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venerdì 11 marzo 2011
AUTOGESTIONE E GERARCHIA
di Cornelius Castoriadis
Viviamo in una società la cui l'organizzazione è gerarchica, si tratti di lavoro, produzione, o impresa, amministrazione, politica, o Stato oppure ancora dell'educazione e della ricerca scientifica. La gerarchia non è un'invenzione della società moderna. Le sue origini sono remote, benché non sia sempre esistita, e vi fossero delle società non gerarchiche che hanno funzionato molto bene. Ma nella società moderna il sistema gerarchico (o, il che è lo stesso, burocratico) è diventato praticamente universale. Non appena si verifica una qualunque attività collettiva, essa è organizzata sul principio gerarchico, e la gerarchia del comando e del potere coincide sempre più con la gerarchia dei salari e dei redditi. Di modo che le persone non arrivano quasi più ad immaginarsi che potrebbe essere diversamente, e che potrebbero essere esse stesse qualcosa di diversamente definito che dal loro posto nella piramide gerarchica.
I difensori del sistema attuale cercano di giustificarlo come il solo "logico", "razionale", "economico". Abbiamo già cercato di mostrare che questi "argomenti" non valgono nulla e non giustificano nulla, che essi sono falsi presi ognuno separatamente econtraddittori quando li si considera nel loro insieme. Avremo l'occasione di ritornare sul questo tema. Ma si presenta anche il sistema attuale come il solo possibile, lo si pretende imposto dalle necessità della moderna produzione, dalla complessità della vita sociale, la grande scala di tutte le attività, ecc. Cercheremo di mostrare che non è vero, e che l'esistenza di una gerachia è radicalmente incompatibile con l'autogestione.
AUTOGESTIONE E GERARCHIA DEL COMANDO
Decisione collettiva e problema della rappresentazione
Cosa significa, socialmente, il sistema gerarchico? Che uno strato della popolazione dirige la società e che gli altri non fanno che eseguire le sue decisioni; di modo che, questo strato, ricevendo i redditi più grandi, approfitta della produzione e del lavoro della società molto più di altri. In breve, che la società è divisa tra uno strato che dispone del potere e dei privilegi, ed il resto, che ne è privo. La gerarchizzazione -o la burocratizzazione - di tutte le attività sociali non è oggi che la forma, sempre più preponderante, della divisione della società. Come tale, è allo stesso tempo risultato e causa del conflitto che lacera la società.
Se le cose stanno così, diventa ridicolo domandarsi: l'autogestione, il funzionamento e l'esistenza di un sistema sociale autogestito è compatibile con il mantenimento della gerarchia? Tanto vale chiedersi se la soppressione dell'attuale sistema penitenziario attuale sia compatibile con il mantenimento delle guardie carcerarie, degli ufficiali e dei direttori carcerari, ciò che è ovvio è bene venga detto esplicitamente. Tanto più che, da millenni, si è fatto entrare negli spiriti delle persone sin dalla loro pìù tenera infanzia l'idea che è "naturale" che gli uni comandino e gli altri obbediscano, che gli uni abbiano il superfluo e gli altri appena il necessario.
Noi vogliamo una società autogestita. Cosa significa ciò? Una società che si gestisce, cioè che si dirige da se stessa. Ma ciò deve essere ancor maggiormente precisato. Una società autogestita è una società in cui tutte le decisioni sono prese dalla collettività che è, ogni volta, considerata come oggetto delle sue decisioni. Vale a dire un sistema in cui coloro che compiono un'attività decidono collettivamente ciò che devono fare e come farlo, nei soli limiti che danno loro la loro coesistenza con altre unità collettive. Così, delle decisioni che riguardano i lavoratori di un laboratorio devono essere prese dai lavoratori di quest'officina; quelle che riguardano diversi laboratori alla volta, dall'insieme dei lavoratori coinvolti o dai loro delegati eletti e revocabili; quelle che riguardano l'intera impresa, da tutto il personale dell'impresa; quelle riguardanti un quartiere, dagli abitanti del quartiere; e quelle che riguardano l'intera società, dalla totalità delle donne e degli uomini che ci vivono.
Ma cosa significa decidere?
Decidere, è decidere da sé. Non è lasciare la decisione a delle "persone competenti", sottoposti ad un vago "controllo". Non è nemmeno designare le persone che andranno, loro, a decidere. Non è perché la popolazione designa, una volta dopo un certo numero di anni, coloro che faranno le leggi, che essa fa le leggi. Non è perché designa dopo un certo numero di anni, colui che deciderà della politica del paese, che essa stessa decide di questa politica. Essa non decide, essa aliena il suo potere di decisione a dei "rappresentanti" o dei delegati che, per questo stesso fatto, non sono e non possono essere i suoi rappresentanti o dei delegati, attarverso le differenti collettività, come anche l'esistenza di organi- comitati o consigli- formati da tali delegati sarà, in un certo numero di casi, indispensabile. Ma non sarà compatibile con l'autogestione soltanto se questi delegati rappresentano veramente la collettività di cui essi stessi sono emanazione, e questo implica che rimangono sottoposti al suo potere. Il che significa, a sua volta, che quest'ultima non soltanto li elegge, ma può anche revocarli ogni volta che essa lo giudica necessario.
Dunque, dire che vi è gerarchia del comando formato da "persone competenti" ed in principio inamovibili; o dire che vi sono dei rappresentanti" inamovibili per un dato periodo di tempo (e che, come l'esperienza dimostra, diventano praticamente inamovibili per sempre), è dire che non vi è autogestione, nemmeno "gestione democratica". Ciò equivale infatti a dire che la collettività è diretta da persone la cui direzione degli affari comuni è oramai diventata l'affare specializzato ed esclusivo, e che, di diritto o di fatto, sfuggono al potere della collettività.
Decisione collettiva, formazione ed informazione
D'altra parte, decidere, è decidere per conoscenza di causa. Non è più la collettività che decide, anche se formalmente essa "vota", se qualcuno o qualcuna dispongono da soli delle conoscenze e delle informazioni pertinenti. Ma anche, che possano definire se stessi dei criteri a partire dai quali essi decidono. È per fare ciò, che essi dispongono di una formazione sempre più ampia. Ora, una gerarchia del comando implica che coloro che decidono possiedono - o piuttosto pretendono di possedere- il monopolio delle informazioni e della formazione, ed in ogni caso, che essi vi hanno un accesso privilegiato. La gerarchia è basata su questo fatto, ed essa tende costantemente a riprodurlo. Perché in un'organizzazione gerarchica, tutte le informazioni salgono dalla base al vertice e non ridiscendono più, né circolano (di fatto, esse circolano, ma controle regole dell'organizzazione gerarchica). Allo stesso modo, tutte le decisioni scendono dal vertice verso la base, che non ha che da eseguirle. Ciò equivale pressappoco a dire che vi è gerarchia del comando e dire che queste due circolazioni si fanno ognuna a senso unico: il vertice raduna ed assorbe tutte le informazioni che salgono verso esso e non ridifonde agli esecutori che lo stretto necessario all'esecuzione degli ordini che rivolge loro e che emanano soltanto da esso. In una tale situazione, è assurdo pensare che potrebbe esserci autogestione o anche "gestione democratica".
Come possiamo decidere, se non disponiamo di informazioni necessarie per decidere bene? E come possiamo imparare a decidere, se si è sempre ridotti ad eseguire ciò che altri hanno deciso? Non appena una gerarchia del commando si instaura, la collettività diventa opaca per se stessa, e si verifica un enorme spreco. Diventa opaca, perché le informazioni sono trattenute al vertice. Uno spreco si verifica, perché i lavoratori non informati o mal informati non sanno ciò che dovrebbero sapere per condurre bene il loro compito, e soprattutto perché le capacità collettive di dirigersi, così come l'inventività e l'iniziativa, formalmente riservate al comando, sono ostacolate ed inibite a tutti i livelli.
Dunque, volere l'autogestione- o anche la "gestione democratica", se la parola democrazia non è utilizzata per gli scopi semplicemente decorativi- e voler mantenere una gerarchia del comando è una contraddizione in termini. Sarebbe molto più coerente, sul piano formale, dire, come fanno i difensori del sistema attuale: la gerarchia del comando è indispensabile, dunque, non ci può essere società autogestita.
Soltanto, ciò è falso. Quando esaminiamo le funzioni della gerarchia, cioè a cosa essa serve, constatiamo che, per una gran parte, esse non hanno senso e non esistono che in funzione del sistema sociale attuale, e che le altre, quelle che conserverebbero un senso ed una utilità nel sistema sociale autogestito, potrebbero facilmente essere collettivizzate. Non possiamo discutere, nei limiti di questo testo, la questione in tutta la sua ampiezza. Tenteremo di chiarirne alcuni aspetti importanti, riferendoci soprattutto all'organizzazione dell'impresa e della produzione.
Una delle funzioni più importanti della gerarchia attuale è di organizzare la costrizione. Nel lavoro, ad esempio, che si tratti di officine o di uffici, una parte essenziale dell'"attività" dell'apparato gerarchico, dei capi squadra sino alla direzione, consiste nel sorvegliare, controllare, sanzionare, imporre direttamente o indirettamente la "disciplina" e l'esecuzione conforme degli ordini ricevuti da coloro che devono eseguirli. E perché bisogna organizzare la costrizione, perché occorre che vi sia la costrizione? Perché i lavoratori non manifestano spontaneamente un entusiasmo straripante per fare quanto la direzione vuole che essi facciano. E questo perché? Perché né il loro lavoro, né il suo prodotto appartengono loro, perché si sentono alienati e sfruttati, perché non hanno deciso essi stessi ciò che devono fare e come farlo, né ciò che avverrà di quanto essi hanno fatto; in breve, perché c'è un conflitto sociale perpetuo tra coloro che lavorano e coloro che dirigono il lavoro degli altri e ne approfittano. In somma dunque: bisogna che ci sia gerarchia, per organizzare la costrizione- e bisogna che ci sia costrizione perché ci sia divisione e conflitto, cioè affinché ci sia anche la gerarchia. In genere, si presenta la gerarchia come se esistesse per regolare i conflitti, mascherando il fatto che l'esistenza della gerarchia è essa stessa fonte di un conflitto perpetuo. Perché finché vi sarà un sistema gerarchico, vi sarà, per questo fatto stesso, rinascita continua di un conflitto radicale tra uno strato dirigente e privilegiato, e le altre categorie, ridotte a dei ruoli di esecuzione.
Si dice che se non ci fosse costrizione, non vi sarebbe nessuna disciplina, che ognuno farebbe ciò che vorrebbe e sarebbe il caos. Ma ciò non è nient'altro che un sofisma. La questione non è di sapere se occorre della disciplina, o anche a volte la costrizione, ma quale disciplina, decisa da chi, controllata da chi, sotto quali forme e per quali scopi. Più gli scopi che servono una disciplina sono estranei ai bisogni ed ai desideri di coloro che devono realizzarli, più le decisioni concernenti questi scopi e le forme della disciplina sono esteriori e più vi è bisogno di costrizione per farli rispettare. Una collettività autogestita non è una collettività senza disciplina, ma una collettività che decide essa stessa la sua disciplina e, nel caso del fallimento, delle sanzioni contro coloro che la violano deliberatamente. Per quanto riguarda in particolare il lavoro, non si può discutere seriamente la questione presentando l'impresa autogestita come rigorosamente identica all'impresa contemporanea tranne il fatto che si sarebbe tolto il guscio gerarchico.
Nell'impresa contemporanea, si impone alle persone un lavoro che è loro estraneo e sul quale essi non hanno nulla da dire. La cosa straordinaria non è che essi vi si oppongono, ma che non vi si oppongono affatto nella maggior parte dei casi. Non si può credere un solo istante che il loro atteggiamento nei confronti del lavoro rimarrebbe lo stesso quando la relazione al loro lavoro sarà trasformata e che essi cominceranno a diventarne i padroni. D'altra parte, anche nell'impresa contemporanea, non c'è una disciplina, ma due. Vi è la disciplina che a colpi di costrizioni e di sanzioni finanziarie o altre l'apparato gerarchico tenta costantemente di imporre. E c'è la disciplina, molto meno apparente ma non meno forte, che sorge all'interno dei gruppi di lavoratori di una squadra o di un'officina e che fa ad esempio sì che né coloro che ne fanno troppo né coloro che non fanno abbastanza siano tollerati. I gruppi umani non sono mai stati e non sono mai dei agglomerati caotici di individui mossi unicamente dall'egoismo ed in lotta gli uni contro gli altri, come vogliono farlo credere gli ideologi del capitalismo e della burocrazia che non esprimono così che la loro propria mentalità. Nei gruppi, ed in particolare coloro che sono chiamati ad un compito comune permanente sorgono sempre delle norme di comportamento ed una pressione collettiva che le fa rispettare.
Autogestione, competenza e decisione
Veniamo ora all'altra funzione essenziale della gerarchia, che appare come indipendente dalla struttura sociale contemporanea: le funzioni decisionali e direzionali. La domanda che si pone è la seguente: perché le collettività considerate non potrebbero compiere esse stesse questa funzione, dirigersi da se stesse e decidere da sé, perché occorrerebbe uno strato particolare di persone, organizzate a parte, che decidono e che dirigono? A questa domanda, i difensori dell'attuale sistema forniscono due genere di risposte: una si appoggia sull'invocazione del "sapere" e della "competenza": bisogna che coloro che sanno, o coloro che sono competenti, decidano. L'altra afferma, con parole più o meno velate, che bisogna in ogni modo che qualcuno decida, perché altrimenti sarebbe il caos, detto altrimenti perché la collettività sarebbe incapace di dirigersi da sé.
Nessuno contesta l'importanza del sapere e della competenza, né, soprattutto che oggi un certo sapere ed una certa competenza sono riservati ad una minoranza. Ma, anche in questo caso, questi fatti non sono invocati che per coprire dei sofismi. Non sono coloro che possiedono più sapere e competenza in generale che dirigono il sistema attuale. Chi dirige, sono coloro che si sono mostrati capaci di ascendere nell'apparato gerarchico o coloro che, in funzione della loro ordine familiare e sociale, sono stati sin dall'inizio posti sulla buona strada dopo aver ottenuto qualche diploma. In entrambi i casi, la "competenza" che si esige per mantenersi o arrampicarsi nell'apparato gerarchico riguarda molto più la capacità di difendersi e di vincere nella concorrenza che si sferrano gli individui, cosche e clan in seno all'apparato gerarchico-burocratico, che l'attitudine a dirigere un lavoro collettivo.
In secondo luogo, non è perché qualcuno o qualcuna possiedono un sapere o una competenza tecnica o scientifica, che il miglior modo di utilizzarli è di affidar loro la direzione di un insieme di attività. Si può essere un eccellente ingegnere nella propria specialità senza per questo essere capaci di "dirigere" l'insieme di un dipartimento di una fabbrica. Non c'è del resto che da constatare quanto accade attualmente a questo proposito. Tecnici e specialisti sono generalmente confinati nei loro campi particolari. i "dirigenti" si circondano di alcuni consiglieri tecnici, raccolgono i loro pareri sulle decisioni da prendere (pareri che spesso divergono tra loro) ed infine "decidono". Si vede chiaramente l'assurdità dell'argomento. Se il "dirigente" decidesse in funzione del suo "sapere" e della sua "competenza", dovrebbe essere erudito e competente a proposito di tutto, sia direttamente sia per decidere quale, tra i pareri divergenti degli specialisti, sia il migliore. Ciò è evidentemente impossibile ed i dirigenti optano di fatto arbitrariamente, in funzione del loro "giudizio". Ora questo "giudizio" di uno solo non ha alcuna ragione di essere maggiormente valida del giudizio che si formerebbe in una collettività autogestita, a partire da un'esperienza reale infinitamente più ampia di quella di un solo individuo.
Autogestione, specializzazione e razionalità
Sapere e competenza sono per definizione specializzati e lo diventano sempre più ogni giorno. Uscito dal suo campo speciale, il tecnico o lo specialista non è più capace di chiunque altro di prendere una buona decisione. Anche all'interno del suo campo particolare, del resto, il suo punto di vista è fatalmente limitato. Da una parte, egli ignora gli altri campi, che sono necessariamente in interazione con il suo e tende naturalmente a trascurarli. Così, nelle imprese così come nelle attuali amministrazioni, la questione del coordinamento "orizzontale" dei servizi di direzione è un incubo perpetuo. Si è giunti, da tanto tempo , a creare degli specialisti del coordinamento per coordinare le attività degli specialisti della direzione- che si rivelano così incapaci di dirigere se stessi. Da una parte e soprattutto, gli specialisti posti nell'apparato direttivo sono per questo motivo separati dal reale processo produttivo, da quanto accade, delle condizioni nelle quali i lavoratori devono effettuare il loro lavoro. La maggior parte del tempo, le decisioni prese dagli uffici dopo elaborarti calcoli, perfetti sulla carta, si rivelano inapplicabili così come sono, perché non hanno tenuto sufficientemente conto delle condizioni reali nelle quali avrebbero dovuto essere applicate. Ora queste condizioni reali, per definizione, soltanto la collettività dei lavoratori le conosce. Tutti sanno che questo fatto è, nelle imprese contemporanee, una fonte di conflitti perpetue e di uno spreco immenso.
Per contro, sapere e competenza possono essere razionalmente utilizzate se coloro che li possiedono sono reimersi nella collettività dei produttori, se diventano una delle componenti delle decisioni che questa collettività avrà da prendere. L'autogestione esige la cooperazione tra coloro che possiedono un sapere o una competenza particolare e coloro che assumono il lavoro produttivo nel senso stretto. È totalmente incompatibile con una separazione di queste due categorie. È soltanto se una tale cooperazione si instaura che questo sapere e questa competenza potranno essere pienamente utilizzate; mentre, oggi, non sono utilizzate che per una piccola parte, poiché coloro che le possiedono sono confinati a dei compiti limitati, strettamente circoscritti dalla divisione del lavoro all'interno dell'apparato di direzione. Soprattutto, soltanto questa cooperazione può assicurare che sapere e competenza saranno messe effettivamente al servizio della collettività e non per fini particolari.
Una tale cooperazione potrà svolgersi senza che dei conflitti sorgano tra gli "specialisti" e gli altri lavoratori? Se uno specialista afferma, a partire del suo sapere specializzato, che un certo metallo, perché possiede tali proprietà, è il più indicato per quell'utensile o quel pezzo, non si vede perché ed a partire da cosa ciò potrebbe sollevare delle obiezioni gratuite da parte degli operai. Anche in questo caso, del resto, una decisione razionale esige che gli operai non siano estranei- ad esempio, perché i proprietari del materiale scelto svolgono un ruolo durante la lavorazione dei pezzi e degli utensili. Ma le decisioni veramente importanti riguardanti la produzione comportano sempre una dimensione essenziale relativa al ruolo ed al posto degli uomini nella produzione. A proposito di ciò, non esiste- per definizione- nessun sapere e nessuna competenza che possa dominare il punto di vista di coloro che avranno da effettuare realmente il lavoro. Nessuna organizzazione di una catena di montaggio o di assemblaggio può essere né razionale né accettabile se è stata decisa senza tener conto del punto di vista di coloro che vi lavoreranno. Perché non ne tengono conto, queste decisioni sono attualmente quasi sempre traballanti, e se la produzione funziona comunque, è perché gli operai si organizzano tra di loro per farla andare, trasgredendo le regole e le istruzioni "ufficiali" sull'organizzazione del lavoro. Ma, anche le si suppongono "razionali" dal pubto di vista stretto dell'efficacia produttiva, queste decisioni sono inacettabili precisamente perché esse sono, e non possono che essere, esclusivamente basate sul principio dell'"efficacità produttiva". Ciò significa che esse tendono a subordinare integralmente i lavoratori al processo di produzione, ed a trattarli come dei pezzi del meccanismo produttivo. Ora questo non è dovuto alla cattiva direzione, alla sua stupidità e nemmeno semplicemente alla ricerca del profitto. (A riprova che l'"Organizzazione del lavoro" è rogorosamente la stessanei paesi dell'Est e nei paesi occidentali). Ciò è la conseguenza diretta ed inevitabile di un sistema in cui le decisioni sono prese da altri rispetto a coloro che le dovranno realizzare; un tale sistema non può avere un'altra "logica".
Ma una società autogestita non può seguire questa "logica". La sua logica è ben altra, è la logica della liberazione degli uomini e del loro sviluppo. La collettività dei lavoratori può ben decidere - e a nostro avviso, avrebbe ragione di farlo- che per essa, delle giornate di lavoro meno faticose, meno assurde, più libere e più felici sono infinitamente preferibili di qualche pezzo in più di cianfrusaglia. E, per tali scelte, assolutamente fondamentali, non c'è alcun criterio "scientifico" o "oggettivo" che valga: il solo criterio è il giudizio della collettività stessa su ciò che essa preferisce, a partire dalla sua esperienza, dai suoi bisogni e dai suoi desideri.
Ciò è vero su scala della società intera. Nessun criterio "scientifico" permette a chicchessia di decidere che è preferibile per la società di avere l'anno prossimo più tempo libero piuttosto che più consumi o l'inverso, una crescita più rapida o meno rapida, ecc. Colui che dice che tali criteri esistono è un ignorante o un impostore. Il solo criterio che in questi campi ha un senso, è che gli uomini e l edonne che formano la società vogliono, e ciò, soltanto essi possono deciderlo e nessuno al loro posto.
Testo scritto in collaborazione con Daniel Mothé e pubblicato in CFDT Aujourd’hui, n° 8, luglio-agosto 1974.
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