CINEMA

martedì 8 ottobre 2013

GIAPPONE, LE LOTTE DEL POST-TSUNAMI E LA NUOVA GENERAZIONE MILITANTE di Douglas McNeil





GIAPPONE, LE LOTTE DEL POST-TSUNAMI E LA NUOVA GENERAZIONE MILITANTE
di Douglas McNeil 


La catastrofe ha dato vita a movimenti di protesta di un’intensità tale che il Giappone non conosceva da decenni. Il terremoto ha messo in evidenza problemi sociali profondi, come le insufficienze del welfare e il diritto alla casa. Questa lotta gode di scarso interesse mediatico e merita un approfondimento.





Con circa 19.000 morti o dispersi, 150.000 abitanti della regione di Fukushima costretti alla fuga (la maggior parte dei quali non ha mai più potuto far ritorno alle proprie case) e la stima dei danni ambientali e sociali appena agli esordi, il sisma e lo tsunami del 2011 hanno causato dei disastri indicibili in Giappone. Le strutture della centrale nucleare Fukushima Daiichi sono state danneggiate in seguito al terremoto e le radiazioni hanno aggravato ulteriormente una situazione già disperata. Il futuro non è roseo: un rapporto evidenzia che “i livelli di cesio radioattivo nelle foglie di tabacco secche raccolte nella prefettura di Fukushima eccedono i limiti imposti dalle norme della Japan Tobacco Inc.”; livelli di cesio oltre i limiti sono stati riscontrati nella carne di manzo di Miyagi, mentre anomalie osservabili su farfalle raccolte nei dintorni di Fukushima suggeriscono che l’irradiazione sia all’origine di mutazioni. Lo stress e l’agitazione provocati dalle scosse di assestamento nel corso della prima metà del 2011, l’incertezza costante circa la sicurezza alimentare, le radiazioni e il trasferimento della popolazione evidenziano problemi manifesti della società giapponese.

Se il sisma e lo Tsunami sono catastrofi naturali, non c’è nulla di naturale nel loro impatto sociale. Le reazioni disordinate, caotiche e talvolta insensibili tanto del governo giapponese quanto della Tokyo Electric Power Company (Tepco) ha dimostrato alla popolazione quali fossero le loro priorità e i loro princìpi. La catastrofe ha provocato una crisi nella classe dirigente giapponese e ha suscitato movimenti di protesta di un’intensità tale che il Giappone non conosceva da decenni. Le conseguenze della catastrofe nucleare hanno scosso una società già messa a dura prova da due decenni di stagnazione economica. La penuria di abitazioni causata dall’evacuazione della popolazione ha aggravato la crisi degli alloggi, cronica e occultata. Il movimento contro il nucleare assume così un significato che va oltre i suoi obiettivi immediati: è diventato un catalizzatore del malcontento riguardo una serie di questioni sociali e sarebbe in grado di sviluppare una energia anticapitalista ben più ampia. Questo movimento si trova ad affrontare problemi enormi, di organizzazione, prospettiva, analisi e direzione, ma rappresenta un’opportunità che il movimento operaio e la sinistra non hanno più avuto sin dagli anni Sessanta. Questa lotta gode di scarso interesse mediatico e merita un approfondimento.

Questo articolo descrive sia l’impatto politico del sisma e della catastrofe nucleare che il movimento di protesta che ne è stato il prodotto, e analizza le prospettive e alcune sfide che il movimento contro il nucleare in Giappone dovrà affrontare. Per quanto possibile abbiamo attinto alle fonti giapponesi per amplificare alcune voci del movimento e condividere l’interesse contagioso per questa campagna.

Una tragedia che avrebbe potuto essere evitata

“È un crimine, e i membri del governo che hanno preso queste decisioni dovrebbero andare in galera”. È così che l’agricoltore Ito Nobuyoshi, che viveva nel piccolo villaggio di Iitate, a circa 40 km dalla centrale di Fukushima, ha riassunto la situazione davanti al giornalista David McNeill un anno dopo la catastrofe. Il 14 e 15 marzo 2011, l’irradiazione ha colà provocato gravi danni. “Ha piovuto durante diverse notti e la pioggia ci ha portato le radiazioni”, ha raccontato Ito a McNeill. “Il governo ha ritardato la pubblicazione dei dati sulla diffusione dell’irradiazione, la cui conoscenza avrebbe permesso di salvare molte persone che hanno subito una forte esposizione. Centinaia di famiglie hanno dovuto essere evacuate dalle zone più colpite senza neanche saperlo”. C’è abbondanza di racconti simili.

Dopo aver passato mesi fingendo che non sarebbe stato possibile fare niente per proteggere la centrale dagli effetti del terremoto, nell’ottobre 2012 la Tepco ha dovuto ammettere che la sua direzione era a conoscenza della necessità di realizzare lavori per ilmiglioramento sicurezza, ma non aveva poi fatto nulla. Il motivo? Gli amministratori della società temevano che l’ammissione di problemi di sicurezza avrebbe avuto ricadute giudiziarie. Non volendo allarmare la popolazione delle aree in cui erano presenti le centrali, rivelando violazioni delle norme di sicurezza, l’azienda aveva deciso di occultare i dati di cui era in possesso. Per ammissione della Tepco stessa: “se l’azienda avesse messo in atto un piano per far fronte a un grave incidente, temevamo di suscitare ansia in tutto il Paese e nelle comunità vicine alle centrali nucleari, e ciò avrebbe dato slancio al movimento antinucleare”.

Per molti anni, le inchieste dei giornalisti e dei militanti avevano lanciato avvertimenti circa i problemi di sicurezza delle centrali nucleari ma i grandi media hanno fatto la scelta di non renderle pubbliche e di allinearsi sulle posizioni del governo e dell’azienda. Nel 2007 il ricercatore Honda Katsunobu ha pubblicato un volume intitolato Tepco’s Dark Empire (L’impero oscuro della Tepco n.d.t.), in cui si elencano le incrinature nel sistema di sicurezza, le dissimulazioni e gli atti di corruzione dell’azienda. Per quattro anni questa inchiesta è stata ignorata. Ben prima del sisma, c’erano stati molti altri segnali del pericolo che la popolazione avrebbe corso a causa dell’industria nucleare in seguito a un terremoto. Nel 1996 il libro di Fujita Yūko, Silent Killer (L’assassino silenzioso n.d.t.), indicava gli enormi rischi per la salute a cui la Tepco esponeva i suoi dipendenti, raccontando la vita di Shimahashi Nobuyuki, vittima di leucemia a 29 anni a causa dell’esposizione durante il lavoro. I padroni, che ora sostengono l’impossibilità di sapere ciò che sarebbe potuto accadere, mentono, e ne sono coscienti. La differenza è che adesso anche la popolazione ne è a conoscenza.

La privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite da parte del capitalismo si conferma crudelmente in Giappone. Più di un centinaio di migliaia di persone private delle loro case, numerosi dipendenti della Tepco a rischio di contrarre malattie potenzialmente letali, rovinato il sostentamento di migliaia di piccoli contadini e sradicati e distrutti tutti i mezzi di vita, e questo perché l’azienda ha privilegiato i propri interessi a breve termine rispetto alla sicurezza della popolazione.

Il malcontento popolare è andato crescendo a ogni nuova rivelazione sull’incompetenza e la noncuranza della Tepco. Segno di inquietudine del governo giapponese di fronte a questa intensificazione del sentimento critico, il Parlamento ha disposto per la prima volta nella sua storia la redazione di un rapporto indipendente. La commissione messa in piedi allo scopo non era affatto composta da elementi radicali e non rappresentava neanche il crescente malcontento popolare. Era fatta di personalità mainstream, di scienziati e funzionari, affinché la classe dirigente potesse ritenere che l’affare fosse affidato “alle cure dei propri pari”. Le conclusioni pubblicate nel luglio 2012 sono inconfutabili.

La dichiarazione del suo presidente, Kurokawa Kiyoshi, indica sino a che punto il mondo ufficiale fosse colpito dal discreto: “Il sisma e lo Tsunami dell’11 marzo 2011 furono catastrofi naturali la cui ampiezza ha sconvolto il mondo intero. Benché provocato da questi avvenimenti, il successivo incidente alla centrale di Fukushima Daiichi non può essere considerato un disastro naturale. È una catastrofe causata da esseri umani, che avrebbe potuto essere evitata e avrebbe dovuto essere impedita. E l’ampiezza dei suoi effetti avrebbe potuto essere limitata da una risposta umana più efficace (…). Il nostro rapporto elenca una lunga serie di errori e di negligenze volontarie che hanno reso la centrale di Fukushima impreparata agli eventi dell’11 marzo ed esamina parimenti le gravi lacune nel modo in cui la Tepco, le autorità di controllo e il governo hanno reagito all’incidente”.

Il rapporto prosegue tentando di diluire queste “negligenze volontarie” nella “cultura giapponese” in generale, ma i fatti parlano da soli: la cultura di impresa, l’atmosfera di soffocamento generata dalla sottomissione e intimidazione nelle grandi imprese, sono ben lungi dall’essere una specificità giapponese.

Negligenza corporativa e solidarietà della classe operaia

Nel corso dei giorni e delle settimane successive al sisma, la sopravvivenza era all’ordine del giorno. È nelle reti create durante questo processo che hanno visto la luce i primi passi del movimento di protesta. La Tepco, per parte sua, ha aggiunto il danno alla beffa: “A partire dal 12 settembre, cioè sei mesi dopo la fusione del suo reattore, l’azienda ha cominciato ad inviare, essenzialmente per posta, un formulario di cinquantotto pagine per le richieste di indennizzo, richiedendo ricevute (originali, non copie) delle spese di trasporto e altre spese effettuate in seguito all’evacuazione, estratti conto bancari e fiscali in grado di certificare il reddito prima della catastrofe e certificati che comprovassero il deterioramento della salute dopo l’evacuazione. Un mese più tardi la Tepco aveva ricevuto appena settemilaseicento formulari completi, vale a dire circa il 10%, perché era praticamente impossibile compilarli, soprattutto considerando che la maggior parte dei documenti richiesti erano andati perduti a causa del terremoto e dello tsunami”. Come ha detto il militante Kishimoto Sakoto: “Fukushima è oggi una comunità totalmente dispersa e né il governo né la Tepco vogliono pagarne il conto. Hanno abbandonato la gente di Fukushima al suo destino” .

La risposta dei giapponesi comuni è in contrasto con questa ingiuria. I sindacati e i gruppi comunitari si sono fatti carico di organizzare i ricoveri e le cure non appena si era reso evidente che il governo non era in grado o non voleva farlo. Ci vorranno molti anni per la ricostruzione e alcune aree resteranno disabitate per sempre. Tuttavia il governo esige che gente lasci la maggior parte degli alloggi temporanei nell’arco di due anni al più tardi. Altri alloggi temporanei sono sprovvisti dei servizi fondamentali, come l’acqua o il gas.
I piccoli sindacati radicali, in particolare quelli che organizzano i giovani lavoratori precari, si fanno carico degli aiuti per i loro aderenti e le comunità operaie evacuate, e organizzano al tempo stesso una critica politica della logica dominante della ricostruzione. Iwahashi Makoto, militante del sindacato indipendente Posse ha spiegato questa strategia durante una riunione sindacale a Seoul lo scorso anno: “La posizione ufficiale in questo campo è la ‘ricostruzione creativa’, una parola in codice che sta per ricostruzione neoliberista e cambiamento del volto delle cittadine a tutto profitto del capitale. Il governo ha imposto la deregolamentazione allo scopo di incoraggiare la concorrenza mondiale tra multinazionali, prevedendo ‘aree di ricostruzione’ con vantaggi fiscali e una totale deregolamentazione dei capitali privati nei porti e nelle terre agricole devastate. Contemporaneamente il governo non ha fatto nulla per garantire i livelli di vita della gente comune. Alcuni hanno perso le protezioni sociali e le famiglie hanno visto soppresse le loro indennità di alloggio, una volta che sono state considerate ‘indipendenti’ perché poste negli alloggi temporanei”

“Di fronte a una situazione come questa, pensiamo sia importante che i militanti si adoperino per la ricostruzione di Sendai (cittadina a nord dello Honshū, l’isola più estesa tra quelle che compongono l’arcipelago nipponico, n.d.t.). Ci sono persone che sono state abbandonate e non hanno praticamente ricevuto aiuti dallo Stato. Aiutando queste persone, speriamo che la questione della povertà in Giappone sarà considerata un problema generale e non un incidente dovuto al solo terremoto. Il sisma ha messo in luce problemi sociali profondi, come le insufficienze del sistema di welfare e il diritto alla casa. I problemi delle aree colpite mettono in risalto i problemi sociali in Giappone. Il nostro obiettivo principale è che la questione della povertà sia considerato come un problema sociale”.

L’argomentazione di Iwahashi, secondo il quale “i problemi delle aree colpite mettono in risalto i problemi sociali in Giappone”, è importante: dopo due decenni di declino dei livelli di vita, della crescita della disoccupazione e di incertezza economica, la classe operaia giapponese risente di questa crisi ancor più acutamente .

Gli operai impegnati nella ricostruzione dovranno affrontare questi problemi nel loro punto più alto. L’industria immobiliare è riuscita a soffocare il movimento sindacale del settore, è dominata dalla criminalità organizzata, da imprenditori che impongono una precarietà assoluta e dall’atomizzazione dei lavoratori. La Tepco sta sfruttando questa situazione. Nel giugno 2011, il blog di Posse così si esprimeva: “I lavori più pericolosi di pulitura dopo la catastrofe di Fukushima sono stati affidati ai lavoratori a giornata. Questi ultimi sono esposti a livelli di radiazione molto elevati durante il trasporto dell’acqua dei serbatoi ecc. Spesso non sono neanche a conoscenza della situazione in cui si sono messi, perché gli annunci di lavoro mentono spudoratamente sul lavoro da compiere, prospettando al tempo stesso la falsa speranza di un impiego a tempo indeterminato, quando si tratta solo di contratti a tempo determinato o lavoro occasionale. Questo evidenzia i problemi di povertà e le disuguaglianze della società.”

Nascita del movimento di protesta

Tenendo conto dell’orrore delle armi nucleari al termine della Seconda Guerra Mondiale, non sorprende che il sentimento antinucleare sia sempre stato forte tra i lavoratori giapponesi. Tuttavia decenni di relativa stabilità sociale e la crescita dei livelli di vita di molti lavoratori, fino allo scoppio della “bolla” economica degli anni Novanta, hanno aiutato la classe dirigente a separare il nucleare “cattivo” (le armi nucleari e il militarismo, politicamente troppo “caldi” per i dirigenti giapponesi, anche se dopo gli anni Cinquanta furono oggetto delle pressioni degli statunitensi, favorevoli al riarmo) da quello “buono” (energia, prosperità, potenza…). Per questo motivo il movimento contro il nucleare era stato debole, disperso, diviso e marginale prima del 2011.

Dopo Fukushima sulle prime sembrava che fondamentalmente nulla dovesse cambiare. Sin dal principio di marzo si ebbero manifestazioni di protesta contro l’energia nucleare e la gestione della catastrofe da parte del governo, ma le manifestazioni erano piccole e furono ignorate dai media. Tuttavia la scarsa partecipazione nascondeva l’importanza del loro cambiamento qualitativo. La giornalista e militante sindacale Mastumoto Chie, al termine della grande manifestazione del giugno 2012 contro la riattivazione delle centrali nucleari, osservava che: “Non si tratta dell’unica manifestazione che è stata organizzata in Giappone. Se guardate alle manifestazioni precedenti durante l’anno in seguito al disastro, era evidente che il popolo aveva cominciato a muoversi. È molto raro che il popolo giapponese entri in azione: il sentimento fino ad allora dominante era che le proteste e le manifestazioni fossero appannaggio di alcuni… e che non rientrassero nei diritti del popolo. Ma dopo il disastro ci sono state numerose manifestazioni, sempre più rilevanti. Si sono estese all’insieme del Paese. L’ultima, davanti al palazzo della Dieta, è stata con tutta probabilità una delle poche in cui le persone si sono ritrovate in maniera spontanea e non su appello dei sindacati o dei collettivi ai quali appartenevano. È stata una vera e propria manifestazione di rabbia, di frustrazione di fronte al tradimento del governo, di azione collettiva spontanea.”

Queste mobilitazioni hanno qualcosa in comune con il movimento Occupy: le persone sentono parlare dei sit-in e delle manifestazioni da amici o da reti sociali (internet) e decidono di fare la stessa cosa nelle loro città. Una nuova generazione, che non porta sulle spalle l’eredità delle sconfitte e dei rovesci esiziali per la sinistra in Giappone, ha costruito questa unità. Molti partecipanti hanno così preso parte ad una attività politica per la prima volta nella loro vita.

Le reti sociali hanno giocato un ruolo importante all’inizio di questo processo. Successivamente, quando le persone hanno preso fiducia guardando quante altre condividevano il loro punto di vista e erano pronte a scendere in piazza, le discussioni politiche sono entrate, spesso per la prima volta, sui luoghi di lavoro. “Ho scoperto queste manifestazioni tramite Twitter”, racconta una donna di Kyōto intervistata nel corso di una manifestazione contro il nucleare. “Non ne posso discutere con le persone che lavorano con me, o in generale attorno a me, ma se penso alla situazione precedente, credo di poter intrattenere una discussione sul fatto che non abbiamo bisogno dell’energia nucleare e le persone sembrano d’accordo.”

Tutte le settimane nuove rivelazioni sui danni della catastrofe o sulle pratiche inaccettabili della Tepco la facevano da padrone sui principali quotidiani giapponesi e, parallelamente, il movimento cresceva ogni settimana di più nel corso della primavera e dell’estate 2011. Quello che era cominciato come un picchettaggio di qualche centinaia di persone si è poi sviluppato in raggruppamenti settimanali di migliaia di persone. Il movimento è partito come un razzo, cominciando dal niente per diventare una forza che ha infine dominato la politica giapponese per mesi. Un sit-in e una tendopoli davanti al Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria sono durati sei mesi a partire da settembre 2011 e folle di simpatizzanti hanno impedito regolarmente i tentativi della polizia di disperderli. Le “donne di Fukushima”, movimento di protesta di donne evacuate dalle aree colpite da irradiazione, avevano organizzato un diverso sit-in, diventato poi un altro polo di attrazione. Le manifestazioni sono cominciate e sono prseguite davanti alla residenza del Primo Ministro. Le manifestazioni del venerdì sono passate da trecento persone in marzo 2011 a novantamila in luglio. Il Giappone, un Paese noto per la sua cultura docile e apolitica, è diventato di colpo un Paese politicamente vibrante.

Le persone evacuate dalle regioni devastate hanno avuto un ruolo importante in queste mobilitazioni settimanali e hanno dato fiducia al movimento, consentendogli di resistere agli appelli all’unione “nazionale” e ad altri tentativi di depoliticizzazione. In occasione di una manifestazione nell’ottobre 2012, il quotidiano del Partito Comunista, Akahata (“Bandiera Rossa”) intervistava uno degli sgomberati di Fukushima: “Prima che accadesse, non sapevo che le centrali nucleari fossero così pericolose. Molte persone non sanno quale disastro possa causare la fusione del nocciolo di un reattore nucleare. Ho partecipato a questi raggruppamenti per condividere la mia esperienza con altri. Penso che le manifestazioni davanti alla residenza del Primo Ministro siano molto incoraggianti e sono felice di vedere che alla protesta si sono unite persone non direttamente toccate dalla catastrofe, ma che lottano anche per loro stesse” . Con l’ispirazione offerta dai militanti di Tōkyō, è ormai abituale che si organizzino manifestazioni periodiche più piccole anche nelle aree rurali e nei dintorni di Fukushima.

Queste manifestazioni di massa sono tra le maggiori che il Giappone abbia conosciuto dagli anni Sessanta. Circa sessantamila persone si sono mobilitate a Tōkyō sei mesi dopo la catastrofe, più di ventimila sono scesi in piazza nel luglio 2011, malgrado il caldo e l’umidità molto forti. Nel luglio 2012 più di centosettantamila persone hanno manifestato nella capitale e, successivamente, nel corso dello stesso mese duecentomila persone hanno circondato il Parlamento… Come sempre, le stime della polizia e quelle degli organizzatori sono molto diverse ma tutti concordano che si tratti di un cambiamento qualitativo su vasta scala, qualcosa che la attuale generazione non aveva mai conosciuto.

Il Primo Minsitro Nōda ha provato in un primo momento a screditare il movimento, parlando di “molto rumore”. “Queste voci non sono semplicemente un rumore”, gli ha ribattuto Hayashi Yūichi, studente e manifestante. La classe dirigente per il momento ha perso l’iniziativa, e si limita a rispondere al movimento popolare. Per un verso, Nōda e il suo governo non riescono ad agire e si comportano come se il movimento di protesta non li riguardi, rassicurando che gli affari e la vita normale, con la riattivazione delle centrali nucleari, possono continuare. Al tempo stesso, però, il movimento minaccia di continuare ad estendersi e i manifestanti occupano le piazze, più fiduciosi nella loro propria forza. È una rottura con l’ordine sociale autoritario e repressivo che il capitalismo giapponese aveva mantenuto. Se il movimento legittima la protesta, chi può sapere fin dove potrà arrivare? Come ha detto al New York Times Matsumoto Hajime, uno degli organizzatori più radicali del movimento, il Paese “è sul punto di vivere qualcosa di nuovo”.

Questo “qualcosa di nuovo” ha trovato espressione nel movimento e attorno ad esso. Nel movimento, spiega Kunitomi Kenji, un veterano socialista rivoluzionario e editore del foglio Kakehashi, “la coscienza anticapitalista primaria” emerge tra i partecipanti via via che attingono dall’esperienza e sono ispirati dalle discussioni all’interno del movimento. Questi sta portando la società a sinistra man mano che va avanti: un sondaggio realizzato dal Mainichi Shinbun mostra che il 47% della popolazione è solidale con i manifestanti e i loro obiettivi. Ciò indica un’evoluzione importante in un Paese in cui coloro che protestano sono stati demonizzati per lungo tempo. Il fatto stesso che un gran numero di persone si ritrovi insieme a protestare dà loro un sentimento di forza: “Per il momento non è importante che ci capiscano oppure no”, spiegava Higashi Ayuko al New York Times durante la terza manifestazione contro il nucleare. “È solo un passo in avanti per cominciare ad alzare le nostre voci”.

La maggior parte del materiale pubblicato sulla campagna dalle organizzazione politiche o dai collettivi militanti si limita alla questione della chiusura delle centrali nucleari in Giappone. Ma questi testi pongono il legame tra la questione della sicurezza, i destinatari dei profitti dell’energia nucleare e i limiti della democrazia giapponese. “Ormai è chiaro chi sono coloro che impongono realmente l’agenda nucleare”, ha detto un abitante di Aichi a Akahata durante una delle manifestazioni del venerdì sera nel settembre 2012. “Vogliamo far vedere al Primo Ministro Nōda che la rabbia della gente comune è più pericolosa del Keidanren (la principale organizzazione degli imprenditori giapponesi) o degli Stati Uniti.” Altri hanno dichiarato allo stesso quotidiano di “tremare di rabbia” mentre un manifestante che aveva partecipato ad un movimenti di protesta per la prima volta nella sua vita riassumeva così il punto di vista maggioritario: “Mi sembra di vivere un momento di svolta della nostra storia. Non ci fermeremo fin quando tutte le centrali nucleari non saranno state chiuse”.

Reazioni della classe dirigente

Il governo del Partito Democratico (PD) era debole e diviso. Dopo che il Primo Ministro Hatoyama Yukio, il primo alla guida di un governo PD, aveva dovuto subire l’umiliazione da Obama essendo costretto ad accettare il dominio statunitense a Okinawa, il governo era passato di crisi in crisi ed era diventato sempre più debole, fino a essere sostanzialmente rigettato sia dal grande capitale che dalla popolazione. Inoltre una frazione nel partito, diretta da Ōzawa, ha prodotto una scissione in seguito a un aumento delle tasse. Come gli altri partiti social-liberisti anche il PD è stretto tra il desiderio di governare per conto del capitale e la diminuzione della sua popolarità a causa del tradimento compiuto ai danni della sua base elettorale.

In questo contesto, il governo ha avuto difficoltà a reagire alla rabbia e alla paura montanti tra la popolazione in seguito alla rivelazione sui segreti della Tepco. Da principio aveva annunciato la fine dell’energia nucleare per il 2030, per poi cambiare posizione nel corso dei giorni successivi, impegnandosi a mantenere lo status quo sotto la pressione del capitale e della lobby nuclearista. Sebbene la repressione poliziesca contro i militanti sindacali e sociali sia una tradizione e che in passato membri del Partito Comunista siano stati mandati in prigione per aver distribuito volantini nelle cassette postali, le azioni della polizia contro il movimento antinucleare sono state ora molto limitate e risolvendosi nell’arresto di una manciata di militanti. Così se il governo PD, seppur sdraiato sui desiderata della lobby nucleare, non si sentiva in grado di affrontare il movimento, la popolarità del governo Nōda ha continuato a ridursi, spingendolo a giocare la carta della retorica nazionalista come diversivo rispetto alla crisi del Paese.

Altri rappresentanti dell’establishment hanno provato a saltare sul carro del vincitore del movimento. L’ex Primo Ministro Hatoyama si è fatto vivo in alcune manifestazioni dichiarando alla folla che “dobbiamo rallegrarci della democrazia nuova che state creando… è chiara la enorme distanza tra la voce del popolo e l’ufficio del Primo Ministro. In qualità di precedente Primo Ministro, mi impegno a portare il vostro messaggio nelle stanze del Primo Ministro”. È evidente che Hatoyama, come altri, vedano nel movimento di protesta una possibilità di rifarsi una verginità politica e ricostruire la loro base elettorale. La domanda è: il movimento si lascerà cooptare?

Ritratto del movimento

“La tradizione delle generazioni passate pesa come un incubo sullo spirito dei vivi” , scriveva Marx. Per il movimento operaio giapponese l’incubo è l’eredità delle sconfitte degli anni Settanta. Non è questa la sede per ripercorrere quelle vicende, ma alcuni cenni sono indispensabili per capire il movimento attuale. La dura repressione degli anni Trenta/Quaranta, seguita dalla purghe anticomuniste ispirata dagli Stati Uniti, aveva privato la “nuova sinistra” degli anni Sessanta di tradizioni , di continuità, di legami con il movimento operaio, che le avrebbe permesso di mantenere il senso di realtà. Di conseguenza, e tragicamente, la grande sollevazione della gioventù nel corso degli anni Settanta finì sprecata, quando i militanti favorevoli al socialismo caddero nell’ultra-sinistra (e talvolta nel terrorismo), in guerre tra organizzazioni dell’estrema sinistra e nella glorificazione della violenza. L’intensificazione della repressione statale produsse nella sinistra una cultura dello scontro e i diversi gruppi che si pretendevano socialisti continuarono ad affrontarsi, gli uni contro gli altri, fino alla fine degli anni Ottanta, causando la morte di più di cento militanti, uccisi da altri socialisti. Esistono ancora gruppi settari e criminali e le loro pose hanno contribuito a screditare contemporaneamente le proteste e le pratiche socialiste in settori importanti della classe operaia giapponese. Questa eredità di amarezze e rimpianti pesa moltissimo ancora oggi.

Per questo motivo, alcuni aspetti tra i più radicali possono sembrare meno audaci di quanto non lo siano in realtà, agli occhi di un osservatore occidentale: non ci sono stati scontri su vasta scala, moti di protesta paragonabili a quelli degli studenti britannici di Milliband Tower, o dei lavoratori greci impegnati in scontri durissimi con la polizia. Ma, nel caso del Giappone, il fatto che lavoratori comuni scendano in piazza segna un salto qualitativo nella coscienza popolare. È il carattere di massa di queste manifestazioni che conta. Se non si può parlare ancora di una radicalizzazione di massa in Giappone, cionondimeno si assiste a un processo di politicizzazione generalizzata. “Normalmente non partecipo alle manifestazioni, ma poiché sono contro il nucleare, ho pensato di venirci, giusto per dare un’occhiata”, ha detto una donna agli organizzatori di una manifestazione a Kyōto. Rendendo normale la partecipazione a movimenti di protesta, il movimento può sperare di espandersi anche in altri settori. Il foglio socialista rivoluzionario “Kakehashi” ha evidenziato una serie di temi politici generali che questo movimento ha già sollevato. A tal proposito cita uno studente che ha partecipato alle manifestazioni davanti alla sede del Parlamento: “Vogliamo che il governo dica a noi, a noi giovani, la verità. Vogliamo avere il diritto di decidere che fare delle centrali nucleari”.

La “tradizione delle generazioni passate” pesa ancora molto sul movimento. Numerosi organizzatori delle manifestazioni hanno tenuto a sottolineare il carattere apolitico del loro movimento, chiedendo ai partecipanti di non portare bandiere o altri segni di identificazione di organizzazioni alle manifestazioni contro il nucleare. Alcuni organizzatori hanno varcato il limite imposto dal loro ruolo, sottolineando le relazioni di amicizia con la polizia, inchinandosi al cospetto dei poliziotti e ringraziandoli per il loro duro lavoro alla fine delle manifestazioni. E anche se la grande maggioranza dei manifestanti era composta da lavoratori, sono state celebrità, personalità note, e delle classi medie, non i sindacalisti, che hanno preso la testa di queste manifestazioni e hanno assolto a compiti mediatici.

Il movimento contro il nucleare è composto principalmente da due raggruppamenti principali:

Sayōnara Genpatsu Assenmannin Akushon (Addio energia nucleare – dieci milioni di persone in azione), una coalizione ampia di gruppi di azione più vecchi, di intellettuali e scrittori, di cui Ōe Kenzaburō è il più conosciuto.
La Coalizione metropolitana contro il nucleare, una formazione composta da un maggior numero di giovani e più recente.

Benché quest’ultima abbia un’immagine più radicale e mostri una maggiore energia giovanile, entrambe hanno contribuito alla riuscita delle mobilitazioni di massa, sostenendosi a forze sociali simili e a sentimenti analoghi.
Le differenze tra le due coalizioni forniscono indizi circa le prospettive di sviluppo delle lotte e delle forze politiche e sociali che vi prendono parte. La grande manifestazione a Yoyogi-Uehara, organizzato tra gli altri da Ōe Kenzaburō, aveva visto la partecipazione di persone decisamente più anziane rispetto a quelle organizzate davanti alla residenza del Primo Ministro. Ci sono diversi strati nel movimento. Sayōnara Genpatsu Assenmannin Akushon mette insieme un certo numero di persone della generazione degli anni Sessanta e membri della “vecchia” nuova sinistra, mentre la Coalizione metropolitana contro il nucleare e gli altri nascenti gruppi non allineati, raggruppa giovani militanti aperti a diversi programmi e analisi politiche. La maggior parte di questi ultimi non aveva mai partecipato a manifestazioni prima di allora.

L’avversione di questo movimento per la politica potrebbe avere delle conseguenze importanti per il futuro. Quando il governo proseguirà nei suoi piani volti a alla riattivazione dei reattori e all’affermazione dell’industria nucleare come parte integrante del capitalismo giapponese, le questioni politiche, di strategia e analisi si faranno impellenti. C’è uno scarto enorme tra i desideri politici che il movimento contro il nucleare pone e le forze politiche organizzate in grado di realizzare questi desideri. Per alcuni anni del decennio precedente, il Partito Comunista Giapponese ha conosciuto un boom di adesioni e di simpatia tra i giovani e sembrava che potesse vivere un rinnovo generazionale. Tutto ciò però non si è mai tradotto in un successo elettorale e, d’altro canto, le strutture del partito restano insensibili e moribonde.

È troppo presto per scartare una ricaduta organizzativa emersa dal movimento, sebbene i militanti per il socialismo abbiano l’opportunità di rivolgersi a settori ben più ampli che nel passato e molto più dinamici rispetto ai decenni precedenti. Molti hanno la netta sensazione che sia un’opportunità da cogliere al volo: durante una manifestazione del venerdì il manifestante Okada Naoki ha dichiarato al “Mainichi Shinbun”: “Se vogliamo sbarazzarci di loro, questo è il momento giusto… ci è voluto appena qualche mese perché il Giappone chiudesse i reattori operativi, allora perché dovremmo rimetterli in moto? (…) Ho voluto battere il ferro finché ancora era caldo, quando tutti sono determinati, per non far scappare questo momento di unità.”

Alcuni dirigenti del movimento sono coscienti dei suoi limiti e già stanno provando a superarli. Una chiarificazione politica diviene possibile allor quando i militanti comprendono la propria forza potenziale. Ad esempio Amiyama Karin è diventata famosa in Giappone come cantante punk ultranazionalista e di destra ma nel corso degli anni si è radicalizzata a sinistra e ora è una portavoce del movimento antinucleare. Ha espresso chiaramente il suo nuovo orientamento politico in un discorso tenuto in occasione di una manifestazione di massa: “Il modo in cui i media parlano di noi è cambiato. È nata una nuova coscienza di democrazia diretta. È tempo di cambiare la storia. Dalla fine di marzo abbiamo organizzato dei sit-in settimanali davanti alla residenza del Primo Ministro. Il numero dei partecipanti è andato via via crescendo e ora siamo un movimento sociale. Guadagniamo terreno…”.

La sfida per la sinistra socialista giapponese è costruirsi sulla base di questa “determinazione unitaria per non perdere questa opportunità”.

Progressi ideologici

La connessione tra crisi economica e crisi ecologica costituiscono un modo di giungervi (ad una chiarificazione politica n.d.t.). Secondo Iwahashu Makoto, del sindacato indipendente Posse, la catastrofe ha favorito una rottura con le idee propizie alla classe dominante e ha dato alle idee anticapitaliste la possibilità di un ascolto più ampio: “La catastrofe ha causato danni incalcolabili ma ci offre anche un’opportunità. Sinora l’idea di “responsabilità di ciascuno” è stata dominante in Giappone. In altre parole, l’assistenza sociale non era considerata come il risultato della povertà, ma come un problema dei poveri stessi e delle loro scelte. Attualmente circa 2,05 milioni di persone godono di assistenza sociale. Si tratta di un record. Tuttavia ciò non è considerato come risultato della povertà strutturale della società, e anche coloro che beneficiano di assistenza hanno interiorizzato l’idea che sia una colpa loro propria. La denigrazione dei beneficiari prosegue anche dopo il sisma. Il nostro punto di partenza deve essere la lotta contro questa idea egemonica che impregna la società giapponese.”

“Se si svilupperà questo tipo di presa di coscienza, saremo in grado di trarre vantaggio dalla situazione politica prodotta dal tremore della terra. Per la prima volta in Giappone tutti possono rendersi conto che molte persone si sono impoverite a causa di circostanze totalmente indipendenti dalla propria volontà e non per le loro azioni. Sono vittime. Ma per quanto straordinario sia, il terremoto non è il solo fattore ad aver sprofondato queste persone nella povertà: ha messo in luce problemi strutturali più profondi del capitalismo giapponese.”

Riguardo alla questione delle vittime, attualmente stiamo costruendo un movimento per chiedere un livello di vita dignitoso. Vogliamo legare questo tema con la lotta contro il neoliberismo e il capitalismo. Pensiamo che la soluzione dei problemi delle aree colpite dalla catastrofe sia un aspetto importante della lotta contro l’attuale egemonia antisociale secondo cui i poveri sarebbero i soli responsabili della situazioni in cui si trovano”.

Alcuni segnali indicano che una critica sociale più ampia comincia a manifestarsi. Il settimanale socialista rivoluzionario Kakehashi ha descritto la manifestazione dell’ottobre 2012 nel Parco di Hibiya come un passo in avanti verso il cambiamento e per una “politica di dignità”.

Che fare?

Non siamo nella posizione, dall’esterno, di dare consigli tattici ai nostri amici e compagni del movimento giapponese contro il nucleare. Il movimento sta mobilitando una generazione nuova che sta costruendo la sua propria tradizione, cercando autonomamente domande e risposte. Bisogna di nuovo apprendere parzialmente le vecchie lezioni ma è sperimentando la costruzione del movimento che la nuova generazione potrà prendere fiducia per sfidare le autorità e i poteri esistenti.

La posta in gioco è importante. La contaminazione della regione di Fukushima ha causato trasferimenti della popolazione, distruzioni materiali e danni alla salute dei lavoratori per molti anni a venire, addirittura decenni. Ciò nonostante la classe dominante giapponese ha affermato chiaramente che manterrà l’industria nucleare. La Tepco, che resterà nella storia per il suo mancato rispetto delle norme di sicurezza, non ha dato alcun segnale di voler agire altrimenti. Tutti i problemi del capitalismo giapponese persistono. Si tratta dunque di un movimento che deve vincere.

Ciò che i militanti fuori dal Paese possono osservare, è la rinascita di una battaglia ideologica in seno alla sinistra giapponese, cui devono prendere parte. Il movimento ha aperto uno spazio di dibattito su tutta una serie di temi, a cominciare dai limiti dell’ideologia dominante della “responsabilità”, fino alla centralità potenziale della classe operaia, e ha ridato fiducia ai militanti storici affinché si rinnovino insieme alle nuove forze sociali e ai giovani lavoratori.

Una lenta impazienza

I veterani, come Kunitomi Kenji e i suoi compagni della Lega Comunista Rivoluzionaria e del Consiglio nazionale dei lavoratori internazionalisti, che hanno mantenuto una tradizione di auto-emancipazione della classe operaia e attraversato la repressione degli anno Settanta, i disastri settari degli anni Ottanta e il vuoto politico degli anni Novanta, sono oggi parte di un movimento che sta mobilitando decine di migliaia di persone che non erano mai state attive prima.

Le sfide sono tutte là davanti. Il movimento dovrà affrontare una dura opposizione della classe dirigente e dovrà superare le proprie ambiguità e confusioni politiche nel corso dello scontro. Avremo tutti da imparare da questa esperienza.

Uno dei manifestanti, interrogato da “Akahata” davanti alla sede del Primo Ministro, ha spiegato chiaramente ciò che ci aspetta: “Se ci fermiamo ora, non raggiungeremo mai il nostro obiettivo”.


7 ottobre 2013

Traduzione dal francese di Antonello Zecca


Douglas McNeil (militante del Socialist Alternative in Australia, organizzazione con lo status di osservatore permanente presso la IV Internazionale. L’articolo è stato pubblicato dalla Marxist Left Review, rivista dell’organizzazione australiana: www.marxistleftreview.org . Per redigere questo articolo l’autore ha beneficiato dei commenti di David McNeill e Kunitomi Kenji della direzione della Lega Comunista Rivoluzionaria del Giappone e della relazione di Matsumoto Chie presentata al seminario Marxism 2012 a Melbourne, in Australia). 



dal sito  Sinistra Anticapitalista



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