I NOVE PASSI PER RIPUDIARE IL DEBITO PUBBLICO
di Guido Viale,
Sinistra europea. La tenuta del progetto di «rinegoziazione radicale» lanciato da Syriza (e dell’Altra Europa) è l’unica chiave per superare la crisi devastante dell’eurozona. Uscire dalla moneta unica come vogliono Salvini e Le Pen, infatti, massacrerebbe soprattutto lavoratori e famiglie
La rinegoziazione radicale dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in difficoltà, inclusa da tempo nel programma di Syriza e condivisa dall’Altra Europa, presenta risvolti complessi e delicati che vanno affrontati anche in sede tecnica: per prevederne le conseguenze macroeconomiche più dirompenti e cercare di prevenirle; ma soprattutto per proteggere i piccoli risparmiatori.
Nell’affrontare questi problemi occorre mettere però al primo posto la «politica» e non l’«economia», le scelte che possono orientare il conflitto sociale e non l’idea che il sistema possa continuare o addirittura riprendere a funzionare come sempre.
Siamo di fonte o alla vigilia di una grande rottura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsipras. Per questo, prima di entrare negli ineludibili aspetti tecnici è opportuno fissare alcuni punti di carattere generale.
1. I debiti pubblici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Grecia e Italia, ma non solo, sono insostenibili. Quale che sia lo spread, gli interessi da pagare sono tali che divorano le risorse senza consentire, non solo una «crescita» duratura, ma nemmeno il livello di attività economica raggiunto in passato. Per non parlare della restituzione di una parte consistente del debito, come previsto dal fiscal compact, di cui non a caso nessuno parla più — in realtà gli economisti ne hanno sempre parlato il meno possibile e nessuno ha ancora esibito un calcolo attendibile sul tasso (astronomico) di crescita necessario per rispettarlo: cioè per riportare in 20 anni il debito al 60 % del Pil.
2. La crisi greca non fa che portare alla luce questo dato. L’intervento della Trojka (Bce, Fmi e Commissione europea) ha già comportato — bisogna ricordarlo a chi si lascia spaventare dalle parole — ben due default, per quanto «pilotati»; ma giunto al suo termine programmato, era chiaro, sia al governo greco che alla Trojka, che nessun problema era stato risolto; e nemmeno affrontato seriamente. Il presunto ritorno della Grecia a una crescita, peraltro irrisoria, è solo — come ha dimostrato l’economista greco Jannis Milios sul manifesto del 30.12 — l’effetto di un’illusione contabile.
Il premier greco Samaras ha così cercato di aggirare la resa dei conti con una mossa politica, anticipando le elezioni e sperando di prendere in contropiede Syriza, soprattutto per non rispondere – e per permettere alla Trojka di non rispondere – di questo fallimento.
3. A livello macroeconomico i problemi che si troverà di fronte Syriza, se andrà al governo, sono gli stessi che si sarebbe trovato di fronte Samaras a febbraio. L’insostenibilità del debito greco sarebbe comunque emersa, con gli stessi effetti dirompenti che tutti si aspettano da un governo Tsipras; effetti che non derivano tanto dalle dimensioni del debito greco, complessivamente ridotte rispetto al Pil dell’eurozona, ma dal fatto di mettere in evidenza l’insostenibilità di tanti altri debiti, a partire da quello italiano, assai più consistenti.
Ora la probabile vittoria di Syriza obbliga tutti i giocatori di questa partita a scoprire le loro carte.
4. Carte che però non ci sono. Debiti e politiche di austerity sono gestiti da un personale che, in tutte le sue articolazioni — finanziarie, amministrative e politiche (partiti, sindacati e associazioni imprenditoriali) — non ha la cultura per elaborare delle alternative (un «piano B») al disastro provocato dalla strada imboccata: «Non c’è alternativa», diceva la Thatcher. Juncker e il suo piano da 300 miliardi fantasma ne sono la manifestazione più evidente.
Le misure di sostegno attivate, comprese quelle preannunciate da Draghi, non fanno che liberare le banche francesi, tedesche e inglesi dai crediti incagliati, trasferendone l’onere sia sulle banche dei paesi più a rischio (che hanno usato i fondi della Bce per rilevare una parte del debito detenuto all’estero), sia direttamente, su Bce e fondo salvastati.
Manca qualsiasi idea seria su come sostenere occupazione (che non dipende certo dalle cosiddette «riforme», cioè dalla precarizzazione del lavoro) e investimenti (sostenibili solo se destinati alla conversione ecologica — cosa che richiede una forte iniziativa a livello locale — e non, come si pensa di fare, a Grandi Opere, che disperdono risorse, devastano territori, opprimono le popolazioni e producono mafia e corruzione).
5. In queste condizioni la deflagrazione dell’euro – anche a prescindere dalle questioni più gravi che premono ai confini della «fortezza Europa» — belligeranze senza più frontiere, crisi ambientale, ritorno alla guerra fredda e milioni di profughi — è solo questione di tempo. Ma le sue conseguenze sarebbero certamente più gravi di alcuni default pilotati, come quelli che potrebbero venir decisi nella conferenza sul debito proposta da Syriza. È poi inutile ripetere che l’«uscita dall’euro» predicata da Grillo, Salvini, Marine Le Pen e Alternative für Deutschland non è una soluzione: provocherebbe, a catena, altrettanto sconquasso nei singoli stati e una corsa generalizzata alle svalutazioni competitive da cui lavoratori e famiglie ricaverebbero solo bastonate.
Diverso è il caso dell’eventuale introduzione di monete alternative locali non convertibili, o dei certificati di credito fiscale proposti da Ruffolo e Sylos Labini, per sostenere la domanda: potrebbero far fronte alle esigenze più impellenti.
6. La proposta di Syriza ha comunque il duplice merito di mettere all’ordine del giorno il problema della sostenibilità dell’euro nei suoi termini reali e di prospettare una via per affrontarlo. Naturalmente, per andare a buon fine, dovrà trovare adeguato sostegno sia dalle forze politiche — innanzitutto da quelle della Gue che ne hanno condiviso il programma, a partire dalla tedesca Die Linke, il cui ruolo è per questo strategico – sia dalle forze sociali che si stanno mobilitando contro l’austerità.
7. L’obiettivo di una ristrutturazione del debito pubblico italiano va inserito e sostenuto in questo contesto. È compito delle forze che lo condividono tradurlo in misure praticabili e renderlo comprensibile e accettabile distinguendo la difesa del piccolo risparmio dal disarmo delle istituzioni finanziarie nazionali ed estere responsabili delle attività speculative che hanno messo alle corde molti Stati.
Non è cosa facile: anche se il valore dei titoli di stato in mano ai risparmiatori italiani è ridotto (non supera i 200 miliardi), molte altre forme di risparmio – fondi, assicurazioni e previdenza integrativa – dipendono da investimenti in questi titoli. Per questo occorre esigere la separazione delle funzioni, non solo tra banche commerciali e banche di investimento, ma anche tra l’allocazione del debito pubblico su varie forme di risparmio minuto e le operazioni speculative fatte in proprio da fondi e banche d’affari.
8. Tutto ciò rende urgente un confronto sulle soluzioni per ridurre e rendere accattabile il ridimensionamento forzoso dei debiti pubblici.
La più semplice, più volte prospettata, è la mutualizzazione della parte dei debiti degli Stati membri che eccede il 60 per cento dei rispettivi Pil, finanziandola con un piano pluriennale di creazione di nuova moneta (quantitative easing) o con l’emissione di eurobond da parte della Bce. Ciò riporterebbe gli interessi a un livello sostenibile, anche se con la seconda soluzione si lascerebbe comunque tutto il debito pubblico in mano alla finanza privata, perpetuando la scelta di fondo — il «divorzio» tra banca centrale e autorità politica — che ci ha portato in questo caos. Ma contro quelle soluzioni è stato già eretto un muro di no.
Se la prova di forza di un governo greco guidato da Syriza non riuscirà ad abbatterlo, si dovranno cercare altre soluzioni; che vanno comunque tutte in direzione di una rifondazione dell’Unione Europea su basi mutualistiche e solidali.
9. Per aprire la discussione sulla rinegoziazione dei debiti e su questi temi servirebbe un gruppo di lavoro che scavalchi le divisioni tra le diverse componenti delle forze che si oppongono alle politiche di austerità. Sarebbe un primo esempio di una iniziativa unitaria, costruita su temi concreti, ma di portata strategica.
2 gennaio 2015
da Il Manifesto
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