di Fabrizio Burattini
La vicenda portata alla luce dall’inchiesta della Procura di Roma sul malaffare della capitale sta scuotendo il mondo politico cittadino e nazionale. Sembra che tutti cadano dalle nuvole.
Certo, solo chi possiede poteri e strumenti di indagine può accertare la dimensione e la gravità dei fatti prodottisi nella vita civile della metropoli, le specifiche responsabilità personali di ciascuna dei coinvolti, ma si può tranquillamente affermare che esistevano già tutti gli elementi per capire che nel sottobosco del comune più grande d’Italia, cioè di una delle più grandi stazioni appaltanti del paese più corrotto d’Europa, di uno dei principali centri di spesa del paese, si verificavano fatti che avrebbero dovuto insospettire e mettere in allarme chiunque fosse stato effettivamente mosso dalla preoccupazione di tutelare l’interesse pubblico.
Il semplice fatto che la più importante cooperativa fornitrice di servizi per conto del comune di Roma e di numerosi altri enti pubblici, la “29 giugno”, sovvenzionasse lautamente tutte le forze politiche romane, dall’estrema destra fino a SEL e a Rifondazione, non può essere tranquillamente spiegato affermando che queste cifre sarebbero state versate legittimamente e nel pieno rispetto delle regole di bilancio. Anzi, questa “trasparenza” dovrebbe costituire un’aggravante.
Se qualcuno finanzia tutti i partiti e lo dichiara pubblicamente, evidentemente non lo fa per passione politica (che è necessariamente di parte). Se spende cifre, peraltro ingenti, per sostenere i partiti dell’attuale maggioranza comunale, ma anche quelli delle maggioranze passate e di quelle future, e se questo “qualcuno” è l’azienda che beneficia dell’affidamento di un ingentissimo numero di appalti comunali, la cosa non può che insospettire, anzi, non può che costituire un fortissimo indizio di un sistema di appalti, appunto, tutt’altro che basato sulla regolarità delle gare.
E, poi, perché meravigliarsi della immonda commistione di ex “comunisti” con nazifascisti in servizio permanente effettivo, quando a Roma (e non solo) la regola degli ultimi decenni è stata quella di manager e dirigenti comunali che senza pudore mantenevano la poltrona (e gli emolumenti) passando dalla gestione di importanti incarichi nelle amministrazioni Rutelli e Veltroni a quella di Alemanno per tornare senza battere ciglio a quella Marino. Cioè galleggiando su un sistema d’affari e di potere che restava al di là di ogni cambio di maggioranza politica.
Certo, il fatto che il vertice della Fasciomafia romana fosse impersonato da un noto nazista, noto a chi vive nell’imprenditoria della capitale, la dice lunga sullo spessore morale dei capitalisti della capitale.
Se gli indizi sono questi, e se questi indizi costituiscono un elemento che non poteva non allarmare ogni persona dotata di buon senso, come mai tutti i principali politici, Marino, Bonafè, lo stesso Renzi non hanno fatto di tutto per tenersi alla larga dai principali dirigenti di questa cooperativa, per non rischiare di restare invischiati al momento in cui gli indizi fossero diventati (come sono diventati) accuse concrete e circostanziate, talmente gravi da configurare una situazione “fascio mafiosa”?
E lo stesso ministro del Lavoro Giuliano Poletti, fedelissimo di Renzi, come mai è andato a presiedere l’assemblea della Cooperativa nella quale viene presentato il bilancio del 2013, proprio quel bilancio da cui risulta quell’inquietante finanziamento a tutti i partiti? Perché Renzi cade dalle nuvole quando gli chiedono come mai alcuni dei dirigenti incriminati avessero partecipato alle sue cene elettorali di “autofinanziamento”?
E come non sospettare di una cooperativa che vince a mani basse decine e decine di gare d’appalto al massimo ribasso, che nello stesso tempo dichiara sovente di non avere fondi per coprire le spese di messa a norma degli ambienti di lavoro secondo le leggi sulla sicurezza, che a volte non applica neanche i già miserevoli contratti nazionali di lavoro ai propri dipendenti, e poi trova i fondi per sostenere lautamente la politica di destra e quella di “sinistra”?
Certamente nel panorama delle cooperative (“rosse”, verdi o bianche che esse siano) continuano ad esistere società che, nella giungla dell’economia attuale, cercano faticosamente di continuare ad applicare le norme e i comportamenti basati sul codice cooperativistico. Sono note tante cooperative che tanti operai ex dipendenti di società messe in liquidazione sono stati costretti a fondare per continuare ad avere un qualche reddito per mantenere sé e la propria famiglia.
Ma non so fino a quando siano esistite nel corso degli oltre 150 anni di storia del movimento cooperativo società che rispecchino l’identità prescritta dalla dichiarazione dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (“Una cooperativa è un’associazione autonoma di individui che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali e le proprie aspirazioni attraverso la creazione di una società di proprietà comune e democraticamente controllata”).
Quello che mi sento di poter affermare che oggi una tale identità non è riscontrabile in nessuno dei soggetti più importanti del movimento cooperativistico.
La Coop 29 giugno si vanta di avere 1.200 dipendenti e un fatturato di 60 milioni di euro. Ma, in realtà, questa soglia dimensionale è già di per sé un macigno sulla via dell’applicazione dello spirito del movimento cooperativo. La “29 giugno” infatti è di una vera e propria holding, nella quale è materialmente impossibile poter parlare di “proprietà comune” o di “controllo democratico”.
(l’illustrazione dà un’idea della complessità dello schema societario. Fonte: Bilancio 2013 Coop 29 giugno.)
Peraltro questa azienda non ha più da tempo un’esclusiva dimensione romana. In particolare per intervenire e lucrare sulla “emergenza migranti” (che Buzzi affermava essere “più redditizia del traffico di droga”) ha costituito una coop affiliata (la Eriches 29) che gestisce numerose strutture di “accoglienza” sparse in tutto il paese, compresa la Sicilia.
Ma esistono coop anche molto più grandi della “29 giugno”, come la CNS-Consorzio nazionale servizi (686 milioni di fatturato), o la Manutencoop (con poco meno di 20.000 dipendenti, quasi raddoppiati negli ultimi 10 anni).
Lo stesso accade nei colossi cooperativi delle costruzioni o della grande distribuzione, veri e propri potentati dell’edilizia e del commercio con meccanismi di funzionamento non dissimili dalle grandi imprese private, e spesso proprio identici.
Tante aziende si sono costituite in cooperative solo per usufruire dei vantaggi fiscali e contributivi, che le leggi consentono a tali forme societarie, e per poter consentire ai propri padroni (definiti soci presidenti o amministratori) di non essere patrimonialmente responsabili di fronte agli esiti dell’impresa, pur restando destinatari di benefici non dissimili da quelli del management delle società per azioni.
Un altro vantaggio (tipico peraltro delle coop “sociali”) è quello di poter sfruttare il senso di dedizione al proprio lavoro tipico degli operatori che lavorano a contatto con settori sociali disagiati o estremamente disagiati (anziani, malati, portatori di handicap, detenuti, immigrati, rom…). Questi lavoratori, per il loro senso di dedizione e per un senso di responsabilità nei confronti dei “soggetti” della propria attività, sono spinti ad accettare retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali, operare con orari fuori di ogni regola, ricevere il salario con forti ritardi, sottoporsi a forme contrattuali di estrema precarietà…
Certo, con ciò non vogliamo accusare il complesso delle cooperative sociali delle medesime nefandezze che i giudici attribuiscono ai vertici della “29 giugno”. Resta però che quello che, perché non statalizzato, ma neanche sottoposto alle leggi del mercato, è stato definito il “terzo settore” è un iceberg in cui molto spesso si uniscono i più beceri meccanismi di mercato con le più esecrabili connivenze con il sottobosco politico. Non a caso a questo “terzo settore” vengono ascritte perfino le fondazioni bancarie).
D’altra parte, le coop (in particolare quelle “rosse”, ma tutti ricorderanno le analoghe vicende della “Compagnia delle opere” legata a Comunione e liberazione) sono intrinsecamente legate al mondo politico. I dirigenti della Lega Coop sono (quasi) tutti ex militanti di sinistra (a volte perfino di estrema sinistra, come l’ormai tristemente noto Salvatore Buzzi), con legami solidi (e consolidati dai finanziamenti più o meno trasparenti) con le varie anime del PD.
Non è un caso se le cooperative “sociali” negli ultimi decenni hanno visto un boom del numero di addetti, passati dai 27.510 del censimento del 1991 ai 149.147 del 2001, ai 320.513 del 2011, con una crescita impetuosa (peraltro propria di tutta la cooperazione e non solo di quella destinata ad attività “no profit”). E’ un trend che, seppure in mancanza di dati ufficiali, è continuato anche in questi ultimi anni di crisi, in forte controtendenza rispetto a tutti gli altri indicatori economici.
In realtà, molte cooperative risultano essere il frutto di diffusi processi di esternalizzazione e di terziarizzazione, che hanno smagrito la dimensione di tantissime aziende e enti pubblici e privati, con l’affidamento di settori di attività (ritenuti non core business), come mense, pulizie, portierato, vigilanza, centralini, call center, ecc. a soggetti esterni, costringendo molto spesso gli ex addetti interni per potersi garantire una qualche continuità lavorativa a costituirsi in cooperativa, magari poi affidata ad un ex manager della società.
A rendere ancora più inquietante questa realtà è il comportamento dei grandi sindacati e della stessa Cgil, che, salvo poche encomiabili eccezioni, hanno mantenuto fino a pochi anni fa un atteggiamento benevolo e perfino connivente con le centrali cooperative (ogni confederazione con quella di riferimento). Solo negli ultimi anni i sindacati sono stati costretti a prendere qualche pur insufficiente distanza dalle centrali cooperative, di fronte ad una degenerazione sempre più smaccata di quella forma societaria e del management cooperativistico, che a volte ha assunto atteggiamenti antioperai che non avevano nulla da invidiare a Confindustria.
Il fatto che la losca vicenda di Mafia Capitale sia stata individuata e portata alla luce dalla magistratura romana non significa che il fenomeno possa circoscriversi solo a questa città. Certo, la vicenda ha una dimensione in scala con quella della metropoli, ma potrebbe valere la pena indagare per capire se non esistano tante mafie comunali in tanti comuni grandi e piccoli.
dal sito Sinistra Anticapitalista
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
I TENTACOLI DELLA PIOVRA
RispondiEliminaLa Mafia organizzazione ormai obsoleta serve da manovalanza alla Mafia Moderna che guida L’ECONOMIA
LE BANCHE sono il quartier Generale da cui gestiscono il Potere
Senza spargimenti di sangue sono arrivati a ricoprire cariche Istituzionali
nei Governi ed in parte anche nella Magistratura.
Vi siete chiesti perché In questi ultimi anni la lotta alla Mafia si è intensificata?
Semplice serve a prendere due piccioni con una fava
1° a ristabilire l’ordine all’interno della vecchia mafia che serve loro per fare i lavori sporchi
2° a gettare fumo negli occhi al Popolo beota.
Facciamo capire a questi signori una volta per tutte
Che i poteri li dà in gestione il Popolo a chi Governa col suo voto
Per fare l’interesse del Popolo e non quello delle lobby mafiose. Vittorio.A