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domenica 30 gennaio 2011
SHAKESPEARE, L’INDIVIDUO MODERNO E IL REALISMO POLITICO
di Michele Nobile
Questo non è un testo compiuto ma una miscellanea di citazioni, appunti e spunti di riflessione, grosso modo strutturati secondo un filo logico, principalmente tratti e a partire da: Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, 2001; Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, 1975, I vol.; Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che redime. Riflessioni sul teatro di Shakespeare, il Mulino, 1986. Per le opere di Shakespeare: Teatro completo di William Shakespeare, collezione I meridiani, Mondadori, in particolare vol. III, I drammi dialettici, e vol. IV, Le tragedie.
1. Bloom e l’invenzione shakespiriana dell’individuo moderno.
Scrive Bloom:
«Quel che Shakespeare inventa sono i modi per rappresentare i cambiamenti umani, alterazioni che non sono provocate solo dai difetti o dal deterioramento, ma che sono influenzate anche dalla volontà e dalle vulnerabilità temporali della volontà» (Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano 2001, p. 18).
E più avanti: «La personalità come la intendiamo noi è un’invenzione shakesperiana e non rappresenta solo la maggiore originalità del drammaturgo, ma anche la vera causa della sua perenne pervasività». E’ questa la ragione per cui «Se esiste un autore che è diventato un dio mortale, deve essere Shakespeare» (ibidem, pp. 21 e 20).
Dunque, se Shakespeare ha qualcosa di «divino» è nell’«invenzione» di quel che si intende per «individualità moderna», per «individuo moderno»; più precisamente, si può dire che Shakespeare non ha creato questo tipo di individuo, essendo esso risultato di un processo storico lungo e complesso, ma è stato il primo a dargli piena voce e sostanza, a mostrane grandezza e abissi, e, con ciò, a farlo vivere nell’immaginazione collettiva. Questione cruciale è la storicità di Shakespeare: se ha un qualche senso indicare in Omero, Dante e Shakespeare i tre «massimi» della letteratura mondiale (o, meglio, europea) è perché ciascuno ha dato vita ad opere ed a «personaggi» che sono manifestazioni non di una «poesia eterna» ma che sono grandi proprio perché «datati». Si tratta di opere e «personaggi» che sono espressioni «massime» del loro tempo determinato, della loro epoca storica.
Ma cosa è la «personalità moderna»? Bloom cita Hegel: i personaggi shakesperiani sono «liberi artefici di se stessi» (Hegel) (p. 22); Falstaff e Amleto sono personaggi carismatici: «i vitalisti eroici sono più grandi della vita: sono la grandezza della vita» (p. 20), essi trascendono l’opera, vivono di vita propria. E questo è più che mai vero per Amleto, «la più importante rappresentazione occidentale dell’intellettuale»; «qualcosa di unico nella letteratura occidentale di fantasia», una di quelle «invenzioni letterarie che si sono trasformate in miti indipendenti» (ibidem, pp. 265, 266). Il carisma di Amleto è tale che egli, «primo e unico, compete con re Davide e con il Gesù di san Marco per conquistarsi il titolo di carismatico dei carismatici. Amleto è il «centro dei centri». Perché?
Perché «Amleto e l’autocoscienza occidentale sono la stessa cosa più o meno dagli ultimi due secoli di sensibilità romantica»; veneriamo in lui una «autocoscienza quasi infinita» (ibidem, pp. 306, 307).
Qui, con delle buone ragioni, l’individualità moderna è caratterizzata romanticamente dalla Sehnsucht, dalla combinazione tra la brama, la smania (Sucht) e l’anelare, il desiderare ardentemente (Sehnen), il cercare (Suchen): dalla ricerca del desiderio, dal desiderio infinito, con una nota di nostalgia e struggimento; da una coscienza che non si quieta mai. Come quella di Faust, altra grandissima individualità moderna. Questa è una coscienza che si espande tendenzialmente all’infinito, quasi a conquistare e a far proprio il mondo, misurando questa infinitezza con i limiti del mondo, con l’ordine sociale e i costumi che la limitano, la vincolano, la reprimono mentre, nello stesso tempo, scava in se stessa. Quindi una «coscienza infelice», che è pure in conflitto con se stessa, che è dilemmatica, che si sdoppia: «essere o non essere». Come Amleto nel film di Branagh, si guarda allo specchio, stiletto in mano.
Si può considerare la cosa anche da un altro punto di vista, interrogandosi su cosa è la modernità e quindi, da qui, risalire alla individualità. Una definizione possibile:
«Tutte le stabili e irruginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci» (Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista).
Qui Marx e Engels parlano dell’espansione mondiale del capitalismo e dell’evaporazione dei valori e dei rapporti sociali tradizionali e del continuo auto-rivoluzionamento, pur nella essenziale persistenza, del capitalismo stesso. In questa ottica il farsi della modernità è, essenzialmente, il farsi del capitalismo. Che è conflitto, lotta, incertezza, svelamento e dubbio; la modernità è la coesistenza delle più grandi possibilità di liberazione umana e delle più innovative forme di sfruttamento e alienazione. Liberazione ed alienazione insieme: e da qui la lacerazione, il dubbio, la rassegnazione, come la lotta. Questi aspetti, articolati secondo i toni e le scelte più varie, si ritrovano in tutti i grandi intellettuali e scrittori moderni. Baudelaire: «tuffarci in fondo all'abisso, Inferno o Cielo, che importa?/ Per trovare il nuovo nel grembo dell'Ignoto!»; «Un'Idea, una Forma, un essere/ partito dall'azzurro e caduto/ in uno Stige limaccioso e plumbeo/ dove dal Cielo nessun occhio penetra».
2. Hauser: la disfatta della cavalleria e l’esperienza del realismo politico.
Per Hauser, Cervantes e Shakespeare sono i responsabili della «seconda disfatta della cavalleria»: perché «proclamano quel che la realtà rivela ad ogni passo: la cavalleria sopravvive a se stessa e la sua forza etica si è ridotta a mera finzione» (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, 1975, I vol., p. 427). La novità di Cervantes non è nella denuncia dell’anacronismo e nell’ironia, ma nell’ «accusa contro la prosaica, deludente realtà». Che Don Chisciotte attribuisca l’inconciliabilità dei suoi ideali con il mondo a un sortilegio gettato sulla realtà (...) significa soltanto ch’egli dormiva mentre l’intero mondo si veniva trasformando, sì che il mondo dei suoi sogni gli appare l’unico vero, e stregato invece e pieno di demoni maligni quello reale» (ibidem, p. 429).
Se Cervantes è meno favorevole di Shakespeare all’ideale cavalleresco, ma Shakespeare è più duro di quanto lo sia Cervantes nei confronti della cavalleria come classe sociale. Il principio dell’ordine, dell’autorità e della sicurezza, componenti della visione borghese del mondo, spiegano la devozione di Shakespeare alla monarchia, antitesi del caos. Il suo atteggiamento nei confronti del “popolo”, incolto, immaturo, incostante, corrisponde a quello degli umanisti.
Ma il fatto che esprima una visione così tragica, pur in un’epoca di ascesa nazionale e di floridezza economica, rivela un forte senso di responsabilità sociale e la convinzione che anche allora non tutto era per il meglio (analogia con Balzac).
Hauser divide la carriera di Shakespeare in fasi, basandosi sul ceto che privilegia nel pubblico.
1) fase in cui lavora per gli ambienti di corte, affidando la propria fama alla forma epica.
2) le nuove opere non hanno più il tono dell’idillio, classicheggiante, ma rispondono pur sempre al gusto dell’alta società: scene grandiose di vita politica che esaltano la monarchia, commedie romantiche e ottimistiche.
3) verso l’inizio del secolo si allontana dall’eufuismo e dalle commedie romantiche, ma pare straniato anche dalle classi medie. Nelle grandi tragedie non si rivolge a un ceto particolare ma al grande pubblico (ibidem, p. 441).
4) poi la fase della rassegnazione e dell’acquetamento; sempre più lontano dalla borghesia; predominano i motivi romantico-fiabeschi.
Interessi e inclinazioni lo univano alla borghesia ed alla nobiltà imborghesita, ceti progressisti rispetto all’antica nobiltà feudale. Della nobiltà non approvava lo sfrenato edonismo, il culto dell’eroe, l’individualismo selvaggio.
Ma all’inizio del XVII, nel pieno della maturità e del successo, la sua visione del mondo muta radicalmente e, con essa, il giudizio sulla situazione sociale ed i ceti: perde ogni fiducia nell’assolutismo machiavellico e nell’economia di profitto. D’ora in poi simpatizza per il personaggio sconfitto nella vita pubblica, per l’uomo politicamente inetto e sfortunato, più che per l’uomo fortunato o il vincitore. Per Hauser ciò non può spiegarsi come un mutamento di stato d’animo o una revisione puramente intellettuale: «il pessimismo shakesperiano ha una portata che trascende l’individuo e reca i segni di una tragedia storica» (ibidem, p. 438). Se è come scrive Hauser, allora nel definirsi dell’individualità moderna la «tragedia» storica dell’assolutismo inglese ha una funzione fondamentale.
Secondo Hauser la forma del teatro elisabettiano, oltre al suo contenuto e alle sue tendenze, nasce dall’esperienza del realismo politico, dal dualismo di idea e mondo. Che non è cosa nuova. Ma nel medioevo il contrasto tra mondo e oltremondo non genera alcun tragico dissidio: il santo si ritira dal mondo, si prepara a vivere in Dio; c’è distanza da Dio, ma nessun conflitto è possibile con Lui. Solo l’età del realismo politico scopre la forma del dramma tragico, trasferendo il conflitto dall’azione entro l’anima dell’eroe. Solo un’epoca che comprende la problematica dell’agire realistico può attribuire valore morale alla condotta che ottempera alle esigenze del mondo anche se sacrifica l’ideale (Hauser). Se si considerano caratteristiche peculiari del Barocco pathos, irruenza, esagerazione, è facile fare di Shakespeare un poeta Barocco. Ma per Hauser non è un artista barocco (analogia con Michelangelo).
Nonostante le enormi differenze di metodo, interessi e strumenti interpretativi, è interessante che tra Hauser e Frye esista una convergenza sostanziale intorno alla questione del realismo politico, che è poi il problema Machiavelli. E’ estremamente significativo che il fiorentino e l’inglese, pur «rappresentandola» diversamente, condividano una visione del mondo simile. Ma in fondo è abbastanza «naturale»: uno ha «inventato il pensiero politico-sociale moderno, l’altro la moderna individualità. E il «machiavellismo» pone interrogativi angoscianti all’individualità.
3. Frye: le caratteristiche della «tragedia sociale» e Machiavelli.
Per Frye in Shakespeare e contemporanei vi sono tre generi di struttura tragica:
1) la tragedia sociale: ispirata alla storia e alla caduta dei potenti (Giulio Cesare, Amleto, Macbeth);
2) la tragedia dell’amore contrastato, del conflitto passione/dovere, tra interessi personali e sociali;
3) la tragedia dell’isolamento dalla società, nella quale l’eroe cerca una propria identità individuale.
Nella tragedia sociale si distinguono tre gruppi di personaggi:
1) la figura dell’ordine: Giulio Cesare, Duncan in Macbeth, il padre di Amleto;
2) la figura del ribelle o usurpatore: Bruto in Giulio Cesare, Macbeth, Claudio in Amleto.
3) La figura o il gruppo che incarna la nemesi: Antonio e Ottaviano, Malcolm e Macduff, Amleto. Vendicatore, ha anche il compito di restaurare l’ordine.
Le tragedie di Shakespeare mostrano il governante (la figura dell’ordine) sotto due aspetti simbolici:
a) il governante deposto o assassinato: Cesare, Duncan, il padre di Amleto, Riccardo II, Lear che cede il trono. Rappresenta un’identità sociale perduta.
b) il governante in atto, l’uomo di successo: Ottaviano, Enrico V, Enrico VIII, Giulio Cesare nei primi due atti. Questa figura è insieme Apollo e Dioniso, domina sull’ordine della natura così come sull’eroica energia della fortuna. Il leader controlla un mondo in cui la realtà è anche apparenza, cioè illusione (Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che redime. Riflessioni sul teatro di Shakespeare, il Mulino, 1986, pp. 42-43).
- le stelle come simbolo dell’ordine; ogni vera manifestazione del sovrannaturale in Shakespeare è connessa all’uccisione di personaggi rappresentanti l’ordine.
Alla fine della tragedia i superstiti stipulano, o si accingono a farlo, un contratto sociale fra persone più ordinarie, per ridurre al minimo le tragedie del futuro: Fortebraccio (Amleto) e Malcolm; meno faide dopo la morte di Romeo e Giulietta; ultimi versi di re Lear «Il più vecchio ha patito più di tutti, noi che siamo giovani/ non vedremo mai altrettanto, né vivremo così a lungo».
Due concetti basilari nella tragedia elisabettiana: a) l’ordine naturale: la visione «apollinea» di Nietzsche, il senso del finito e del limitato; b) la ruota della fortuna: il senso dell’infinita energia «dionisiaca» di Nietzsche.
La tragedia è tragica perché contiene il moto dell’anima che chiamiamo eroico: una capacità d’azione, di fare e soffrire superiore a quella dei comuni mortali. L’eroico dà il senso di qualcosa di infinito (buono o cattivo) imprigionato entro il finito; un’energia infinita che gravita verso la morte: mette a fuoco lo scontro tra l’energia eroica e la situazione umana. Nell’ironia la realtà delle cose non ha niente a che fare con i desideri al riguardo; nella tragedia si compie uno sforzo contro tale discrepanza, finendo in uno scacco, dopo di che viene a patti con l’ironia, ridimensionando le proprie esigenze.
Per Frye la base della visione tragica è l’essere nel tempo: il procedere a senso unico della vita, l’irripetibilità; la visione tragica considera la morte come evento che dà alla vita forma e senso. La tragedia ha dunque un carattere essenzialmente esistenziale e, direi, aperto alla ricerca: un sistema filosofico o religioso che risponde a tutte le domande può assegnare un posto alla tragedia, ma non potrà mai assimilare l’esperienza che si esprime nella tragedia, che sfugge a tutti gli schemi volti a cogliere l’essere mediante il pensiero anziché l’esistenza (ibidem, p. 16)
«La poesia ha bisogno di un’immagine; il teatro ha bisogno di un personaggio, e ciò che si esprime nella storia della caduta dei principi è il senso della perdita dell’identità sociale»; «La visione tragica comincia con l’essere nel tempo, e quel tempo è sempre un tempo dopo, posteriore a un tempo in cui si godeva di più la vita, ed era possibile attribuire maggiore importanza nella vita alle figure dei genitori» (mentre il principe caduto corrisponde al «padre primordiale») (ibidem, p. 42).
Quindi l’«essere nel tempo» che è proprio della tragedia implica sì il fatto biologico definitivo della morte, e di una morte non banale ma che «che dà alla vita forma e senso»; ma è il «tempo» della crisi dell’identità sociale, di un ordine, migliore, violato.
Nella tragedia elisabettiana sociale lo scontro tra energia eroica e condizione umana è più evidente che negli altri due generi. Ciò per la centralità della gerarchia basata sull’autorità personale. La situazione è pre-democratica: il re simboleggia gli ideali della disciplina sociale: ma non ne è l’incarnazione. Il re non è libero dalla ruota della fortuna né dalla natura umana più bassa (Frye): dunque questo non è il re dello speculum principis, lo «specchio del principe perfetto», medievale o degli umanisti quattrocenteschi. Piuttosto, anche il re virtuoso è vicino al principe di Machiavelli.
Considerazione interessante di Frye: Shakespeare ha capito meglio di Nietzsche l’ambiguità di Dioniso:
«Dioniso non ha mai avuto niente a che fare con la libertà, perché la sua funzione è appunto liberarci dal peso della libertà. L’ultima battuta della plebe sia in Giulio Cesare che in Coriolano è puro Dioniso: “Fatelo a pezzi!”» (ibidem, p. 28).
Per Frye la nostra (delle società capitalistiche liberaldemocratiche) è una situazione dionisiaca.
E arriviamo a Machiavelli. Per Frye Machiavelli diventò la bestia nera del teatro elisabettiano: aveva distrutto l’integrità eliminando la differenza tra la figura dell’ordine e la figura del ribelle (ibidem, p. 29).
Per Machiavelli (nel Principe) la stabilità sociale è legata alla personalità del governante. Questione della fedeltà alla persona, in Shakespeare: spiega tanti suicidi o tentati suicidi, come quello di Orazio, e il desiderio di vendetta, come quello di Antonio in Giulio Cesare (la cui forza Bruto non prevede). Nella tragedia elisabettiana la vendetta appare come un dovere morale (Otello; Amleto: non prova rimorso per Polonio e si rende conto che anche Laerte può voler vendicare il padre: «Poiché nell’immagine della mia causa, vedo rispecchiata la tua»). (ibidem, p. 36-37).
Nella tragedia elisabettiana l’uomo non può dirsi tale fino a quando non entra a far parte di un contratto sociale, diventa soggetto politico, suddito: il suo essere è agire nel mondo. Ne consegue che per il leader non esiste differenza tra realtà e apparenza; come diceva Machiavelli: che il principe appaia virtuoso. Il principe è figura drammatica come l’attore: deve non tanto essere, quanto apparire (Amleto chiede a Orazio di non suicidarsi, per raccontare la storia; Otello chiede che la si racconti; Cleopatra si suicida e Macbeth duella con Macduff perché sanno che per il sovrano l’io autentico e l’immagine pubblica coincidono) (ibidem, p. 38).
L’importanza della figura dell’ordine non consiste nell’essere assassinata, ma nell’essere stata assassinata: l’azione tragica inizia dopo la sua morte (anche Lear, abdicando si è ucciso virtualmente). Si pone quindi una questione e una dialettica di potere de jure e potere de facto: il buon sovrano è quello che fa quel va fatto al tempo giusto, e che vince le battaglie (Enrico V); a differenza del giudice il sovrano non è mera incarnazione della legge, ma personalità: e nella tragedia l’elemento personale prevale sull’etica e la logica. Nelle tragedie e nei drammi storici di Shakespeare il mondo non è affatto governato dalla saggezza, bensì dalla volontà delle persone. Nelle figure dell’ordine il diritto segue alla forza: senza potere né ordine né giustizia (ibidem, p. 40).
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