EBOLA E ALTRI VIRUS
di Antonio Moscato
L’allarme suscitato dalla diffusione del virus Ebola ha solo pochi punti di contatto con quello per l’influenza aviaria del 2006, che comportò nel solo 2009 una spesa inutile di oltre due miliardi e mezzo di euro per l’acquisto da parte di vari governi del Tamiflu, un farmaco inutile spacciato per miracoloso (“un finto antidoto per una finta pandemia”).
Questa volta il pericolo c’è davvero, ed è molto difficile che si riesca a bloccare la diffusione al di fuori dell’area in cui si è manifestata l’epidemia. Le ragioni sono molteplici: la ricerca di farmaci e antidoti non è stata praticamente avviata dalle grandi case farmaceutiche o dall’OMS finché le prime manifestazioni del male erano circoscritte a poveri villaggi isolati nelle foreste equatoriali. Le morti in quelle aree dell’Africa d’altra parte spesso non venivano neppure registrate, o venivano confuse con quelle abituali per denutrizione, scarsa resistenza a malattie altrove curabili. In ogni caso non facevano notizia e non c’era preoccupazione per possibili contagi fuori da quel continente.
La nuova esplosione (dopo la prima del 1976 registrata nello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo) ha investito medi e grandi agglomerati urbani di Guinea, Liberia, Sierra Leone, ed ha fatto capolino anche in Nigeria e Senegal. E non poteva non sfiorare Stati Uniti ed Europa (anche se per ora solo la Spagna) che hanno frequenti collegamenti aerei con i paesi africani colpiti: affaristi, industriali, missionari, membri di ONG più o meno umanitarie, militari. Ma su questo ritornerò. E non possono facilmente interromperli, perché dall’Africa arrivano minerali preziosi e materie prime di ogni genere. Ma utilizzeranno probabilmente l’epidemia per porre nuove barriere alla libera circolazione degli esseri umani.
I primi casi provenienti dalla zona di massima diffusione del male scoperti in Europa o negli Stati Uniti sono stati identificati con un certo ritardo, e hanno potuto trasmettere il virus a familiari o al personale sanitario che aveva fornito le prime cure senza essere in grado di evitare il contagio. Questo è ovviamente in gran parte evitabile in futuro, a mano a mano che si diffonde la consapevolezza del pericolo e la conoscenza dei sintomi e delle misure necessarie. Ma non del tutto, soprattutto se l’epidemia si diffonde anche soltanto ai ritmi attuali (che secondo un organo statunitense porterebbero già agli inizi del 2015 a un milione e mezzo di persone colpite). Ed è difficile intervenire in loco, dove da decenni manca tutto: non solo gli “scafandri” gialli esibiti dalle riprese televisive, ma perfino i guanti usa e getta, o più semplicemente l’acqua corrente non infetta.
Intanto l’allarme per l’epidemia è stato usato per inviare altri 3.000 marines in Liberia, che non serviranno a nulla ai fini sanitari, e comunque non correranno nessun rischio, isolati come saranno dalla popolazione locale e alimentati con prodotti e acqua rigorosamente provenienti dalla madrepatria. Ma serviranno se sarà necessario intervenire, in Liberia o in altri paesi limitrofi, per “tutelare l’ordine pubblico”. Bell’ordine!
Su questo argomento segnalo due belle pagine centrali del Manifesto di oggi, con un lungo articolo informativo di Nicoletta Dentice e un intervento di Raffaele K. Salinari, oltre a vari articoli, tra cui uno di Geraldina Colotti, che sottolinea giustamente l’impegno sanitario di Cuba, che ha mandato 167 tra medici e infermieri specializzati particolarmente preparati per affrontare il virus, che si aggiungono ai 4.000 già presenti in diversi paesi dell’Africa (mentre altri 15.000 giovani del settore sanitario si sono offerti volontari). Un aiuto dal senso diametralmente e opposto alla presenza militare statunitense (e francese in altri paesi africani).
Ma anche questo aiuto ben mirato è comunque soltanto una goccia in un mare di povertà e desolazione dovuto alla distruzione del sistema sanitario che era stato sviluppato in gran parte dei paesi negli anni immediatamente successivi alla decolonizzazione e che è stato poi distrutto in base ai dettami di FMI e BM.
I paesi imperialisti occidentali non possono rinunciare allo sfruttamento delle risorse dell’Africa, usandola per giunta come discarica a basso costo: tanto più ora che devono fare i conti con la concorrenza della Cina. E sarà difficile fermarli per invertire il corso che ha portato allo sfacelo attuale. La grande ondata della decolonizzazione è stata dispersa e sconfitta non solo per gli interventi diretti o indiretti dei paesi imperialisti (dal Congo alla Somalia, dall’Angola alla Libia) ma anche per l’appoggio dato dai paesi “socialisti” a regimi più che discutibili. Ora pagheremo tutti questo regresso di una parte importante del mondo a condizioni medievali, con lazzaretti difesi a mano armata. Ma senza che questo riesca a bloccare al loro interno l’epidemia.
C’è qualche analogia tra questa tragedia e quella della diffusione del cosiddetto “Stato islamico” che sta reclutando dal Marocco al Pakistan, alle disperate periferie di Londra, Parigi e Milano. Frutto di una politica dissennata che viene da lontano (la creazione di Stati artificiali, la negazione del diritto di interi popoli ad uno Stato) e che ha bruciato e sconfitto tutti i movimenti di liberazione, a partire da quello palestinese, che era stato per anni un punto di riferimento per molti: indisturbata Israele ha sputato sulla moderazione di Arafat, ha umiliato i suoi penosi continuatori, ha tentato con successo di schiacciare Gaza in uno scontro paurosamente asimmetrico, che Hamas ha creduto di poter affrontare sul piano puramente militare, pensando di vincere sopravvivendo in qualche modo e a qualunque costo. Intanto gli alleati più o meno aperti di Stati Uniti e Israele giocavano col fuoco finanziando integralisti e mercenari di ogni genere, e schiacciavano il movimento democratico nel Bahrein, in Egitto e in molti altri paesi. Intanto lo Stato di Israele e gli USA davano l’esempio degli assassinii mirati, e l’Arabia Saudita delle decapitazioni in piazza…
Bruciata ogni speranza, unica alternativa ai movimenti sconfitti e agli oppressori appariva l’efficientissimo esercito dalle bandiere nere che poteva reclutare facilmente disperati in Iraq, in Siria, in Cecenia e in tutto il mondo islamico, mentre svolgeva contemporaneamente qualche basso servizio ben retribuito alla Turchia, ossessionata dalla tenacia della resistenza secolare dei curdi.
È proprio vero: bruciata ogni prospettiva di rivoluzione, resta solo la barbarie. E, come di fronte a Ebola, i confini non reggeranno: ce la troveremo presto in casa…
8 Ottobre 2014
dal sito Movimento Operaio
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