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sabato 29 settembre 2018

L'AREA DELLA RIVOLUZIONE NELL'ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA di Diego Giachetti








L'AREA DELLA RIVOLUZIONE NELL'ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA
di Diego Giachetti



Introduzione

Il biennio ‘68-69 liberò una nuova e potenziale domanda di partecipazione politica connotata però da una critica radicale degli istituti della politica tradizionale, in primo luogo partiti e sindacati. Si creò una situazione caratterizzata da diversi elementi contraddittori e conflittuali. Da un lato mai come allora si manifestò una discrepanza fra l’offerta politica e la domanda di centinaia, forse migliaia di quadri prodotti dal movimento, domanda alla quale corrispondeva: «una dissennata politica di chiusura “a riccio” da parte delle organizzazioni politiche istituzionali della sinistra […] Così mille e mille “piccoli Lenin” si trovarono chiuso ogni sbocco, sia politico che professionale. La FGCI, tradizionale serbatoio e luogo di promozione dei nuovi quadri del PCI, si trovò ridotta (letteralmente) ai figli dei dirigenti del PCI proprio negli anni della massima produzione di quadri giovanili da parte del movimento» (1). Non solo la sinistra istituzionale si chiuse a riccio nei confronti del movimento e delle sue istanze politiche, ma procedette all'emarginazione di quei quadri giovani simpatizzanti del movimento, all'espulsione di una serie di quadri giovanili comunisti in odore di trotskismo alla vigilia del ’68 e, infine, alla radiazione del gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto. D’altro canto però quella domanda politica, proprio alla luce della critica profonda alla quale il movimento aveva sottoposto la politica stessa, difficilmente avrebbe potuto incanalarsi negli istituti partitici e sindacali tradizionali. Quella domanda politica provò quindi a soddisfarsi da sola costituendosi in nuove formazioni e gruppi politici. Un processo simile accadde nelle grandi fabbriche del nord rispetto ai sindacati tradizionali. Anche qui la pressione e le richieste rivendicative dei giovani operai comuni e meridionali, non trovando un’adeguata ricezione e risposta nei sindacati esistenti si risolsero nella costruzione di comitati autonomi, di assemblee operai-studenti costituendo il retroterra sociale dei gruppi extraparlamentari. La tendenza alla costruzione del partito, o meglio di una miriade di piccoli partiti, era quindi l’espressione di un fenomeno «di massa, sociale e, per di più spontanea […] gli ex studenti che negli anni ’70 costruirono i loro partitini lo fecero spinti da un profondo e spontaneo bisogno sociale» (2).


In questa prospettiva i gruppi dell’estrema sinistra non appaiono un accidente storico, un imprevisto sulla retta via della liberazione dalla politica e dalle sue istituzioni, furono il prodotto di un’azione forte indotta dal movimento, furono il tentativo di passare dalla fase della rivolta a quella della rivoluzione. La contestazione giovanile prima e il movimento del ‘68 poi avevano prodotto rivolta intesa come sospensione del tempo storico, avevano cioè sconvolto il normale scorrimento della storia, bloccato e fermato il meccanismo. Il sistema sociale poteva essere scardinato, passando dalla rivolta alla rivoluzione intesa come azione consapevole volta a cambiare le istituzioni politiche, sociali ed economiche. Il soggetto che promuoveva questa tensione trasformatrice erano i giovani: «per la prima volta un fenomeno di quella portata politica e di quelle dimensioni aveva nella generazione giovane, non (come era d’uso anche in molte agitazioni e ribellioni del passato) un settore particolarmente attivo, ma l’intera base sociale» (3). La componente giovanile si presentava sulla scena sociale e politica con i tratti tipici di una generazione estrema. L’estremismo era innanzi tutto un atteggiamento, un modo di porsi verso l’attività politica di cui rifiutava, per varie ragioni e contingenze, la gradualità e la parzialità degli obiettivi, tendeva a non porsi nell'ottica del negoziato, della trattativa, del compromesso con l’avversario. I movimenti e le organizzazioni della nuova sinistra o rivoluzionaria degli anni sessanta e settanta ebbero alcune caratteristiche specifiche quali la base giovanile e generazionale e la radicalità estrema dei comportamenti, lontani dalla possibile sussunzione nella tattica della mediazione politica. Il loro estremismo non stava tanto, o solo, nelle richieste bensì nella maniera di porle e nel modo di essere dei movimenti stessi. L’estremismo era il prodotto di un ambiente sociale e culturale che conduceva a una diagnosi radicale e unilaterale della società; pertanto altrettanto radicale doveva essere il modo di agire rovesciando luoghi comuni consolidati e cercando nuove e inedite strade. Non erano pregiudizialmente rivoluzionari marxisti, poiché non «è il marxismo che crea i radicali», piuttosto «ogni nuova generazione di radicali crea il proprio Marx, [scopre] la propria ideologia in un marxismo eretico» (4). In quel contesto, vivendo esperienze comuni, la generazione giovane scoprì la politica, senza passare per le sezioni di partito, e maturò aspetti tipici della personalità: si formò e costituì cosi il “carattere”, il “modo di essere”, di “fare”, operare, analizzare, giudicare e rapportarsi con gli altri. Erano «arrogantemente, felicemente convinti di avere la vittoria dalla propria parte, di essersi conquistata il diritto alla prima mossa» (5). Erano politicamente intransigenti nell'esprimere le proprie convinzioni, lo facevano non per non per confrontarle e, al limite, modificarle, ma per affermarle contro le altre, volevano conquistare alle proprie tesi più ricercare nuove sintesi attraverso la discussione. Tendevano quindi ad assumere posizioni politiche nette, rifiutavano il compromesso, l’accomodamento, la mediazione. Tendevano ad “ascoltarsi” più che ad ascoltare. Sul piano politico e organizzativo ciò ebbe come conseguenza una crescita plurale, differenziata, fondata su una critica forte, sulla separazione intransigente dagli avversari, compresi anche quelli più vicini culturalmente, politicamente e generazionalmente. Le esperienze che vissero in quel tempo li condusse a fidarsi solo di se stessi. Irriverenti verso i “padri”, decisi a rompere col loro passato e col presente. Agirono nell'ambito del costume, della cultura e della politica, con la forza utopica che vuole l’impossibile, che cerca il nuovo e il meraviglioso in tutte le forme della vita sociale. Per questo, quando la delusione giunse, fu brutale e cocente, destinata ad accompagnare il prosieguo inevitabile della vita di quella generazione. Quell’“attimo” fu sempre con loro, più o meno latente, negli anni che seguirono i quali li costrinsero a misurarsi con la grandezza sproporzionata dei loro propositi, dei disegni pensati e considerati alla portata, e le possibilità reali e concrete che il tempo storico realizzò.





E fu subito repressione

«La violenza il movimento non l’ha inventata né scoperta. La riceve», scrisse Guido Viale (6), sotto forma di repressione da parte delle istituzioni, polizia, carabinieri, magistratura e varie autorità pubbliche che procedono alla denuncia nei loro confronti. La sua generazione quella repressione velata dietro l’autoritarismo, l’aveva già sperimentata, prima del sessantotto, nella forma dell’intolleranza “adulta” verso i nuovi stili di vita dei giovani degli anni sessanta. Ostilità verso i capelloni, verso la minigonna, verso i locali da ballo tipo il Piper club, verso i gruppi musicali beat e rock. Nel ’68 maturò la consapevolezza che quella non era solo una repressione generazionale, ma di classe, degli istituti del potere statale contro la protesta e la proposta. La prima reazione dell’autorità istituzionale appare semplice, banalmente drastica, totalmente impolitica. Fu questa la prima reazione che il movimento ricevette nel confronto sociale che la sua protesta aveva messo in atto. «La resa dei conti» (7), arrivò subito. All'alba del 1 marzo 1968 quando 500 agenti irruppero nell’Ateneo di Torino, sgomberandolo. Furono fermati, condotti in Questura e denunciati a piede libero 21 studenti. Furono emessi 13 mandati di cattura, di cui uno solo eseguito; gli altri dodici, irreperibili, risultarono latitanti. Questi studenti erano i leader delle agitazioni studentesche di quei mesi, la dirigenza del movimento studentesco. La manovra tendente a stroncare la protesta con le denunce e gli arresti, non era conclusa con quei provvedimenti. Il disegno era più generalizzato, l’esempio repressivo investì la “massa” degli studenti che a vario titolo avevano preso parte alla protesta. Il 5 marzo si apprese che erano state notificate 488 denunce contro gli studenti che a vario titolo avevano partecipato alle manifestazioni universitarie. Il 13 marzo Stampa Sera pubblico l’elenco con nomi, cognomi e indirizzo di residenza dei 488 denunciati. I 488 studenti e studentesse elencati per gruppi di reati di cui erano imputati rappresentavano lo spaccato generazionale del movimento studentesco torinese; erano infatti tutti giovani e, dato abbastanza “nuovo” per l’epoca, tra di loro vi era una forte presenza femminile. Le studentesse denunciate erano 172, il 35% del totale, un dato indicativo e nuovo della loro presenza nel movimento. Come scrisse un giornalista de «L’Espresso», scorrendo i nomi, si scopriva che vi erano inclusi, «i figli di una Torino colta, antifascista, le cui famiglie in tempi difficili impararono a stimarsi, spesso rischiarono insieme, dopo s’impegnarono in battaglie parallele e ancor oggi mantengono contatti. Molti di questi ragazzi e ragazze si conobbero bambini, frequentarono le stesse case e si rividero sui banchi di scuola» (8). Questa fu la risposta immediata delle istituzioni a quello che Paolo Spriano, sulle pagine del quotidiano «L’Unità», definiva un « movimento serio la cui spinta democratica e rivoluzionaria era autentica» (9) e che ebbe come risultato la denuncia di ben 2.700 studenti per la mobilitazione all'Università nell'anno 1968 (10). L’anno seguente, quello dell’autunno caldo del 1969, registrò un’altrettanta ondata repressiva che colpì lavoratori e sindacalisti: a gennaio 1970 si contavano 746 arresti e 13.903 denunciati, fra cui 732 dirigenti sindacali, che si aggiungevano a quello dei mesi precedenti (11). Spesso si contestavano tre-quattro reati per uno stesso fatto: la contestazione di reati anche minori (alcuni d’opinione) serviva a far scattare la soglia oltre la quale non era più possibili godere della sospensione condizionale della pena. Con l’intimidazione e le denunce si cercò di porre fine alla protesta studentesca e alle lotte rivendicative dei lavoratori.


Allo stesso modo polizia e carabinieri affrontarono la questione delle nascenti organizzazioni extraparlamentari della nuova sinistra. Secondo i dati forniti dal giornale «Lotta Continua» del 17 febbraio 1971, 72 aderenti all'organizzazione erano in prigione. Il 21 giugno 1971 la legione torinese dell’arma dei carabinieri denunciò alla locale procura 28 militanti di Potere operaio per associazione sovversiva, propaganda sovversiva antinazionale e associazione a delinquere. Il direttore di Potere operaio Francesco Tolin era stato arrestato, a seguito di articoli inneggianti la violenza comparsi sul periodico, nel novembre del 1969. Pier Giorgio Bellocchio fu rinviato a giudizio in qualità di direttore di Lotta Continua e poi condannato, il 3 marzo 1970, a un anno e due mesi per aver pubblicato, secondo l’accusa, notizie false, per apologia di reato e istigazione a delinquere. La sentenza si riferiva agli articoli e alle vignette che indicavano il commissario Luigi Calabresi come responsabile del “suicidio” dell’anarchico Giuseppe Pinelli.

Il 10 luglio furono denunciate 345 persone individuate come aderenti ai gruppi extraparlamentari torinesi da parte dei carabinieri. Si trattava, in effetti, di due distinte e concomitanti azioni giudiziarie contro due gruppi della sinistra extraparlamentare, Potere Operaio e Lotta Continua, a cui seguì una terza contro l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Le accuse spaziavano dall'associazione sovversiva, all'istigazione all'odio di classe, all'associazione a delinquere. Come mise in evidenza il quotidiano del PCI le denunce facevano ampio ricorso agli articoli 270 e 272 del codice Rocco, gli stessi di cui fece largo uso il Tribunale speciale contro Gramsci, Terracini, Morandi, Di Vittorio, condannati in base a questi due articoli (12). Il totale dei denunciati comprendeva, secondo l’informativa dell’Arma dei carabinieri, 47 appartenenti a Potere Operaio e altre 298 persone già appartenenti, secondo l’accusa, al movimento studentesco, 283 dei quali avevano poi dato vita a Lotta Continua. Erano accusati di appartenenza ad associazione sovversiva, propaganda ed apologia sovversiva ed antinazionale (13). La stragrande maggioranza dei denunciati apparteneva a Lotta Continua, compresi i quattro direttori che si erano succeduti nella direzione del giornale (Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini, Pio Baldelli, Adele Cambria) dall'apertura.

Quando la procura chiese i precedenti penali degli indiziati, la Questura rispose con un elenco dettagliato per appartenenza politica, relativo ai 283 denunciati che avrebbero dovuto essere tutti di Lotta Continua e che invece risultavano così suddivisi: Lotta continua 86 (più 39 che “aderirebbero”), Movimento studentesco 7, Collettivo Lenin 2, Potere operaio 6, Democrazia cristiana 1, Movimento comontista 1, Organizzazione comunista d’Italia (m-l) 6, anarchici 2, Quarta Internazionale 1, Partito socialista 1, Partito socialista di unità proletaria 2, Manifesto 1, Movimento pacifista 1, Movimento federalista 1, sinistra extraparlamentare in genere 33, senza indicazioni di gruppo 42, non altrimenti qualificati 47, direttori di giornali 6 (14). Nella conferenza stampa subito indetta da Lotta Continua, Guido Viale, dopo aver sostenuto che si trattava di un attacco per «preparare il terreno per mettere fuori legge i gruppi rivoluzionari», disaggregando i dati degli arrestati affermò che solo 120 appartenevano all'organizzazione, gli altri erano di altri gruppi, oppure di persone che non partecipavano più all'attività politica, «c’è persino un provocatore e un fascista, disse, e 30 persone ci sono assolutamente ignote» (15).

Perplessità e riserve sui criteri di compilazione dell’elenco dei denunciati furono immediatamente avanzate dai quotidiani locali. La Gazzetta del Popolo si chiese con quali criteri fosse stata compilata la lista, poiché l’inchiesta sollevava «qualche perplessità» e La Stampa segnalò incongruenze e contraddizioni: «si trovano nomi che lasciano qualche perplessità. Altri invece appartengono a giovani del vecchio movimento studentesco che da parecchio tempo non svolgono più alcuna attività politica me che sono inseriti nel mondo del lavoro» (16). L’Unità, pur dichiarando di non nutrire alcuna simpatia per certi extraparlamentari e di aver preso le distanze dai gruppi che col loro tipo di azione politica offrivano «il destro per colpire -parlando di opposti estremismi- la sinistra», considerò grave e aberrante la denuncia collettiva, che non trovava riscontri nella storia d’Italia dopo la liberazione (17). Sottolineò che l’iniziativa dei carabinieri di Torino era certamente «incauta e grossolana», ma era anche un sintomo «della vocazione forcaiola che ancora alligna in tanta parte dell’apparato statale»  (18). Il Senatore della sinistra indipendente Franco Antonicelli il 1° agosto 1972 presentò un’interpellanza parlamentare intitolata Fascistizzazione dello Stato nella quale rilevava che le accuse si basavano su allegati costituiti da volantini e giornali redatti dalle organizzazioni politiche, e parte di questa documentazione fosse già stata oggetto di esame della Magistratura con esisti diversi (19).

Perplessità e critiche velate al’inchiesta e alle denunce circolavano anche negli ambienti dell’Arma dei carabinieri e della Procura di Torino, come emerge da un appunto del Questore di Torino del 31 luglio 1972:

le denunce […] hanno suscitato negli ambienti dell’Arma e della stessa Procura numerosi commenti, molti dei quali improntati a un certo scetticismo e non sempre favorevoli. E’ stata raccolta la voce secondo la quale la decisione di procedere alla denuncia non sarebbe stata preceduta da un preventivo cauto sondaggio per conoscere l’orientamento della Magistratura, ma sarebbe stata l’iniziativa di un ristretto gruppo di ufficiali superiori i quali avrebbero convinto il Comandante del gruppo a “dare una lezione ai giovani politicamente più impegnati”. Oggetto di critiche sarebbe anche il modo con il quale è stato redatto il rapporto giudiziario: gli estensori, forse per eccesso di zelo, si sarebbero fatti prendere la mano denunciando 300 persone e avvedendosi, solo a rapporto presentato, di avervi incluso persone estranee ad ambienti estremisti o che, pur avendo militato anni addietro nel movimento studentesco, da tempo si sono allontanati dalla scena politica, o addirittura persone che militano in tradizionali partiti ed organizzazioni sindacali […] tutto ciò avrebbe indotto alcuni ufficiali dell’Arma ad avanzare ampie riserve sull'opportunità della denuncia stessa e sembra che lo stesso Comandante del Gruppo avrebbe rimproverato ad alcuni di aver incluso nella denuncia nominativi di persone che per ragioni di opportunità forse “era meglio tenere fuori”. […]
Anche negli ambiti della procura i commenti non sarebbero del tutto favorevoli: il Magistrato a cui è stata affidata l’istruttoria, avrebbe espresso perplessità sull'esito dell’ulteriore corso dell’indagine giudiziaria, anche tenendo presente che altre denunce similari sono state archiviate e che non sarebbe opportuno coinvolgere in un pubblico procedimento elementi appartenenti ad ambienti che “per ragioni di opportunità occorrerebbe lasciare tranquilli”. Si aggiunge che un alto Magistrato, in sede di commenti alla denuncia, avrebbe così sintetizzato il suo pensiero: “se i Carabinieri intendevano veramente rendere un servizio al Governo Andreotti, con la loro iniziativa hanno ottenuto lo scopo contrario” (20).

Il colonnello dei carabinieri Marchisio, che aveva curato l’inchiesta e firmato il fascicolo con le denunce, dichiarò che non si trattava di una nuova indagine, piuttosto essa era «il consuntivo di anni d’indagine sui gruppi extraparlamentari. Abbiamo esaminato i vari episodi accaduti dal ’69 ad oggi, i loro protagonisti e le ideologie che li ispiravano. Ci siamo convinti che il loro scopo altro non è che quello di sovvertire le istituzioni dello Stato. E questo è un reato. Il lavoro di stesura del dossier (100 pagine) ci ha occupati per quattro mesi. Adesso la parola è al giudice» (21).

A queste denunce, pochi giorni dopo, ne seguirono altre 225, che prendevano di mira l’area marxista-leninista; non tutti i denunciati, questa volta erano torinesi, vi figurava ad esempio Aldo Brandirali segretario dell’Unione dei Comunisti Italiani, diventato proprio in quei mesi Partito Comunista (marxista leninista) Italiano. In una conferenza stampa da loro indetta a Torino dissero che dell’ultimo elenco dei denunciati, 180 erano «membri della loro organizzazione e un buon numero non ha mai messo piede a Torino, alcuni sono siciliani altri di regioni del centro-sud» (22). Le accuse erano le stesse: associazione sovversiva, istigazione all'odio di classe, associazione a delinquere. Sommandole, le denunce riguardavano ormai 570 cittadini, molti dei quali incensurati e rei di aver partecipato a manifestazioni svoltesi nel corso degli ultimi quattro anni. Nell'elencare i capi di accusa, infatti, si risalì in alcuni casi al 1968, ai primi cortei promossi dal movimento studentesco, cosa che fece scrivere a Diego Novelli che, anche questa volta, «i criteri seguiti dai carabinieri non solo lasciano perplessi ma presentano aspetti grotteschi. Vi sono persone totalmente estranee all'attività di questi gruppi» (23). Per concludere la serie, il 5 agosto 1972 furono comunicate altre 17 denunce nei confronti di giovani extraparlamentari, portando così il numero complessivo dei denunciati a 587, quindi, non a caso, il processo che stava configurandosi, dopo le denunce, venne chiamato “processo dei seicento”. Processo che non si celebrò perché, in seguito, il giudice istruttore dichiarò il non doversi procedere per mancanza di indizi per una parte degli imputati e per la richiesta di assoluzione per altri perché i fatti di cui erano accusati non costituivano reato.

Nell'insieme l’elenco dei nominativi dei circa seicento denunciati, contenuti nel rapporto stilato dall'Arma dei carabinieri individuavano alcune caratteristiche comuni: erano tutti giovani, moltissimi studenti e studentesse, seguivano operai, dipendenti di vario genere, alcune casalinghe. La percentuale di donne rispetto agli uomini era del 21%, distribuita quasi omogeneamente per i tre gruppi politici considerati; Potere Operaio (17%), Lotta Continua (22%) Unione dei Comunisti Italiani (20%)24. Come avvertivano i vertici dell’Arma dei Carabinieri lo scopo delle denunce era quello di contrastare i nuovi soggetti rivoluzionari: «in relazione alle sempre più violente manifestazioni svolte dai gruppuscoli extraparlamentari di estrema sinistra [pertanto] i carabinieri di Torino avevano svolto indagini dirette ad acclarare l’esatta entità dell’azione eversiva, svolta da detti gruppuscoli ed era emerso inconfutabilmente che le finalità di dette organizzazioni [erano] quelle di sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato» (25).

Il fatto nuovo, sottolineò pochi anni dopo Bianca Guidetti Serra, era rappresentato dal tentativo di mettere sotto accusa e colpire «delle organizzazioni politiche in quanto tali e non dei singoli individui eventualmente responsabili di reati» (26). Nuovamente il Senatore Franco Antonicelli rivolse un’interrogazione al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Interni nella quale, dopo aver affermato la sua presunzione che tali denunce fossero da «considerare intimidazioni in vista delle vertenze sindacali del prossimo autunno», rilevava la connessione «tra la presente operazione poliziesca e i suoi vergognosi precedenti storici» ed esprimeva «sdegno e timore per l’assurda sopravvivenza di articoli del codice penale intimamente contrari allo spirito e al dettato della Costituzione» (27).

Chi aveva condotto l’operazione dichiarò esplicitamente, come si legge nella lettera del comandante dell’Arma, Corrado di San Giorgio, al ministro dell’Interno, che l’obiettivo era di mettere fuori gioco l’estrema sinistra prima dell’autunno, cioè prima dell’inizio della lotta per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici e di altre categorie di lavoratori: «in vista delle prossime scadenze contrattuali, il movimento Lotta continua e l’Unione dei comunisti italiani […] hanno ripreso l’azione propagandistica tendente a creare […] i presupposti per la trasformazione della vertenza sindacale in un attentato all’attuale sistema politico» (28). Il suggerimento che veniva dall'Arma al Ministro degli Interni e al governo era quello di emettere un decreto che sciogliesse Lotta continua e Potere operaio da un lato e Avanguardia nazionale e Ordine nuovo. Un colpo al cerchio e uno alla botte secondo la teoria degli opposti estremismi. Ciò non accadde perché determinante «fu la considerazione dei rischi che una simile scelta: la messa fuori legge di organizzazioni che contavano già migliaia di aderenti avrebbe anche potuto determinare il loro passaggio alla clandestinità e la nascita di una lotta armata. […] La polizia, si astenne, in quel frangente, dal seguire i carabinieri sul terreno delle denunce contro l’estrema sinistra» (29).

La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, le rivelazioni sul “Piano solo”, il colpo di stato dei colonnelli in Grecia del 1967, il permanere di regimi dittatoriali in Spagna e Portogallo, le denunce a tappeto, introducevano più di un sospetto che, quella che si cominciò a chiamare strategia della tensione, celasse l’intenzione delle classi dirigenti di contrastare il movimento operaio e le sinistre mettendo in discussione l’ordinamento democratico.

L’antifascismo militante, come lo si chiamò, non fu una ripresa ideologica e simbolica di un passato recente, divenne un’esigenza che maturò in quegli anni dall'esperienza. «Fra il 1970 e il 1971 la destra scatenò un’offensiva squadristica in tutta Italia: 460 attentati con 218 sedi di sinistra o sindacali devastate e 746 episodi di violenza denunciati con 1371 militanti di sinistra feriti» (30). La ripresa delle violenze fasciste, gli attentati, le stragi, costituirono il terreno che rinvigorì l’antifascismo. Nonostante le differenze analitiche e di impostazione fra Il PCI e la nuova sinistra, l’antifascismo costituì «il principale terreno di contatto, a livello di base, di significativi momenti di mobilitazione se non di forme di lotta» comuni. (31)

Impedire lo slittamento a destra, contrastare la svolta reazionaria era anche il nocciolo principale della politica dei comunisti in quei mesi che si accompagnava però alla preoccupazione per il dilagare dell’«estremismo incontrollato dei ‘gruppetti’» (32). Rispetto alle formazioni della nuova sinistra, anch'esse impegnate nel contrastare quello che veniva chiamato il disegno reazionario, la linea del PCI si differenziava per un’impostazione “difensiva”. Per quel partito la difesa della democrazia si presentava come una battaglia essenzialmente difensiva, da sviluppare attraverso l’estensione di un’ampia politica di alleanze e il graduale inserimento di tutta la sinistra storica nell’area di governo. Per la sinistra extraparlamentare la lotta per la democrazia assumeva un carattere «offensivo, basato sulla radicalizzazione dei conflitti sociali, per portare alla formazione di un blocco sociale alternativo a quello dominante, e alla contrapposizione frontale all'ordinamento istituzionale vigente» (33). In modo a volte confuso e disorganico, queste formazioni politiche cercavano di trovare un rapporto tra difesa degli istituti democratici e processo rivoluzionario, per «sviluppare la lotta di classe fino all'abbattimento delle sue istituzioni e l’edificazione di un ordinamento socialista» (34). Fra questi due poli di prospettive politiche, diversi risultarono essere i punti di intreccio, se non proprio di convergenza.






Chi e quanti erano

La crisi sociale che si manifestò in Italia col ’68 era parte di un processo più ampio e simultaneo che interessò le società industrializzate dell’Occidente, con punte significative in alcuni paesi del blocco Orientale come la Cecoslovacchia e la Polonia. Ciò che caratterizzò la situazione nel nostro paese fu il rapporto tra quella crisi e altre contraddizioni che emersero in quel frangente. La protesta giovanile ed extraparlamentare s’incrociò col ruolo nuovo assunto dagli operai comuni nella lotta contrattuale e sindacale nelle fabbriche, si coniugò con la richiesta di servizi sociali urbani, quella di nuovi diritti civili. Mise in crisi il monopolio dei partiti nel rapporto tra società e Stato. Il ’68 rappresentò un surplus di crescita di coscienza sociale, con una consapevolezza dei soggetti non immediatamente riferibile alla coscienza di classe tradizionalmente intesa. Più che nel segno dell’unità e della coesione, quella presa di coscienza avvenne nella diversità e ciò risultò evidente «nei movimenti sociali espressi dal ’68 e le loro successive trasformazioni. Esemplare tra tutte la vicenda degli extraparlamentari» (35).

A differenza degli altri paesi occidentali ciò contribuì alla formazione e alla persistenza di un’area di estrema sinistra la quale, «pur continuando a essere una galassia di gruppi, collettivi e piccole formazioni militanti assolutamente refrattarie a qualsiasi progetto di aggregazione e perfino di unità d’azione, riuscì ad avere un ruolo niente affatto marginale all'interno delle dinamiche complessive del conflitto sociale e iniziò, anzi, a rappresentare uno spazio politico e culturale di tutto rispetto nel quadro della società dell’epoca» (36).

Aver fatto parte più o meno attivamente, per poco o per lungo tempo, all'attività di uno dei gruppi della nuova sinistra negli anni Settanta è una caratteristica ricorrente in quella generazione. L’esplosione del movimento studentesco aveva attivato strati sociali precedentemente non toccati dal bisogno di partecipazione diretta all'attività politica. Altri gruppi di giovani, che avevano già condotto il loro apprendistato politico nelle tradizionali organizzazioni della sinistra, dopo il movimento studentesco, le abbandonavano e si riversavano in quelle nascenti della nuova sinistra. Non si era mai data per la sinistra critica e dissidente l’opportunità di disporre di una massa così cospicua di persone disposte a dedicare buona parte del loro tempo libero al lavoro politico e di propaganda. Era una realtà quantitativamente nuova come segnalava ad esempio, esagerando i dati, il Prefetto di Milano Libero Mazza nella sua relazione del 5 febbraio 1971, quando scriveva: «a Milano i movimenti rivoluzionari di estrema sinistra possono contare su oltre 25 mila aderenti» (37). Il numero si riferiva a una sommaria addizione dei militanti e dell’area larga dei simpatizzanti, quella calcolata sulla base dei partecipanti alle manifestazioni di piazza meglio riuscite. Se invece si prendono in considerazione gli appartenenti alle strutture organizzative rappresentate dai servizi d’ordine delle organizzazioni presenti in città della nuova sinistra, le cifre si riducono.

Secondo Aldo Giannuli: il gruppo più consistete dal punto di vista del servizio d’ordine era il Movimento studentesco della Statale che disponeva di circa quattrocento elementi; aggiungendo le analoghe strutture di Lotta Continua, Potere operaio, e Avanguardia operaia non si raggiungevano le 2000 persona organizzate e addestrate» (38). Non era comunque poca cosa. Calcolando assieme la militanza, intesa come partecipazione continua alla vita politica dell’organizzazione, per un periodo più o meno lungo, e l’adesione nella forma di partecipazione diretta ma più generica, è possibile avanzare una stima circa il numero dei partecipanti alle organizzazioni della nuova sinistra nei primi anni Settanta. Il Partito Comunista d’Italia (m-l) aveva dai 5 ai 10 mila aderenti, l’Unione dei Comunisti Italiani anche, Potere Operaio 2000-2500, Lotta Continua 20 mila circa, il Manifesto dai 5 ai 6000, Avanguardia Operaia dai 15 ai 18 mila, il Partito di Unità Proletaria, sorto nel 1972, dopo lo scioglimento del PSIUP, dichiarava, nel 1974, di avere 17500 iscritti. Sommando questi dati si ottiene una cifra compresa tra i 69 e gli 84 mila partecipanti. Ad essi vanno aggiunti almeno alcune altre migliaia di aderenti ad altri gruppi, come ad esempio gli anarchici o il Movimento studentesco di Milano, fino a formazioni politiche più piccole che andavano dalle poche decine, a qualche centinaia di militanti, come nel caso dei trotskisti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (39). Quindi si può ipotizzare una cifra di poco inferiore alle 100 mila persone coinvolte nell'attività politica dei gruppi della nuova sinistra. Se si usa in senso restrittivo la categoria di militanza, distinguendola dalla partecipazione attiva, si ha pur sempre una presenza di circa 50 mila persone impegnate nelle organizzazioni dell’estrema sinistra, a fronte di un Pci, che pur avendo una massa di iscritti infinitamente superiore (più di un milione e mezzo), poteva contare su circa 130 mila militanti attivi (40). Queste organizzazioni disponevano di un’abbondante militanza volontaria, prevalentemente giovane, «di livello culturale medio o alto: conoscenza delle lingue abbastanza diffusa, formazione culturale di impianto liceale completata da studi universitari, familiarità con approcci disciplinari nuovi (sociologia, scienza dell’organizzazione, politologia, semiologia, diritto comparato, ecc.). Per di più, l’ispirazione marxista, prevalente, produceva attenzione verso l’economia obbligando, quantomeno, a una infarinatura di questa disciplina. Al contrario, l’elemento umano dell’estrema sinistra difettava spesso di senso pratico e indulgeva facilmente all'ideologia e all'astrattezza delle analisi, incoraggiata anche dall'abbondanza di studenti di formazione filosofica con un bagaglio di tipo logico-formale».  (41)

Una delle prime indagini sociologiche e antropologiche sui giovani extraparlamentari di sinistra aveva evidenziato una composizione di fascia d’età che andava 17 ai 23 anni, l’età scolare media superiore e universitaria. Il 73,8% del gruppo degli extraparlamentari di sinistra era di sesso maschile. Il 59% erano studenti, solo il 31% era occupato. Il 62,8% degli occupati erano impiegati pubblici, bancari, assicurativi, industriali; il 32,6% erano operai, l’11% del totale. La loro dislocazione geografica li vedeva concentrati prevalentemente al Nord e al Centro e in ambiente urbano. I giovani extraparlamentari figuravano ai vertici di tutte le graduatorie di misura degli atteggiamenti, della partecipazione politica, dell’informazione e di ogni altro tratto che indicavano l’adesione ai processi di modernizzazione, mostravano di essere influenzati dai processi di rinnovamento culturale, anche ai più profondi livelli di personalità, «là dove si definiscono i termini dei rapporti interpersonali […] i livelli di aspirazione ad una più aperta socializzazione del rapporto interpersonale». A livello politico il gruppo dimostrava un alto grado di “aggressività”: il 38,5% era per l’azione diretta contro la media dell’8,2%. Ma questo atteggiamento non si spiegava in termini di protesta eversiva di tipo individualistico, perché la percentuale di questo tipo di comportamento era in questo gruppo la più bassa di tutte. Si trattava quindi di una scelta politica. La conclusione, cui giungeva la ricerca, era la seguente: «ci troviamo di fronte a un gruppo che associa un alto grado di modernizzazione ad un atteggiamento politicamente rivoluzionario. E’ un gruppo chiaramente di ceto medio, ed è un fenomeno nuovo nel panorama politico-culturale italiano. […] Ci troviamo di fronte ad un fenomeno molto serio, che è difficile liquidare con i soliti luoghi comuni sull'estremismo infantile […] L’estremismo di sinistra italiano è un estremismo di tutto rispetto, molto colto, aggiornato e moralmente pulito e impegnato» (42) 

Alcuni anni dopo, Mino Monicelli, in un libro sull'ultrasinistra in Italia, affermava che la nuova sinistra, incapace di fondare un nuovo partito rivoluzionario, aveva però introdotto una carica innovatrice nella famiglia, nella scuola, della società, nei modelli di comportamento e di espressione, «ha aperto una fase di accelerazione democratica che non ha precedenti nella storia italiana […] c’è il merito storico di aver imposto il confronto-scontro tra il patrimonio storico del movimento operaio e gli apporti innovatori dei nuovi protagonisti sociali –studenti, giovani proletari, donne» (43). L’insediamento sociale dei militanti delle formazioni della nuova sinistra aveva caratteristiche nuove e peculiari rispetto a quello del Pci. Quest’ultimo aveva una base sociale più omogenea e mancava di capacità di penetrazione nei settori delle élite economiche, politiche e culturali della classe dominante. Invece la nuova sinistra, «grazie alle disparate provenienze familiari, aveva una notevole capacità di irradiazione sociale: per quanto possa sembrare strano, i militanti della sinistra extraparlamentare incontravano meno resistenza, rispetto a quelli del Pci, nell'accedere a determinati ambienti. Molti militanti dell’estrema sinistra avevano un’estrazione sociale elevata: per esempio i figli dei ministri Taviani e Donat Cattin, di quelli socialisti, Mancini e Formica, e di alcuni dirigenti comunisti. Né mancavano figli di sindacalisti, di direttori di giornali, manager, alti magistrati, editori, baroni universitari e grandi professionisti. E questo dava accesso a informazioni privilegiate» (44). Inoltre, soprattutto a partire dall'avvio delle lotte operaie del 1969, queste formazioni riuscirono a stabilire collegamenti con settori sociali subalterni nelle fabbriche, nei quartieri, tra i soldati (Proletari in divisa) e tra i carcerati (Dannati della terra). Era evidente comunque che in questi settori il Pci disponeva di una rete di collegamenti molto più estesa e articolata, «ma il maggior dinamismo dei giovani dell’estrema sinistra attenuava quel divario» (45).

Non ci fu gruppo dell’estrema sinistra, vecchio o nuovo, che in quei primi anni del decennio non si pose il tema della violenza e della lotta armata. Esso, come si evince dalla lettura della pubblicistica, fu prospettato e analizzato nella stampa della sinistra extraparlamentare. Gli esiti di questo gran parlare di violenza, insurrezione, legittimazione storica della lotta armata, non furono affatto omogenei nei comportamenti e nel modo di agire. Prova ne è che la scelta della lotta armata riguardò solo una parte minoritaria della militanza di nuova sinistra. L’adesione a una prospettiva rivoluzionaria prevedeva in quegli anni l’accettazione implicita della violenza, intesa come strumento a volte necessario per condurre la lotta politica contro la reazione conservatrice e la forza, sovente ai limiti della legalità, delle istituzioni repressive. Ma ciò non volle dire accettare una strategia insurrezionale fondata sulla lotta armata, né predisporsi a costituire o a aderire a organizzazioni clandestine che tale modalità di lotta già praticavano.

Per l’area della nuova sinistra, dirimenti in questo contesto sono gli anni 1972-73 nei quali si consumò una vera e propria svolta. In generale va considerato che a quel punto «la fisionomia del movimento era molto cambiata. C’è un netto calo di partecipazione, per la maggior parte dei giovani l’impegno politico muta lentamente con la scelta di smettere di essere militanti e diventare cittadini iscritti ai partiti, elettori» (46). Le organizzazioni di matrice maoista e marxista-leninista conobbero un repentino calo di adesioni e di militanza. Altre, quali Lotta continua e Potere operaio, furono interessate da un profondo ripensamento e travaglio interno, che sfociò in scelte diverse.

Lotta continua, dopo che nell'aprile del 1972 al congresso di Rimini, a cui parteciparono solo i quadri, aveva assunto toni radicali e violenti, come si può evincere dalle pagine del quotidiano di quei mesi, dopo l’assassinio di Calabresi, si impose «una brusca virata una vera e propria svolta moderata» (47), sintetizzata e riconosciuta nella prima ricostruzione storica, da un suo dirigente, Luigi Bobbio: Lotta Continua «scopre la politica, tenta un rapporto col movimento operaio organizzato, elabora una tattica, considera in modo più realistico le possibili tappe del processo rivoluzionario in Italia, tende a trasformarsi in organizzazione complessiva, adottando regole più trasparenti di organizzazione interna» (48). L’autocritica era stata repentina e veloce, spaziava dal riconoscimento dei consigli di fabbrica e dei delegati (prima rifiutati), alla violenza, alla questione dell’insurrezione, con una netta presa di distanza da ogni ipotesi di costituzione di organizzazione clandestina armata, respingendo in tal modo le suggestioni brigatiste. Il passaggio formale da gruppo extraparlamentare e “partito”, sancito dal congresso del 1975, con tanto di tessera d’iscrizione (una novità), segnalò un dato formale ineccepibile. Se precedentemente i militanti più i simpatizzanti erano calcolati in circa 20.000, ora le tessere diffuse e sottoscritte erano circa 10.000. Una parte dei militanti si era ritirata dall'impegno attivo, altri erano usciti dall'organizzazione per unirsi a “pezzi” di Potere operaio, organizzazione che, dopo il congresso del 1973, fu attraversata da rivolgimenti interni, divisioni, scelte diverse tra chi in qualche modo voleva mantenere viva l’esperienza del “partito dell’insurrezione” e chi decise di confluire nella magmatica area dell’autonomia che si andava costituendo. Si trattava di scelte che indirizzavano l’agire verso la preminenza del movimento rispetto all'organizzazione partitica, istituzionale e propensa anche alla competizione elettorale.

A partire dal 1975 le Brigate rosse conobbero una costante crescita organizzativa e già nel 1977 superarono il migliaio di militanti clandestini, il che voleva dire necessariamente alcune migliaia di simpatizzanti e molte centinaia di “contatti” (49). Poi, nel 1977 le organizzazioni armate di sinistra videro aprirsi nuove possibilità sia in termini di reclutamento alle varie organizzazione e sia come area di simpatizzanti. Nella vulgata odierna circolano in merito cifre spesso spropositate. Si sente dire di migliaia e migliaia di terroristi militanti e in armi che si muovevano come “pesci nell'acqua” in un’area di fiancheggiatori e simpatizzanti ancora più vasta, qualcuno parla di «un milione di persone: pura mitologia […] i tribunali della repubblica hanno condannato per partecipazione a banda armata circa 4400 persone di sinistra (compresi diversi fiancheggiatori occasionali) e, pur volendo che siano stati identificati solo la metà dei partecipanti alla lotta armata, si arriva a 8-9 mila unità, che è una valutazione più coerente con il volume di azioni realizzate» (50.) Per quanto riguarda i fiancheggiatori invece, secondo le stime approssimative fatte da Aldo Giannuli, il numero si aggirava « intorno alle 80-90 mila persone (una proporzione di uno a dieci). Dunque la scelta della lotta armata, considerando anche i fiancheggiatori, fu sempre una minoranza non solo della sinistra nel suo complesso, ma anche dell’estrema sinistra di movimento» (51). Significativo è comunque, anche per le formazioni della lotta armata, il dato generazionale. Il 38% delle persone inquisite e incarcerate aveva un’età minore ai 25 anni e il 40% minore di 35. (52)





Giornali e lettori

Nell'arco di tre anni l’area della nuova sinistra, per iniziativa di singole organizzazioni, si dotò di tre giornali quotidiani sostenuti dall’autofinanziamento, dalle vendite in edicola e militanti. Il 28 aprile 1971 uscì Il manifesto, quotidiano edito dall'omonimo gruppo. Per tutti gli anni Settanta il quotidiano non raggiunse quasi mai le 30 mila copie vendute oscillando costantemente fra le 18 e le 25 mila, alle quali occorreva aggiungere quelle diffuse nella vendita militante (53). Un anno dopo, l’11 aprile 1972, uscì il quotidiano Lotta Continua, pubblicato dall'omonima organizzazione. Stando ai resoconti delle edicole, il giornale nei mesi invernali toccava le 18 mila copie vendute, che scendevano fino a 6 mila in quelli estivi. Il ricavato delle vendite militanti si aggirava in media sulle 500 copie giornaliere. Esso poteva contare su una vendita sicura intorno alle di 6-7 mila lettori in edicola e un giro fluttuante di oltre 20-25 mila persone disposte a comprarlo più o meno saltuariamente (54). Due anni dopo, il 26 novembre 1974, fu la volta del Quotidiano dei lavoratori, promosso da Avanguardia operaia. Nei primi anni di vita il giornale si assestò sulle 18 mila copie vendute in edicola, cui si aggiungeva una limitata vendita militante. Dopo il 1976 precipitò sotto le 8 mila copie, per poi riprendere gradualmente quota con la trasformazione tipografica del 1978, quando tornò a vendere un po’ meno di 20 mila copie (55).

Ai tre quotidiani promossi delle tre formazioni extraparlamentari occorre aggiungere una miriade di pubblicazioni periodiche di propaganda politica e teorica, settimanali, quindicinali, mensili, promosse da altri gruppi extraparlamentari minori appartenenti alla vecchia o nuova sinistra rivoluzionaria. A testate storiche, come quelle dei bordighisti, (Programma Comunista e Battaglia comunista), dei trotskisti (Bandiera Rossa e Quarta Internazionale), degli anarchici (Umanità nova, L’internazionale, la novella A Rivista anarchica) si aggiunse un numero elevato di nuove pubblicazioni. Nel 1969 i vari partiti e gruppi della cosiddetta area marxista-leninista stampavano complessivamente circa 80 mila copie di periodici, organi delle rispettive organizzazioni. Nuova Unità, settimanale del Partito Comunista d’ Italia (m-l) tirava 23 mila copie, Rivoluzione Proletaria, mensile del Partito Rivoluzionario marxista-leninista d’Italia, apparsa nell’agosto del 1968, aveva una tiratura di 10 mila copie, Servire il Popolo, prima mensile, poi quindicinale e infine settimanale dal 1969 dell’Unione dei Comunisti Italiani stampava 25 mila copie, Stella Rossa “settimanale marxista-leninista” dal novembre 1968, 2 mila copie, Il compagno, giornale del Partito Comunista marxista-leninista-maoista, 400 copie (56). Buona parte di questi dati si riferivano alla tiratura, mancano quelli relativi alle copie effettivamente vendute; tuttavia sono dati significativi e dimostrano l’esistenza di un gruppo considerevole di persone non solo disposti a comprali, ma anche a diffonderli alla maniera militante, segno quest’ultimo di una ricettività del “mercato” per quei prodotti.

Il 18 settembre 1969 fu pubblicato il primo numero del settimanale Potere Operaio. Il Pdup, costituitosi nel 1972, dopo lo scioglimento del Psiup, cominciò a pubblicare un quindicinale dal titolo Unità Proletaria, che poté contare subito su 5000 abbonati e 20.000 copie di tiratura. Poi vi erano le riviste “fincheggiatrici” del movimento. Innanzi tutto Quaderni Piacentini, la rivista più letta e diffusa, Ombre Rosse, e tante altre ancora, spesso pubblicazioni teorico-politiche dei gruppi che affiancavano la stampa di propaganda, quali Nuovo Impegno, Politica Comunista, Praxis, ecc. La cosiddetta area dell’autonomia, quando prese vigore e consistenza, poté contare su diverse pubblicazioni periodiche: Senza Tregua, pubblicato dai Comitati Comunisti per il potere operaio, Rosso, già giornale del Gruppo Gramsci, divenne l’organo della nuova aggregazione tra Gruppo Gramsci e gli ex “potoppisti” che si riconoscevano in Antonio Negri. Nello stesso tempo gli ex militanti bolognesi di Potere Operaio (Franco Berardi, “Bifo” e Maurizio Torrealta) davano vita ad una nuova aggregazione attorno a Radio Alice e alla rivista A/Traverso.






Le novità delle elezioni politiche del 1972

Fu solo dopo lo sconquasso provocato dalle lotte studentesche del 1968 e da quelle operaie del 1969 che si formò un’area elettorale, minoritaria ma più consistente rispetto ai decenni passati, alla sinistra dei partiti tradizionali comunista e socialista. 

La cronaca dei risultati elettorali segnala nelle elezioni per l’Assemblea costituente del giugno 1946 e in quelle politiche dell’aprile 1948, la presenza di liste del Partito comunista internazionalista, costituitosi nel 1943, che rappresentava la continuazione della battaglia politica intrapresa da Amadeo Bordiga e altri fin dagli anni venti all'interno del Partito comunista. Una storia lunga di “frazione” che aveva attraversato le vicende del fascismo e della guerra e che ora si poneva con una scelta organizzativa indipendente alla sinistra del partito comunista. In termini di voti il risultato ottenuto fu inconsistente: 24.420 voti (0,1%) nel 1946 e 20.658 voti (0,08%) nel 1948. 

Nelle elezioni politiche successive del 1953 due altre liste minori di sinistra, – collocabili più nelle immediate vicinanze del Partito socialista italiano che non alla sinistra del Partito comunista – parteciparono alla competizione elettorale. Si trattava di Unità Popolare, nata anche per impulso di azionisti di vecchia e provata fede, come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei, che ottenne 171.071 voti (0,6%) e dell’Unione socialisti italiani che riportò 225.495 voti (0,8%). Si trattava però di voti che si muovevano all’interno di un’area di sinistra storica, soprattutto socialista e democratica radicale. Area che elettoralmente si consolidò e si incrementò con la costituzione del Partito socialista di unità proletaria (Psiup), nato nel 1964 da una scissione del partito socialista. Un partito che si collocò non solo alla sinistra del socialismo storico ma, per molti versi, anche alla sinistra dello stesso Partito comunista. Le elezioni politiche del 1968 dimostrarono la vitalità elettorale di questa esperienza. Il Psiup riportò alla Camera 1.414.544 voti, pari al 4,46%. Irrilevante fu invece il risultato ottenuto dal Partito comunista rivoluzionario trotskista, nato da una scissione avvenuta nella Quarta Internazionale, presente con proprie liste nelle sole circoscrizioni di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone e dell’Aquila-Pescara-Chieti-Teramo, che ottenne 1.762 voti (0, 01%).

Le elezioni del 1968 registrarono però un fatto nuovo nel comportamento elettorale legato alla variabile generazionale. La nuova generazione era più propensa a votare a sinistra rispetto al passato. Infatti, una ricerca condotta dall’Isvet tra il 1969 e il 1971 confermò che se fino ad allora i giovani avevano votato per i partiti nella stessa percentuale degli anziani. Dal 68 in poi orientarono il loro voto verso i partiti di sinistra (57)
Basandosi su un confronto campionario fra tre gruppi generazionali di elettori – la generazione della guerra (nati tra l’inizio del secolo e il 1932), la generazione intermedia (le leve nate tra il 1933 e il 1947), che iniziarono a votare tra il 1958 e il 1968 e le giovani leve, quelli nati tra il 1948 e il 1958 che maturarono il diritto al voto solo nel 1972 o nel 1976- una ricerca propose dati interessanti. La generazione giovane si segnalava per un tasso di interesse per la politica (30,8%) superiore alle due precedenti; discuteva abitualmente di politica (53,6%), contro il 39,5 e il 24,0%; partecipava a manifestazioni politiche 31,7% in misura superiore alle altre; approvava la partecipazione a manifestazioni pacifiche: (86,0 %), l’occupazione di fabbriche e di edifici pubblici: 50,9%. Riguardo alle preferenze politiche il confronto tra le tre generazioni rilavava che l’ultima generazione si indirizzava a sinistra (Pci, Psi). I giovani più orientati a sinistra rispetto alle coorti precedenti risultavano dislocati per il 69,1% al Nord e il 60% al Sud; il 70% risiedeva in comuni urbani e il 59,8% in quelli rurali; i maschi erano il 66,5%, le femmine il 63,4% 58. Tra i giovani il ’68 e le lotte del ’69 avevano contribuito ad arare e a seminare a sinistra. In questa semina si aprì anche uno spazio limitato per una nuova sinistra.

Quattro anni dopo il 1968 la situazione alla sinistra del Pci era in pieno sviluppo e movimento. In quegli anni erano sorte organizzazioni politiche indicate per comodità di nuova sinistra. Quando furono indette le elezioni politiche anticipate alcune di loro decisero di presentare proprie liste. Col simbolo della falce e martello, variamente declinato, scesero in campo formazioni nuove, nate da pochi anni: Il manifesto dall'omonimo gruppo radiato dal Pci nel 1969 che, dal 1971, pubblicava il relativo quotidiano, che presento liste in 28 circoscrizione; il Partito comunista (marxista-leninista) italiano, Pc(m-l)inome assunto dall'Unione dei comunisti italiani, nata nel 1968, che pubblicava il giornale «Servire il popolo», che si presentò in 23 circoscrizioni; Stella Rossa, dall’omonimo gruppo, in sole tre circoscrizioni; il Partito comunista della Sicilia presente in un’unica circoscrizione. 
Nuovo era pure il Movimento politico dei lavoratori (Mpl) che raccoglieva cattolici dissidenti delle Acli e della Cisl, nell’intenzione di dare voce e rappresentanza ad un’area politica di matrice cattolico-sociale con venature socialiste, in rotta con la Democrazia cristiana, che era emersa in occasione delle lotte studentesche e operaie. Le liste del Mpl furono presentate in 31 circoscrizioni. 
Gli altri gruppi e formazioni della nuova sinistra, come Lotta continua e Avanguardia operaia, propendevano per l’astensione, la sezione italiana della Quarta internazionale e formazioni minori appoggiarono Il manifesto; altri di area marxista-leninista, non tutti, le liste del Pc(m-l)i, mentre Potere operaio diede indicazione di voto per il Pci o il Psi. 
I risultati elettorali diedero i seguenti responsi: Il manifesto 224.303 voti (0,7%), Pc(m-l)i 98.454 voti (0,3%), Stella Rossa 9.108 voti (0,03%), il Partito comunista della Sicilia (marxista-leninista) 2.958 voti (0,01). 

Quella che si presentava come nuova sinistra di orientamento marxista e rivoluzionario otteneva complessivamente 335.823 voti pari all’1,04%, mentre la nuova sinistra di orientamento cattolico e socialista rappresentata dall’Mpl raccoglieva 120.220 voti pari allo 0,4%. 
Sommando i risultati le due nuove sinistre raccoglievano 456.043 voti pari all’1,44%. Era un risultato certamente negativo sul piano politico perché nessuna di quelle liste superò il quorum necessario per eleggere rappresentanti in Parlamento. 
L’unica lista che potenzialmente aveva sperato in un esito migliore, Il manifesto, registrò invece una cocente delusione. 

Le elezioni politiche del 1972 confermarono una sostanziale staticità dell’elettorato che continuava a identificarsi nei partiti politici maggioritari. Dimostrarono quanto fosse tenace, malgrado gli sconvolgimenti sociali accaduti in quegli anni, l’appartenenza politica legata alla tradizione e alla consuetudine. La forza dei partiti di massa era rimasta infatti immutata e le nuove formazioni politiche non erano riuscite a farsi conoscere dalla stragrande maggioranza degli elettori. Aveva pesato certamente sulle formazioni della nuova sinistra sia il clima di ostilità nei loro confronti da parte dei partiti maggiori e sia il loro mancato accesso ai canali della comunicazione di massa. Erano state infatti escluse dai dibattiti politici televisivi durante la campagna elettorale. Come misurò una ricerca svolta a suo tempo, solo il 13% degli elettori interrogati su base campionaria dopo le elezioni del maggio 1972, dichiarò spontaneamente di conoscere l’esistenza delle liste del Manifesto e il 10% quelle del Mpl (59).

Oltre a questo pesò il fatto che i partiti tradizionali potevano disporre di organizzazioni elettorali consolidate nel tempo, radicate nella società e avevano a disposizione mezzi di propaganda e di persuasione non paragonabili a quelle a disposizione delle forze politiche nuove. Queste, pur essendo emerse da realtà sociali consistenti e da esigenze diffuse nella società, avevano con fatica retto il passaggio dall’intervento nel sociale a quello politico-elettorale, quindi la possibilità di affermazione nella competizione era minima.

Tuttavia i voti raccolti complessivamente dalle formazioni della nuova sinistra, al di là della valutazione meramente politica del risultato, mettevano in luce, rispetto ai decenni precedenti, una consistenza di area quantitativamente più numerosa, circa mezzo milione di elettori, che si era agglutinata alla sinistra dei partiti tradizionali. Chi erano e da dove venivano i voti raccolti dalle liste della nuova sinistra? Una ricerca sociologica metteva in luce le seguenti caratteristiche. L’elettorato del PC(m-)I apparteneva il prevalenza a comuni limitrofi di alcuni grandi centri urbani, dove vivevano le masse degli immigrati e di altri settori sociali più sacrificati dallo sviluppo distorto delle città 60; fatta eccezione per Torino e Firenze, le liste del partito avevano raccolto più consensi nelle province e meno nei capoluoghi, inoltre il voto non era distribuito omogeneamente sul territorio nazionale ma concentrato in alcune zone. Si era trattato, infine, di un voto militante più che di un voto d’opinione, legato al piccolo apparato del partito. Il voto al Manifesto proveniva principalmente dalle città, soprattutto quelle grandi, meno rilevante era invece la provincia. I suoi elettori erano studenti, intellettuali, molti insegnanti, operai di alcune grandi fabbriche (61), Il Mpl aveva riportato percentuali abbastanza omogenee in tutto il Paese, con picchi di crescita maggiori nelle zone tradizionalmente “bianche” e meno nelle zone “rosse”.

Parallelamente il Psiup, partito da cui provenivano diversi dirigenti del movimento studentesco universitario e quadri sindacali protagonisti della lotta operaia del 1969, coi suoi 648.800 voti (1,95%), subiva una drastica riduzione di consensi rispetto alle elezioni politiche del 1968: 766.166 voti in meno (-2,51%). Secondo un’inchiesta del tempo, aveva raccolto un voto di opinione e di protesta «scarsamente legato alla presenza di un apparato, fondato su motivazioni ideologiche e solo in parte su fattori locali» (62).

Poiché neanche il Psiup raggiunse il quorum, un’area elettorale pari a 1.104.843 voti (3,39%) si trovò a non avere alcuna rappresentanza in Parlamento. Quel milione e più di voti registrava una potenzialità nuova che, in termini quantitativi, mai si era data a sinistra del Pci. Potenzialità che era l’espressione dell’azione collettiva prodottasi negli anni precedenti. Ciò ridiede speranza alle formazioni della nuova sinistra. Infatti, come è stato giustamente osservato, «la sconfitta del 1972 diede inizio a un processo che avrebbe ridisegnato la mappa della nuova sinistra. Non si trattava però solo di un rimescolamento di forze consumate: quell'insuccesso, paradossalmente, liberava nuove energie verso l’estremismo e, al tempo stesso, imponeva linee d’azione aggreganti» (63)
La geografia elettorale della nuova sinistra, dopo quelle elezioni, cambiò repentinamente di segno. Il Psiup non resse la sconfitta e optò per il suo scioglimento e la confluenza nel Pci o nel Psi, ma una parte minoritaria non volle accettare questo esito e volle mantenere in vita l’organizzazione denominandosi provvisoriamente nuovo Psiup. Anche il Mpl non andò oltre la sconfitta elettorale e a stragrande maggioranza decise lo scioglimento e la confluenza nel Psi. Ma anche in questo caso una minoranza non accettò questo percorso e assieme al nuovo Psiup si fusero in una nuova organizzazione politica, decisamente collocata nell’area della nuova sinistra, il Partito di unità proletaria. Esso, nel 1974, si fuse col gruppo del Manifesto costituendo il Partito di unità proletaria per il comunismo (Pdup-pc).





Consolidamento elettorale di un’area di nuova sinistra

Il passaggio delle elezioni amministrative del 15 giugno 1975 prospettò un quadro elettorale nuovo per la nuova sinistra. Questa volta due organizzazioni politiche di una certa consistenza, Lotta continua (Lc) e Avanguardia operaia (Ao), abbandonarono l’astensionismo e scesero nell’agone elettorale. La prima dando indicazione di voto al Pci, la seconda promuovendo liste assieme al Pdup-pc. In alcune regioni si presentano liste del Pdup-pc, in altre liste sotto la sigla Democrazia proletaria (Dp) formate da esponenti del Pdup-pc e da Ao. Nella regione Piemonte si presentò la lista Democrazia Operaia promossa e sostenuta dalla sola Ao.

Complessivamente i voti riportati da queste tre combinazioni di liste furono 417.355 (1,27%). Il risultato confermava da un lato che l’area elettorale della nuova sinistra si era andata consolidando e aveva catalizzato i 456.043 voti che nelle elezioni politiche del 1972 erano andati a tre e più liste diverse, dall’altro però si constatava che pochissimi dei voti riportati dal Psiup nel 1972 (648.800) si riversarono sulle liste della nuova sinistra, preferendo convergere sulle liste del Pci che, non a caso, conobbe in quella tornata elettorale un notevole incremento di consensi. 
Era un risultato comunque che parve assicurare una piccola ma solida base elettorale, ritrovata e conservata nonostante la delusione che essa aveva subito dopo i frammentari e scarsi risultati del 1972. Era il segno che ormai si era consolidata un’area di elettori disposti ad appoggiare col voto le liste della nuova sinistra. Poca cosa, certo, rispetto alla massa di voti che continuava a convergere sui partiti della sinistra tradizionale e in particolare sul Pci il quale non solo dimostrava di saper tenere i suoi voti di appartenenza, ma era in grado di intercettare anche quelli provenienti da nuove fasce sociali che si erano politicizzate nelle lotte di quegli anni. Era quindi sempre più indubbio che l’esistenza elettorale della nuova sinistra si giocava sulla possibilità di intercettare una parte dei voti della sinistra tradizionale, allargando così la propria area sociale e politica di influenza. 

Questo momento parve approssimarsi celermente in occasione delle elezioni politiche anticipate del 20 giugno 1976. Per l’occasione le principali forze della nuova sinistra, assieme ad altre minori, diedero vita ad un cartello elettorale unitario: Democrazia proletaria, che presentò proprie liste in tutte le circoscrizioni. Il cartello raccolse 557.025 voti (1,5%) ed elesse sei rappresentanti in Parlamento. Rispetto all’anno precedente erano 130.000 voti in più, pari da un incremento di circa lo 0,3%. Il risultato elettorale di Dp indicava soprattutto che si trattava di un voto di appartenenza, raccolse cioè consensi nell'area già predisposta a quel tipo di comportamento elettorale. Oltre non andò. Difatti i risultata ottenuti da Dp, messi a confronto con quelli dei partiti della sinistra storica confermavano che il cartello non raccoglieva i consensi elettorali del disciolto Psiup, che si riversavano invece sul Pci e, quindi, evidenziavano la mancata capacità di ottenere consensi dalla base elettorale dei partiti della sinistra riformista. Salvo poche eccezioni, il risultato elettorale fu interpretato come una delusione dalla maggioranza delle forze politiche che avevano costituito il cartello elettorale. Il sistema politico e dei partiti tradizionali ancora una volta dimostrava di saper tenere e controllare il proprio elettorato. La sinistra cresceva ma a tutto vantaggio del Pci che in quell’occasione raggiunse col 34,4% dei consensi, il suo punto percentuale più elevato.

Dp ottenne maggiori consensi nelle regioni del nord e in quelle del Sud mentre scarsi risultarono i consensi nell’Italia centrale e nelle isole. Il voto proveniva principalmente dalle grandi e medio-piccole citta, meno dalla provincia. «I maggiori risultati furono conseguiti in alcune circoscrizioni della Lombardia e del Piemonte; tutte zone fortemente segnate dalla conflittualità operaia dove si erano distinti delegati e attivisti sindacali legati soprattutto ad Ao e Pdup-pc. Significativi consensi vennero da alcune regioni di tradizione moderata come il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. Deboli invece i risultati nelle regioni rosse di tradizione socialista e comunista. Nell’Italia del centro e del sud Dp si attestò sulla media nazionale, con differenze in positivo in alcune circoscrizioni meridionali: Napoli, Campobasso, Cagliari» (64).

Il cartello elettorale di Dp che avrebbe potuto anche rappresentare l’avvio di un processo di unificazione delle allora principali forze della nuova sinistra, non resse alla prova del dopo voto. Lotta continua decretò il suo scioglimento, l’unità faticosamente impostata tra Ao e il Pdup-pc non ebbe sviluppi ma involuzioni. Dopo un lungo e tormentoso dibattito la minoranza di Ao confluì nel Pdup-pc, mentre la minoranza di quest’ultimo si unì a Ao e alla Lega dei Comunisti dando vita a un’organizzazione politica che assunse il nome di Democrazia Proletaria. Era il risultato di un processo che aveva messo in luce strategie e impostazioni politiche diverse capaci di coinvolgere nelle scelte non solo i piccoli apparti militanti delle organizzazioni, ma lo stesso corpo elettorale, come dimostrarono, poco dopo, i risultati elettorali delle elezioni politiche del 1979.






Piazze piene urne meno

Le scadenze elettorali di quel decennio misero in evidenza la non corrispondenza fra la capacità di mobilitazione nelle manifestazioni pubbliche della nuova sinistra i risultati ottenuti dalle liste. La nuova sinistra era in grado di riempire le piazze e di organizzare cortei con diverse migliaia di partecipanti, ma non riusciva a di riempire di voti le urne elettorali. Le piazze piene, le manifestazioni partecipate illudevano circa la possibilità di incassare un cospicuo consenso elettorale. Nelle piazze le organizzazioni della nuova sinistra rappresentavano soprattutto se stesse. Erano in tanti nei cordoni che sfilavano nei cortei, ma scarsa era l’incidenza sull'opinione pubblica larga. Il voto si caratterizzò soprattutto come voto di appartenenza, con scarsa capacità di incidere sull'opinione pubblica. Il rapporto tra militanti dichiarati dalle formazioni politiche del 1972 e i voti raccolti fu indicativo del fenomeno, soprattutto se messo a confronto con quello del Pci.

Nel 1972 Il manifesto, che aveva circa 6.000 aderenti, raccolse 224.303, con un rapporto militanti-voti raccolti pari a 1 su 37. Il Pc(m-l)i, che nel 1971 dichiarò di avere 10.000 aderenti, raccolse 98.454 voti con un rapporto di 1 a 10 circa. Più limitata e circoscritta apparve l’influenza sull’elettorato del Mpl. Quest’ultimo, che al momento della sua costituzione dichiarava di contare su circa su 80 mila iscritti dei 500 mila delle Acli e 20 mila iscritti della Fim Cisl (65), raccolse 120.220 voti con un rapporto iscritto elettori pari di 1 a 1,2.

Il Pci poteva contare su una massa di aderenti molto più numerosa: nel 1972 gli iscritti erano 1.584.659, ma solo una parte era attiva, valutabile circa in 130.000 militanti66. Nelle elezioni politiche di quell’anno il rapporto tra attivisti e voti ottenuti (9.072.454) risultò essere di 1 a 70; se calcolato invece nel rapporto tra iscritti e numero di voti il rapporto era di 1 a 5. Quattro anni dopo, in occasione delle elezioni politiche del 1976, quelle nelle quali il Pci registrò un notevole incremento di voti, raggiungendo quota 12.616.650, il rapporto tra attivisti e voti divenne di 1 su 97. Se calcolato invece sul numero degli iscritti al partito (1.814.262) esso fu di 1 su 7. 

Quell’anno le liste di Democrazia proletaria poterono contare, nel corso della campagna elettorale, su circa 50.000 militanti attivi, somma dei sostenitori delle varie organizzazioni politiche che parteciparono al cartello. Presunto che essi si siano attivati in modo non saltuario ma continuativo nella campagna elettorale, il rapporto con i voti raccolti (557.025) fu di 1 a 11.

Le organizzazioni politiche della nuova sinistra, nel corso delle due tornate elettorali, evidenziarono che esse erano composte da un cospicuo numero di quadri militanti, capaci di organizzare, suscitare e dirigere lotte e rivendicazioni nei vari settori della società, avevano legami ed erano inserite nei movimenti antagonisti, ma riscontravano notevoli difficoltà, al momento del voto, a raccogliere consensi elettorali. L’opinione pubblica di sinistra che guardava magari con simpatia alle loro iniziative, ne riconosceva il ruolo e partecipava alle lotte, al momento di votare preferiva scegliere l’affidabilità politica costituita dai partiti della sinistra storica, del Pci in particolare. E’ significativo in proposito constatare che, solo nella seconda metà degli anni Ottanta, un’organizzazione della nuova sinistra, sopravvissuta allo sconquasso di quell'area politica, Dp, con i suoi dichiarati 10.000 iscritti del 1988, raccolse alle elezioni politiche del 1987 642.161 voti, con un rapporto tra attivisti e voti pari a 1 su 64.






Divisione e ricomposizione dell’area elettorale alla sinistra della sinistra

In occasione delle elezioni politiche del 1979 due liste si contesero i consensi alla sinistra del Pci: Nuova sinistra unita, nella quale era confluita Dp che ottenne 293.000 (0,8%) e nessun eletto, e il Pdup-pc che raccolse 501.431 voti (1,4%) ed elesse sei parlamentari. Sommati tra loro i voti raccolti furono 794.847 (2,2%) con un incremento rispetto al dato del 1976, di 237.822 unità (+0,7%). La somma aritmetica non andava però trasformata automaticamente in somma politica. Le due organizzazioni capitalizzavano i loro consensi elettorali proprio perché divise e separate. Era il loro un elettorato molto attento ai posizionamenti politici e strategici. 
Erano disposti a votare il Pdup-pc o Nuova sinistra unita, ma non l’eventuale unità organizzativa tra i due, unità che infatti non ci fu. Questo “paradosso aritmetico” fu confermato dall’esito delle elezioni amministrative del 1980 quando Dp, presente in sole nove regioni ottenne 274.100 voti e il Pdup-pc 372.102. Complessivamente le due organizzazioni avevano raccolto 646.202 voti, pari a circa il 2,5%, ma ciò era stato possibile perché si erano presentate separatamente.

La geografia elettorale nell’area della nuova sinistra mutò rapidamente a seguito della decisione del Pdup-pc di presentare, nelle elezioni politiche del 1983, liste in comune col Pci, organizzazione dentro la quale confluirà l’anno dopo, sciogliendosi nel novembre del 1984. 
Rimasta sola, Dp raccolse in quelle elezioni 542.039 voti, (1,47%), conquistando 7 seggi alla Camera dei Deputati. La cifra era all'incirca simile a quella riportata dal cartello elettorale del 1976 ed evidenziava meriti, pregi e limiti che caratterizzavano quest’area elettorale. 
Un’area elettorale che conobbe, nelle successive elezioni politiche del 1987, una relativa espansione, quando Dp ottenne 642.161 voti (1,66%) e 8 seggi alla Camera. Inoltre, per la prima volta nella storia delle vicende elettorali della nuova sinistra, con 493.667 voti (1,52%) riuscì a conquistare un seggio al Senato. 
Senza saperlo, quello fu un modo per chiudere in “bellezza”, l’esperienza elettorale di un’area politica minoritaria di nuova sinistra che aveva percorso, con fortune e sfortune alterne, quasi un ventennio della vita politica italiana. Difatti col precipitare degli eventi alla fine degli anni Ottanta, che conclusero il cosiddetto “secolo breve”, anche la geografia della politica partitica italiana fu sconvolta e rimescolata. La fine del Pci, la nascita di Rifondazione comunista condussero Dp a deliberare, nel congresso del giugno 1991, lo scioglimento del partito e la confluenza immediata in Rifondazione comunista.



NOTE:

R. Mordenti, Frammenti di un discorso politico, Verona, Essedue Edizioni, 1989, p. 52, p. 52.

R. Mordenti, ivi, p. 53

Peppino Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 59.

Daniel Bell, La fine dell’ideologia, Sugarco, Milano, 1991, p. 25

Giorgio Boatti, Tra il prima e il dopo. Continuità e rottura degli anni della strategia della tensione, in AA. VV., Rivelazioni e promesse del ’68, Cagliari, CUEC, 2002, p. 95-96

6 Guido Viale, Il Sessantotto, Milano, Mazzotta, 1978, p. 79

Guido Viale, Trent’anni fa. Amarcord, Diario, anno IV, n. 17, 29 aprile 5 maggio 1998, p. 26.

Fabrizio Dentice, E adesso occupiamo le fabbriche, «L’Espresso», 7 aprile 1968

9 Paolo Spriano, Gli studenti oggi, «L’Unità», 3 marzo 1968.

10 Donatella Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia 1960-1995, Roma, 1966, p. 47

11 Cfr., Luigi Borgomeo e Aldo Forbice, 14.000 denunce, chi, dove, quando, perché, Roma, Edizioni Stasind, 1970

12 Cfr., Il vizio d’origine degli art. 270 e 272, «L’Unità», 29 luglio 1972.

13 L’elenco nominativo dei 345 denunciati fu pubblicato sul «Manifesto» del 28 luglio 1972, sotto il titolo Anche i magistrati aprono lo scontro contrattuale e, in prima pagina, sulla ««Gazzetta del Popolo», 27 luglio 1972, sotto il titolo, esplicito, Questo è l’elenco delle 345 persone denunciate a Torino.

14 Cfr., Bianca Guidetti Serra, Fascismo e antifascismo dal Sessantotto ad oggi, in Fascismo e antifascismo nell’Italia repubblicana, a cura di Guido Quazza, Torino, Stampatori, 1976, pp. 168-169

15 Dichiarazioni riportate nell’articolo Per le 300 denunce contro Lotta Continua, «La Stampa», 29 luglio 1972.

16 Cfr., Questo è l’elenco delle 345 persone denunciate a Torino, «Gazzetta del Popolo», 27 luglio 1972 e Trecento giovani aderenti a Lotta Continua denunciati per attività sovversive, «La Stampa», 27 luglio 1972

17 Trecento denunce a Torino per “propaganda sovversiva”, «L’Unità», 27 luglio 1972. Vedi anche La protesta del PCI dei sindacati e dell’Anpi, «L’Unità», 28 luglio 1972

18 Cfr., Il vizio d’origine degli art. 270 e 272, «L’Unità», 29 luglio 1972. Vedi anche, I “sovversivi” denunciati a centinaia, «Rinascita», 4 agosto 1972.

19 Franco Antonicelli, Fascistizzazione dello Stato, interpellanza del 1° agosto 1972, in Uno storico del presente. Franco Antonicelli, a cura di Marco Revelli e Andrea Gobetti, numero speciale di «Resistenza», XXIX, n. 1, novembre 1975, p. 45

20 Si allontanarono alla spicciolata. Le carte riservate di polizia su Lotta Continua, a cura di Adriano Sofri, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 125-126

21 Trecento giovani aderenti a Lotta Continua denunciati per attività sovversive, «La Stampa», 27 luglio 1972.

22 Dichiarazioni riportate in Diego Novelli, “Preparate” a Roma le 562 denunce di Torino, «L’Unità», 2 agosto 1972.

23 Diego Novelli, Altre 217 persone denunciate a Torino per reati d’opinione, «L’Unità», 1 agosto 1972

24 Questi dati sono ricavabili dalla pubblicazione degli elenchi dei denunciati dall'Arma dei Carabinieri pubblicati sulla rivista «Storia Ribelle», n. 31, inverno 2011-2012: Le denunce dei militanti torinesi di Servire il Popolo e di Lotta Continua nel 1972, a cura di Roberto Gremmo, pp. 2982-3004.

25 Archivio Centrale dello Stato. Pubblica sicurezza (Direzione Generale di Polizia si Prevenzione –Categoria G- anni 1944-1986, busta 346, citato da Le denunce dei militanti torinesi di Servire il Popolo e di Lotta Continua nel 1972, a cura di Roberto Gremmo, p. 2982, «Storia Ribelle», n. 31, inverno 2011-2012. Il rapporto conteneva una lunga descrizione dei fatti addebitabili a Lotta Continua e all’Unione dei Comunisti Italiani a partire dalle lotte di fabbrica del 1969, con particolare riferimento agli stabilimenti torinesi, Fiat in primis. Il lavoro svolto dagli estremisti, secondo il rapporto, era teso «ad inquinare la coscienza politica dei giovani lavoratori», le argomentazioni da loro avanzate avevano come scopo quello «di esasperare gli animi e rendere incandescente l’atmosfera sindacale», il tutto con «finalità eversive» (ivi, pp. 2993-94).

26 Cfr., Bianca Guidetti Serra, Fascismo e antifascismo dal Sessantotto ad oggi, in Fascismo e antifascismo nell’Italia repubblicana, a cura di Guido Quazza, Torino, Stampatori, 1976, p. 172. Vedi anche la cronaca-commento di Renato Solmi, Il processo dei seicento, «Quaderni Piacentini», n. 48-49, 1973, pp83-90.

27 Franco Antonicelli, Le denunce di Torino, «L’Espresso», 20 agosto 1972

28 Citato da Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 171

29 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 172

30 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 232. «E’ degno di nota, scrive Aldo Giannuli, il confronto con le violenze attribuite a elementi di sinistra nello stesso periodo: 11 attentati contro quattro sedi missine colpite e 18 episodi di violenza denunciati con 39 militanti di destra feriti» «Una lettura recente –scrive sempre Aldo Giannuli­- sta proponendo una vulgata che tende a rendere equivalenti la violenza fascista di quegli anni e quella dell’estrema sinistra. Si tratta di un grossolano falso storiografico, smentito in primo luogo dai numeri e in secondo luogo dalla cronologia: chi scatenò l’ondata di violenza furono i fascisti; la violenza di sinistra venne dopo e fu la reazione. Anche sul piano della gravità dei fatti, la bilancia pende abbondantemente dal lato nero. Cionondimeno, si rende necessaria una ricostruzione obiettiva, che registri anche la graduale crescita della violenza di sinistra che sarebbe poi confluita nell’avventura del partito armato» (Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 260).

31 Ermanno Taviani, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Sistema politico e istituzioni, a cura di Gabriele De Rosa e Giancarlo Monina, vol. IV, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 260-261

32 Giuseppe Mammarella, Il Partito Comunista Italiano 1945/1975, Firenze, Vallecchi, 1976, p. 243

33 Gianfranco De Palo a Aldo Giannuli, Vent'anni dopo. Uno straordinario documento storico, introduzione a La strage di Stato vent'anni dopo, Roma Edizioni Associate, 1989, p. 9

34 Gianfranco De Palo a Aldo Giannuli, Vent'anni dopo. Uno straordinario documento storico, introduzione a La strage di Stato vent'anni dopo, Roma Edizioni Associate, 1989, p. 9

35 Filippo Barbano, Mutamenti nella struttura di classe e crisi (1950-1975), in La crisi italiana, a cura di Luigi Graziano e Sidney Tarrow, vol. primo, Formazione del regime repubblicano e società civile, Torino, Einaudi, 1979, p. 204

36 Marco Scavino, La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal sessantotto alla metà degli anni Settanta, in Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, a cura di Neri Serneri, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 124

37 Archivio Centrale dello Stato, P. S. Cat G, Associazioni 1944 1986, b. 364 G. 5/53/31, Unione dei comunisti italiani marxista leninista, copia della nota del Prefetto Mazza, Milano-attività dei gruppi extraparlamentari, 5 febbraio 1971 (citato da Marco Grispigni, Mucchio selvaggio. Conflitto e violenza politica nell’Italia degli anni Settanta, in Il decennio rosso. Contestazione sociale e conflitto politico in Italia e in Germania, a cura di Christoph CorneliBen, Brunello Mantelli, Petra Terhoeven, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 137. Sempre secondo questo rapporto l’estrema destra milanese poteva contare su mille attivisti.

38 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 167

39 Questi dati sono ricavati da dichiarazioni personali di militanti dei gruppi e da articoli comparsi sui loro organi di stampa. Un primo riscontro con questi numeri è oggi possibile dal confronto con i dati relativi agli aderenti ai gruppi extraparlamentari ricavati dal censimento effettuato dal PCI in quegli anni e riportati nel testo di Ermanno Taviani, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Sistema politico e istituzioni, a cura di Gabriele De Rosa e Giancarlo Monina, vol. IV, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. Con beneficio d’inventario si attribuivano 6-7 mila militanti al Manifesto, 14-15 mila al PdUP, 13-18 mila ad Avanguardia operaia 13-14 mila a Lotta Continua (ivi, p. 251) per un totale che oscillava dai 46 mila ai 54 mila. Nel conteggio mancavano gli aderenti al Partito Comunista d’Italia (m-l) e all'Unione dei Comunisti Italiani, quelli di Potere Operaio e quelli appartenenti a formazioni minori (trotskisti, anarchici, collettivi autonomi, gruppi locali, sigle del variegato arcipelago marxista-leninista) e il dato relativo a Lotta Continua ci sembra un po’ sottovalutato. Tenendo conto di questi dati in aggiunta e sommandoli a quelli forniti dal PCI, la cifra di circa centomila aderenti ai gruppi extraparlamentari fornita nel testo appare abbastanza plausibile.

40 Cfr., Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 84

41 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 94

42 Carlo Tullio Altan, Alberto Marradi, Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù degli anni settanta, Milano, Bompiani, 1976, p. 187, 188, 200.

43 Mino Monicelli, L’ultrasinistra in Italia 1968-1978, Bari, Laterza, 1978, p. 227 e 228

44 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, pp. 83-84

45 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 84

46 Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 11-12

47 Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 111-112

48 Luigi Bobbio, Storia di Lotta Continua, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 7

49 Cfr., Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 345

50 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 382. Nel libro di autori vari Progetto memoria. La mappa perduta, sensibili alle foglie, si riporta la cifra di 4.087 inquisiti, cioè di incarcerati per banda armata, associazione sovversiva o insurrezione tra il 1969 e il 1989 (p. 483). Vedi anche Donatella della Porta Il terrorismo di sinistra, Bolgna, Il Mulino, 1990, pp. 139 e ss.

51 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 383

52 Cfr, Aa. Vv., Progetto memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 1994 p. 483 e Donatella della Porta Il terrorismo di sinistra, Bolgna, Il Mulino, 1990, pp. 139 e ss.

53 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 371

54 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 373

55 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 374. Nel febbraio del 1979 uscì «La sinistra», quotidiano del movimento dei lavoratori per il socialismo. Pochi mesi dopo, nel giugno il giornale passò a una periodicità settimanale. Dello stesso periodo anche «Ottobre», quotidiano del Pcd’i m-l, durato un solo mese (ivi, p. 375)

56 Per questi dati cfr., D. Rinaldi, Breve anagrafe della stampa maoista in Italia, «Rinascita», n. 49, 12 dicembre 1969.

57 Cfr., I giovani e la politica: comportamento politico-elettorale, associazionismo tradizionale, movimenti collettivi non tradizionali, a cura di Pierpaolo Benedetti, Milano, Franco Angeli, 1973

58 Cfr. Giacomo Sani, Ricambio elettorale, mutamenti sociali e preferenze politiche, in La crisi italiana, a cura di Luigi Graziano e Sidney Tarrow, vol. primo, Formazione del regime repubblicano e società civile, Torino, Einaudi, 1979, p. 312-314

59 Samuel H. Barnes e Giacomo Sani, Nuovi movimenti politici e partiti tradizionali, in Un sistema elettorale alla prova, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, Bologna, Il mulino, 1975, p. 164

60 Cfr., Mario Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, in Nuovi movimenti politici e partiti tradizionali, in Un sistema elettorale alla prova, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, Bologna, Il mulino, 1975, p. 244

61 Per queste considerazioni cfr., Mario Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, in Nuovi movimenti politici e partiti tradizionali, in Un sistema elettorale alla prova, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, Bologna, Il mulino, 1975, p. 244-46

62 Mario Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, in Nuovi movimenti politici e partiti tradizionali, in Un sistema elettorale alla prova, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, Bologna, Il mulino, 1975, p. 219

63 William Gambetta, Democrazia proletaria, Milano Punto rosso, 2010, p. 32

64 William Gambetta, Democrazia proletaria, Milano Punto rosso, 2010, p. 82

65 Cfr., Mario Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, in Nuovi movimenti politici e partiti tradizionali, in Un sistema elettorale alla prova, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, Bologna, Il mulino, 1975, p. 188

66 Cfr., Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Rizzoli, Milano, 2008, p. 84





Pubblicato il 26 novembre 2013 in Marxismo


dal sito Sinistra Anticapitalista








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