazione costante del Che, che aveva ripreso da José Martì la convinzione che è "infelice il popolo che vende a uno solo e compra da uno solo".Quei crediti dovevano servire ad aggirare il bloqueo statunitense e a rendere meno stretto il legame con il COMECON attraverso una diversificazione delle fonti di finanziamento (con l'obiettivo di ottenere per giunta tecnologie avanzate disponibili solo in Occidente), anche se si trasformarono presto in un nuovo gravissimo problema per fattori che erano effettivamente imprevedibili (aumento rapido e truffaldino dei tassi di interesse e simultaneo crollo del prezzo dello zucchero sul mercato mondiale, per effetto dell'introduzione di dolcificanti sintetici nell'industria dolciaria e delle bibite).
Se tutto conferma dunque che nel 1965-1966 non c'erano contraddizioni di fondo tra Guevara e Castro, e che al massimo si può dire che gli allarmi del Che per il futuro delle società "socialiste" erano stati poco ascoltati, rimane sempre da chiarire il mistero di una partenza improvvisa da un paese che amava e lo amava. Da pochi accenni negli scritti inediti, e anche dai brevi stralci del diario congolese finora pubblicati, ma soprattutto da molte testimonianze di chi fu al suo fianco negli ultimi tre anni a Cuba, emerge che Guevara aveva cominciato a sentirsi a disagio in un paese in cui non era riuscito a far capire le sue critiche del modello sovietico che stava inesorabilmente pervadendo l'isola sulla scia degli aiuti materiali, dell'influenza dei tecnici e consiglieri, dell'assimilazione progressiva dei giovani che andavano a formarsi in URSS.
Guevara aveva dedicato gli anni in cui aveva diretto l'economia cubana a un lavoro umile e paziente, che lo impegnava anche venti ore al giorno senza mai un giorno di riposo; egli non si confrontava solo con i problemi teorici dell'organizzazione, ma con le più modeste vicende di ciascuna fabbrica, di ciascun settore sotto la sua giurisdizione. In quel lavoro aveva trovato ammiratori entusiasti e che ne riproducevano lo slancio e la dedizione alla causa, ma anche una sorda resistenza in cui si saldavano i pregiudizi stalinisti dei vecchi quadri filosovietici del PSP e il fastidio dei burocrati o anche solo dei lavoratori fustigati per la loro pigrizia, per la trascuratezza, per gli sprechi di materiale e di lavoro. In una delle conversazioni al ministero dell'industria che costituiscono la parte più organica e interessante degli inediti (e sono fortunatamente state almeno in parte pubblicate in Italia), il Che racconta di essere passato dapprima per caso, poi per altre due volte deliberatamente in una zona in cui stava arrugginendosi inutilizzata una preziosa gru, e che quando per la terza volta aveva fatto una sfuriata a chi aveva da tempo promesso di spostarla nel porto dove ce n'era bisogno e non lo aveva fatto, il responsabile locale aveva commentato "El Che tiene malas pulgas", cioè letteralmente "ha le pulci cattive", locuzione che da noi potrebbe essere tradotta con un "ma che gli rode?"

Nel diario congolese Guevara attribuisce alla lettera di congedo da Fidel il fatto di essere considerato da una parte dei cubani di nuovo uno straniero, ma tra le righe si capisce che era successo già prima, quando il suo appello alla disciplina, a una rigorosa contabilità contro gli sprechi e le ruberie, contro l'utilizzazione irrazionale della forza lavoro, contro il “sociolismo” (come a Cuba venivano e vengono chiamati i rapporti di clientela e i legami di amicizia e di comparatico che aggirano ogni decisione formale) lo avevano reso incomodo ed estraneo a un processo che affondava le sue radici in un (mal)costume antico, ma che trovava alimento e giustificazione nel modello importato dall'URSS.

Naturalmente non c'è solo questo. A monte c'è la consapevolezza che occorre fermare l'imperialismo finché si è in tempo, che il "baluardo" rappresentato dai paesi socialisti in cui aveva avuto tanta fiducia è solo apparente, ed anzi cerca all'interno e nel mondo un compromesso con il capitalismo e l'imperialismo. La parola d'ordine "creare 2,3 molti Vietnam", non è finalizzata solo ad aiutare chi sostiene lo scontro più pesante e diretto con l'imperialismo, ma anche a gettare le basi per riorganizzare le forze rivoluzionarie, dando una dimensione concreta all'internazionalismo
Dalle testimonianze indirette di molti suoi collaboratori, ma anche da accenni espliciti in molti discorsi al ministero dell'Industria e persino nel Diario di Bolivia, tra le motivazioni della sua scelta di andare ad aiutare con la propria esperienza altri processi rivoluzionari, emerge una riflessione autocritica sugli errori compiuti anche per sua diretta responsabilità nell'imitazione del modello sovietico o cecoslovacco (che all'inizio credeva più utilizzabile per le analoghe dimensioni dei due paesi, prescindendo dalla differenza strutturale tra una Cecoslovacchia che prima della seconda guerra mondiale era già fortemente industrializzata ed efficacemente organizzata e il resto dei paesi "socialisti"): aiutare la vittoria di un'altra rivoluzione significava dunque non solo rompere l'isolamento del Vietnam e di Cuba, ma poter partire nella costruzione di una nuova società non da zero, ma tenendo conto dell'esperienza degli errori fatti.
Guevara aveva ormai capito, "andando alle fonti", che per Marx, per Lenin come per qualsiasi marxista prima del periodo staliniano era inconcepibile la "costruzione del socialismo in un paese solo", e aveva al tempo perso ogni speranza di una svolta nelle direzioni dei paesi che si dicevano socialisti. Nei suoi ultimi discorsi e ancor più in alcune lettere inedite, Guevara chiede ai "paesi socialisti" un fronte unico difensivo per non lasciar solo il Vietnam aggredito, ma li ritiene in blocco complici dell'imperialismo, e non solo per le scelte soggettive di politica estera che lo indignavano, ma per l'accettazione della logica dello scambio ineguale, che egli definisce complicità con gli imperialisti sul terreno economico.

Guevara tra URSS e Cina

La rottura con quei paesi è stata totale: le speranze riposte nella Cina, di cui aveva ovviamente apprezzato molto le critiche all'URSS e ai partiti comunisti filosovietici nei primo scritti polemici del 1962-1963, erano state deluse, e il suo ultimo viaggio nel febbraio 1965 si concluse in pochi giorni con un nulla di fatto e senza nemmeno un comunicato pubblico. La direzione maoista non aveva perdonato a Cuba il rifiuto di schierarsi nella polemica partecipando alla rottura del movimento comunista. Guevara rimase particolarmente turbato nel veder usare dalla Cina gli stessi metodi che erano stati criticati nell'URSS, in particolare tagliando gli acquisti di zucchero e le forniture di riso.
Il suo amore per la Cina veniva dagli anni giovanili, in cui aveva sognato di visitarla. Quando la conobbe, fu attratto dagli argomenti di Chu En Lai che presentava gli aiuti a Cuba non come disinteressati, ma basati su un interesse profondo a sostenere altre rivoluzioni. Guevara rimase sempre fedele a questa idea, anche quando si accorse che i dirigenti cinesi l'avevano usata demagogicamente, e che non basavano su di essa il loro comportamento. Dalla Cina era stato attratto anche, durante le sue lunghe visite, perché si era reso conto che pur nella diversità delle dimensioni, c'erano più punti di contatto tra Cuba e la Cina che con la Cecoslovacchia che aveva pensato di imitare nella prima fase: una maggioranza di contadini nel paese e tra le forze motrici della rivoluzione, enormi compiti di industrializzazione primaria, una grande tensione egualitaria, un appello costante al volontarismo e all'ingegnosità dei lavoratori per superare i ritardi storici.
Nel 1960, quando già cominciava sotterraneamente la polemica cinese con l'URSS (per interposta Jugoslavia, secondo la migliore tradizione staliniana) egli scriveva ancora un saggio, Note per lo studio dell'ideologia della rivoluzione cubana, che viene riproposto ancor oggi come testo fondamentale di orientamento per i giovani, mentre è solo la testimonianza della grande confusione che ancora in quell'anno c'era nel patrimonio teorico del giovane Guevara alle prese con il suo apprendistato marxista. Al di là di altre affermazioni discutibili e ingenue, e a numerose tracce di una conoscenza sommaria e di seconda mano di buona parte del pensiero di Marx, sorprende una rappresentazione di una specie di "sacra famiglia" del marxismo: "A partire dal Marx rivoluzionario, si forma un gruppo politico con idee concrete che, basandosi sui giganti Marx ed Engels, e sviluppandosi attraverso fasi successive con personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse Tung e i nuovi dirigenti sovietici e cinesi, stabilisce un corpo di dottrine e, diciamo, di esempi da seguire." Appena un paio d'anni dopo sarebbe rimasto scandalizzato dal veder mettere sullo stesso piano Lenin e Stalin, e avrebbe avuto già parecchi dubbi sul fatto che i "nuovi dirigenti sovietici e cinesi", oltre a non amare di essere mescolati tra loro, stavano incamminandosi su una brutta strada. Tra loro erano già emersi gli attuali signori della Cina aperta al capitalismo, e in URSS si stavano allevando i Gorbaciov o gli Eltsin.

Comunque, quando la polemica cino-sovietica nel 1962 divenne più esplicita, sia pur scegliendo sempre bersagli trasversali per le polemiche, alcuni degli argomenti avanzati a Pechino lo colpirono profondamente. In particolare l'editoriale apparso il 31 dicembre 1962 sul Renmin Ribao con il titolo Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi, ampiamente diffuso in tutto il mondo, forniva argomenti che dovevano suonare benissimo alle orecchie cubane. Togliatti veniva accusato infatti di rivendicare "la collaborazione di classe internazionale" e di seminare illusioni sull'istituzione di un "nuovo ordinamento mondiale". In ultima analisi, si diceva, "l'atteggiamento assunto da Togliatti e da altri dirigenti del PCI si riduce a questo: i popoli dei paesi capitalisti non dovrebbero fare la rivoluzione, le nazioni oppresse non dovrebbero condurre lotte di liberazione, e i popoli del mondo non dovrebbero combattere contro l'imperialismo."

Il testo, che parlava a nuora perchè suocera intendesse, passava in rassegna varie divergenze: l'origine della guerra moderna dovuta all'imperialismo, verso cui si doveva intensificare la lotta; i modi per difendere la pace; la permanente validità dei principi marxisti-leninisti; la fragilità dell'imperialismo ("un colosso dai piedi d'argilla"); i rapporti tra coesistenza pacifica, lotta di classe e rivoluzione; l'attualità della Rivoluzione d'Ottobre; la perfidia del revisionismo jugoslavo; la rivendicazione dela posizione di Pechino nel conflitto armato cino-indiano, ecc. Ma quel che sicuramente faceva breccia a Cuba erano due paragrafi dedicati rispettivamente a L'amara lezione del Congo e a L'appoggio completo della Cina per Cuba. Ecco alcuni passi significativi del primo:

"È veramente possibile conseguire una "coesistenza pacifica" tra nazioni e popoli oppressi da una parte e gli imperialisti e i colonialisti dall'altra? Che significa veramente "intervento comune" nelle aree sottosviluppate? Gli avvenimenti del Congo sono la miglior risposta. Quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò all'unanimità una risoluzione per l'intervento internazionale nel Congo, ci furono alcune persone nel movimento comunista internazionale che credettero che si trattava di un brillante esempio di collaborazione internazionale. Essi credettero che il colonialismo avrebbe potuto essere cancellato dall'intervento delle Nazioni Unite, che avrebbero messo in grado il popolo congolese di avere la sua libertà e indipendenza."

Lo stile era fastidiosamente derivato da quello staliniano: a sostenere queste tesi sarebbero state solo "alcune persone": Quali? Come era possibile mettere in conto una strategia affermatasi in URSS da almeno trent'anni al "revisionismo di Tito" o alle opinioni di Togliatti? Ma certo colpiva la sostanza della denuncia maoista: "Quale fu il risultato?", si chiedeva l'editoriale. E la risposta aveva notevoli consonanze con quelle fatte a più riprese da Guevara in diversi consessi internazionali:

Lumumba, l'eroe nazionale del Congo, è stato assassinato; Gizenga, il suo successore, è in carcere; molti altri patrioti congolesi sono stati assassinati o arrestati; la vigorosa lotta del popolo congolese per l'indipendenza nazionale è stata seriamente ritardata. Non solo il Congo continua a vivere sotto la schiavitù dei vecchi colonialisti, ma è diventato anche una colonia dell'imperialismo americano, precipitando in più gravi sofferenze. Noi chiediamo a coloro che chiedono a gran voce la "coesistenza pacifica" tra nazioni e popoli oppressi da una parte e imperialisti e colonialisti dall'altra, che chiedono un "intervento comune" nelle aree sottosviluppate: avete forse dimenticato la tragica lezione del Congo?
Quanto al paragrafo che illustrava L'appoggio completo della Cina per Cuba era ancor più attraente per Guevara, perché tracciava un bilancio della crisi dei missili, facendo propri gli argomenti del governo cubano:

"Coloro che accusano la Cina di opporsi alla coesistenza pacifica attaccano parimenti il popolo cinese perché esso appoggia la giusta posizione del popolo cubano nella sua lotta contro l'imperialismo americano. Quando l'eroico popolo cubano e il suo dirigente rivoluzionario, il primo ministro Fidel Castro, hanno decisamente rifiutato il controllo internazionale considerandolo una violazione della sovranità di Cuba ed hanno avanzato le loro giuste richieste, il popolo cinese ha organizzato grandiose manifestazioni di massa in tutto il paese, in armonia con il principio dell'internazionalismo proletario, e ha decisamente appoggiato la lotta condotta dal popolo cubano per la propria indipendenza e sovranità. V'era forse qualcosa di sbagliato in tutto ciò?"

Ancora una volta il linguaggio è retorico e stereotipato: la posizione del popolo cubano è sempre "giusta", e il popolo stesso è "eroico", le manifestazioni di massa sono naturalmente "grandiose" e "in armonia con i principi". Guevara non amava questo linguaggio, che si è poi consolidato e che i giovani cubani detestano, (lo chiamano teque, traducibile forse con il nostro "burocratese" o con il francese langue de bois), ma gli argomenti esposti successivamente non lo potevano lasciare indifferente, soprattutto quando la Cina respingendo l'accusa di voler provocare una guerra atomica, che considerava una "calunnia estremamente malevola e deplorevole", sferrava un pesante attacco al comportamento della direzione sovietica.

"Come si può interpretare il deciso appoggio che il popolo cinese ha dato al popolo cubano nella sua lotta contro il controllo internazionale e in difesa della propria sovranità come una prova che la Cina è contraria alla coesistenza pacifica e intende trascinare gli altri in una guerra termonucleare? Forse questo significa che anche la Cina avrebbe dovuto esercitare pressioni su Cuba per costringerla ad accettare il controllo internazionale e che soltanto così facendo la Cina avrebbe agito in armonia con questa così detta "pacifica coesistenza"? Se alcune persone appoggiano solo a parole le 5 richieste di Cuba, ma in effetti sono contrarie al fatto che il popolo cinese appoggi Cuba, forse che costoro non rivelano l'ipocrisia del loro appoggio alle 5 richieste cubane?"

La conclusione del ragionamento era ancor più insidiosa, perché nell'allontanare dalla Cina l'accusa di estremismo e di ricerca dell'ecatombe nucleare (per molto tempo la propaganda sovietica attribuì senza fondamento a Mao l'idea puerile che da un conflitto atomico la Cina sarebbe uscita vincitrice perché più popolosa dei paesi imperialisti), l'editoriale riprendeva molte argomentazioni cubane.

"Più di una volta abbiamo affermato chiaramente che noi non abbiamo chiesto l'installazione di basi missilistiche a Cuba, né ci siamo opposti al ritiro delle così dette "armi offensive" da Cuba. Non abbiamo mai considerato un atteggiamento marxista-leninista quello di brandire le armi nucleari per risolvere le controversie internazionali. Né abbiamo mai considerato che evitare una guerra termonucleare nella crisi dei Caraibi fosse una "Monaco". Il fatto a cui ci siamo opposti decisamente, a cui ci opponiamo e a cui continueremo a opporci in futuro è quello di sacrificare la sovranità di un altro paese per poter giungere a un compromesso con l'imperialismo. Un compromesso di questo tipo può essere considerato soltanto un cedimento totale, una vera e propria "Monaco". Un compromesso di questo tipo non ha nulla in comune con la politica di coesistenza pacifica dei paesi socialisti."

Quella simpatia che Guevara manifestò anche pubblicamente per le tesi cinesi doveva appunto incrinarsi presto per la verifica concreta delle pretese della Cina di condizionare le scelte cubane. Ma anche successivamente egli non esitò a dichiarare di aver preso in prestito varie idee dai cinesi (ad esempio la sostituzione temporanea di un dirigente di impresa criticato dai lavoratori per la sua inefficienza, che veniva inviato a lavorare per un mese o più nel reparto più disastrato, e sostituito da un lavoratore eletto in assemblea). Inoltre, nonostante il raffreddamento degli entusiasmi iniziali, Guevara ricercò anche durante il periodo congolese un rapporto con la Cina (che aveva una forte presenza diplomatica e di consiglieri in Tanzania) a cui chiese aiuto nel momento più drammatico, ricevendo tuttavia da Chu En Lai solo una lettera con generici e contraddittori consigli.
Nessun settarismo da parte di Guevara, ma nessuna speranza nella rete internazionale che il gruppo maoista stava tessendo in quegli anni. In Bolivia ad esempio rifiuta le pregiudiziali anticinesi di Mario Monje e accoglie nella guerriglia i militanti del piccolo gruppo maoista di Moises Guevara (che però risulteranno di basso livello e soprattutto largamente infiltrati), ma rinuncia al rapporto col più forte partito comunista filocinese di Oscar Zamora, che gli appare della stessa pasta di quello di Monje da cui proveniva.
Tuttavia, per la rozzezza dei suoi critici, Che Guevara fu definito filocinese (oltre che trotskista) dai filosovietici cubani, e considerato un piccolo-borghese opportunista che non voleva rompere con il "socialimperialismo sovietico" dai veri filocinesi, in America Latina e in Europa. Mentre la Cina (come l'Albania) non nominerà più Guevara nemmeno in occasione della sua morte, i partitini "marxisti-leninisti" non gli lesinavano le critiche. Non c'è dubbio che per gli stalinisti di tutte le sorte, Guevara era il peggior nemico. E a Cuba fu osteggiato non solo dalla minoranza stalinista che trescò con i diplomatici sovietici e fu "smascherata" come "microfrazione", ma anche da quell'area ben più consistente che si guardò bene dal compiere questo passo falso, ma lavorarò silenziosamente per cancellare ogni traccia del suo lavoro. Diversi dei suoi collaboratori al Ministero dell'Industria mi hanno raccontato la loro vicenda: subito dopo la partenza del Che per l'Africa e soprattutto dopo l'assunzione formale della carica di ministro da parte di Joel Domenech, si trovarono allontanati dagli incarichi, e costretti a cercare altro lavoro.

Il "diario del Congo"

La pubblicazione di brani del "diario del Congo" di Guevara, (un nome, vedremo, in realtà improprio), sia pure all'interno di un discutibile montaggio di brani del Che con altre testimonianze di cui non sempre è possibile accertare la veridicità e ricostruire la fonte, ha consentito comunque di comprendere meglio la drammatica esperienza di quella sfortunata spedizione. Grazie ad esso, è relativamente più facile spazzare via la leggenda sulla "pulsione di morte" che avrebbe portato Guevara in Bolivia, più volte rilanciata anche negli elogi rituali all'uomo da parte di chi non lo ha amato affatto ed è all'antitesi di quel che egli fu realmente.
In realtà, anche dalla pubblicazione frammentaria dei Pasajes de la guerra revolucionaria (Congo), come il Che aveva chiamato il suo dattiloscritto (che era già una rielaborazione del diario di campagna che teneva per uso personale), risulta chiaro che la spedizione non era un'avventura, anche se i dati su cui si era basata la sua preparazione risultarono falsi o almeno insufficienti. Guevara aveva ricevuto, ad Algeri, a Dar es Sala'm e anche all'Avana, informazioni esaltanti sui successi delle guerriglie lumumbiste (che in realtà nel corso del 1964 avevano avuto reali successi), e insieme a Castro aveva deciso di organizzare una piccola formazione miltare di poco più di cento uomini che dovevano fornire assistenza e inquadrare le formazioni congolesi esistenti nella zona del lago Tanganica.
Guevara si rese conto presto che il viaggio non era ben preparato: al di là del lago Tanganika non c'era praticamente nulla, se non un'ottima disposizione della popolazione locale, mentre i dirigenti come Kabila vivevano a Dar es-Sala'm, "comodamente installati in albergo". Di essi il Che osservava che "hanno fatto della loro situazione una vera professione, un mestiere a volte lucroso e quasi sempre comodo". In genere vantavano grandi successi e asserivano di provenire dall'interno del paese, ma insistevano per essere addestrati a Cuba, reagendo freddamente o addirittura con astio quando Guevara spiegava loro che "il soldato rivoluzionario si forma in guerra" e proponeva quindi di "non effettuare l'addestramento nella lontana Cuba, ma nel vicino Congo, dove si lottava, non contro un fantoccio qualsiasi come era Ciombè, ma contro l'imperialismo nel suo aspetto neocoloniale".
Questo era accaduto nella fase preliminare. Poi era emerso che nessuno di quei "signorini" aveva la minima voglia di combattere, mentre la popolazione priva di qualsiasi preparazione militare forniva combattenti che fuggivano al primo caduto che faceva loro dubitare dell'efficacia della dawa (in swahili "medicina") fornita dallo stregone locale, il muganga. Così i cubani si erano trovati spesso a combattere da soli, o insieme ad alcune centinaia di tutsi ruandesi, ottimi combattenti, anche se "mostravano un certo odio verso le altre etnie" e avevano caratteristiche somatiche e linguistiche diverse dai congolesi, con cui avevano evidenti difficoltà di intesa. Erano arrivati nel Congo per sfuggire ai massacri organizzati dagli hutu. Nel novembre del 1965 decisero tuttavia di ritirarsi, spiegando la loro decisione con una lettera del loro capo Mundandi al Che: "non sono in grado di mantenere la posizione e mantenere la sua difesa [...] la prego di capirmi, ho deciso di ripiegare." Egli aggiungeva che non voleva abbandonare i compagni cubani, ma non poteva "esporre all'annientamento tutte le forze dei compagni ruandesi" soprattutto perché aveva "cercato di aiutare questa rivoluzione per poterne fare un'altra nel nostro paese", concludendo amaramente: "se i congolesi non lottano più, preferisco morire nella nostra terra".

Solo a quel punto Guevara, che ancora pochi giorni prima aveva scritto a Fidel di non poter "accettare una fuga vergognosa lasciando il fratello in disgrazia in balia dei mercenari", si trova senza possibilità di scelta, anche perché la maggior parte dei cubani è sfiduciata. Nell'analisi severa sul proprio comportamento il Che fa un'osservazione sorprendente a proposito della spirito di rivolta che serpeggiava tra i combattenti provati dalla durezza della lotta e dall'evidente mancanza di sbocco:

"Infine ha pesato nei miei rapporti con gli uomini, l'ho potuto toccare con mano, per quanto sia del tutto soggettivo, la lettera di commiato a Fidel. Questa ha fatto sì che i compagni vedessero in me, come tanti anni fa sulla Sierra, uno straniero in contatto con i cubani. Allora, ero quello appena arrivato, adesso quello che se n'è andato via. C'erano cose che non avevamo più in comune, certi desideri ai quali avevo tacitamente ed esplicitamente rinunciato, e che risultano i più sacri per ogni uomo preso individualmente: la sua famiglia, la sua terra, il suo ambiente. La lettera che aveva suscitato tanti elogi a Cuba e fuori, mi separava dai combattenti."

In ogni caso non fa "una fuga vergognosa". Discute a lungo con Fidel (a differenza che in Bolivia, nel Congo dispone di una radio trasmittente e riceve frequenti visite di cubani che trasportano i rapporti più delicati) e fa un rigoroso bilancio delle ragioni della ritirata. Secondo il suo stile si attribuisce molte responsabilità, anche di carattere: sono stato, scrive, "un Catone il Censore, ripetitivo e pedante, nei miei rapporti con i capi della rivoluzione. A forza di tirare tanti fili, si è formato un nodo gordiano che non ho avuto la risolutezza di tagliare. Se fossi stato un soldato più autentico avrei avuto maggiore influenza sugli altri aspetti delle mie complesse relazioni". Ma analizza francamente i limiti del piccolo corpo di spedizione (e infatti selezionerà tra essi solo un piccolissimo numero di coloro che avevano mostrato le migliori qualità umane per l'impresa di Bolivia), e soprattutto del rapporto di Cuba con i capi congolesi:

"Nelle mie lettere precedenti chiedevo di non mandarmi tanti uomini, ma quadri esperti, dicevo che qui le armi non mancano, salvo alcune speciali, e al contrario, ci sono anche troppi uomini armati, ma c'è assenza di soldati, e vi avvertivo in modo particolare della necessità di non fornire denaro se non con il contagocce e dopo insistenti richieste. Niente di tutto questo è stato rispettato, e si sono fatti piani fantasiosi che ci espongono al pericolo del discredito internazionale e potrebbero mettermi in una situazione alquanto difficile. Veniamo alle spiegazioni dettagliate. Soumaliot e i suoi vi hanno venduto aria fritta."

Quanto ai suoi duecento soldati, spiega che "in questo momento sarebbero di intralcio, a meno che non decidessimo definitivamente di combattere da soli, nel qual caso ci vorrebbe un'intera divisione, per poi vedere quante ne schiererebbe il nemico". In ogni caso, aggiunge, "non è il numero che conta in questo caso, non possiamo liberare da soli un paese che non ha voglia di lottare". Ma le considerazioni più dure riguardano la corruzione esistente:

"La questione del denaro è quella che più mi duole per le tante volte che vi ho avvertito. Al colmo della mia audacia di scialacquatore, dopo aver fatto tanti piagnistei, mi ero impegnato a fornire i rifornimenti per un fronte, il più importante, a condizione di dirigere la lotta e formare una speciale colonna mista sotto il mio comando [...] per la qual cosa avevo calcolato, col cuore gonfio, cinquemila dollari al mese. Adesso mi sono reso conto che una somma venti volte più grande viene elargita ai signorini in vacanza, e in un colpo solo, per spassarsela in tutte le capitali del mondo [...]. Su un fronte miserabile dove i contadini patiscono ogni forma di miseria immaginabile, compresa la rapacità dei loro stessi difensori, non arriverà neppure un centesimo di quelle somme."

Il Che era particolarmente infastidito dai rinforzi che aveva ricevuto, un gruppo di studenti congolesi che erano stati addestrati in Cina e in Bulgaria: "Non avevano alcuna intenzione di rischiare la vita in combattimento" e la loro prima preoccupazione, appena arrivati "era ottenere quindici giorni di vacanza per andare dalle proprie famiglie. In seguito le avrebbero prolungate perché il periodo gli era sembrato troppo breve." E quel che è peggio, erano arrivati "con una superficiale infarinatura di marxismo, convinti della loro importanza di “quadri dirigenti” e con un'esagerata smania di comando che si traduceva in atteggiamenti indisciplinati e persino cospirativi." Anche quelli che arrivarono in novembre dall'URSS, per prima cosa chiesero quindici giorni di licenza e poi protestarono "perché non avevano un posto dove lasciare i bagagli e non c'erano armi pronte per loro. Una situazione davvero comica, se non fosse stato così triste vedere l'atteggiamento di quei ragazzi in cui la rivoluzione aveva riposto le proprie speranze".

Guevara era andato nel Congo partendo da una valutazione razionale dell'importanza di quel paese, e soprattutto in base agli elementi di informazione di cui disponeva, e che come abbiamo visto erano sostanzialmente inesatti o addirittura inventati. In base all'esperienza concreta conclude che la missione è fallita, e decide il ritiro, anche se a malincuore, per il dolore di abbandonare la popolazione civile che aveva avuto fiducia nei cubani e li aveva sostenuti come poteva. Altro che pulsioni di morte, altro che avventurismo!
Da quella terribile esperienza esce ferito moralmente, con una accresciuta sfiducia nei paesi "socialisti", ma anche in quelle direzioni nazionaliste che si sono rapidamente adattate a un ruolo parassitario nei loro confronti. La sua raccomandazione a Castro di non contare su di esse, di non finanziarle, non fu ascoltata quando dieci anni dopo Cuba ritornò in Africa, dapprima sola, poi insieme all'URSS, per bloccare le offensive sudafricane contro l'Angola, ma anche per puntellare il regime etiopico contro i tentativi di secessione e fornire assistenza a vari discutibili regimi che di “socialista” e di “marxista-leninista” non avevano che il nome, e che sarebbero crollati rapidamente alla fine degli anni Ottanta.
Non è facile trovare i punti di contatto tra quella modesta spedizione di Guevara, che doveva assicurare consulenza ed appoggio a formazioni guerrigliere risultate poi pressoché inesistenti, e che fu condotta comunque a stretto contatto con la popolazione, condividendone le sofferenze e le privazioni, e l'invio di un esercito regolare, completamente sorretto dall'esterno dal punto di vista logistico (arrivava non solo il cibo ma perfino l'acqua da fuori), e quindi del tutto staccato dalla popolazione locale e necessariamente integrato con l'URSS, pur se mosso almeno inizialmente da un'autonoma scelta che in qualche modo voleva essere il proseguimento dell'internazionalismo di Guevara. Molti cubani che hanno combattuto in Angola, recandovisi convinti di continuare l'opera del Che, sono tornati poi amareggiati sia per i risultati complessivi (a parte la splendida vittoria di Cuito Cuanavale, che ha ridimensionato la boria degli invasori sudafricani), sia perché hanno sistematicamente finito per dover combattere al posto di altri, sia per la corruzione esistente nel regime angolano, che finì per coinvolgere anche una parte (sicuramente minoritaria ma certo ben visibile) degli ufficiali cubani, come risultò da tutte le testimonianze sul contrabbando di oro, diamanti e avorio nel processo Ochoa.
Ma non è l'unico caso in cui il Che, che pure rimaneva un simbolo a cui si faceva riferimento nel motivare la "missione internazionalista", non è stato veramente ascoltato. D'altra parte a Cuba gli appunti sull'esperienza congolese, che consentirebbero una riflessione e un confronto tra quella esperienza e le successive, non sono mai stati pubblicati, mentre le pubblicazioni sulla guerra di Angola sono poche e fondamentalmente apologetiche, e non sfiorano neppure i complessi problemi politici a cui abbiamo accennato.

PS. L’articolo è stato scritto nel 1997. Negli anni successivi, oltre al lavoro di Gálvez (risultato ricco di notizie integrative tratte da diverse fonti e testimonianze, ma scorretto filologicamente), è stata finalmente pubblicata una versione integrale dei Pasajes de la guerra revolucionaria: Congo con un Prologo della seconda figlia del Che, Aleida, che incorpora una lettera (purtroppo non integrale, ma almeno ci sono i puntini dove è tagliata…) di Fidel Castro a Guevara. In Italia è stata pubblicata col titolo Passaggi delle guerra rivoluzionaria: Congo, presso la Sperling & Kupfer, Milano, 1999.


Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo Tre edizioni a confronto

Di questo libro nel 1994 uscì una prima edizione, assai discutibile e discussa fin dal titolo (L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte. Il diario inedito di Ernesto Che Guevara). Era stata curata ufficialmente da Paco Ignacio Taibo II insieme a due giornalisti cubani, Froilán Escobar e Félix Guerra, che probabilmente erano i principali responsabili del lavoro, mentre la sua proiezione internazionale (quattordici edizioni contemporanee in tutto il mondo) era assicurata dal nome del popolare scrittore ispano-messicano.
Nel testo del Che, che non era appunto il “Diario” ma la sua rielaborazione come “Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo”, c’erano parecchi tagli e soprattutto era stato effettuato un montaggio con i materiali più diversi, in genere senza indicare precisamente le fonti.
A Cuba c’erano state subito aspre polemiche su chi avesse fornito il testo: un funzionario, oppure uno dei collaboratori del Che? La famiglia era molto irritata, anche per la violazione dei diritti d’autore. Tuttavia, nonostante i suoi limiti, quella prima edizione ha sbloccato la situazione. Pur non essendo mai stata messa in vendita a Cuba, fu presto conosciuta attraverso copie portate da intellettuali cubani che avevano viaggiato all’estero, o da visitatori stranieri. Grazie a questo alcuni dei cubani che erano riusciti a procurarsi una copia dell’originale mi consentirono di esaminarlo, e in un caso di riprodurlo. I tagli c’erano, ma non erano veramente significativi. Inoltre, mi resi conto che le copie erano ricavate da “originali” diversi, con lievi differenze (in genere spostamenti di alcune parti) che rivelavano l’esistenza di rielaborazioni successive del testo preparato dal Che durante il soggiorno forzato in Tanzania dopo il suo ritiro dal Congo. Va detto che lo stesso Guevara aveva scritto che, non sapendo quando e come sarebbe avvenuta la pubblicazione, accettava che alcune parti potessero essere modificate od omesse.
Subito dopo venne annunciata un’edizione quasi integrale, curata dal generale William Gálvez, che ottenne già nel 1995 il premio Casa de las Américas, ma è uscita a Cuba solo nel marzo 1997, col titolo El sueño africano de Che. Qué sucedió en la guerrilla congolesa presso le edizioni della stessa Casa de las Américas. Perché è passato tanto tempo dalla premiazione alla pubblicazione? Probabilmente non solo per le innegabili difficoltà materiali (un testo di tale importanza poteva ottenere facilmente, come in molti altri casi, aiuti dall’estero sotto forma di carta). Non è escluso che il governo cubano abbia esitato prima di autorizzare un’edizione che avrebbe indubbiamente circolato più largamente nel paese. Alcune delle considerazioni del Che sui gruppi dirigenti del nazionalismo africano, sul loro parassitismo, sulla cautela da usare nei loro confronti, potevano indubbiamente suscitare domande inquietanti sulle ragioni di un così lungo ritardo nel mettere questo ed altri testi inediti del Che a disposizione di tutti i cubani, in particolare di quelli che in Africa hanno trascorso una parte importante e spesso drammatica della loro vita.
D’altra parte è possibile che la concessione del premio (assegnato, come sempre, da una commissione dotata di forte autonomia) non escludesse successivi tagli editoriali: era accaduto ad esempio al bel libro di Tablada sul pensiero economico del Che, premiato nel 1987, ma largamente censurato, e di cui solo recentemente è uscita, ma non a Cuba, l’edizione integrale.
Il libro presenta una documentazione molto più vasta, basata su testimonianze dirette di alcuni partecipanti alla spedizione congolese, in particolare Víctor Dreke - che era stato scelto come capo della spedizione e che fu sostituito dal Che solo due giorni prima della partenza - e Pablo Rivalta, allora ambasciatore a Dar es Salaam (era stato scelto per assicurare un adeguato supporto logistico e politico ai combattenti). Molto utile, anche se parziale e non sempre rigorosa filologicamente, l’utilizzazione del Diario de campaña del gruppo di Dreke, tenuto da Emilio Mena, che consente di datare molti episodi riferiti dal Che.
Eppure l’impostazione del libro di Gálvez ricalca quella della prima edizione curata da Paco Ignacio Taibo II e dai due collaboratori cubani: le pagine del Che sono mescolate con le testimonianze, con lettere varie del Che ai familiari, con articoli apparsi su diversi giornali africani, ecc., col risultato quindi di impedire una lettura ordinata e continua. Frequenti salti e inversioni dell’ordine del testo base possono rendere più difficile la comprensione del senso di alcune affermazioni e di qualche episodio.
Inoltre, alcuni aspetti delicati sono spiegati solo con frasi abbastanza generiche e reticenti tratte dalle interviste di Fidel Castro a Minà, Nessun accenno ad esempio alle ripercussioni internazionali del discorso di Guevara al II Seminario afroasiatico di Algeri del 24 febbraio 1965, di cui si riportano le frasi più generiche, ma non la sferzante denuncia delle complicità oggettive dei “paesi socialisti” con l’imperialismo. Eppure la reazione sovietica a un attacco pubblico così duro appare la spiegazione più convincente dell’improvvisa decisione del Che di lasciare definitivamente Cuba, unendosi al piccolo gruppo di internazionalisti che doveva essere guidato da Dreke, che egli non aveva contribuito a selezionare e tantomeno aveva potuto addestrare.
Malgrado questo, tra le righe del testo di Guevara si intuiscono molte cose: egli accenna alla sua “assegnazione a capo delle truppe cubane, nonostante io fossi un bianco”, e nonostante – aggiungiamo – avesse concordato meno di un mese prima con Kabila e Soumialot che i trenta istruttori cubani promessi fossero neri, e aveva informato della decisione sia Nasser, sia il presidente della Tanzania Julius Nyerere. Egli accenna anche ad alcuni altri problemi: “la selezione dei futuri combattenti (che già si stava realizzando), i preparativi per la [sua] partenza clandestina, i pochi saluti che era stato possibile fare”, evidentemente per la fretta (la frase in corsivo - ovviamente mio - c’è nell’originale e nel testo di Gálvez, ma non nella nuova edizione pubblicata da Sperling & Kupfer, di cui parleremo più avanti). Il Che conclude questa elencazione con un’allusione a “tutta una serie di manovre sotterranee che ancora oggi è pericoloso mettere per iscritto e che, comunque, potranno essere spiegate in seguito”. Perché era pericoloso? E perché non è stato spiegato in seguito? Probabilmente perché Guevara allude ai rapporti con l’Unione Sovietica, che a Cuba sono rimasti un argomento tabù, come dimostra il persistente divieto di pubblicare il testo più interessante tra gli inediti guevariani, Preguntas sobre la enseñanza de un libro famoso (Manual de Ecónomia Política de la Academia de Ciencias de la URSS), in cui ripetutamente si spiega che molte delle affermazioni del famoso Manuale “riguardano l’URSS, non il socialismo”, che evidentemente per Guevara era già una cosa ben diversa.
La reticenza comunque non è attribuibile al solo Gálvez. Il suo lavoro, d’altra parte, ha molti limiti dovuti al fatto che questo generale, dopo l’allontanamento dal servizio attivo per ragioni su cui a Cuba circolano diversi pettegolezzi, che non riferiamo perché provano solo che non è molto amato, ha molte velleità letterarie (ha curato molti libri compilativi, tra cui uno su Camilo Cienfuegos, uno su Frank País, e uno sul Che sportivo), ma non ha acquisito il rigore dello storico
In ogni caso, dalle molte testimonianze anche di responsabili dei “servizi” cubani riportate nel libro, di oltre 360 pagine fitte (dato il formato e il carattere più piccolo, il testo è quindi circa il doppio di quello curato da Taibo II), emerge chiaramente che, a proposito di questa “missione internazionalista” come di altre in America Latina (non solo quella boliviana del Che, ma anche quella argentina di Masetti, quelle peruviane di Luis de la Puente Uceda e di Héctor Béjar), la decisione spettava sempre a Fidel Castro. Una smentita clamorosa a quegli imbecilli che per sminuire il Che ne hanno sempre contrapposto il presunto “avventurismo romantico” al “realismo” di Castro.
In definitiva, si può affermare che questa opera, pur con i suoi molti limiti e contraddizioni, fornisce una mole notevole di testimonianze e di stralci di documenti preziosi.
Ma veniamo dunque alla terza e più recente pubblicazione di Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo, apparsa nel 1999 presso la Sperling & Kupfer e presentata subito in molte città d’Italia da Gianni Minà e da due figli del Che. Abbiamo già accennato a un taglio che abbiamo riscontrato, e che si deve evidentemente a quella “revisione minuziosa” effettuata personalmente dal “comandante in capo”, a cui viene espresso il ringraziamento dell’Archivio personale del Che curato da Maria del Carmen Ariet insieme alla vedova e ai figli di Guevara. Ce ne sono probabilmente altri, come senza dubbio ci sono spostamenti di parti del testo, ma abbiamo rinunciato per il momento a una verifica minuziosa, sia perché richiederebbe molto tempo, sia perché lo stesso Prologo di Aleida Guevara March (la seconda figlia del Che) ammette che la pubblicazione (definita “un importante impegno con la storia") è stata fatta “con la revisione dello stile, l’aggiunta di osservazioni e l’eliminazione di alcuni appunti”. Secondo la figlia le discordanze con altre versioni divulgate precedentemente si dovrebbe al fatto che queste “corrispondono alle prime trascrizioni redatte dal Che”.
All’edizione italiana potrebbero essere mossi diversi appunti: da alcune sviste di traduzione (di Kabila ad esempio il Che scriveva: “Decía venir del interior del país; parece ser que solo venía de Kigoma, poblado tanzanio sobre el lago Tanganyka”, ovviamente per affermare che non rischiava la vita al fronte ma arrivava al massimo al porto da cui ci si imbarcava per il Congo, mentre la frase viene tradotta “sembra che fosse originario di Kigoma”), alla totale inutilità della Spiegazione di alcuni termini, che ne elenca ben pochi, mescolati ad alcuni pseudonimi senza l’indicazione del vero nome, e a volte senza precisare neppure se si trattava di un cubano o di un congolese. Mancano inoltre note esplicative, che avrebbero potuto essere facilmente ricavate dalle testimonianze aggiuntive riportate, con maggiore o minor rigore, dai curatori delle edizioni precedenti, e che sarebbero state assai utili per il lettore meno informato.
Ma il principale interesse del libro sta, oltre che nella pubblicazione del testo più o meno come era stato concepito dal Che nel suo forzato isolamento in una stanza dell’ambasciata cubana in Tanzania, nella segnalazione di una lettera inedita di Fidel Castro a Guevara scritta il 3 giugno 1966 contenuta nel Prologo di Aleida Guevara March.
La lettera, pur riportata con tre tagli, contiene molte novità importanti: prima di tutto un accenno all’importanza dello scritto di Guevara sull’esperienza nel Congo, “soprattutto tenendo conto dell’interesse pratico relativo ai progetti nella terra di Carlitos [Carlos Gardel]”. Quindi sappiamo che ancora nel giugno 1966 Castro pensava all’Argentina, e non ancora alla Bolivia come prossima meta del Che.
Inoltre, si fa riferimento a precedenti progetti di far tornare Guevara a Cuba nel caso di un nuovo attacco imperialista, che era apparso a un certo punto imminente. In questo caso il Che, interpellato da Manuel Piñeiro, si era dichiarato disponibile, ma dato che l’aggressione momentaneamente sembrava meno probabile, Castro concludeva: “non possiamo più fare questi progetti su questa ipotesi”. Subito dopo tuttavia egli accenna alla “delicata e inquietante situazione in cui ti trovi laggiù” per concludere: “devi assolutamente prendere in considerazione la convenienza di fare un salto fin qui”. “Laggiù” era la Cecoslovacchia, e l’inquietante situazione era dovuta al fatto che Guevara vi si trovava in incognito in una delle basi di appoggio dei servizi segreti cubani. Cosa temevano Guevara e Castro da quella permanenza in un paese tutt’altro che favorevole alla linea guevariana?

So benissimo - proseguiva Castro - che sei particolarmente riluttante a considerare qualsiasi alternativa, inclusa quella di mettere piede per ora a Cuba, se non nel caso eccezionale di cui si è parlato prima. Questa situazione, tuttavia, analizzata freddamente e obiettivamente, ostacola i tuoi propositi, peggio li mette a rischio”.

Poche righe dopo si precisa che la “permanenza nel cosiddetto punto intermedio [cioè Praga] aumenta i rischi, rende estremamente difficoltosa la realizzazione delle incombenze pratiche, lungi dall’accelerarla ritarda l’attuazione dei piani e ti costringe, inoltre, a un’attesa inutilmente ansiosa, incerta, impaziente”. Castro insiste quindi per un ritorno clandestino a Cuba, per preparare l’impresa progettata: “Non penso nemmeno lontanamente a un abbandono o un differimento dei piani, né mi lascio andare a considerazioni pessimistiche davanti alle difficoltà che sono sorte”. Ancora una smentita a chi ha pensato l’impresa sudamericana del Che come una scelta individuale e irrazionale. Castro precisa che Guevara avrebbe a disposizione “case, fattorie isolate, montagne, isole deserte” e tutto quello che sarebbe “indispensabile per organizzare e dirigere personalmente i piani, dedicandovi il tuo tempo al cento per cento, servendoti dell’aiuto di tutte le persone necessarie. E il luogo in cui opereresti sarebbe noto solo a un ridottissimo numero di persone. Sai molto bene che puoi contare su questi vantaggi, che non esiste la benché minima possibilità che per ragioni di Stato o di politica tu possa trovare difficoltà o interferenze”.

Fidel Castro concludeva la lettera ribadendo che, anche in caso di divergenze sulle misure da prendere, non si sarebbe sentito defraudato, e che le sue parole erano scritte con un “affetto profondo, e con totale e sincera ammirazione per la tua lucida e nobile intelligenza, per la tua condotta irreprensibile, il tuo carattere inflessibile di rivoluzionario puro. Il fatto che tu possa vedere le cose in modo diverso non cambierà di una lettera questi sentimenti e non intiepidirà minimamente la nostra collaborazione”.
Ma sapeva che le resistenze del Che a un ritorno non erano dovute a un capriccio, bensì alle ragioni stesse che lo avevano spinto a partire. Castro aveva appena letto il passo dei Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo, in cui Guevara aveva commentato amaramente l’effetto della pubblicazione della sua lettera di addio su molti combattenti cubani, che non sapevano perché aveva dovuto fare la scelta di andarsene, per non far ricadere sull’intera isola le conseguenze dell’ostilità sovietica nei confronti delle sue idee e dei suoi progetti. Questo spiega il senso della frase che afferma che “non c’è di mezzo nessuna questione di principio, di onore o di etica che ti impedisca di fare un uso efficace e completo delle facilitazioni su cui puoi contare per portare a termine i tuoi obiettivi”, tanto più che ormai “la cosa più difficile, il distacco ufficiale, si è attuato, e non senza aver pagato un certo prezzo di calunnie, intrighi, eccetera. Sarebbe giusto non ricavarne tutto il profitto possibile? Ha mai potuto un rivoluzionario contare su condizioni così ideali per compiere la sua missione storica in un momento in cui questa ricopre una particolare rilevanza per l’umanità, nel momento in cui si avvia la più decisiva e cruciale lotta per la vittoria dei popoli?

La lettera è una testimonianza di grande valore sui rapporti tra i due grandi rivoluzionari, ma anche una conferma indiretta che se Cuba era pronta a rischiare molto pur di assicurare al Che le migliori condizioni per preparare in clandestinità la prossima battaglia, il suo ritorno definitivo alla testa della rivoluzione cubana non era neppure in discussione. Ed è quello che anche questo prezioso libro, a partire dal Prologo della figlia fino alla Postfazione di Alessandra Riccio, non può chiarire, perché riguarda la pagina imbarazzante e delicata dei rapporti di Cuba con l’URSS, allora e nei due decenni successivi.

IL CHE IN BOLIVIA
Scheda cronologica


Alla fine del 1964 Guevara compie un ultimo lungo viaggio ufficiale, che lo porta in Algeria, nel Mali, nel Congo, nel Ghana, in Guinea, nel Dahomey e poi in Cina, dove ha lunghi e infruttuosi colloqui con i massimi dirigenti del partito.
Dopo un ultimo giro (Egitto, Tanzania, di nuovo Algeria, dove pronuncia il 24 febbraio 1965 un discorso al II seminario afroasiatico di Algeri in cui definisce i paesi socialisti complici dell’imperialismo), rientra all'Avana il 14 marzo 1965. E' l'ultima volta che compare in pubblico. Alla fine del mese scrive le lettere di addio a Fidel, ai figli e ai genitori. Si unisce a una piccola spedizione di cubani che deve raggiungere il Congo ex belga (poi Zaire, oggi di nuovo Congo) appena due giorni prima della partenza, senza avere il tempo di accertare se esistono le condizioni per un intervento utile in quel paese. Non ha neppure potuto partecipare alla selezione degli uomini. Si spargono intanto voci calunniose sulla sua assenza, smentite con indignazione da Castro, che veniva accusato di essere il responsabile della sparizione.
Una volta raggiunte le regioni orientali del Congo dove operavano le guerriglie lumumbiste Guevara verifica che non esistevano le condizioni soggettive indispensabili per poter aiutare i processi rivoluzionari. Durante una pausa di alcuni mesi in Tanzania Guevara scrive il suo bilancio di quell'esperienza, rimasto finora inedito. Ritorna per breve tempo in incognito a Cuba, e nel novembre 1966 raggiunge la Bolivia. Il 31 dicembre incontra Mario Monje, segretario del PCB che ha promesso aiuto alla guerriglia e che non mantiene gli impegni (pone condizioni inaccettabili, e intanto espelle i giovani comunisti che si sono impegnati individualmente nella lotta). In febbraio inizia un giro di esplorazione nella zona di Ñancahuazú, che gli sembra poco adatta alla guerriglia. Rientra il 19 marzo 1967 alla base, scoprendo che la polizia ha identificato la fattoria di appoggio, ha catturato una staffetta (e provocato il panico di alcuni guerriglieri boliviani, che disertano). Il 23 marzo l'esercito si avvicina alla zona in cui Guevara è accampato. Primo scontro, prima vittoria dei rivoluzionari. Molte armi catturate, molti prigionieri (rilasciati dopo un breve lavoro di chiarificazione politica). In aprile nuovi scontri, ancora favorevoli alla guerriglia, che ha però diversi feriti e invalidi. Questi vengono allontanati dalla zona più pericolosa in una seconda colonna al comando di Joaquín. Per pochi giorni, è previsto. Ma per la mancanza di radio trasmittenti non si incontreranno più, pur arrivando a volte a pochi chilometri di distanza.
In giugno i minatori di Cataví e Huanuni (che hanno deciso di devolvere alla guerriglia parte dei loro magri salari senza peraltro trovare i collegamenti) vengono massacrati dalle truppe governative. Regis Debray, catturato dopo una visita all'accampamento del Che, ha ammesso pubblicamente che la guerriglia è diretta da Guevara, e gli sforzi delle forze di repressione si sono ovviamente intensificati. In luglio nuovi scontri. I guerriglieri hanno due morti e due feriti e perdono parte del bagaglio, compreso lo zaino di Guevara. Sono rimasti in 22 di cui due feriti; anche il Che è in gravi condizioni perché non ha più i medicinali per l'asma. Il generale americano dei marines Porter ispeziona intanto i berretti verdi che stringono il cerchio intorno a Guevara.
Il 26 settembre prima sconfitta a La Higuera, nella zona di Valle Grande; muoiono tre guerriglieri, altri tre sono feriti. Due si disperdono e vengono poi catturati. C'è ancora una via d'uscita sicura, ma non è percorribile dai feriti. La strada scelta da Guevara per la ritirata è più accessibile ma è troppo esposta, e il suo gruppo viene localizzato e braccato da vicino. Nell'ultima battaglia il Che si attarda per tentare di coprire l'evacuazione dei feriti, viene accerchiato e disarmato da un colpo che mette fuori uso il fucile. Catturato ferito, viene ucciso nella notte tra l'8 e il 9 ottobre 1967 per ordini venuti dalla capitale. Gli assassini distruggono il corpo in una località imprecisata, dopo averne recise le mani (inviate a Buenos Aires per un controllo supplementare della sua identità).
Cinque guerriglieri riescono a sfuggire all’accerchiamento, e una volta raggiunte le zone politicamente più favorevoli dove era diretto lo stesso Guevara, vengono protetti dai contadini e possono raggiungere il Cile dopo un’odissea durata cinque mesi.

1) L’impresa più calunniata

Per molti anni l'impresa boliviana del Che anche all'interno della sinistra è stata oggetto di una denigrazione sistematica, che usava spesso insinuazioni volgari, ma soprattutto faceva leva su una scarsissima conoscenza delle reali circostanze che portarono Guevara alla decisione - praticamente obbligata - di partire da Cuba, e alla scelta non molto più libera del terreno e degli interlocutori. Per molti anni d'altra parte non era praticamente disponibile altro che il Diario, scritto per uso privato e quindi molto scarno per quanto riguarda le considerazioni politiche generali.
Tra quelli che recentemente hanno rilanciato vecchie e assurde mistificazioni, si è distinto Régis Debray, che a quanto pare, a distanza di trent'anni, ha cercato di scrollarsi di dosso il sospetto - non infondato, come vedremo - di aver contribuito alla localizzazione e quindi almeno indirettamente alla morte del Che. Lo ha fatto senza pudore in un libro di memorie o di "autocoscienza", che non a caso è stato subito esaltato dalla grande stampa borghese in Francia e nel mondo. Naturalmente Debray è stato presentato come "l'intellettuale francese a cui il Che chiedeva consiglio e libri", quindi una specie di maestro di Guevara. In realtà - sappiamo dai sopravvissuti - il Che era irritato per l'imprevisto arrivo nell'accampamento di Ñancahuazù, e non condivideva molte delle generalizzazioni arbitrarie dell'esperienza cubana e delle teorizzazioni astratte contenute nell'opuscolo di Debray, a cui aveva apportato annotazioni critiche che non abbiamo mai potuto leggere, perché sequestrate e tenute accuratamente segrete dalla CIA, per evitare che aiutassero i rivoluzionari latinoamericani a tener conto delle riflessioni del Che.
Il libro di Debray è un lungo soliloquio in cui tenta di giustificare e storicizzare i tanti errori che ha fatto nella sua lunga carriera di intellettuale coccolato dai mass-media. Unisce con un fragile filo conduttore il suo entusiasmo letterario per la rivoluzione cubana, quello ancor più acritico per Allende (che andava sostenuto, certo, ma non ignorando lo scontro a cui la borghesia cilena e nordamericana si preparava alla luce del sole e di cui Allende negava perfino la possibilità), e quello successivo per Mitterrand. Tutto uguale, afferma Debray, sono fatali passaggi di un'educazione politica.
Ma potremmo ignorare questo disinvolto bilancio senza l'ombra di una vera autocritica, se all'interno di tante divagazioni vacue e superficiali, non ci fosse un'infame calunnia contro Guevara, che viene ripresa e amplificata da chi è preoccupato per l'attrazione esercitata dal Che oggi sulle giovani generazioni in tutto il mondo. Prima di tutto il pensiero di Guevara viene banalizzato e ridicolizzato con frasi del genere "Ma come riprodurre il Vietnam nel Congo e in Bolivia, lontano dalle risaie e da Confucio?", o ricostruendo le vicende del Congo in maniera fantasiosa ("Mobutu prese il potere senza colpo ferire tre giorni dopo la partenza dei cubani". La scelta di far condividere le condizioni di esistenza dei contadini congolesi ai volontari cubani viene attribuita a gratuita e perversa crudeltà. Tuttavia Debray non si limita a questo, ma insinua, contraddetto da tutta la memorialistica, che Guevara infieriva sui feriti per crudeltà e pulsioni di morte, omicide prima che suicide. Debray sputa anche su Castro (che pure accordò fin troppo credito al suo opuscolo ¿Revolución en la revolución?), paragonandolo a Mussolini. Senza alcuna base oggettiva egli sostiene comunque che quando Castro fucilava cinque persone, Guevara ne avrebbe fucilate dieci.
Debray pretende di fare con questo libro un "esame di coscienza". Eppure, dei molti errori politici fatti nella sua vita, si direbbe che l'unico che gli bruci sia stata quella fuggevole presenza in Bolivia e che voglia esorcizzare rimorsi e allontanare sospetti proiettando un'ombra sinistra sul Che. Egli ricorre frequentemente a termini mutuati dalla psicanalisi: forse avrebbe fatto meglio a ricorrere direttamente a uno psicanalista. Tuttavia non è il libro di Debray a fare i danni maggiori, dato che è abbastanza facile avvertire la faziosità e gli intenti non troppo nascosti: anche la maggior parte dei libri in circolazione, anche di autori che pure ammirano sinceramente il Che, non facilita la comprensione dell'ultimo periodo della sua vita.
Perfino le due interviste concesse da Fidel Castro a Gianni Minà, e largamente riprodotte, non hanno facilitato la comprensione delle ragioni della partenza del Che, e soprattutto delle circostanza che lo hanno portato alla morte. Si direbbe che nei vent'anni in cui a Cuba del Che si è parlato poco e pubblicato pochissimo, anche il lider maximo abbia finito per avere qualche amnesia.
Nella prima intervista del 1987 Gianni Minà aveva ripreso alcune delle polemiche di vent'anni prima sulle responsabilità per l'isolamento e la morte del Che. Minà si era avvicinato da poco all'argomento, e aveva posto la domanda con una certa ingenuità: "il padre del Che, l'ingegner Guevara, ha sostenuto che il partito comunista boliviano ha delle responsabilità nella morte del Che perché, se non lo tradì, sicuramente lo lasciò morire. E' credibile quello che dice Régis Debray, cioé che il Che avrebbe potuto essere salvato da una spedizione di giovani comunisti boliviani che partisse da Cochabamba?"

A una domanda posta in questi termini, fu facile per Castro rispondere negativamente su tutto. Tuttavia, dato che quell'intervista fu non solo trasmessa più volte in televisione, ma anche diffusa largamente sotto forma di libro, vale la pena di soffermarsi su alcuni punti che non sono stati chiariti da quella risposta. In primo luogo non mi sembra che Debray o altri abbiano mai accennato all'invio di truppe cubane, mentre Fidel alla domanda se si poteva fare qualcosa per aiutare il Che risponde: "Era impossibile! Che si poteva fare? Inviare un battaglione, una compagnia, un esercito regolare? Le leggi della guerriglia sono altre."
Detto così, non ci sono dubbi. Il vero problema tuttavia non era l'invio di truppe ma se si poteva ristabilire il contatto interrotto dal PCB per settarismo. Castro in quell'intervista ha avuto diverse imprecisioni e vuoti di memoria: così ad esempio rimprovera al Che di aver "dimenticato" le medicine per l'asma, che invece furono trovate dall'esercito in uno dei nascondigli vicino alla fattoria dove era cominciato l'addestramento della colonna. Ci si può domandare legittimamente se era proprio impossibile far arrivare nella zona alcuni boliviani con i medicinali ed altri rifornimenti, comprese delle modeste radio trasmittenti che avrebbero consentito di mantenere i collegamenti con L'Avana, con La Paz e anche tra le due colonne.
Il contatto più importante da recuperare era in ogni caso quello politico tra la guerriglia e le zone urbane e minerarie in agitazione, dove c'erano moltissimi compagni che volevano raggiungere la guerriglia, senza avere la possibilità di farlo. Nel 1968 Castro aveva accusato senza mezzi termini il segretario generale del PCB di aver intercettato a La Paz “i militanti comunisti ben preparati che andavano a unirsi alla guerriglia”, nel 1987 attribuisce invece l'interruzione delle vie di comunicazione e dei contatti solo "al nemico" (come vedremo, era quello che nel 1968 sosteneva proprio Monje). Castro afferma anche che nessuno a Cuba sapeva neppure dove stesse il Che. In realtà a Cuba dovevano sapere bene dov'era, anche perché il cubano che doveva tenere i collegamenti a La Paz, Renán Montero Corrales (o Iván Monleón, secondo Paco Ignacio Taibo II) aveva cessato la sua attività non perché scoperto, ma perché era partito per farsi curare a Parigi, senza essere sostituito, e da Parigi poteva comunicare molto più comodamente con l’Avana..
Quello che stupisce è che Castro, che pure raccomanda a Minà di leggere la sua prefazione al Diario di Bolivia, probabilmente non l'ha riletta, se dimentica che egli stesso (e non il padre del Che) aveva parlato allora a chiare lettere di "tradimento" da parte dei dirigenti del PCB. Invece vent'anni dopo dice solo che "Monje ha una certa responsabilità in questa vicenda, però storicamente non sarebbe giusto accusare tutto il partito comunista boliviano", perché "diversi comunisti furono dalla parte del Che", come ad esempio i fratelli Peredo. A quanto pare ha dimenticato che quei comunisti furono allora espulsi dal partito e condannati pubblicamente per la loro adesione alla guerriglia!

Anche le notizie su Monje sono molto imprecise: il suo rifiuto della direzione del Che viene attribuito a "ripicche e considerazioni di carattere formale" e a "fraintendimenti". Come conseguenza "non si misero d'accordo. Monje si ritirò. Appena giunta la notizia ci mettemmo in contatto con altri importanti dirigenti del Partito comunista boliviano: Kolle e un dirigente operaio molto noto, Simon Peyres." In realtà non si trattava di un'opinione personale di Monje: sappiamo che aveva ritardato di quasi due mesi l'appuntamento con Guevara, perché aveva dovuto recarsi ufficialmente a Sofia per festeggiamenti dell'anniversario della rivoluzione bulgara (che non c'è mai stata...), e verosimilmente era stato convocato alla “casa madre” di Mosca. Al ritorno era passato per Cuba e quindi Castro doveva sapere qualcosa in più. Ma anche sul ruolo di Kolle e di Peyres, la testimonianza di Castro è contraddittoria:

"Si impegnarono ad aiutare il Che, accettarono di dare il proprio aiuto, la propria collaborazione, e fecero tutto il possibile, benché il segretario del partito non fosse d'accordo. Il fatto è che gli avvenimenti precipitarono. Non ebbero la possibilità di agire, ma capirono perfettamente ciò che avevo loro detto, e il loro atteggiamento fu lodevole. Quando Monje lasciò l'incarico, uno di loro, Kolle, subentrò a capo del partito e anche Simon Peyres ricoprì cariche importanti. Militavano nel partito comunista boliviano e tuttavia si impegnarono. Da parte nostra cercammo di migliorare la situazione del Che e dei suoi cercando l'appoggio di altri movimenti, solo alcuni latinoamericani."

Il corsivo è mio, e segnala una frase effettivamente singolare, e tale da alimentare tutta la ricerca ossessiva di un ruolo dei servizi segreti (quale "movimento" non latinoamericano era in grado di dare aiuto, dopo l'arresto di Ben Bella?) che hanno fatto molti autori, anche costruendo romanzi su Laura Bunke, "Tania la guerrigliera". Castro d'altra parte prosegue con altre affermazioni che dovrebbero far assolvere il PCB e in realtà ne aggravano la responsabilità:

"Il Che e i suoi compagni erano in questa situazione quando le cose in Bolivia si complicarono ed essi furono scoperti. Penso che ci sarebbe stato bisogno di un po' più di tempo, ma per una ragione o per l'altra o per una combinazione di fattori si arrivò a scoprire il distaccamento quando ancora si stavano organizzando."

Subito dopo ripete ancora che se Monje aveva "una certa responsabilità", in realtà "diversi membri importanti della direzione del Partito comunista boliviano, pur tra i contrasti con Monje, scelsero di aiutarlo". E perché questa presunta buona volontà non si tradusse almeno nell'invio di tre o quattro uomini che conoscevano bene la zona e potevano guidare i guerriglieri fuori da quel posto sciagurato? Una zona, tra l'altro, che era stata scelta presumibilmente proprio da Kolle, che nove anni prima aveva progettato insieme con altri cospiratori tra cui suo fratello (nel 1967 ministro della difesa di Barrientos!) ed Arguedas (nel 1967 ministro degli Interni!) di far partire da lì un tentativo insurrezionale. Il quindicennio di strette relazioni con l'URSS e i partiti comunisti ad essa legati hanno a quanto pare provocato a Cuba un sostanziale oblio non solo delle idee del Che, ma della sua stessa vicenda, mentre criticare un partito comunista è divenuto un tabù (come è un tabù oggi a Cuba accennare all'atteggiamento del PSP al momento dell’assalto al Moncada, dello sbarco del Granma, e anche nei primi anni dopo la rivoluzione).
Nella stessa intervista ci sono altre notevoli inesattezze nella ricostruzione della spedizione nel Congo e delle ragioni del suo ritiro. Anche nell'intervista a Frei Betto ci sono sviste e anacronismi su Guevara: tra l'altro si afferma che la lettera di addio fu tenuta nascosta fino a quando il Che arrivò in Bolivia, mentre fu letta già il 3 ottobre 1965, quando egli stava nel Congo (e sappiamo da Diario che se ne rammaricò).
Inoltre, la lettura del libro del colonnello Gary Prado, a cui anche Fidel fa riferimento nell'intervista a Minà, conferma che perfino il giorno dell'ultimo combattimento le forze della repressione non erano affatto sicure di avere ancora sotto tiro il gruppo guerrigliero, e ritenevano che fosse riuscito a spostarsi verso le zone politicamente più adatte. Sarebbe bastato dunque (se non l'invio di un vero e proprio commando per organizzare la ritirata, come pure fu fatto in varie occasioni per aiutare altri cubani intrappolati in paesi in cui erano andati a sostenere movimenti guerriglieri), almeno il diversivo di qualche piccolo nucleo di combattenti in un'altra zona limitrofa per attirare in quella direzione il grosso dei rangers, consentendo a tutto il gruppo il ripiegamento che riuscì al "Pombo" e agli altri superstiti.
Se l'ipotesi avanzata allora da Minà (ma anche da Tutino in più occasioni) di "una Cuba che non poté fare più niente per aiutare il Che" per effetto di una tregua concordata tra Stati Uniti e Unione Sovietica" è stata ovviamente respinta da Fidel, e indubbiamente corrisponde a una inaccettabile semplificazione delle complesse relazioni politiche internazionali di quella fase, non c'è dubbio che l'assenza totale di iniziative per alleggerire la pressione e l'accerchiamento di Guevara rimane per molti aspetti inspiegabile.
In ogni caso oggi sugli ultimi due anni di Guevara comincia a essere disponibile una documentazione piuttosto ampia, che abbiamo già presentato sommariamente nella rassegna apparsa nel Dossier del numero 71. Tra essi, senza dubbio fondamentale è il diario di uno dei sopravvissuti della spedizione di Bolivia, Pombo, che nonostante qualche traccia di rielaborazioni successive, rappresenta una fonte insostituibile. Tuttavia è possibile fare un ulteriore passo avanti grazie a una raccolta, che comprende il testo di Inti Peredo, La mia campagna con il Che, scritto nel 1968 e finora inedito in Italia, e altri tre diari ugualmente rimasti finora inediti nel nostro paese, quelli di Pacho, Braulio e Rolando, non meno importanti per completare la documentazione con voci provenienti "dall'interno" della guerriglia, di diverso spessore culturale e politico, ma tutte col pregio dell'immediatezza e dell'assenza di qualsiasi rielaborazione.
Come quello del Che, questi diari non erano destinati alla pubblicazione, ma servivano ad annotare gli avvenimenti e le riflessioni più importanti per un uso strettamente personale. Per questo alcune espressioni sono talvolta eccessivamente sintetiche, al punto che nel diario di Rolando a volte località e persone sono sostituite da simboli. Perfino nel più breve, quello di Braulio (il tenente Israel Reyes Zayas), che rivela scarsa dimestichezza con carta e penna tanto che lascia larghi spazi vuoti tra una data e l'altra, a volte concentra sotto una sola data avvenimenti di diversi giorni, e storpia i nomi di località e a volte anche gli pseudonimi dei compagni, non troviamo solo descrizioni minuziosissime dei rari pasti offerti da qualche contadino (e in genere dei problemi alimentari, che in certi periodi sono il principale argomento registrato, a conferma di quanto era divenuta ossessiva la fame), ma anche folgoranti e sintetici giudizi politici come questo: "Abbiamo avuto una visita di Mario Monje, che è venuto per parlare con Ramón [Che Guevara, NdR]. Ma quello stesso che non voleva lotta armata, voleva essere l'unico capo delle guerriglie". E poi, a sottolinearne la doppiezza, aggiunge disgustato nel resoconto di quel 31 dicembre che Monje (segretario del PCB) prima di partire "espulse dalla direzione del partito due compagni che erano già nell'accampamento e che erano a favore della lotta armata."

Più ricchi e articolati gli altri diari, in particolare quello di Rolando (Eliseo Reyes Rodríguez, chiamato a Cuba il "Capitán San Luis", e definito dal Che il "miglior uomo della guerriglia"), che ricostruisce dettagliatamente lo scontro con Monje, ma va segnalato anche per la dimensione umana. Questo giovanissimo capitano (aveva solo 24 anni quando cadde in combattimento) registrava nel suo diario considerazioni politiche acute, minuziose notazioni topografiche, la sua emozione di fronte a paesaggi stupendi (che avrebbe voluto fotografare e che si accontenta di descrivere), alcune frasi pronunciate dal Che durante le riunioni quotidiane, i pensieri per i propri familiari, ma anche le sue sorprendenti letture (ad esempio La certosa di Parma di Stendhal!).
Altrettanto complesse le notazioni di Pacho, il capitano Alberto Fernández Montes de Oca (uno dei pochi "letterati" del gruppo: era stato maestro prima della rivoluzione), apparse in Bolivia nel 1987 con un sorprendente prologo pieno di ammirazione scritto dal gen. Gary Prado, che in quanto comandante dei rangers venti anni prima era stato direttamente responsabile della morte dei guerriglieri. Pacho annota con ammirazione perfino particolari marginali, come la presenza di farfalle: un giorno scrive che ne ha salvata una da una ragnatela... Riesce a trovare le forze per scherzare e registrare le battute del Che (una volta, giunti sulle rive del Rio Grande, Guevara gli ha gridato: "siamo giunti al Giordano, battezzami" e l'ha poi soprannominato san Lázaro per il suo aspetto emaciato e barbuto), ma annota anche tutti i suoi sogni, in cui compaiono in genere i figli e la moglie. Aggiunge materialisticamente che forse sogna tanto a causa della scarsa alimentazione, ma in realtà non trascura di annotare un pensiero speciale per la moglie il 14 febbraio, ricordandosi, in piena selva, che è il "giorno degli innamorati"! Ogni figlio di contadini che incontra poi lo fa pensare ai suoi bambini.

Il testo di Inti Peredo è più elaborato, dato che è stato steso durante la preparazione della ripresa della guerriglia dell'ELN, probabilmente nel corso del 1968, anche se è stato pubblicato solo dopo la sua morte, avvenuta il 9 settembre 1969. Per alcuni aspetti, il suo valore documentario rispetto alle specifiche vicende della lotta armata è minore rispetto ai modesti appunti dei tre combattenti cubani, perché quando è stato scritto era già stato pubblicato il Diario del Che, e molte pagine ne ricalcano perfino i particolari. Ma è un testo prezioso per la ricostruzione del dibattito politico nel PCB, per la comprensione della strategia continentale abbozzata dal Che nelle riunioni della guerriglia e non formulata in testi scritti. Anche se è stato scritto o rielaborato dopo la morte del Che, dal punto di vista politico ne riporta sicuramente il pensiero senza interferenze di sorta: in ogni pagina si sente che Inti si considera l'esecutore delle volontà di Guevara e si prepara a continuarne l'opera, che cerca di difendere dalle prime denigrazioni e attribuzioni deformanti.

2) Dal Congo alla Bolivia: differenze nei livelli organizzativi

Abbiamo già accennato che, sull’impresa di Bolivia come su quella del Congo, anche se alcuni punti rimangono da chiarire, il giudizio complessivo difficilmente potrà subire mutamenti sostanziali. Confrontando l'impresa congolese con quella boliviana colpisce immediatamente la grande differenza sul terreno dell'organizzazione, dell'equipaggiamento, del supporto logistico. In Congo non si recide mai il legame radiofonico con Cuba, ed è possibile scambiare quotidianamente messaggi cifrati tra Guevara e Castro. I cubani hanno un equipaggiamento austero, che spingerà Debray, che non c'era, a insinuare che le scarpe rotte si dovevano a una volontà sadomasochistica di Guevara e non alla scelta cosciente di non apparire (ed essere) troppo diversi dagli altri combattenti e dalla popolazione civile che li sosteneva. Ma non era una scelta del solo Che: l’impresa era cubana al 100%.
I combattenti avevano soprattutto una retrovia sicura: bastava attraversare il lago Tanganica, per trovarsi in un paese amico, dove c'erano un'ambasciata cubana e molti quadri impegnati nell'assicurare contatti e rifornimenti. Durante la loro permanenza nel paese ricevono la visita di dirigenti di primo piano come Osmany Cienfuegos, Emilio Aragonés, Oscar Fernández Mell, José Ramón Machado Ventura, Aldo Margolles Dueña. Non rimasero dunque mai isolati del tutto, se non dalla fantomatica direzione rivoluzionaria congolese istallata all’estero nei più lussuosi alberghi della costa.
Il numero dei volontari era più che sufficiente per fornire consiglieri a un vero e proprio esercito (che purtroppo non c’era se non nelle millanterie dei dirigenti congolesi all’estero), ed erano dotati di un armamento adeguato, che comprendeva anche armi pesanti, automezzi, lance per traversare il lago
Nulla di simile in Bolivia: i cubani erano pochi, ma selezionatissimi (nessuno di loro ha avuto cedimenti paragonabili a quelli riscontrati in parte del contingente cubano nel Congo), mentre la presenza dei boliviani è scarsa e quasi casuale, e soprattutto sono tutti di altre regioni. Ci sono quelli che erano stati addestrati militarmente e anche politicamente a Cuba, e che hanno scelto individualmente di restare col Che dopo il tradimento del PCB, ma non sono necessariamente i più adatti per quella zona, che non conoscono. Alcuni di loro hanno caratteristiche morali ottime, ma un’insufficiente preparazione fisica. Altri sono stati reclutati casualmente e superficialmente da Moises Guevara, il leader di un piccolissimo gruppo filocinese che era stato accettato per la sua linea politica, ma era debole e poco consolidato e cercava di apparire più forte di quel che era realmente. Il nucleo peruviano era prezioso politicamente, anche per caratterizzare quella specie di “scuola quadri” come la preparazione di una futura impresa continentale, ma non risolve i problemi di comunicazione con la scarsissima popolazione della zona, perché anche i peruviani conoscono solo il quechua, che si parla esclusivamente nel loro paese e nel nord della Bolivia. I brasiliani che erano attesi non arrivarono mai, e degli argentini, a parte Tania, arrivò il solo Bustos, che era meglio non fosse mai arrivato, dato che capitolò appena catturato. Probabilmente pesava anche la demoralizzazione successiva alla tragica fine del gruppo di Jorge Ricardo Masetti. Oggi Bustos cerca di giustificarsi, e in molte orribili pagine del libro di Anderson sono contenute sue “rivelazioni” che gettano fango su Masetti e su tutta quell’esperienza, come se il vero o presunto settarismo o fanatismo del giornalista e guerrigliero argentino potesse giustificare la collaborazione attiva di Bustos con l’esercito boliviano, a cui fornì perfino i ritratti dei guerriglieri che aveva visto a Ñancahuazù.
L’isolamento politico e logistico dei militanti del PCB che restarono col Che e la debolezza del gruppo di Moises Guevara venne pagata duramente: la zona di Ñancahuazù è pressocché disabitata, ha pochi alberi da frutta e pochissima selvaggina, sicché il nucleo rimase intrappolato in una zona inadatta senza alcuna possibilità di approvvigionamento dall’esterno. Tutto questo aumenta le responsabilità di Monje, che sapeva bene in che condizioni si trovavano i guerriglieri che aveva sospinto verso quella zona inospitale.
Il Diario del Che rivela che la sua preoccupazione principale era quella di selezionare gli uomini, registrandone le capacità militari, ma anche morali. Ma il nucleo boliviano e quello peruviano erano troppo piccoli e senza possibilità di avvicendamenti e di nuovi arrivi, sicché la maggior parte del peso ricadde sui cubani. In Bolivia i cubani hanno resistito molto meglio di quanto avevano fatto nel Congo la maggior parte dei loro compagni, anche perché erano pochi e più selezionati (tra loro infatti c’erano alcuni di quelli che avevano sopportato bene la terribile prova africana). Eppure i sacrifici richiesti erano enormi, le privazioni di gran lunga superiori a quelle dell’impresa congolese.

3) Il ruolo del PCB nella versione di Monje

Uno dei dubbi che sorgono spesso a proposito dell’impresa boliviana riguarda il ruolo del PCB: alla luce dei fatti appare strano che non fosse possibile capire prima che quel partito non poteva assicurare il sostegno indispensabile al nucleo organizzato da Guevara. Ma per Guevara la scelta del PCB fu quasi obbligata, e non soggettiva: era il riflesso delle ambiguità della politica cubana di quella fase, che continuava a proporre la lotta armata come unica soluzione per l’America Latina, ma aveva scelto un relativo allineamento con l’URSS, che, dopo il violento attacco alla Cina e ai “trotskisti”, escludeva di fatto la possibilità di appoggiarsi ai partiti filocinesi o a quelli, ancor più forti dei maoisti proprio in Bolivia, Perù e Argentina, che facevano riferimento alla Quarta Internazionale. Per esclusione, restavano solo i partiti comunisti filosovietici.
La maggior parte di essi erano tuttavia apertamente contrari alla lotta armata, e più opportunisti di qualsiasi partito socialdemocratico. Di essi solo due erano almeno a parole favorevoli lotta armata: quelli dell’Uruguay e della Bolivia. Nel primo paese tuttavia la guerriglia rurale proposta da Cuba era impraticabile per evidenti ragioni di conformazione geografica del territorio, senza rilievi né foreste (qualcuno anzi ha ipotizzato che il leader del PCU Arismendi si sia dichiarato favorevole alla lotta armata solo per questa impossibilità pratica) sicché una volta che era necessario riferirsi solo ai PC filosovietici, non rimaneva che la Bolivia.
In realtà la questione è più complessa, dato che oggi è fuori discussione che il paese inizialmente prescelto per avviare la scuola politico-militare della rivoluzione americana non era la Bolivia ma il Perù, un paese in cui non sarebbe stato necessario il rapporto con il PC filosovietico, dato che vi si erano formati da tempo organizzazioni analoghe al 26 luglio cubano, formate da militanti trotskisti o usciti dall’APRA. Il Perù fu scartato tuttavia per l’ampiezza dei colpi sferrati dalla repressione nel corso del 1965-1966, che fece pensare che vi fosse stata un’infiltrazione poliziesca nei gruppi guerriglieri.
Abbiamo segnalato più volte che negli ultimi anni Castro ha minimizzato il ruolo di Monje, riducendo casomai il suo atteggiamento a una scelta soggettiva. In realtà la posizione di Monje era condivisa da tutto il gruppo dirigente centrale del partito, compreso colui che ne prese il posto, Kolle Cueto (di cui Guevara diffidava ugualmente).
Se non è giusto fare di Monje un capro espiatorio esclusivo, lo si deve alle molte corresponsabilità non solo boliviane. Ad esempio è impossibile che a Cuba si ignorasse che atteggiamento aveva preso Monje, e in che condizioni era stato lasciato il Che, anche perché Monje era passato da Cuba dopo i suoi viaggi nei “paesi socialisti”. E ammesso che a Cuba nessuno avesse notato la notizia del ritrovamento del deposito dei medicinali del Che da parte dell’esercito, era facilissimo verificare che il nucleo guerrigliero non poteva comunicare perché non gli era stata consegnata la radio trasmittente promessa da Monje, tanto è vero che all’Avana dovevano inventare i messaggi di appoggio dell’ELN boliviano all’OLAS. A questo proposito il Che annotava il 12 settembre con amara ironia: “miracoli della telepatia”!
In ogni caso Mario Monje, dalla Mosca di Eltsin, dove vive mettendo a frutto i legami stabiliti a suo tempo con la nomenklatura allora “comunista” e oggi “democratica”, ha rilasciato franche ammissioni del suo tradimento a Jon Lee Anderson (le testimonianze raccolte a Mosca sono il pregio fondamentale di un libro per altri versi men che mediocre). Monje sostiene di aver aiutato in precedenza le guerriglie castriste di Bejar in Perù e di Masetti in Argentina solo “nella speranza che Cuba non avviasse una guerriglia” in Bolivia.
Monje afferma di essersi precipitato all’Avana al solo scopo di evitare che i cubani appoggiassero il suo rivale Oscar Zamora, leader del partito filocinese. Monje assicura di essersi dichiarato a favore della guerriglia “solo con l’intento di impedirne l’attuazione”, ma di essere poi andato a Mosca per mettere al corrente di tutto Ponomariov e altri dirigenti allarmati dalle iniziative dei “sobillatori” cubani (in particolare li avrebbe informati che il Che era in Africa, cosa che i cubani cercavano di tener nascosta per evidenti ragioni).
Monje rivendica in pieno la sua responsabilità anche per la scelta del luogo sciagurato che doveva costituire la base dell’addestramento guerrigliero, ammettendo che fu una scelta “quasi arbitraria e non strategica”, basata solo sulla vicinanza all’Argentina, verso cui voleva sospingere il Che.
Non si tratta di novità assolute, anche se oggi egli rivendica apertamente il proprio atteggiamento controrivoluzionario, che in passato cercava di abbellire con belle frasi “marxiste-leniniste”. La rivista cilena “Punto final” aveva pubblicato nel luglio 1968 la relazione di Monje al Plenum del PCB del 19 gennaio 1967, con l’aggiunta di una parte scritta dopo la morte del Che. In quella relazione Monje aveva riferito abbastanza onestamente la posizione di Guevara, ammettendo che non c’era alcuna illusione su una facile e rapida vittoria: per la liberazione dell’America Latina il Che pensava che potessero essere necessari “dai dieci ai quindici anni”, e confermava anche che Guevara riteneva che “la Bolivia potesse essere uno degli ultimi paesi a raggiungere la sua liberazione”. È più o meno quanto riferito da Inti Peredo.
Monje insiste sul fatto che egli avrebbe dovuto essere il supremo capo politico-militare della guerriglia, ovviamente senza nessuna ragione sia per la sua assoluta mancanza di esperienza (a parte qualche esercitazione di tiro fatta a Cuba per rassicurare i suoi ospiti sul suo spirito combattivo), sia perchè egli stesso conferma che la lotta doveva essere continentale. Monje fa ammissioni importanti: Guevara non “aveva molta fiducia nei dirigenti comunisti boliviani” e li sospettava di voler usare la guerriglia per contrattare qualcosa con l’imperialismo. Rivela che uno dei punti sottesi alla discussione era il giudizio sull’URSS: Monje escludeva che vi fosse possibile un “ritorno al capitalismo”, difendeva la sua “coesistenza pacifica” dall’accusa di essere una politica di conciliazione con l’imperialismo, e riconfermava che il Partito comunista dell’Unione sovietica era “senza dubbio, il depositario del marxismo-leninismo, il centro di coagulazione del movimento operaio comunista internazionale”.
Anche se Monje ribadiva la sua fede nel ruolo di guida del PCUS in base al rituale tradizionale del partito, involontariamente ci mette sulla traccia di una delle ragioni profonde della divergenza con Guevara (e quindi della sua scelta di assecondare Mosca nel sabotaggio dell’impresa rivoluzionaria latinoamericana). Questo va sottolineato soprattutto perché la lunga e perdurante censura nei confronti della maggior parte degli scritti degli ultimi anni del Che ha reso più difficile comprendere l’importanza delle sue intuizioni.
Non condividiamo alcune delle illazioni di Tutino sul ruolo dei servizi segreti sovietici e cubani (che egli reputa asserviti ai sovietici, nonostante proprio il loro capo Piñeiro sia stato il responsabile dello “smascheramento” di Aníbal Escalante e dell’espulsione di diplomatici sovietici nel gennaio 1968), ma non c’è dubbio che Guevara sapeva di essere inviso all’URSS per le sue analisi, che convergevano con quelle “trotskiste” ben prima che avesse letto Trotsky. Benigno, nel suo discutibile libro scritto in Francia dopo la fuga da Cuba, dice che Mosca permetteva a Cuba quasi tutto, ma non di intervenire per salvare Guevara. Peccato che le molte menzogne di cui ha infarcito le sue memorie a richiesta dei suoi nuovi amici francesi (come Debray) rendano inattendibile perfino la sua tardiva testimonianza sull’amarezza del Che che negli ultimi giorni del calvario boliviano non reagiva più come di consueto a chi insinuava che fossero stati abbandonati anche da Cuba.

Va detto che se non ci sono prove su questo atteggiamento del Che, è ugualmente scandaloso che parecchi di quelli che coprono con la sua bandiera e con quella cubana le loro inconfessabili nostalgie per i Breznev, i Ceausescu o gli Henver Hoxha, cadano dalle nuvole ogni volta che in un dibattito sentono accenni alle critiche di Guevara a quello che poco dopo si sarebbe autodefinito il “socialismo reale”, anzi l’unico esistente e quindi l’unico possibile. È vero che la maggior parte degli scritti di Guevara su questi temi sono non a caso rimasti inediti, ma anche tra quelli editi le tracce del suo orientamento non mancano. Perfino tra le asciutte pagine del Diario, che non avevano bisogno di esplicitazioni perché destinate ad uso personalissimo, ci sono due accenni inequivocabili: il 24 luglio il Che saluta con piacere la risposta di Raúl Castro, ascoltata per radio, ai “giudizi dei cecoslovacchi sull’articolo del Vietnam” (cioè il Messaggio alla Tricontinentale), da cui deduce che “gli amici mi chiamano nuovo Bakunin, e protestano per il sangue sparso e che si spargerebbe nel caso di altri tre e quattro Vietnam”. Sempre per radio, forse dal Cile, l’8 settembre gli giunge un’altra notizia:

Un giornale ungherese critica Che Guevara, figura patetica e, a quanto pare, irresponsabile, e porta ad esempio la posizione marxista del partito comunista cileno che assume atteggiamenti pratici davanti alla realtà. Come mi piacerbbe giungere al potere, se non altro per smascherare i codardi e i venduti di tutte le razze, e strofinargli il muso nelle loro porcherie.
Guevara non ha fatto in tempo a vedere come sono finiti quegli “amici” ungheresi e cecoslovacchi, né dove ha portato nel 1973 “la posizione marxista del partito comunista cileno che assume atteggiamenti pratici davanti alla realtà”. Noi si, e a parecchi degli esaltatori di quei regimi e di quelle politiche che sono ancora tra noi, dobbiamo ancora “strofinare il muso nelle loro porcherie”.

Tornando a Monje, nella relazione originaria, quando il Che era vivo, dopo essersi discolpato con il Plenum per il fatto che alcuni membri avevano disubbidito alle sue indicazioni (spiegava che erano appena una dozzina di compagni che erano andati a Cuba e vi “avevano studiato la guerriglia su incarico del partito, sebbene con fini diversi”, e che avevano quindi seguito il Che sotto l’influenza del suo “enorme prestigio”) ammetteva che “non solo una dozzina di militanti ma moltissimi di più, del Partito comunista e di altri partiti, sarebbero entrati nella guerriglia se avessero avuto la certezza che il comandante Guevara si trovava nel paese”. Per capire tutta la gravità dell’ammissione, bisogna rileggere quanto il Che scriveva nel Diario il 14 luglio, commentando una notizia radiofonica su una crisi nella coalizione governativa boliviana: “Il governo si sta disintegrando rapidamente. Peccato non avere cento uomini in più in questo momento.”
Monje concludeva spudoratamente che “la cautela che usai al riguardo ha preservato in un certo senso la vita del comandante Guevara e dello stesso partito”. Nella nota aggiunta dopo la morte del Che deve modificare il senso dell’affermazione, insistendo soprattutto sulla sua preoccupazione di “salvaguardare la sicurezza del partito”, nel tentativo di trasformare in un merito l’aver mantenuto “il più assoluto segreto sulla guerriglia”, cioè di aver impedito che chi era disposto a sostenerla lo facesse!
Proseguiva poi la penosa autodifesa attribuendo a cause oggettive quello che fu il frutto di un vero e proprio tradimento finalizzato alla “salvaguardia” di un partito del tutto inutile ai fini della rivoluzione:

"D’altra parte non si deve dimenticare che la precipitazione delle azioni di guerriglia interruppe i rapporti dei guerriglieri con i loro sostenitori e simpatizzanti di ogni parte, motivo per cui non ricevettero nessun aiuto fino alla fine delle operazioni. Inoltre i guerriglieri, dati l’origine e il carattere della loro organizzazione, non si aspettavano - non potevano aspettarsi - che il partito li soccorresse nelle situazioni difficili. Essi innanzitutto facevano affidamento sui propri mezzi. Naturalmente questo lo avevano previsto, come avevano previsto che io rifiutassi il posto che mi offrivano, giacché per tale eventualità avevano già in serbo un altro candidato."

Che concentrato di ipocrisia in questo squallido personaggio, che rimarrà nella storia solo per il ruolo avuto nell’isolamento e la morte di Guevara, e che riteneva insufficiente per sé l’incarico di responsabile politico offertogli nella speranza di ottenerne la collaborazione! Monje tuttavia dice il vero quando afferma che i guerriglieri e Guevara non potevano aspettarsi che “il partito li soccorresse”. Nessuno poteva aspettarsi alcunché da un simile partito, che come altri dello stesso genere in America Latina ha screditato perfino il nome di comunista.

4) Gli errori del Che

Nessuno esclude che possano esserci stati specifici errori di Guevara. Alcuni li ha segnalati il generale Gary Prado in un libro di notevole interesse, in cui il comandante dei rangers che catturò il Che ha esaminato le contraddizioni tra quanto il Che aveva sistematizzato nei suoi scritti teorici sulla guerriglia e quanto si trovò costretto a fare nell’ultima fase. Si è parlato anche di una possibile attenuazione delle capacità fisiche e forse anche psichiche di Guevara per effetto delle crisi terribili di asma che lo lasciavano prostrato per giorni in condizioni ambientali terribili. Qualcuno ha sottoposto a un’analisi di questo tipo la scelta del terreno dell'ultima battaglia e la dislocazione dei combattenti. Un passo del diario di uno dei guerriglieri che morrà col Che nell’ultimo combattimento, Alberto Fernández Montes de Oca, “Pacho”, il 1° ottobre (pochi giorni dopo la prima sconfitta e a una settimana dalla fine) aveva registrato un atteggiamento singolare del Che su cui qualcuno può costruire l’ennesima favola delle presunte “pulsioni suicide”:

"Accerchiati. Abbiamo fatto l’alba camminando, e appena ci siamo accampati abbiamo sentito raffiche di armi automatiche e semiautomatiche, che ci confermano che stanno salendo per il cañón. Alle 9 am. ci sorvola un aereo, che sembrava chiedere informazioni via radio. Fernando (il Che, NdR) mi chiede una sigaretta e che gli metta un caricatore nella pistola. Prende la pistola in mano come se dovesse decidersi a uccidersi prima di cadere prigionero. Io sto nella stessa disposizione."

Pacho attribuisce al Che il suo stato d’animo? In ogni caso, in quegli ultimi giorni, dal 27 settembre al 7 ottobre in cui Pacho scrive le ultime note, le pagine del suo diario iniziano sempre con la parola “accerchiati”. Erano ritardati dallo stato di salute del “chino” (il peruviano Juan Pablo Chang Navarro, ormai quasi cieco e con gli occhiali rotti che gli cadevano a ogni passo), con poche munizioni, e la beffa di avere una scorta di cibo che non potevano cucinare perché braccati da vicino, con lo stomaco rivoltato dall’alta percentuale di magnesia disciolta nell’acqua del fiume, l’unica disponibile, le condizioni fisiche di tutti erano tremende. In simili condizioni è verosimile che ci sia stato anche qualche errore specifico nella disposizione degli uomini per l’ultimo combattimento. Non è possibile dirlo con sicurezza, né è essenziale accertarlo.
Né si può pensare che veramente l’elemento determinante per la sconfitta nell'ultimo combattimento in definitiva sia stato il mozzicone di sigaretta asciutto trovato da un soldato mentre le truppe si stavano già ritirando pensando che per l’ennesima volta i guerriglieri si erano sganciati. L’episodio, vero, è riferito da Gary Prado, che aveva già dato l’ordine di ritirata, e che in questo modo capì che i guerriglieri erano rimasti in zona (se fosse stato del giorno precedente, sarebbe stato inumidito dalla notte tropicale). Più che al peso del fattore caso nella guerra, il particolare ci fa riflettere su come sarebbe stato facile allentare la pressione delle truppe attirandole a qualche decina di chilometri con un’azione diversiva anche di pochi uomini.
In ogni caso non si può dimenticare che se il Che rimase nella posizione più scomoda e difficile inviando altri nel punto da cui c’era qualche possibilità di ritirata, lo fece per non abbandonare i feriti. Un dirigente comunista italiano che ebbe un ruolo importante (ma anche assai discusso) nella guerra di Spagna, Vittorio Vidali, in alcune conversazioni aveva criticato il Che, che pure ammirava, per essersi esposto troppo. Ma il Che era ed è quel che è nella coscienza dell’umanità anche per questo stile umano, che lo rende tanto diverso da tutti gli altri “condottieri” del nostro tempo.

5) Le leggende denigratorie

Sul Che sono state dette infinite sciocchezze e meschinità: ad esempio è stato osservato che era una follia andare in Bolivia con un contingente cubano formato in prevalenza da negri, dato che in Bolivia appaiono subito “diversi” (ci sono solo bianchi, meticci e indios). Sarebbe un’osservazione corretta, se lo scopo fosse stato quello di dirigere con quegli uomini la rivoluzione boliviana, ma quei meravigliosi compagni, che il Che aveva sperimentato sulla Sierra Maestra e nel Congo, dovevano servire come istruttori non solo sul piano strettamente militare ma anche su quello morale. Ironia della sorte, proprio due dei negri che sarebbero stati fuori posto in Bolivia riuscirono a sopravvivere, grazie all’appoggio della popolazione, che a quanto pare non guardava troppo al colore della pelle.
Anzi va precisato: “grazie all’appoggio dei contadini”. Secondo alcuni critici, che pure si considerano di sinistra, i contadini boliviani sarebbero stati tutti ostili: la straordinaria epopea dei cinque sopravvissuti è una delle prove di quanto sia falsa questa leggenda. Oggi è disponibile anche un bel documentario dellaTV svizzera, riproposto in videocassetta da “l’Unità”, con molte interviste ad abitanti della stessa zona dell’ultima battaglia (la più difficile politicamente dell’intera Bolivia), che oggi sono grandi ammiratori del Che: ne risulta che non era impossibile conquistarli alla rivoluzione. Naturalmente ci voleva del tempo, e si correvano dei rischi, soprattutto quando si arrivava per la prima volta in una zona dove non c’era stato un lavoro preparatorio.
Nella zona de La Higuera comunque il Che doveva passare per forza per raggiungere quelle zone dell’Alto Beni o del Chaparé che erano state scelte nel corso del 1966 e che egli riteneva assai più adatte, ma che erano state scartate proprio per intervento del PCB. In realtà egli conosceva le difficoltà della prima fase dello spostamento: la principale spiegazione razionale dell’aver protratto la permanenza nella zona di Ñancahuazù (che poteva andar bene per un addestramento clandestino ma era inadatta per una vera guerriglia per l’assenza di una popolazione che la potesse sostenere) perfino per qualche settimana dopo che si era persa la speranza di riprendere i contatti con la colonna di Joaquín, era verosimilmente l’attesa che da La Paz arrivasse qualche boliviano originario della zona per far da guida nel difficile spostamento.
A chi ironizza poi stupidamente sulle difficoltà di rapporto con i contadini in quella zona de La Higuera che i guerriglieri, quando ai primi di settembre ebbero la conferma definitiva che era inutile ricercare o aspettare ancora il gruppo di Joaquín (il cui annientamento era stato comunicato per radio con particolari che non potevano essere inventati), decisero di attraversare da soli, ricordiamo che tutte le testimonianze sulla Sierra Maestra sono unanimi nel descrivere che anche a Cuba nella prima fase molti contadini esitarono prima di sostenere la guerriglia: era necessario tempo per conquistarne la fiducia, e ci furono intanto diverse delazioni. L’esito finale fu diverso, ma almeno in un caso si andò molto vicini a una catastrofe, perché un aereo con a bordo un contadino che forniva precise indicazioni colpì la casa in cui era installato il comando guerrigliero.
Altri hanno irriso al fatto che i boliviani e lo stesso Che si fossero dedicati allo studio del quechua, una lingua che effettivamente non è parlata da nessuno nella zona tra Ñancahuazù e La Higuera, ed è diffusa invece in tutta la parte settentrionale della Bolivia, oltre che nel Perù. Ma lungi dall'essere una prova di follia, è l'ennesima conferma che la meta prescelta era appunto il nord della Bolivia, e che quella zona in cui avevano finito per rinchiudersi doveva solo essere un terreno provvisorio di addestramento.
L’unica critica relativamente fondata è quella sul ritardo nell'allontanarsi da una zona che nel Diario viene definita subito inadatta. Non servono le spiegazioni psicologiche: fondamentalmente i guerriglieri rimasero troppo a lungo nella zona in cui erano stati sorpresi dall’esercito, in attesa che fosse ripristinato in qualche modo il legame con la città, e anche con Cuba, magari anche solo con l’invio di quella radio trasmittente che era stata promessa da Monje: non era automatico che il disaccordo sull’impostazione della lotta dovesse tradursi in tradimento e nel venir meno ad ogni impegno preso precedentemente. D’altra parte se le due colonne si inseguono per mesi (e la ricerca della colonna di Joaquin è appunto. come abbiamo detto, la preoccupazione principale che da marzo a settembre trattiene il Che in una regione che sa inadatta), non è per ragioni misteriose, ma perché mancavano da tempo le batterie per i modesti radiotelefoni a media distanza di cui erano inizialmente fornite. Non le avevano “dimenticate”, ma i depositi erano stati scoperti dall’esercito, che si era vantato di ogni ritrovamento.
Vorremmo comunque ribadire ancora una volta che le insinuazioni sulla presunta "irresponsabilità" del Che nella scelta del paese sono smentite clamorosamente dal fatto che tre cubani e tre boliviani sopravvissuti all’ultimo combattimento, una volta verificato che Guevara era morto, riuscirono ad allontanarsi da quella zona sciagurata in cui il PCB li aveva inviati e poi abbandonati senza contatti. Essi riuscirono a raggiungere la zona di Cochabamba, a cui pensava lo stesso Che da molto tempo, anche se come abbiamo visto si era deciso a muoversi in quella direzione solo in settembre. Quello che è straordinario è che, tranne uno di loro che venne ucciso poche settimane dopo per essersi attardato a raccogliere uno zaino durante una ritirata, gli altri sono sopravvissuti per quasi cinque mesi, nonostante fossero braccati da quindicimila soldati, e nonostante la taglia di 10 milioni di bolivares offerta per ciascuno di loro, "vivo o morto".
La spiegazione è assai semplice: appena usciti dalla trappola mortale della zona di Ñancahuazú, avevano trovato contadini disposti ad ospitarli e proteggerli a rischio delle proprie vite, anche prima di raggiungere la rete delle organizzazioni contadine e operaie su cui i fratelli Peredo contavano. Per giunta, in diversi casi, alcuni soldati boliviani li videro nei loro precari nascondigli (ovviamente data la enorme sproporzione delle forze essi cercavano di evitare di dare battaglia, se possibile) ma voltarono il capo dall'altra parte, non si sa se per istintiva simpatia, o per timore superstizioso di quei leggendari combattenti. Fatto sta che dal 9 ottobre 1967 al 23 febbraio 1968 i superstiti riuscirono a eludere le forze scatenate all'inseguimento, e a raggiungere indenni il Cile.
Non era fatale e inevitabile dunque la fine del Che. E a chi ha cercato di insultarne la memoria dicendo che "l'avventurismo del Che aveva trascinato alla morte tanti giovani", va ricordato che in Bolivia mori­rono allora con lui in tutto una quarantina di giovani che avevano scelto coscientemente di mettere in gioco la loro vita per evitare che milioni di altri uomini continuassero a morire di fame (o anche di piombo), mentre il "realismo" di Allende e di Corvalán costò la vita a molte migliaia di uomini, che avevano solo fatto l'errore di credere alle parole rassicuranti dei dirigenti di Unidad Popular che escludevano qualsiasi possibilità di golpe, definendo l'esercito cileno "il più democratico dell'America Latina". E che dire della tragedia dell'Indonesia, dove il più grande partito comunista di un paese capitalistico (oltre tre milioni di iscritti) che in quegli stessi anni (nel 1966) fu trascinato dalla collaborazione di clashttp://antoniomoscato.altervista.org/se a una catastrofe (oggi dimenticata da tutti nel resto del mondo, ma di cui gli indonesiani pagano ancora le conseguenze) in cui perirono più di mezzo milione di persone?


dal sito  http://antoniomoscato.altervista.org/






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