CINEMA

domenica 13 gennaio 2019

QUALE FUTURO PER TEX, EROE SENZA TEMPO? di TERESIO SPALLA






QUALE FUTURO PER TEX, EROE SENZA TEMPO? 
di Teresio Spalla


Si chiudono le celebrazioni per il settantennale e si aprono nuove stagioni. Ma quali?
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Sta per finire l’anno in cui Tex ha compiuto settant'anni e mai il termine celebrativo ha avuto un senso come oggi per tutte le manifestazioni che si sono tenute: articoli su quotidiani e rotocalchi solitamente ignari dell’esistenza del fumetto; il varo di nuove collane su di lui oppure, tramite il suo longevo successo, nate come nuove pubblicazioni della Sergio Bonelli Editore; gadget di abbigliamento, tazzine decorate, stelle di latta invisibili dalla mia infanzia, giochi da tavolo e di ruolo.
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Addirittura è stata annunciata la ricostruzione del suo ambiente tipico in un parco a tema in formato naturale nei pressi di Padova; e poi dichiarazioni di filosofi, sociologi, impensabili e illustri ammiratori; quindi una moltitudine di libri di narrativa e non, ristampe e nuove edizioni, edite dalla Sbe e da altri editori accorti.
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Sarebbe inutile prendersela per la banalità degli articolisti, i quali, per cavalcare l’evento su richiesta, hanno riprodotto le solite informazioni, generiche e risapute da decenni, senza dire niente di più.
Tranne pochi, molto pochi tra i tanti, che non si sono lasciati irretire nel loro affetto come nei loro dubbi.
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Tra questi, il filosofo Giulio Giorello (1), in una “lezione” tenuta al Cartoocomics di marzo al FieraMilano, ha dato una informazione più concreta e condivisibile al lettore che non conoscesse il personaggio.
È un eroe meravigliosamente semplice e, al tempo stesso, un eroe che pensa.
Credo che abbia colpito la fantasia di tanti giovani italiani proprio per questa ‘semplicità intellettuale’ intesa nel senso migliore del termine.
Non è un personaggio banale, non è affatto un eroe tutto sparatorie e cazzotti, un superuomo.
È un personaggio che pensa ed è capace di far fronte alle situazioni anche più dure della vita.
A volte può provare dentro di sé anche il senso della sconfitta, come la presa di coscienza di un rapporto con le tribù indiane mostrando i nativi come persone che hanno desideri, passioni, sofferenze”
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Poi Giorello attribuisce tutto il merito al lavoro di Giovanni Luigi Bonelli e di Galep (il creatore grafico Aurelio Galleppini) e qui dimostra, pur avendo espresso idee intelligenti, di non avere seguito di recente il personaggio.
E aggiunge un concetto accettabile ma improprio, qualcosa che in altri tempi avrebbe seccato gli autori e fatto clamore: “Chi ha nostalgia per ‘l’uomo forte’ non la trova in lui, ma trova il bisogno della trasparenza che ne farebbe un esponente della legalità democratica espressa dalla Resistenza”.
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Sul Corriere della Sera un articolo (2) viene concluso con una osservazione sincera: “L’enorme successo di Tex fuori dai confini italiani, che le sue vicende siano tradotte in un gran numero di lingue, dimostra chiaramente come si tratti di un prodotto capace di parlare ad un pubblico di luoghi dove non sempre esiste la giustizia”.
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Devo ammettere che, tra tutte le esegesi, mi ha colpito l’asciutto e commovente saluto di Claudio Villa (3) che realizza le copertine dal 1994 ed è stato disegnatore di alcune memorabili storie, e quello (4) di un amatore non professionista, Enrico Valcamonica, che dirige un frequentatissimo sito su Tex.
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Afferma Enrico: “(…) per rispondere alla domanda perché, dopo settant'anni, siamo ancora qui, dirò che la risposta non sta solamente nelle doti intrinseche del fumetto e del personaggio, ossia nel fascino delle storie e nella bravura dei disegnatori, ma soprattutto per quel che Tex rappresenta: la lotta senza quartiere, energica e perfino spietata, non solo contro ogni forma di ingiustizia ma, specificatamente, contro le ingiustizie dei potenti, degli arroganti (…) e di ogni forma di mascalzoni altolocati.
Tex piace perché costituisce la rivolta dell’uomo medio contro il potere gaglioffo; la rivolta dell’uomo di buon senso contro le assurdità della macchina sociale, la degenerazione delle istituzioni, e contro le spietate conseguenze delle leggi economiche.
Tex ha successo in Italia proprio per questo motivo (…)”.
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Ora però cerchiamo di capire in altro modo come Tex sia arrivato alla ricorrenza senza ignorare che, nel gennaio 2019, si compirà col n°700 della collana regolare (5), quella che dal 1968 edita soltanto vicende inedite, scritte appositamente per quel formato (detto anche il formato Bonelli o bonellide) divenuto talmente frequente nell'editoria fumettistica italiana che, ancora oggi, qualsiasi altra collana di prestigio anche di altro editore, si rifà alle medesima taglia.
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Il formato striscia (6) che fino alla mia generazione chiunque non può non ricordare, dovuto all'immediata carenza di carta nell'Italia del dopoguerra, sembra sia stata inventato durante un pranzo fra tre editori dell’epoca (lo stesso Gian Luigi Bonelli, Gino Casarotti e Tristano Torelli) che poi ne fecero largo uso.
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Se l’esordio spetta alla collana di uno dei personaggi più superati dai tempi (Il Piccolo Sceriffo di Torelli e Camillo Zuffi), il 30 settembre 1948 appare il primo albetto con Tex Willer.
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Il primo Tex non è concepito da Gian Luigi Bonelli come la personalità precisa che iniziò a farsi conoscere dalla metà degli anni Sessanta quando, gradualmente, il figlio Sergio, alias Guido Nolitta, si sostituì al padre come autore e risistemò la collocazione cronologica che, durante i primi dieci anni, fu un guazzabuglio di contraddizioni storiche e narrative.
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Com'è noto, la prima serie nasce come un prodotto di secondaria importanza mentre il vero sforzo creativo di autore e disegnatore è dedicato ad Occhio Cupo, personaggio che ha patito l’insuccesso più di quel che meritasse e la cui ristampa degli albi riporta a stupende raffigurazioni dell’America coloniale dove, tra terra e mare, in mezzo a tribù native ed equipaggi pirateschi, si muove quest’eroe mascherato nel quale si fondono l’amore di Bonelli Sr per il romanzo d’avventura classico e quello d’appendice; e un west primordiale senza il sottinteso razzismo dei romanzi di Fenimore Cooper, con l’aggiunta di un dignitoso richiamo allo spirito delle opere di Dumas padre, Robert L. Stevenson e Rafael Sabatini, che pure al western non hanno dato contributo.


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Inoltre Bonelli Sr, detto il Gino nella Milano pugilistica dov'è già ben noto, che è stato e si considera ancora uno scrittore di narrativa popolare, è, tra il 1947 e il ‘48, ancora debitore a Eugene Sue e ai suoi romanzi tradotti in italiano: I misteri di Parigi, I misteri del mondo, La vendetta del Corso (7), nonché alla pubblicazione a puntate dei citati Dumas, Stevenson, Sabatini e l’inglese A.E.W. Mason (dopo Kipling alla cui arte certo non giungeva, il più competente e avvincente creatore di storie nell’India sotto gli inglesi). 
E infine a Edgar Allan Poe e a tutto il suo mondo di autocoscienza piena di disagio interiore e paura dell’ignoto.


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Nato nel 1908, Gian Luigi Bonelli vivrà entusiasticamente anche le prime edizioni cinematografiche, mute e poi sonore in adattamenti spesso di prestigio, delle avventure degli scrittori nominati. I tre moschettieri, I fratelli corsi, Il Tulipano Nero e Il conte di Montecristo da Dumas; La freccia nera, Il ragazzo rapito e Catriona, Il Signore di Ballantree da Stevenson; Il Capitano Blood e Lo Sparviero del mare, Il Cigno nero e i Racconti turbolenti di Sabatini; Le quattro piume e Il tamburino (il principe Azim) di A.E.W. Mason; e un po’ tutti i racconti terrificanti di Poe.
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Le citazioni non sono casuali poiché egli introdurrà, qualche volta consciamente e qualche altra senza nemmeno rendersene conto, gli elementi fondanti di questi titoli nelle sue esperienze professionali dagli anni Trenta in poi, come quando dirige, collaborandovi attivamente come scrittore, Il giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare dell’editore Sonzogno, e scrive i suoi tre romanzi: L’ultimo corsaro (Le Tigri dell’Atlantico), I fratelli del silenzio e Il crociato nero (8), il quale diviene un fumetto sul settimanale cattolico Il Vittorioso con i disegni di Kurt Caesar (9).
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Non credo, nonostante le svariate scorribande nel genere, fosse già allora un appassionato del west, tramandatogli dalle oggi illeggibili narrazioni salgariane, ma che aveva pur già toccato vasta popolarità nel fumetto italiano.
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Ritengo invece come, da un certo momento in poi, Gian Luigi Bonelli sia stato piuttosto condizionato dal cinema che, con le sanzioni prima e la guerra poi, si vide proibita in Italia l’esportazione delle grandi majors di Hollywood, ma non delle case indipendenti.
Infatti il capolavoro-archetipo Ombre Rosse (11), che figurava come produzione indipendente, appare nelle sale italiane nel 1939 insieme a film minori che mantengono vivo il richiamo del western anche nel periodo bellico.


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Per quanto considerato ancora da alcuni come una deviazione americana dei resoconti militari inglesi nelle colonie, il fascino delle imprese dei pionieri contro una terra ostile e la minaccia pellerossa, così come la guerra urbana tra sceriffi e banditi, appare a Bonelli in tutta la sua autonomia narrativa e storica, anche se intuisce come la Storia vera sia sempre filtrata dalle memorie ancora fresche dei conquistatori bianchi, e lo spinge verso il territorio narrativo che farà la sua fortuna.
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Alla fin fine le avventure di Occhio Cupo sono il tentativo di mescolare quel fascino più moderno con quello subìto fino allora dagli altri generi.
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Comunque sia, della verosimiglianza storica Giovanni Luigi Bonelli o se ne infischia o ne fa a meno per mancanza di documentazione.
Nelle storie con Tex che vanno dal 1948 al 1964 mescola un po’ di tutto.
In quei fumetti di Tex ci sono due invasioni messicane degli Stati Uniti mai avvenute e un cambiamento di regime a Città del Messico che non trova riscontro.
Il corpo dei ranger porta le divise dell’esercito e ha la funzione (mantenuta ancora oggi) più di polizia federale che di un corpo di volontari quale fu, strettamente statale e indirizzato sia contro i banditi, ma anche al massacro della popolazione comanche del nordovest del Texas.
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Sempre i messicani tentano di riprendersi alcuni territori nelle avventure tra Tex e Manuela Guzman, in parte ispirate a Rancho Notorius di Fritz Lang con Marlene Dietrich e Johnny Guitar di Nicholas Ray con Joan Crawford, due western dove la protagonista è una donna volitiva e affascinante che, nel fumetto, è riveduta su Lana Turner benché Galep fosse prodigo nel rivelare ispirazioni diverse e contrastanti, specialmente se trattava di creature femminili(12).
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Poco dopo, quando comincia la guerra civile, ai ranger e quindi anche a Tex spetta di vigilare sulle pianure non coinvolte nel conflitto, garantendo la sicurezza delle carovane di pionieri da fuorilegge e nativi ancora spietati.
Compito mai affidato a nessuno, tanto meno ai ranger del Texas, stato schiavista.
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Non manca un incontro del tutto trascurabile in quanto a originalità, con il feroce capo dei guerriglieri sudisti Quantrill, che appare come un molto meno pericoloso ciccione che porta la divisa grigia regolamentare (13).
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Tra i più noti banditi, Tex incontrerà anacronisticamente i fratelli Dalton (14); Butch Cassidy (15), in un episodio tardivo per l’inverosimiglianza poiché è ormai attiva la presenza del figlio Sergio, che corregge come può le storie e rende più plausibili le sceneggiature, mentre il disegno di Galep si è ormai fatto maturo e ben delineato.
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Stranamente, nel caso dei Dalton, Bonelli non si rifà per nulla al film di successo La vendetta dei Dalton del 1940 (16), dove la vicenda è narrata con la nonchalance satirica del regista George Marshall.
Il richiamo, come nell’incontro con Butch Cassidy, è piuttosto basato su una serie di film molto di moda nella Hollywood degli anni Quaranta, dove gran parte dei fuorilegge più famosi del West si ritrovano molto impropriamente riuniti in opere che, in qualche caso, ne esaltano la componente ribelle alle angherie dei carpetbaggers nordisti o di latifondisti affamati di terra, in altri sono ferocissimi e senza pietà con donne e bambini (17).
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È quindi assai probabile che Bonelli Sr si ispirasse a questi film mentre Tex diviene da bandito, falsamente accusato, un membro dei ranger e deve dare la caccia ai veri fuorilegge in vicende in cui la mancanza di veridicità storica sembra quasi un ingrediente indispensabile perché il lettore si rifaccia alla massa di film western, dalla serie A ai serial di scarto, scaricati in Italia man mano che dagli Usa venivano riservati al nostro mercato.
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D’altro canto le tesi sulle origini di Tex e del suo carattere possono essere anche diverse, come nota Sauro Pennacchioli riferendosi non solo al personaggio a Dick Tracy ma anche a Dick Fulmine nelle avventure di Vincenzo Bagnoli e Carlo Cossio di cui, dal 1940, Gian Luigi Bonelli, da prima autore comprimario, diviene il principale (18).
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Ma il suo personaggio esemplare diventerà, dal 1940, Furio Almirante, con disegni di Carlo Cossio, che viene presentato come “l’uomo dal pugno d’acciaio” e fa il pugilatore di mestiere.
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È la figura chiave per la rinascita della testata Audace che Bonelli Sr acquista dall'editore Lotario Vecchi creando, con altri soci, la una nuova impresa societaria.
Per rilanciare Audace, Bonelli costituisce con Dante Daini, ex funzionario della casa editrice Saev, e altri soci, la nuova società che pubblicherà cinque soli numeri prima che Bonelli rilevi il tutto, diventando unico editore.
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Che Tex discenda in parte da Furio (poi privato dal cognome diventato imbarazzante e comunque già dotato di un cappello da cow-boy che figura nel marchio circolare di copertina) è evidente ed è alla base delle numerosissime risse in cui si ritrova o combina lui stesso.
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Bonelli sr vi rimarrà comunque affezionato al punto che, quando la moda degli “uomini forti” è ormai scomparsa, lo ripropone nel 1964 ancora come Furio e basta, ma con una diversa identità narrativa e grafica dovuta a Franco Bignotti.
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Quindi, nel carattere riottoso e amante dei tumulti di Tex nel suo primo periodo, sappiamo da chi ha preso anche se poi apparirà un altro personaggio che riassumerà in sé le qualità pugilistiche (che vedremo poi).
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Però nelle storie non mancano i riferimenti più evidenti o dilatati alla narrativa di Poe e agli aspetti più cupi di certo romanzo d’appendice anche italiano compresa la principessa del genere: Carolina Invernizio.
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I riferimenti più evidenti li troviamo nella lunga vicenda della guerra col Messico nel rapporto spionistico della diabolica Lily Dickart che intrattiene amorosamente graduati in giubba blu (19).
Gli segue subito dopo Satanìa che, quando non si maschera da spietata banditessa, è l’affascinante Cora Gray, uno dei primi personaggi dalla scollatura censurabile con cui il giovane Tex si accompagna volentieri.
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Questo personaggio femminile, quando Cora diviene Satanìa, non a caso è bardata come una piratessa con tanto di bandana che le avvolge la lunga chioma (20).
Però, specie quando la vicenda si svolge di notte, si muovono le creature del riconoscibile e desolato Edgar Allan Poe, compreso lo scimmione assassino, in vicoli oscuri pavimentati come se l’azione si fosse spostata dal west ai bassifondi di Londra.
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La stessa atmosfera (21), corredata di più lampanti riferimenti cinematografici, si ritrova in La valle della paura, dove Bonelli Sr dimostra di rifarsi contemporaneamente a Poe e alla narrativa gotica in genere con una trasparente eredità da un classico film come Ombre Malesi e una serie di film di serie B, iniziata con Ho camminato con uno zombie, dove l’atmosfera horror si spostava in isole tropicali al suono terrificante di tamburi nella foresta e fuochi accesi nella notte per misteriosi rituali pagani.
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A testimoniare quanto l’autore e il disegnatore fossero attenti al cinema, qui troviamo Lionel Barrymore dotato dell’apposita sedia a rotelle (l’attore, afflitto da artrite reumatoide, recitò fino alla morte ripreso dalla vita in su o con apposite stampelle) e come malvagia governante dayak, Mayumba, con i tratti, appena appena incrudeliti, delle dive latinoamericane o finte tali della Hollywood degli anni Cinquanta quali, nel caso, Katy Jurado e forse tante altre.
Non manca anche qui il gorilla armato di scimitarra in sella a un destriero dagli occhi rossastri e il pellame più nero della pece.
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Su Giornale Pop si è letto un interessante articolo in cui si valutano richiami a Sir Arthur Conan Doyle (22).
Ma bisogna riconoscere quanto Tex sia un personaggio lontanissimo da Sherlock Holmes e il suo metodo deduttivo, anche nei romanzi che sembrano evocare, nel titolo, involucri narrativi a loro volta inseriti però nella brughiera britannica.
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Nella lunga avventura canadese divisa in due storie (23), Tex ripercorre, anche indossando la stessa camicia a quadretti del protagonista Gary Cooper (qui effettivamente anch'egli un ranger del Texas) la trama dell’epico Giubbe Rosse con la trasferta a nord durante la rivolta dei Métis e la medesima episodica.
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Qui, dove Tex incontra due dei suoi amici per la vita (il trapper métis-francese Gross Jean e l’ufficiale canadese Jim Brandon) incontriamo tutta una serie di volti ispirati agli attori del film e alla compagnia stabile del western americano tra gli anni Quaranta e Settanta, tra cui fa piacere segnalare l’anziano C. Aubrey Smith, definito il “colonnello più colonnello tra i colonnelli dal palcoscenico allo schermo”, che qui è il comandante del forte, i cui scatti d’ira vengono calmati da Tex con una imboccata di bicchieri d’acqua.
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Nella seconda vicenda, in cui ci si sposta nello Yukon, il riferimento è, in presenza di due storie intrecciate, al rifacimento piuttosto spudorato di Il ponte dei senza paura (24), con Randolph Scott.
Persino il cattivo è modellato sul perfido villain cinematografico Victor Jory, occhiali compresi, mentre Tex, ormai padre, si allontana dal primo prototipo e, pur rimanendo vicino a Gary Cooper, assume caratteri somatici più originali.
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Qui si consuma una storia di gelosie e sensualità abbastanza ardita e inadatta anche agli adolescenti con la mentalità dei tempi di Walter Marcheselli, Febo Conti e il Mago Zurlì, star de “La tv dei ragazzi”.
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Vi troviamo Paulette Goddard (nella stessa parte e con il medesimo vestiario di Giubbe Rosse, ma ristretta alle vicende della “banda degli orsi”) e un Robert Mitchum, qui ignobile e codardo, ripreso probabilmente da qualcuno dei suoi primi film di serie b o per antipatia dell’autore visto che il giovane Mitch non aveva ancora interpretato ruoli di cattivo in film importanti ed era in salita come star della Rko di Howard Hughes.
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Un altro compagno di Tex, l’inseparabile navajo Tiger Jack (25) appare nel 1951, anche se la sua personalità verrà tratteggiata sempre meglio e sottoposta a una evoluzione, soprattutto nel linguaggio e nel rapporto con i pard, privata del paternalismo che contraddistingueva le spalle indiane degli eroi bianchi.
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Mentre Kit Carson (26) arriva quasi subito e il figlio Kit Willer compare, poco dopo, già fin troppo cresciuto (anche se nella successiva storia canadese sembra quasi in età prescolare), le storie di Tex, ora ranger a tutti gli effetti, proseguono, dopo il viaggio nel nord e le avventure con Manuela Guzman, nell'album gigante La fine di Lupo Bianco (27) senza grandi evoluzioni.
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Rifacendomi non solo alle riletture recenti ma anche a quelle di quando ero un bambino, ritengo che, da questo punto, cominci un periodo di stasi, in cui l’autore sembra stanco di Tex e non inventa storie fuori dalla norma.
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Non tralasciamo il fatto che, all'ormai rigoroso tratto di Galep (ottimo paesaggista in proprio ma ormai escluso da altre imprese nel fumetto), si abbinano storie, con episodi presi di peso dal cinema, dove i pellerossa, spesso cattivissimi, assaltano ranch dispersi nella prateria e, al momento del loro ultimo e inesorabile attacco, alle donne viene consegnata una pistola carica, un segnale di implicito razzismo del quale G.L. Bonelli non doveva essere nemmeno cosciente.
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La pistola carica, l’esortazione ad uccidersi piuttosto di andare a vivere con i pellerossa, e soprattutto avere con loro rapporti sessuali, compare infatti anche in tanti altri fumetti, romanzi, film.
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Si sarà politicamente scorretti ad affermare che ben di rado una donna bianca poteva desiderare di vivere coi pellerossa ma, quando anche le storie con Tex giungeranno alla loro maturità definitiva sotto la guida di Sergio Bonelli, sarà il protagonista a sentire inconsciamente il dolore di vivere diviso tra due popoli come in una delle storie meglio raccontate, storicamente pertinenti, disegnate da un grande disegnatore dallo stile peculiare, Erio Niccolò.
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Stiamo parlando della storia di Apache Kid (28), la guida indiana ingiustamente condannata dall’esercito che si getta in una serie di assalti senza speranza addosso a poveri pionieri.
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Nonostante si trattasse di film molto amati da Sergio Bonelli, Tex appare, man mano che si sviluppa la sua personalità di indiano-bianco, all'antitesi di protagonisti del cinema western classico come Tamburi lontani, con Gary Cooper a caccia di seminole, e soprattutto il più ambiguo dei film di John Ford, Sentieri selvaggi, con un cruento e razzista John Wayne condannato però, nel finale, ad allontanarsi, prigioniero della solitudine e vittima dei suoi stessi pregiudizi.
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Da notare come, di recente, due albi similari, Cuore apache e Johnny il selvaggio, con una storia molto simile, scritta da Pasquale Ruju e disegnati dal bravissimo Yannis Ginosatis, abbiano rivisto il tema di Apache Kid, senza però, tranne il dilemma che affligge un indiano cresciuto tra i bianchi dell’Est, sia presente così profonda la stessa sensazione a coinvolgere Tex, senza nulla togliere all'abilità di Ruju e Ginosatis straordinario nel riprodurre le esatte divise e gli armamenti durante e dopo la guerra tra gli stati.
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Ritornando però ad anni ormai lontani possiamo segnalare, tra il 1962 e il 1964 (trattando della serie regolare per quanto ci si riferisca ancora a storie uscite in formato striscia tra il 1954 e il 1958), l’incontro con Pat MacRyan (29), l’ultimo arrivato degli amici fondamentali di Tex (El Morisco, Damned Dick e Buffalo Bill si faranno vivi più tardi), tanto che nel n. 100 (30), il primo a colori (era assai raro allora che una collana giungesse a quasi cento mesi, più di otto anni e mezzo), vi compaiono Tex, Carson, Kit, Tiger, Gross Jean e Jim Brandon arrivati appositamente dal Canada, e appunto Pat, per un’impresa di non così tremendo pericolo, ma per cui la loro presenza è giustamente simbolica.
Alcuni si chiesero della mancanza di Montales, ma poi si seppe che si era dato alla politica anche se in seguito non mancherà a nuove avventure.
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Pat arriva nell’agosto 1957 e rimane, quasi ininterrottamente, con i nuovi amici fino all’aprile del 1958.
Pugile di mestiere, irlandese legatissimo alla sua terra, quasi sempre vestito con una maglietta a strisce stretta sui suoi muscoli poderosi, assomiglia inconfondibilmente, nel viso, all’attore Victor McLaglen.
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L’esperimento s’era già tentato con Gross Jean ma Galep, impicciato nel vestiario nordico e soprattutto il basco e il cappello di castoro, aveva poi trasformato il viso del métis rendendolo più bonario e segnato semmai dall’età.
Fu così bocciato da Bonelli Sr ma l’affezione dei lettori ne determinò le regolari apparizioni nella saga.
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Giramondo e quasi sempre senza un soldo, Pat, nel suo secondo incontro con Tex (31) viene definito dal ranger così: “Questo è Pat Mac Ryan, niente di speciale come cervello ma con dei muscoli…”.
Però in Pat ci sono anche bontà innata e spirito fraterno, che faranno di lui (così diverso nella strafottenza dei modi dai personaggi dell’attore da cui ha preso vita) un amico sempre pronto ad aiutare i pard, così come i pard spesso lo tolgono dai guai.
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Da notare come la poca fiducia nella vicenda editoriale di Tex (che pure già teneva da solo in vita la casa editrice) generasse, ancora nel 1957, la scarsa accuratezza di Bonelli padre.
Va citato infatti l’episodio (uno dei rari sketch comici di cui il figlio Sergio si attribuirà la paternità molto più tardi, disegnato infelicemente da Francesco Gamba) in cui Pat tenta di guidare una Ford T in realtà creata nel 1927 e messa in commercio l’anno dopo.
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Se qualcosa del genere accadesse oggi scatenerebbe subito l’attenzione di siti, gruppi e pagine social.
Allora passò quasi inosservato, sia perché le vendite non erano così straordinarie sia perché il tratto di F. Gamba poteva piacere solo ai lettori più giovani.
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È in quel periodo che, per il troppo lavoro a cui è sottoposto Galep, a parte la partecipazione di Guido Zamperoni e Lino Jeva in un solo albo ciascuno (32), si inseriscono abbastanza stabilmente il non confacente Mario Uggeri (quante belle storie ha rovinato privandoci della consuetudine di Galeppini), già presente anche occasionalmente dal 1950, e ancora Francesco Gamba, il quale, non riuscendo nemmeno ad avvicinarsi al tradizionale profilo di Tex ormai nelle fattezze caratteristiche di Galep anche come copertinista, si vede le teste tagliate e sostituite con altre disegnate da Galep in storie precedenti o per l’evenienza.
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Non mancano comunque storie che si richiamano a personaggi ricordati più per la loro stravaganza che per la loro malvagità.
È il caso de Il coyote nero (33), il quale non passerà alla storia per particolare originalità e comunque perché, negli albi che seguono, i pard non tengono conto di averlo incontrato.
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Al contempo proseguono le ispirazioni ai limiti del plagio come l’incontro con Vindex, uno scienziato pazzo che ha scoperto come ingigantire e rimpicciolire animali e uomini.
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La vicenda, pur prelevata dal celebre fanta-horror Il dottor Cyclops (34) degli stessi autori di King Kong, rivela comunque un suo fascino e un’atmosfera di inquietudine e tensione, forse perché siamo ormai nel 1963 e il cinema popolare italiano, dopo la scoperta del Techniscope e l’enorme incremento di film nostrani nelle sale, ha ormai quasi cancellato dalle sale il bianco e nero, a meno che non si tratti di classici senza tempo o successoni di solo pochi anni prima.
Quindi è difficile che il numero crescente dei lettori, costituito in gran parte di ragazzi, possano averli visti se non in tv, dove, comunque, per un accordo con le società dei distributori e degli esercenti, non vengono trasmesse opere cinematografiche che due volte a settimana, pellicole solitamente ormai fuori diritti o inserite necessariamente in cicli di alto valore storiografico.
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Vindex ha la testa pelata, il camicione alla dottor Frankenstein, persino gli occhiali da miope, come il protagonista del film e, a riguardo, c’è veramente da chiedersi se fosse stato così arduo trovare qualcosa di diverso almeno nell'aspetto fisico e nell'abbigliamento.
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Ma la risposta è semplice: ormai Bonelli Sr non riesce più a creare qualcosa di originale da se stesso.
Ma visto che qui ci riesce, pur partendo da fonti non originali, e crea personaggi ed atmosfere piene di tensione e paura dell’ignoto, perché non allontanarsi dal prototipo se non per stanchezza ?
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Ovviamente i soliti fan parleranno di “omaggio”.
Ma, a parte che questa moda era ancora sconosciuta, perché ripetere così un personaggio che le circostanze avevano fatto dimenticare ai più giovani ma ancora viveva tra chi avesse allora dai trent'anni in su ?
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Non priva di fascino anche la vicenda in cui i ranger si trovano coinvolti ne I figli della notte (35), in cui si imbattono in una setta di antichissimi sacerdoti dotati della capacità di apparire in forma fantasmatica, ma non in grado di far del male se non col contatto fisico e con metodi tradizionalissimi.
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La storia ha una sua originalità ricavata dalla presenza dei cattivi in località sconosciute del deserto dell’Arizona, i quali non salvano i loro templi dalla completa e immancabile distruzione finale, con le loro caratteristiche indotte da capacità psichiche sconosciute ma scientificamente spiegabili.
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Chissà poi come avranno fatto loro e tanti prima di loro, in storie consimili, a costruire indisturbati edifici così grandi tra le pietre e la sabbia di metà Ottocento?
Ma nessuno, giustamente, se lo chiede, a salvaguardare lo schietto realismo texiano in un impresa soltanto rovinata dalla molto meno fantasiose tavole iniziali di Virgilio Muzzi che, quando il gioco si fa duro, viene per fortuna sostituito da Galep.
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Nel precedente Le terre dell’abisso compare invece un personaggio ben conosciuto anche oggi della letteratura fantastica, She, ovvero La donna eterna di H. Rider Haggard (36), che qui si chiama Mah-Shai.
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La bellissima creatura conduce i pard in un mondo sotterraneo dove incontrano dinosauri e pterodattili, lì rimasti dalla preistoria, e dove vivono i Makandra, un popolo di disgraziati rimasti all’età della pietra che sacrificano alla loro dea giovani pellerossa rapiti.
Ovviamente tutto si conclude con la riduzione della regina alla polvere dei secoli, e la distruzione di quel territorio sconosciuto (questo prelevato da Il mondo perduto (37), romanzo fantapreistorico di Sir Arthur Conan Doyle) di cui nemmeno i pard potranno raccontare senza essere presi per pazzi.
Un altro tocco di realismo texiano, non solo tipico dei Bonelli, ma certamente efficace.




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La destrezza di Galep e la sagacia di Sergio Bonelli (che aiutò il padre come poi farà con I figli della notte) riescono, anche per chi avesse letto i romanzi (allora già ben conosciuti dal pubblico adolescenziale e più maturo), a connotare di originalità la vicenda e le figure di esseri ancestrali, l’innesto dei pellerossa, le profezie dello sciamano navajo….. e tutto si colora di un ascendente tutto suo.
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Ciò accadrà anche con il prologo, indimenticabile, all’avventura de La città d’oro (di cui diremo tra poco), che inizia pressappoco con l’ormai tradizionale didascalia: “In un tranquillo giorno di primavera, nei pressi dei monti. Compaiono la Regina dei coyotes, un’anziana eremita che sa ammaestrare le creature del deserto, e May-Koo, un elusivo e malvagio indiano Sabinas, il quale, sulla base di una profezia dello stregone Tabual, che lo prevede circondato da una gloriosa aurea luminosa, induce Tex e compagnia alla conoscenza della tribù dei Cani rossi, custodi della misteriosa città, i quali, crudelissimi, lo ringrazieranno bruciandolo vivo al palo della tortura mentre questi, vedendo la luce del fuoco che lo circonda, dice a se stesso, riferendosi alle parole per cui ha tradito: “Tabual, maledetto mentitore, ecco come un giorno il mio viso risplenderà in un gran cerchio di luce”.
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Mentre risalgono a fatica le alte mura della città dai tetti di metallo prezioso che brilla al sole del sud-ovest, Tex e Tiger troveranno Goyas.
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Goyas si trova in una gabbia di ferro, appesa appunto all’esterno delle mura, e il cui viso non promette nulla di buono.
Una decina d’anni dopo dall'uscita italiana del 1954, mi trovai ad assistere al capolavoro ineguagliato di Orson Welles (l’Otello, girato tra mille traversie tra il 1951 e il 1952, e completato, in giro per mezzo mondo, grazie all'inventiva di un irripetibile maestro del cinema) dove, nelle sequenze iniziali, mentre un cupo corteo rientra oltre il ponte levatoio, Jago, con lo stesso ghigno doloroso di Goyas, è appeso in una gabbia di ferro alla parete della città.
Le sue menzogne sono state scoperte, la tragedia di Otello e Desdemona si è compiuta, lui deve pagare e tutto il suo livore e il suo odio spuntano da dietro le sbarre.
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Galep, ancor prima che io vedessi il film di Welles, di tutto ciò mi aveva già fornito un’immagine rimasta fissata nelle mia mente tanto che, dandomi un colpo alla fronte, finalmente godendomelo, esclamai “Goyas… la Città d’oro!”.
E quando lo rividi con ancor maggiore consapevolezza in copia restaurata, al nuovo Sacher di Roma nel 1992, ci fu persino un altro spettatore che urlò “Ma ci hai raggione! Ebbravo! Eccolo dove l’avevo vista sta faccia!”, inviperendo Nanni Moretti, che aveva applicato alla sua sala regole severissime su quando entrare, uscire e pisciare, anche a chi era abituato da sempre all'ingresso libero in ogni momento e a ricostruire nella mente la trama, esercizio che ritengo utilissimo per i giovani studenti di cinema che certamente non ne sanno nulla.
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Quindi, quando lessi La città d’oro e non conoscevo ancora il cinema di Orson Welles, Galep aveva trasferito nel fumetto la qualità superiore dell’arte di un maestro del cinema, il traumatico istinto che la visione di Jago in gabbia suscita nello spettatore.
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Tex è quindi stato, più che un fenomeno basato sulle citazioni come tanti altri, anche un fenomeno in cui si realizzavano gli incubi interiori di un mondo che ha smarrito la sua cronologia.
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Lo stesso si può dire per tutte le storie di Mefisto (40), che appare nel 1958 come Steve Dickart, fratello della sopracitata Lily, un prestigiatore abile ma niente di più, comunque una figura malvagia in quanto spia del Messico.
Neanche Bonelli Sr e Galep immaginano che diventerà, cinque anni dopo, il nemico fondamentale di Tex, il più seguito dai lettori.
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Nelle sue prime tre apparizioni da vero mago (ma la definizione non è esatta), tra il 1958 e il 1968, Mefisto appare come un incredibile imprenditore data la costruzione di templi giganteschi in ogni episodio.
Anche se pure si serve di nativi e afroamericani fatti schiavi e del temporaneo socio Black Baron nella vicenda dove compare la bellissima Loa, la quale, insieme all’Esmeralda di Guglielmo Letteri (41), vincerebbero ancora oggi il primo premio come le più affascinanti principesse del fumetto italiano.
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Di può chiudere un occhio sulla capacità di Mefisto di reperire architetti e ingegneri nei luoghi più selvaggi e ignoti è anche perché, in tutti gli episodi, si mostra come qualcosa di più del tipico scienziato pazzo (42) ma non sulla sua natura originale.
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Si tratta di un uomo dotato di facoltà psichiche eccezionali (può apparire in visioni materializzate ma non può colpire direttamente come I Figli della Notte), in grado di comunicare con gli anfratti più misteriosi, nascosti, crudeli e scellerati, dell’animo umano.
Questo mondo apparentemente al di là della conoscenza scientifica è il male che abbiamo tutti dentro di noi e che nella lotta contro il bene talvolta vince, talvolta perde, talvolta combatte per una vita intera.
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Mefisto non inventa strumenti meccanici, non anticipa l’elettricità o l’astronautica, ma, con il rapporto che il suo pensiero ha stabilito tramite il luogo scabroso dove il male ha il suo regno, riesce a combattere una battaglia che l’epoca delle armi a ripetizione, le ricerche scientifiche di El Morisco (anche lui uno scienziato e non un mago, e accidenti a chi ancora non l’ha capito) e l’invulnerabilità di Tex (in quanto agente del bene) non possono sconfiggere che a duro prezzo
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Insomma, Mefisto è un essere le cui doti riusciranno a scoprire le ricerche empiriche soltanto quando potranno penetrare nel pensiero umano, in quegli antri oscuri che noi stessi non possiamo ancora sapere.
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Anche se, con la forza della sua mente, l’avversario riesce a vedere dove sia e cosa faccia, però tramite sostanze gettate nel fuoco che trasmettono il potere a bacili di liquidi misteriosi o globi di materiali incogniti, Tex, che pur è stato colpito drammaticamente in tutti e due gli incontri precedenti, mantiene fermo il suo realismo.
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Quando, nel terzo episodio, il ranger lo incontra e il suo volto appare davanti a lui e ai suoi pard nell’aria soffocante del deserto, gli risponde: “Toh! Il vecchio pazzoide!”.
Quando Mefisto risponde “Non sono pazzo, Tex! Non sono mai stato pazzo! Mai!”, il ranger ribadisce “Calma, vecchio ciarlatano! In fondo che tu sia pazzo o no, non me ne importa un accidente!
Quel che conta, per me e per i miei pard, è di poterti acciuffare
(…)!”.
“Parole al vento, Tex! Il mio potere è grande e va dalla terra al cielo” , e Tex replica: “Non esiste potere che possa formare una pallottola, vecchio illuso!
Comunque sia, e pur riconoscendo le tue non comuni capacità, mettiti bene in testa
(…) che potrai considerarti fortunato se gente dal cuore tenero ti rispedirà in manicomio!”.
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A quel punto, di solito, Mefisto si arrabbia talmente da rivolgersi alle anime di quel mondo misterioso che non viene mai definito “inferno” ma che, nelle raffigurazioni più riuscite, ricorda un classico ineguagliato del fumetto, Il Dottor Faust, nella realizzazione di Pedrocchi con Gustavino e Albertarelli (43), ma aumentando lo sconsacramento dell’ambiente dove, ad ogni vignetta, si aggiunge qualcosa di mostruoso, di malvagiamente laico ma non incomprensibile.
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Poi Mefisto (che alla terza volta sembra morto davvero, divorato dai topi) è anche il riflesso di una ribellione al razionalismo ottocentesco e riassume il fascino coevo del pensiero orientale a cui Tex, come dice, non è minimamente interessato.
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Nel secondo episodio (dove lo aiuta, almeno sino ad un certo punto, un sacerdote buddista) si risente, come avvenne tra le due guerre, la diffusione di libri e pubblicazioni sull’argomento insieme alla moda dell’animismo (44) per cui Mefisto riesce a trasmettere, nel quarto episodio dove farà un’apparizione speciale, i poteri al figlio Yama (45).
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Ma anche contro quest’ultimo i poteri reali di Tex e quindi l’intelligenza dell’uomo normale, ma coraggioso e ostinato, sovrastano le numerose apparizioni dello sfortunato erede del “figlio del fuoco”.
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Sono convinto che nessuna storia come quelle di Mefisto o de I Figli della Notte influenzò l’aumento delle vendite, per quanto sia bene ricordare che, nel 1965, si chiudevano le avventure di Il grande Blek e Capitan Miki, eroi che, con il loro enorme successo, influenzavano quasi la metà del commercio del fumetto italiano, compresi i primi anni della storia editoriale di Tex.
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Le componenti parascientifiche non bastano però a giustificare il successo di un personaggio come Tex che arrivò a quasi un milione di copie, garantendo la tenuta del fumetto come forma di espressione popolare fino agli anni Novanta, mentre sia il cinema che la letteratura, il teatro e ogni forma artistica, cadevano nel revisionismo culturale a cui si deve il calo delle vendite che oggi, implacabilmente, ha colpito anche il mondo delle nuvole parlanti.
E non bastano tenuto conto come il cui numero di lettori è pur calato, ma non tanto (come in numerosi altri casi specie quelli soggetti a opinabili mutazioni), finché si sono rispettati i canoni tradizionali, sino ad un decennio fa circa (46).
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È giunto il momento di mettere in chiaro un elemento importante, senza il quale Tex, a mio parere, non sarebbe sopravvissuto anche con tutti i meriti chiariti e quelli da chiarire.
Fin dal primo numero, da quel primo albetto a striscia, Gian Luigi Bonelli attua quello che sarà il suo vero, formidabile ed efficacissimo talento.
Non credo, anche in questo caso, che lo faccia di proposito, giacché ce ne sono ben poche tracce nei suoi lavori precedenti, mentre quelli successivi assomiglieranno tutti all'eroe principale: il linguaggio.
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Il linguaggio inteso letteralmente come modo di parlare, di esprimersi, di Tex, dei suoi pard, dei suoi nemici e dei suoi amici, della gente che incontra in ogni sua avventura, da una parte all'altra della Legge.
Il linguaggio di Tex non è un’imitazione dei dialoghi dei film del West, non si rifarà nemmeno alla copiosa narrativa western (italiana o tradotta, che ebbe successo dagli anni Cinquanta tra i bambini e nel decennio seguente tra un pubblico più maturo tra cui non si può non ricordare i libri della saga di Tommy River di Mino Milani) che si concluderà, a fine secolo, con la chiusura della casa editrice La Frontiera di Bologna, la quale riproduceva, non proprio con estro, narrativa tratta da sceneggiature o volumi che erano serviti da ispirazioni a classici e opere di serie B nonché libercoli di una scrittrice celata dietro pseudonimo anglosassone.



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Su questo linguaggio si è imbastito un tormentone di luoghi comuni (che gli sceneggiatori non osano cambiare) per cui Tex e Carson chiedono sempre una bistecca alta tre dita e una montagna di patate arrosto, tra loro battibeccano spesso creando uno dei pochi momenti umoristici della serie, insultano e vengono insultati con metafore tra le più originali e colorite.
Ma non è solo questo.
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Il linguaggio di Tex è fatto soprattutto di immagini, di disegni, di vignette, di tavole.
Quindi se le parole, il caratteristico verbo, non sono ben inquadrate dal disegnatore giusto, rischiano di perdere la loro funzione liberatoria.
Infatti, in Tex, il linguaggio è in funzione del comportamento liberatorio del ranger nei confronti di chi vi si oppone o con toni prepotenti o melliflui o cercando comunque di metterlo in difficoltà.
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Scatta allora un’ulteriore somma di coloritura che si sposa ai pugni micidiali, al sollevamento dei corpi che precipitano a terra o volano dalla finestra.
E questo è ciò che, probabilmente, Giovanni Luigi Bonelli avrebbe voluto fare lui stesso e ha poi affidato a Tex e ai suoi pard.
In ogni caso è un linguaggio unico, inimitabile e spesso funzionale anche a tutto lo scorrere di una storia.
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E’ bene qui sottolineare come in Tex la vendetta, espediente tipico del romanzo avventuroso, non abbia alcun valore istituzionale e sociale come, ancor oggi, nella società americana.
Quando gli uccidono la moglie e quando affianca Tiger Jack in una vicenda più o meno simile (45 bis), egli si muove in base ad un traumatico dolore e punisce i colpevoli anche perché altrimenti continuerebbero nelle loro efferatezze (verso i nativi della cui distruzione totale sono partecipi a tutto titolo) ma è dominato dal dramma, strettamente intimo, di aver perduto la donna della sua vita.
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Non a caso Tex disprezza i giustizieri che si denominano tali e spesso sono dei felloni, gli sceriffi e i militari che ammazzano con convinta facilità, i magistrati dal cappio facile.
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L’esempio incomparabile è una delle vicende che più amano gli appassionati e che, per anni, è stata citata ad esempio.
Mi riferisco a quando l’arrogante e delinquenziale colonnello Elbert tenta di occupare il territorio dei navajo, accusati di una guerra in realtà fatta scoppiare dai bianchi (46).
La storia inizia come il classico La via dei giganti, che, al contrario della trama texiana, non è per nulla dalla parte dei nativi (47).
Nel film e nel fumetto, due moscardini, in viaggio sul treno che attraversa la prateria, sparano e uccidono alcuni giovani pellerossa che hanno tentato con i loro cavalli di gareggiare in velocità col convoglio.
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Quando Elbert prende in mano la situazione e come comandante delle operazioni fa muovere la cavalleria, Tex e i navajo iniziano una guerriglia di logoramento, non uccidendo mai un soldato, non colpendo mai con eccesso di violenza, e soprattutto tenendosi nascosti in modo che la messa in fuga delle cavalcature e il sabotaggio dei cannoni non possano essere accreditati alla nazione indiana.
Contemporaneamente, grazie al giornalista Floyd che scrive articoli dalla sua parte, Tex riesce a far saltare il governatore dell’Arizona, e di conseguenza gli affaristi a capo del progetto di impadronirsi del territorio navajo e lo stesso colonnello.
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In questa guerriglia, dove l’unico sangue versato è quasi sempre quello degli innocenti, Tex assume un chiaro atteggiamento di disobbedienza civile.
Agisce infatti come capo dei navajo, ma non come ranger o come agente della riserva per cui riceverebbe ordini contrastanti.
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Non soddisfatto di avere salvato il suo popolo (in questa storia si solidifica per sempre il rapporto tra il protagonista e la nazione navajo dov'era entrato come sposo di Lilyth, figlia del capo della tribù da cui eredita la carica dal suocero Freccia Rossa), sottopone Elbert a un vero e proprio dileggio seguito alla vergogna del degrado.
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I tempi calibrati al millesimo, la tensione calcolata sequenza per sequenza con brevi momenti di relativa tranquillità che preparano e aumentano il vorticoso incedere della guerriglia, hanno fatto di questa storia una delle migliori e più esemplari.
Ma non varrebbe tanto senza i colloqui tra Tex e il colonnello, il governatore, i due assassini; tra lui e i suoi amici, tra cui Floyd che riferisce le notizie con lo stesso linguaggio colorito ed espressivo del ranger, anche se possiamo capire che gli articoli del giornale avranno un tono ben più pacato.
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Ad esemplificare il tutto è rimasta anche la copertina dell’albo n. 51, dove Tex e Tiger guardano al lettore con uno sguardo che simboleggia tutta la profonda serenità della loro amicizia saldata dal combattere assieme tante battaglie.
Nel contempo lo sfondo scuro lascia intuire che presto dovranno mettere mano alle armi ben visibili, parte della corporeità del duo.
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Ci si dovrebbe domandare ora come possa essere successo un tale e tanto turbinoso sviluppo primigenio e genuino di originalità assoluta da parte di un autore come Gian Luigi Bonelli, il quale si distingueva per apertura di idee solo sulla carta, e del figlio che ancora non aveva modificato di molto la sua coscienza ereditaria, a quanto affermerà lui stesso.
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La risposta, a mio parere, è che Bonelli Sr, il quale non era mai stato in America e la cui conoscenza si limitava soprattutto ai film cinematografici di cui gustava soprattutto la trama essenziale, proprio per questo non conosceva le regole implicite della tradizione narrativa western.
Non aveva assimilato i propilei del genere come impatto dal “deserto” al “giardino” più tanti altri codici, mai citati chiaramente ma sempre imposti dalla stessa violenta crescita degli Stati Uniti, per cui il rapporto tra bianco e nativo può essere amichevole, ma nel quadro di una “necessaria” conquista sottomessa al dissolvimento del popolo rosso (48).
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Tex è anche piuttosto lontano dai prototipi fissati dai personaggi di Fenimore Cooper, che sarà pure stato l’inventore del western ma anche il narratore primario dei codici in cui non c’è posto, nell'America dell’Ottocento, per un’autentica salvezza del nativo, per la liberazione degli afroamericani dalla schiavitù o dal segregazionismo; manche il bandito e l’esploratore non si salvano, devono morire per lasciare aperte le piste ai pionieri e ai soldati.
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Non a caso nei molti film ricavati dalle storie del narratore, nonché in un albo speciale disegnato dal dinamico e incomparabile Roberto Diso e sceneggiato da Paolo Morales sugli stilemi di J.F.Cooper (48 bis) per la Sbe, questo elemento è eliminato, anche nelle pellicole degli anni Trenta.
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In questo senso Tex non è un personaggio mitico nel senso del western tradizionale come lo concepisce ancora oggi un americano medio di razza bianca e di religione cristiana (49).
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Tex è un mito sì, ma, per quello che abbiamo detto all’inizio, è un mito su misura, senza tempo, senza ideologia prefissata ma solo intuibile dalla svariata sensibilità del lettore italiano e poi di quello europeo, sudamericano, asiatico; ma non americano.
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Il suo successo nasce proprio da qui, dal non essere mai stato un vero mito americano che, in quanto tale, non sarebbe piaciuto al pubblico italiano come del resto non ha mai particolarmente gradito il fumetto western di matrice statunitense se non in parte, negli stessi anni circa del grande successo di Tex.
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Mi riferisco agli albi della Cenisio ricavati dalla casa editrice Dell, specializzata nel trasformare in vignette le serie di successo della tv (Rintintin, Bonanza, Daniel Boone), quindi un prodotto addomesticato che si è cercato di definire in tanti modi e che io chiamo western familiare perché, che sia in un forte o in un ranch, la famiglia, in quanto ente costitutivo della società postwestern, si è assestata.
Del resto, tra i tanti prodotti arrivati da noi, l’unico ad essersi affermato nelle edicole fu Rintintin, che racconta la crescita di un bambino e un cane tra mille avventure, in un forte dove vi sono soltanto sergenti bonaccioni e ufficiali rigorosi e paterni pur sempre pronti ad un umano sorriso.
Qualcosa quindi di diverso e facilmente appetibile per un bambino dalla testa piena di sogni.
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Tex fa cose che nel western degli americani sarebbero proibite, anche oggi.
Questo perché, come abbiamo detto, le sue derivazioni sono tutte nel cuore dell’Europa, sia perché il personaggio è stato costruito casualmente.
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il vero Kit Carson

Partendo dalle prime storie e sorvolando sugli strafalcioni storici, se Carson, con i capelli lunghi e scuri, appare ufficialmente più importante di Tex che è il protagonista (stando vicini alla realtà sarebbe stato così e ciò dava infatti un piacevole e originale tocco veridico in più che poi s’è ingiustamente perso), la ragione stava nel voler verificare se farne un personaggio a se stante.
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Lo stesso vale per Kit Willer, che cresce come fosse stato in un’incubatrice elettronica.
Bisognava stare al passo con gli “eroi bambini” (soprattutto il sopracitato Capitan Miki) e forse un Willer minorenne, e con la giubba dai colori della Roma, avrebbe potuto tirare di più.
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Quando Tex si veste da scheletro e si porta dietro il cane Satan, o quando si maschera da Zorro e si scambia il ruolo con Montales, prima di tutto volevano vedere se, conciato in quel modo, avrebbe venduto di più.
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Arriva il film western europeo, ma non riescono a modificare Tex perché ormai ha successo e ai lettori piace così com’è, ma, per non sbagliarsi, gli buttano un poncho sulle spalle che addosso al ranger faceva persino un po’ sorridere.
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Però sono proprio queste contraddizioni, lo stesso squilibrio e la diversità tra Bonelli Sr e Bonelli Jr, a creare il Tex più autentico e maturo.
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Oggi il problema è come farlo sopravvivere (50) combattendo contro il calo delle vendite del fumetto in generale, un curatore stanco e la mancanza di un severo controllo sul materiale edito, e soprattutto un modo di porgerlo da non essere recepito come Tex ma come qualcuno che gli assomiglia (51) tra tante collane, forse troppe, in cui stili di disegnatori diversi e appartenenti a epoche diverse si mescolano nella furia dell’appassionato che le voglia leggere tutte.
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Prendiamo ad esempio gli album che segnano il ritorno di un nemico classico, Proteus, il trasformista capace di cambiare identità fisica con una facilità ottenibile solo in un fumetto.
Il segreto di Proteus, già apparso in diverse storie e ben presente ai lettori, è che di lui non sappiamo nulla. Solo nella precedente avventura abbiamo visto il suo anonimo vero volto.
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Questa volta, nel luglio 2018, oltre a compiere travestimenti impossibili e facilmente indovinabili, dobbiamo per forza conoscere il suo passato, le motivazioni della sua scelta criminale, vederlo bene com'è “in borghese”, ingolfarlo anche in imprese che sfiorano l’affronto dell’intelligenza del pubblico.
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Il segreto di Proteus, nascosto nella sua non essenza fuori dai cambi di identità, è svelata ed è finito il suo fascino.
Tutto ciò nonostante i tempi dello sceneggiatore Pasquale Ruju e dell’abilissimo e straordinario disegnatore Bruno Ramella ( conferente dinamismo e tensione più che la trama stessa) tendano ad attenuare una scelta venuta probabilmente dal direttore artistico il quale ha già improntato un discorso sull'indipendenza di Kit Willer e ottiene da Villa una copertina che fa presumere qualcosa che, tra le pagine, occupa ben poco spazio ma, forse, prepara il lettore a mutamenti nel futuro prossimo.
Aspettiamoci il peggio.(51 bis)
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A mio parere il primo problema da risolvere è la gestione non di Tex ma della casa editrice.
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Volendo esentarmi dal ripetere un discorso che tanti hanno fatto e stanno facendo e ho fatto anch'io, diciamo che Mauro Boselli ha esaurito la sua spinta propulsiva per cui lo considerammo per molto tempo.
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E diciamo anche che si avvicendano troppi disegnatori, magari bravissimi ma inadatti al personaggio, o abituati a storie dove la trascuratezza di un particolare non è grave come in un fumetto ambientato generalmente tra il 1870 e il 1885 al massimo.
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Basterebbe un solo curatore (competente in massimo grado della materia ma magari estraneo a un mondo dove pur coesistono personalità divergenti e conseguenti rivalità professionali) a scegliere quattro sceneggiatori e quattro disegnatori tra i migliori, e soprattutto, tra i più adatti per sintonia e stile grafico, e metterli al lavoro esclusivamente su Tex.
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Così si darebbe al lettore un segnale di cambiamento nella continuità dello stile e del significato.
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In quanto al legame con la Storia.
Non vorrei si fraintendesse la diversità, che ho sottolineato sopra, tra la mitologia western di Tex e quella americana, supponendo che quest’ultima sia maggiormente reale e aderente ai fatti storici.
Troppo aveva da nascondere la narrazione statunitense, dalle prime opere teatrali che già alla fine del XVII secolo raccontavano dei primi scontri tra conquistatori e nativi, per essere fedele alla realtà.
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Può esserlo invece un fumetto italiano che conta ancora abbastanza lettori perché i personaggi principali vivano, con la consapevolezza di sempre, il dramma del genocidio indiano, dell’indipendenza forzosa degli Stati e quindi del segregazionismo applicato non solo sui campi di cotone, ma in tutti i territori sudisti.
Più tanta episodica quasi mai trattata, quasi mai esplorata, che darebbe un afflato dinamico, anticonformistico; un tocco di quella disobbedienza civile di cui Tex è stato pioniere e maestro.
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Per fare questo bisogna combattere contro la pesantezza dell’epoca in cui viviamo che, pur critica per qualsiasi forma espressiva, il fumetto deve tentare di superare.
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Non si vincerà questa battaglia, che forse è una guerra molto più lunga di quanto pensiamo, mettendo Tex Willer e Kit Carson a recitare su un palcoscenico (52) che i due, in passato, avrebbero evitato come la peste.
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Già l’amicizia con Buffalo Bill fu il frutto di un compromesso tra quello che per Bonelli padre era l’eroe del West per eccellenza e per il figlio un personaggio esteriorizzato da se stesso, quindi all’opposto del carattere, della personalità del Tex che abbiamo più amato, quello degli anni d’oro e dei lettori che facevano la fila per aggiudicarsi l’albo del mese.
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Inventariando tra il repertorio supereroico si supera la difficoltà di come risolvere una sequenza, ma non si fa diventare gradevole ciò che il lettore rifiuta.
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Eccedendo nella violenza senza un adeguato contraltare nell'etica di vita di un personaggio (per esempio sparare alle spalle di un nemico che fugge, ma ce ne sarebbero tanti altri di casi riprovevoli) il quale, per principio, non batte bandiera alcuna, si rischia solo di perdere un vecchio lettore ma non si acquisterà, in cambio, uno giovane assetato di sangue e violenza efferata.
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Mostrando Carson a letto con una ragazza da saloon (53) si fanno vedere due gambe scosciate, ma, nell'epoca della pornografia mondializzata, per quanto raffinato possa essere il taglio, si ottiene solo di scoprire cose private che i nostri eroi, da pudichi vittoriani, hanno sempre fatto evitando di mostrare i lombi ai lettori.
E di cui i lettori, di ogni genere ed età, non sentono alcun bisogno nelle tavole di Tex.
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Sento già il vociare del solito carneade che, a questo punto, impreca che i lettori di Tex sono vecchi e tradizionalisti.
Questo non è vero.
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Un fumetto che ha superato settanta anni di vita, ha lasciato il segno su cinque generazioni di lettori.
Tex può parlare ancora ai giovani e anche ai più giovani.
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Ma non per questo deve penetrare in sentieri narrativi non suoi.
Tex non è un personaggio adatto alla visione postmoderna della fantascienza, dell’orrore o della fantasy.
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Come uomo e come eroe, così come prodotto e fenomeno editoriale, a Tex basta la fantasia di un autore preparato e vivace e un disegnatore abile e dal tratto scattante.




Note

1 . Da un resoconto di R.D., Avvenire . 14 marzo 2018

2 . Antonio Carioti. Con Tex sui sentieri della fantasia. Una cavalcata lunga settant’anni . in Il Corriere della Sera . 1 ottobre 2018

3 . Claudio Villa. post dalla sua pagina Facebook

4 . Enrico “Tex” Valcamonica . post dalla sua pagina Facebook

5 . Per “collana regolare” – conosciuta ancor oggi come “collana gigante” – poiché è l’unica che procede regolarmente dal 1958, quando cominciò con il n°1 La Mano Rossa in brossura, formato 16×21, con l’aggiunta della pagina di presentazione con il titolo e i quattro pard primari (Tex, Kit Carson, Kit Willer e Tiger Jack) e sul retro di copertina notizie e pubblicità di altre collane dell’editore a cui, negli anni Ottanta, si sostituì una delle rubriche che Sergio Bonelli teneva su quasi tutti questi spazi nelle varie pubblicazioni. 
. Quando non esisteva ancora la presentazione del titolo figuravano, oltre al tamburino, le frasi celebri, una rubrica probabilmente ricavata da un volume di medesimo contenuto a portata di mano dell’editore.
. Concepita per raccogliere la ristampa degli albi a striscia (che a loro volta erano seguiti dal ricopertinamento delle rese in diversi tagli settimanali e quindicinali) dal n. 96, La caccia, dell’ottobre 1968 (con la storia che inizia a pag. 69) comincia a pubblicare storie inedite e diviene la collana essenziale delle nuove avventure di Tex.
. In realtà quel formato fu preceduto, dalla collana “Tex gigante” (prima serie) con album spillati e un diverso stile di copertina, che durò dal 1954 al 1957.

6 . L’edizione in formato striscia, durata dal settembre 1948 al giugno 1967, composta in 39 serie, composte a loro volta da collane con un titolo unico, che ai lettori non interessava possedendo ogni nuova uscita inedita, un titolo per albo, per quanto si leggessero i brevi riassunti dei precedenti.
. La 1° serie, del settembre-ottobre 1948, porta il nome Il totem misterioso e contiene solo 5 puntate.
. La 2°, dell’ottobre-novembre 1948, dal titolo La mano rossa che sarà ripreso da primo della collana regolare, ne contiene 5 puntate.
. Dalla 1° alla 5° – 6 storie dal giugno 1952 al maggio 1953, le serie a striscia sono numerate.
. Dalla 6° – 3 storie più lunghe dal maggio 1953 all’aprile 1954 – le serie a striscia assumono una denominazione colorata: dalla serie verde (6°) alla 12°(serie topazio) con 2 storie dal marzo al giugno 1956.
. Dalla 13° (serie Arizona) composta di 2 storie dal luglio al novembre 1956, prendono diversi nomi di richiamo western, fino alla conclusiva, la 36° (serie Rodeo) con 3 storie in 19 puntate complessive, dal gennaio al giugno 1967 dove compare una delle più originali e importanti vicende texiane: Vendetta indiana contenuta negli albi 51, 52 e 53 della serie regolare (Sangue navajo, Guerriglia, Il grande Re) apparsi da gennaio a marzo 1965.
. In tutto le serie a striscia si compongono di 973 albi, di cui è essenziale conoscere la data per capire in quale periodo storico-sociale italiano sono state pubblicate le storie più importanti e vi sono apparsi i personaggi più importanti e continuativi.

7 . I romanzi di Sue apparvero per la prima volta in Francia tra il 1845 e il 1852, ma furono stampati da diversi editori italiani fino agli anni Sessanta.
. Influenzarono enormemente la serialità cinematografica muta e quella, in particolare, legata ai “geni del male” Rocambole, Fantomas e il ladro gentiluomo Arsenio Lupin, tutti di provenienza letteraria, nonché i leggendari, per gli appassionati, film con e di Emilio Ghione (1879-1930) con Za la mort (con cui Bonelli chiamerà improbabilmente un eroe pellerossa dalla breve vita editoriale) e soprattutto la saga de I topi grigi, apparsi tra il 1917 e il 1928: certamente Bonelli Sr li aveva letti e visti tra l’infanzia e la prima giovinezza.

8 . I romanzi di Gian Luigi Bonelli (se escludiamo il tardivo Il massacro di Goldena del 1956 – in realtà rivisto da Boselli – tentativo di riprendere la narrativa western con una storia che sarà poi un ben più efficace episodio a fumetti di Tex ) sono, tra i più noti in quel tipo di letteratura popolare a basso costo, : Le tigri dell’Atlantico (1936), Il crociato nero (1940), I fratelli del silenzio, Il giglio nero, e dimostrano come fosse meglio portato al racconto illustrato benché si sia sempre definito “uno scrittore prestato al fumetto e mai più restituito”.

9 . Kurt Caesar (1908-1974) percorse una vita travagliata tra successi e sconfitte soprattutto intimamente umane. Illustratore d’eccezione disegnò, dal 1952 al 1959, le copertine di Urania e in precedenza stabilì una collaborazione con Il Vittorioso.
Colpito dal 1967 da una grave malattia e non in buono stato economico si spense, a soli 66 anni, con tristezza e con l’idea di non aver portato a conclusione il proprio itinerario artistico.


10 . Il Kit Carson di Albertarelli (1937-1939) era immaginato come un uomo di una certa età, molto diverso da quello che diverrà amico di Tex, ma anche molto diverso dalla mitologia americana.
Non per niente, per le sue radici nostrane, è considerato il primo vero e proprio eroe del western italiano a fumetti.


11 . Ombre Rosse di John Ford non è il primo western dove le psicologie dei personaggi sono prevalenti rispetto al significato dell’avventura tout court, ma – per il grande successo di pubblico e tra chiunque studiasse allora il cinema nonché tra i cineasti veri e propri che ne fecero una bandiera in tutto il mondo – e la sua derivazione da un racconto europeo, ha assunto, come lo definì Tullio Kezich, la radice essenziale del western maggiorenne.
E rimase comunque, fino agli Settanta, l’archetipo essenziale del western sia per la delineazione dei personaggi che per la loro creazione come prototipi a loro volta. E, secondo me, lo è ancora e sempre lo rimarrà.
. Non è una leggenda che, nella sua giovinezza milanese, il futuro regista Damiano Damiani (che sceneggiava allora fumetti e fotoromanzi) recitava a memoria i dialoghi del film ai suo amici dei ritrovi di Brera.
. Sergio Bonelli, nel 1989, scriverà una storia che sarà un omaggio al film di Ford scritto da Dudley Nichols, forse il massimo sceneggiatore americano del periodo classico, tratto da un racconto di Douglas Haycox tratto a sua volta da Bouille de Souf di Guy De Maupassant.

12 . Rancho Notorius (1952) di Fritz Lang e Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, sono stati restituiti, dalla tiepida critica del tempo, al loro valore che non può certo essere raccontato in queste poche righe.
È però evidente che Bonelli ne viene affascinato quando crea personaggi femminili volitivi, creature belle e forti, nel male come nel bene, che appariranno via via.
. Vedere in proposito l’articolo da me scritto su Giornale Pop del 29 novembre 2018, Buona notte dolcepena – ed edito su Marxismo libertario del 2.12.2018 - in cui dedico un’ellissi alla vicenda di una di queste: la malvagia (?!) Manuela Guzman che vuol restituire al Messico i territori del Sud-ovest e lo fa circa nel 1860 poiché predice, a breve termine, la morte di John Brown avvenuta in quell’anno.

13 . Quantrill (che, come generale Quantrell, appare nel 1952 e poi nell’albo gigante L’enigma del feticcio del luglio 1962) fa forse riferimento a Brian Donlevy in La donna che dovevano linciare (1951), che però, nonostante l’addome prominente, indossa la giubba grigia con maggior dignità.

14 . Episodio del 1951 poi nella serie regolare nel n. 8, Due contro cento.

15 . Episodio del 1959 e poi nella serie regolare nel n. 61, Morte nella neve

16 . Il film, benedetto dall'ultima vedova in vita di uno dei fratelli divenuto sceriffo, si avvale dei simpatici Donlevy, Broderick Crawford, Frank Albertson e Andy Devine, il postiglione di Ombre rosse del quale il doppiatore italiano Carletto Romano riproduceva benissimo l’inconfondibile voce che sembrava passata su una grattugia.

17 . Questi film non sono esenti dal tentativo, tipico di tutto il cinema western tra i Trenta e i Cinquanta, di creare un coinvolgente Olimpo di buone e cattive divinità che, con la loro presenza, caratterizzavano la riscrittura della storia dell’Ovest.
. Il film a cui è più facile fare riferimento esplicativo è Gli avvoltoi (di Ray Enright, 1948) dove fanno parte della stessa banda Cole, John, Jim e “Wild Bill” Younger; Emmet, Bob e Jim Dalton; “Wild Bill” Yeager; Billy The Kid e Arkansas Kid; con un Sundance Kid (senza Butch Cassidy) interpretato da un Robert Ryan così bieco e nevrotizzato da far sbiadire l’immagine crepuscolare di questo fuorilegge che agì ai primi del secolo successivo.
. Per dare un’idea dell’assoluta mancanza di storicità in queste opere e del veloce avvicendamento di storie, basti dire che, nel 1941, lo stesso Enright aveva diretto I tre moschettieri del Missouri che racconta i fratelli Younger come vittime del fato avverso come tanti altri fuorilegge spuntati alla fine della Guerra Civile; e poi aveva continuato a inserirli, chi qui e chi là, nei film con Randolph Scott di cui fu un regista di fiducia.

18 . Su Giornale Pop del 16.04.2017, nell’articolo Ecco perché Tex Willer deriva da Dick Tracy.
. Ricordiamo che dal 1945 Bonelli, tornato dall’autoesilio in Svizzera con una nuova compagna e trasferendosi da subito a Genova, torna a Milano e lascia la casa editrice alla moglie Tea Bertasi (con il quindicenne figlio Sergio) dove riveste il ruolo di sceneggiatore principale, procacciatore di storie altrui, soprattutto insieme a Galep.

19 . La lunga storia dove Lily compare già nel 1949 (insieme al fratello Steve già chiamato Mefisto ma solo prestigiatore) farà la sua apparizione negli albi regolari n. 4 e 5: Fuorilegge e L’eroe del Messico.
20 . Il riferimento è certamente a tre film: I pirati dei sette mari (del 1940, dove la donna volitiva a capo della ciurma è Louise Platt, rimasta nota come la giovane e timida signora Mallory di Ombre rosse) tratto da un romanzo di Kenneth Roberts edito in Italia nel ’51 come Cuori sul mare; Nel mar dei Caraibi (’41) con l’ammaliante Maureen O’Hara; e quasi certamente La regina dei pirati (’49) con una irrefrenabile Jean Peters.
. Ma il personaggio di Satanìa, apparso nel 1950 e poi nel n. 5 della serie regolare (Satania! del giugno 1959) è memorabile anche perché molti suoi misfatti sono presi direttamente da I delitti della via Morgue (1845) di Poe, apparso in Italia già nell’Ottocento; il cui autore, nello stesso 1950, figurava come misterioso protagonista, al cinema, nel mistery La casa del corvo, tratto da un romanzo di John Dickson Carr – Il gentiluomo di Parigi – edito la prima volta, nel 1950, nella collana I Gialli Garzanti.

21 . Uscito tra il maggio e il luglio del 1960 e poi nella collana gigante n. 45 e 46 (La voce misteriosa e Il sicario) dove Bonelli Sr. si rifà a Ombre Malesi (1940) di William Wyler, con Bette Davis, da La lettera, del 1930, di William Somerset Maugham, edito qualche anno dopo da Mondadori.
. Ho camminato con uno zombie (1943) uscì in sordina, forse anche con un altro titolo, per pochi giorni e la copia venne dispersa senza suscitare alcun interesse. Poi fu trasmesso in tv, dagli anni Ottanta, quand'era divenuto un cult movie all’estero.

22 . Maurizio Anfosso. Tex incontra Sherlock Holmes, su Giornale Pop del 24 dicembre 2016

23 . Edita per la prima volta dal maggio 1951 al gennaio 1952 e n. 10, 11, 12 della serie regolare, da luglio a dicembre del 1960 con i titoli Il tranello, il segno indiano, il figlio di Tex, e quest’ultimo non è l’albo dove appare per la prima volta Kit Willer.
. Giubbe rosse (1940) è il primo film a colori di De Mille e, nonostante la natura reazionaria del contesto (che gli stessi canadesi e inglesi contestarono all'epoca e fornì poi materia di un celeberrimo discorso di De Gaulle in visita a Montreal, nel 1967, in cui manifestò la frase “Vive le Quebec libre” che causò una crisi internazionale) ebbe un successo strepitoso anche grazie alla presenza del laconico Cooper in avventure che sanno di coloniale quanto di western e dove i métis sono visti come aizzati da una “non ben precisata potenza straniera”, frase anticipatoria della guerra fredda nell’opera dell’anticomunistissimo De Mille che volle immettere componenti maccartiste anche nel colossal I dieci comandamenti, preceduto da Louis Mayer – il tycoon della Mgm – nella versione di Quo Vadis nel 1951.
. Chiariamo che, avendo a disposizione ben più dei 126 minuti di inquadrature del film, Bonelli Sr, pur ripetendo la frase del film qui del tutto fuori luogo, arricchì la storia con numerosi episodi inesistenti nella pellicola tra cui alcune (come l’agguato nella palude tra gli alberi secolari e, nella seconda parte, il rapimento di Kit, la lotta sulle acque artiche eccetera) di gran presa sui lettori.
C’è da ringraziare che, allora, non esistessero riproduzioni in tv, nastro o dvd.


24 . Non si tratta dell’unico western con Randolph Scott in Canada, ma certamente quello dove appaiono più similitudini.
. Sarà il caso, per i lettori di Tex, di tenere d’occhio i film con quest’attore, il quale, come carattere, specialmente nei suoi anni d’oro, dal 1940 al 1955, è detentore di tanti aspetti non dissimili da quello del nostro eroe benché le storie di cui è protagonista lo conducano su altri versanti sentimentali.
. Considerato in Italia un personaggio di second’ordine, Scott fu invece un grande protagonista del cinema americano e la sua scelta di interpretare soprattutto western (tra cui alcuni importantissimi nell’era citata) lo condusse, da I tre banditi (girato nel 1955 quando aveva 56 anni) alla collaborazione con il regista Budd Boetticher e lo sceneggiatore Burt Kennedy, e con questi a un’evoluzione psicologica e artistica di alto livello dove figura soprattutto il capolavoro I sette assassini (1956) la cui copia italiana è dispersa ma è riapparso, dopo trent'anni di oblio, in dvd, in versione originale con sottotitoli e il commento, molto interessante, di Clint Eastwood, Quentin Tarantino e Steve Ricci.

25 . Tiger compare, per la prima volta, nel 1951 in La banda dei Dalton e quindi, nel serie regolare , nella seconda parte del n°8 (Due contro cento, marzo 1960)

26 . Kit Carson fa il suo debutto nell’albo della prima serie a striscia col racconto Bill Mohican il rapitore di fanciulle (novembre 1948), quindi contenuta già nel n. 1 – La mano rossa – sebbene poi soggetto a svariati cambiamenti.
. Kit Willer si fa conoscere ne L’orma della paura (maggio 1951) e poi nell’albo gigante n. 10 Il tranello del luglio 1960

27 . La fine di Lupo Bianco è il n. 19 della serie gigante (gennaio 1962) corrispondente alla storia a striscia Gli sciacalli del Kansas (da luglio a dicembre del 1953) di nove anni prima.

28 . La storia di Apache Kid comincia nell’albo gigante n. 164 (La danza del fuoco), ha il suo culmine nel 165 (Apache Kid) e si conclude nel 166 (La fine dei comancheros) dal giugno al luglio 1974.
. Cuore Apache e Johnny il selvaggio, n. 681 e 692, sono stati editi nel maggio e giugno 2018 a 44 anni di distanza dal capolavoro su Apache Kid, che narra, ricordiamolo ancora, fatti realmente accaduti e doverosamente documentati su un personaggio altrettanto verificato storicamente.

29 . Pat Mac Ryan compare nell’albo a striscia Pat l’irlandese (5 agosto ’57), prosegue la sua presenza fino all’albetto La fine di Lily Brent (30 agosto 1958) purtroppo disegnato da Francesco Gamba come i sei precedenti. Quindi, nella serie regolare, dal n. 33 (La valle tragica del luglio 1963) in poi.
. Il suo ispiratore Victor Mc Laglen (1886-1959), fratello minore di un famoso attore dell’Abbey Theatre di Dublino, divenne una grande stella a Hollywood tra il muto e il sonoro e poi, dalla fine degli anni Quaranta, come caratterista, specialmente nel ruolo, rimasto indelebile nella memoria di chi ama il western, del sergente Quincannon nella “trilogia militare” (Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest, Rio Bravo; dal 1948 al 1950) di John Ford per il quale aveva vinto l’Oscar come protagonista del capolavoro Il traditore del ’35.
. Fino all’avventura con la “banda degli irlandesi” (dal n. 438 al 440 – Gli invincibili, Il segreto dell’Imperatore, Sfida sulla Sierra – da maggio a luglio 1997) Pat mantiene le sue connotazioni.
Solo lì il pur più che ottimo disegnatore Carlos Raffaele Marcello, forse per iniziativa dell’autore Mauro Boselli o per una sua mancanza di controllo sulle tavole, lo ringiovanisce e gli fa perdere la faccia da pugile che ha combattuto troppe battaglie, che gli era caratteristica. Sarebbe bastato suggerire la visione di alcuni film di V. McLaglen.


30 . Il n. 100 uscì con il titolo SuperTex nel febbraio 1969. Si tratta di una storia autoconclusiva dove i “sette titani” affrontano la banda dell’apache ribelle Matias

31 . Negli albi a striscia dalla primavera all’estate 1963 e negli albi regolari n. 57 e 58 (Notte Tragica e Corsa alla morte, luglio e settembre 1965)

32 . Il primo nel n. 8 gigante Due contro cento (marzo 1960) e il secondo nel n. 18 Dodge City (novembre 1961)

33 . L’album Il coyote nero è il n. 29 della serie gigante, del gennaio 196334 .
La storia di Vindex compare negli albi n. 34 e 35 (Sinistri incontri e Una carta rischiosa dell’agosto e settembre 1963)
. Il film Il dottor Cyclops (1940), diretto dal solo Ernest B.Shoedsack ma frutto, come King Kong (1933), della collaborazione con Merian C. Cooper (socio di John Ford nell’Argosy production) è ancora oggi considerato uno degli apici della fantascienza prima del declino produttivo degli anni Cinquanta, con venature horror, anche grazie agli effetti speciali assolutamente straordinari per l’epoca. Prima che il genere, nel dopoguerra, fosse relegato, tranne qualche rarissimo caso, in serie B, fino al 1968 quando, con 2001-Odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie, riacquista la sua posizione di alto livello.
. Il protagonista, Albert Dekker, non assomiglia nei tratti del viso a Vindex (che è ispano-messicano) ma questo è ben poco importante per via delle altre, fin troppe, assonanze
. Il Techniscope, in uso dal 1962 negli stabilimenti italiani della Technicolor, è il sistema nostrano che sostituiva il più costoso Cinemascope e permetteva la proiezione su schermi giganti. Era ottenuto da una dilatazione della pellicole per cui il fotogramma poteva essere forato in 4 parti come nell’altro sistema.
Quasi subito ottenne successo e fu perfezionato al punto che se ne fece uso nella maggior parte dei film di grande effetto e di autori di prim’ordine. Grazie alle coproduzioni fu diffuso in Spagna, Francia, Germania nonché nell’Europa dell’Est.


35 . I Figli della Notte appaiono nell’albo gigante n. 49 e 50 (Il traditore e I Figli della Notte) del novembre-dicembre 1964.

36 . She (La donna eterna,) pubblicato nel 1987, fu importato in Italia a puntate da La Domenica del Corriere dal 1901 e, con il cinema e sempre nuove edizioni in tutto il mondo, è un prototipo mai superato per quanto oggi si ricordi soprattutto il non eccelso film inglese La dea della città perduta, a colori, del 1965, di Robert Day per la Hammer (casa specializzata nei film con Dracula e Frankenstein) con un’adattissima, per bellezza, Ursula Andress.
. La storia appare negli albi n. 47 e 48 (Le terre dell’abisso e Duello a Laredo del ottobre-novembre 1964) che precedono di poco I Figli della notte.

37 . Il mondo perduto (1912), anch’esso tradotto per la prima volta in Italia da La Domenica del Corriere nel 1913, è il primo dei romanzi in cui appare l’avventuroso professor Challenge (antenato di Indiana Jones sul quale gli eredi di Conand Doyle avrebbero potuto legittimamente chiedere i diritti d’autore a Spielberg se non fossero trascorsi gli anni di validità del brevetto creativo), poi protagonista della serie denominata dei “romanzi scientifici” dell’autore di Sherlock Holmes.
. Da questo primo romanzo è stata tratta una lunga sequenza di adattamenti, scopiazzature e di film.
Ma la versione più completa è la serie omonima, australiana-canadese, in 4 stagioni di 66 episodi (1999-2002), dove compare, al passo coi tempi, oltre a variazioni apportate per rimpolpare le ultime due stagioni, un personaggio femminile, che gira sembra seminudo come una tarzanide del fumetto, interpretata dall’affascinante Jennifer O’Dell.


38 . La storia de La città d’oro, compreso il lungo prologo, è una delle poche ad appartenere a due serie a strisce con lo stesso titolo: la 23° (serie Dakota, contenente 11 albi dall’ottobre al dicembre 1959) e la 24° (serie Città D’oro – ma di cui fanno parte solo i primi 7 albi su 20) dal 5 gennaio al 16 febbraio 1960. Poi apparve negli albi della serie regolare n. 42, 43 e 44 (Incendio allo Star O, Lotta per la vita, Un’audace rapina) pubblicati dall’aprile al giugno 1964.

39 . Si tratta degli albi n. 686 e 687 (La città nascosta e Gli stranieri) del dicembre 2017 e gennaio 2018.

40 . Steve Dickart compare nelle storie 7 e 8 (Mefisto la spia e L’eroe del Messico) della 1° serie per un complesso di 16 albetti editi dal maggio al settembre 1949, poi inglobati negli albi della serie gigante n. 3 e 4 (Fuorilegge e L’Eroe del Messico del febbraio e aprile 1959).
. Questa è l’ultima volta in cui la collana gigante non esce regolarmente: tra l’ottobre 1948 e il settembre 1959 sono stati editi solo 8 albi con un numero variabile di pagine. Dal gennaio del 1960 mantiene la sua proverbiale regolarità.
. Comunque sia, ciò dimostra quanto poco ancora gli albi di Tex (non stampati ex novo ma ricavati dall’incollo delle strisce) facciano presa e quanto poco ci creda la casa editrice.
. Eppure, per dare idea del cambiamento avvenuto nel decennio successivo, io ricordo una partita di rese distribuite da un’edicola nel 1966 (il primo della pila era Satanìa) che provocarono, già dal primo pomeriggio, l’afflusso dei ragazzi. Io stesso riuscii a farmene comprare tre o quattro mentre il resto fu venduto entro le 18.00, quando, recandovisi mio nonno a comprare il suo quotidiano della sera e avendolo convinto a prenderne altri due (al costo di 200 lire l’uno) non ne trovò più nessuno.
. Mefisto fa la sua apparizione come essere infernale negli albi a striscia nella serie Mefisto (sic), nella storia Il figlio del fuoco, di 23 albetti dal dicembre 1958 al maggio 1959, e poi nella collana regolare n. 39 e 40 – La gola della morte e il ponte tragico – nel gennaio e febbraio 1964. E qui avviene il lancio mirabolante del personaggio
. La 2° apparizione di Mefisto segue nella serie Cobra negli albi a striscia dal novembre al gennaio ’65 e poi nella collana gigante n°78, 79 e 80 – Incubo!, Il Drago Rosso, Spettri! dall’aprile al giugno 1967, che fu scritta, stando a Sergio Bonelli, su sua insistenza poiché il padre, nel frattempo, aveva ideato altre creature in bilico tra la realtà e il soprannaturale nel tentativo di trovare un aggancio ancora più forte coi lettori (che stavano aumentando) e non rendendosi conto di averlo ormai trovato.
La 3° comparsa di Mefisto inizia con la conoscenza tra Tex e El Morisco, personalità ancora concepita come occasionale, ma che lascia il segno con i disegni di Guglielmo Letteri, Il quale mostra qui la sua straordinaria bravura nell’illustrare storie ambientate nelle terre calde, l’atmosfera angosciante dei territori desertici, il fascino degli antichi regni risorti dall’età degli Aztechi.
. El Morisco, in Il signore dell’abisso (n. 103 del maggio 1969) si ritrova a prevedere il ritorno della creatura infernale.
. La 4° avventura di Tex contro Mefisto avviene in Terrore sulla savana, Black Baron e La carovana dell’oro (n. 93, 94 e 95 da luglio a settembre 1968) ed è anche l’ultima storia pubblicata a striscia nella 36° serie per 7 albi dal marzo al giugno 1967, appena un anno prima della serie gigante e assai venduta anche per il prezzo di 200 lire che rimarrà invariato per decenni.
Qui la storia riguardante Mefisto, che si svolge in Florida, mostra gli indiani seminole con una incompetenza di cui lo stesso Sergio Bonelli farà ammenda anni dopo.

41 . Esmeralda compare in Il tesoro del Tempio, n. 77 del 1967

42 . Si è detto spesso che Bonelli Sr si sia ispirato a Virus, il mago della città morta (1939/1940) ideato da Federico Petrocchi e disegnato prima da Walter Molino e poi da Antonio Canale, prima per le edizioni Audace e poi per la Mondadori dove l’ambiente horror in un certo modo anticipa l’atmosfera dell’inferno di Mefisto, ma la discendenza del personaggio di Virus rimanda semmai all’Hellingen, anche lui scienziato geniale ma pazzo, delle storie di Zagor

43 . Il dottor Faust (1939/1943) di Federico Pedrocchi comparve, per la prima volta, sull’Audace (inteso come rotocalco) in grandi tavole realizzate da Gustavino. Ma la pubblicazione venne interrotta per una malattia del disegnatore su cui sono stati avanzati parecchi dubbi.
Nel 1941 la saga ricomincia dall’inizio, affidata questa volta a Rino Albertarelli, e viene pubblicata sul Topolino di Mondadori che non era proprio simile a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni.
Al 1° episodio segue il 2° (Mefistofele). E il 3° (disegnato da Franco Chiletto) inizia su l’Avventuroso e continua su Topolino dopo la fusione delle due testate, fino al 1943.
Un 4° episodio (disegnato da Libico Maraja, Cischetto, Floyd Gottfredson) viene pubblicato dopo la guerra, e dopo la prematura scomparsa di Pedrocchi, sempre sulle pagine di Topolino, tornato in edicola, con Albertarelli che completa il lavoro dello sceneggiatore.
Negli anni Settanta l’editore Ennio Ciscato ripubblica lo ripubblica in “formato lenzuolo” e in edizione integrale.
Gli succede l’editore Camillo Conti, che ristampa gli albi editi dal 1946 al 1949 e aggiunge un episodio conclusivo scritto da Luciano Bottaro e disegnato da Maraja.

44 . Nel Novecento l’influenza delle filosofie orientali ebbe una certa importanza in Italia, stimolate da Mussolini stesso durante il ventennio nero con le esplorazioni, anche a scopo politico, di Giuseppe Tucci e Fosco Maraini. Ebbero anche una certa notorietà gli scritti della viaggiatrice francese Alexandra David-Neel che diffuse la sua idea, più da affiliata che da studiosa, sul lamaismo.
. L’animismo (forma primordiale di religiosità basata sull’attribuzione di un principio incorporeo e vitale, anima, a fenomeni naturali, esseri viventi e oggetti inanimati) fu studiato dagli antropologi George E. Stahl e Edward Taylor, ma, con questo nome, fu identificata una forma antiscientifica di credenza a cui aderirono personaggi illustri del Novecento che la trasformarono in una moda, incoraggiata dalla pubblicazione di Autobiografia di uno Yogi di Paramhansa Yogananda, del 1946 uscito in Italia l’anno dopo.
Anche l’adesione di Rabindranath Tagore (premio Nobel 1913), scrittore il cui legame con il fascismo e Mussolini stesso è oggi assai chiaro agli storici, aveva già contribuito in circoli ristretti a cui partecipavano Galeazzo Ciano e la moglie Edda Mussolini.
Non è quindi affatto escluso che, sia nelle raffigurazioni de Il dottor Faust e nelle vicende di Mefisto, Gian Luigi Bonelli abbia fatto riferimento a congreghe le quali, anche nel dopoguerra, seppure per breve, non erano ignote nel mondo culturale milanese.

45 . Le apparizioni di Yama, con la 5° di Mefisto, cominciano nel marzo 1971 con l’albo n. 125 Il figlio di Mefisto. Sia Mefisto che Yama ricompaiono per la 6° volta nell’aprile 1974 – dal n. 162 Il ritorno di Yama – e per la 7° nel novembre 1982 – dal n. 265 L’ombra di Mefisto.
. Con la morte di Galep nel 1994, le copertine sono illustrate da Claudio Villa mentre l’erede ufficiale dei Bonelli, benché Sergio continui l’attività di editore e si sia concesso ogni tanto una parentesi come sceneggiatore, diviene Claudio Nizzi nel contesto successivo di un avvicendarsi disordinato di autori pur bravi ma non sempre adatti al personaggio che il pubblico ha amato fino a ora.
. Nel n. 501 – Mefisto! – del 2001 si compie l’8° ritorno con uno staff mutato, ma ancora fedele alla tradizione.
La brillante sceneggiatura di Nizzi e gli stupendi e realistici disegni di Villa ci raccontano come la sorella Lily, la quale ha perso la bellezza giovanile ma non la malvagità, e si è istruita alla scuola del fratello e del nipote, riesca a richiamare in vita, sebbene temporaneamente e con illusioni che potrebbero non essere più reali di quelle raccontate precedentemente, il diabolico avversario.
Nuoce alla vicenda il ristretto numero di pagine ad essa dedicate per indicazione editoriale, un prologo assai esteso e una parte centrale quasi senza epilogo.
. Il passo a una narrazione fantasy incombe, certi tabù non sono stati sciolti sul filo del rasoio, soprattutto dopo la scomparsa di Sergio Bonelli nel 2011.

45 bis . Vedi gli album n°103, 104, 105, 106 (Il signore dell’Abisso, Il giuramento, L’implacabile, La paga di Giuda) dal maggio all’agosto 1969.
. Relativamente a Tiger Jack e alla sua amata che si suicida rifiutando la prostituzione per cui è stata venduta in Messico, si vedano gli album n°384.385.386,387 (Percorso infernale, Furia rossa, Il supplizio, Tempo di uccidere) scritti da Claudio Nizzi con disegni di Giovanni Ticci, editi dall’ottobre 1992 al gennaio ’93.

46 . Ci si riferisce alla storia che inizia a pag. 69 dell’albo gigante n. 51 (Sangue navajo del gennaio 1965) prosegue in tutto il n. 52 (Guerriglia) e si conclude a pag. 10 del n. 53 (Il grande Re del marzo 1965).
Nonostante la copertina del primo sia divenuta emblematica (e usata per altre pubblicazioni della storia), va ricordato che col titolo Sangue navajo questo episodio della saga di Tex compare, per la prima volta, nella serie a striscia n. 28 (serie navajo) dall’ottobre 1961 al febbraio 1962.
. L’epoca delle due uscite è peraltro la stessa. Siamo negli anni del primo western crepuscolare, ma ancora lontani dai film completamente schierati dalla parte dei nativi che avrà il suo acme negli anni Settanta.
E ci troviamo all’inizio dell’età d’oro di Tex che aveva già preceduto di gran lunga, superandola in coraggio di intenti, la cinematografia di Hollywood.
. Non esistono film, per lo meno nel periodo sonoro, con una trama simile. Sangue navajo è la diretta conseguenza del rapporto tra Tex e i nativi e certamente il miglior soggetto originale di Bonelli Sr per quanto tendiamo ad accreditare parte della storia alla penna di Bonelli Jr.

47 . La via dei giganti è del 1939. I due mascalzoni nel film sono interpretati da Robert Barrat e Anthony Quinn. La scena è ricordata perché l’attore, qui ancora in parti secondarie benché fosse allora sposato con la nipote del regista-produttore, diventerà famoso.

48 . Leslie Fiedler è quello che ha spiegato meglio tutto questo nei suoi tre insostituibili saggi: Amore e morte nel romanzo americano (1960); Aspettando la fine (1964) e soprattutto Il ritorno del Pellerossa (1968) che, ristampati più volte in Italia, consigliamo di leggere nella prima traduzione.
In Il ritorno del Pellerossa, Fiedler spiega la natura narrativa della donna indiana, fattrice e prostituta per dar modo al conquistatore di procrearsi se non trova di meglio ma soprattutto perché esso possa sfogarsi riservando il seme alla moglie bianca che arriva, insieme alla famiglia e all’ordine costituito, dopo che il deserto è stato trasformato in giardino con l’eliminazione dei nativi (erbe e radici impure) dei fuorilegge (disordine sociale ed economico) e del conquistatore eletto che combatte da solo ma, non potendo rinunciare alla sua natura guerriera e alle sue inevitabili “caratteristiche indiane”, deve andarsene o morire perché per lui non c’è più posto.
L’aratro sostituisce il fucile, la stoffa il pellame, il camino il fuoco del bivacco, la casa di legno la tenda e, infine, la pietra selvaggia viene spezzata e lavorata per trasformare i sentieri terrosi in strade di ciottoli e rinforzare l’etica americana con nuove case e chiese di selce, respingente gli incendi dell’animo umano e della lotta tra uomini inesorabilmente diversi.
L’ambientazione dei western di Ford nella Monument Valley costituisce contemporaneamente la testimonianza del passato e come il passato sia solo un monumento rupestre in un territorio rimasto deserto.
. È evidente che se qualcuno raccontasse a Tex questi codici, pur tutt’altro che teorici, getterebbe via la stella di ranger e rinuncerebbe anche alla funzione di agente indiano per mettersi a capo dei navajo e dichiarare l’ultima guerra, l’ultima guerra mortale, a un’America che non è la sua.

48 bis . Ci si riferisce all’album Mohican, del 1° giugno 2010 ora schedato nella collana “Romanzi a fumetti Bonelli”

49 . Dice Richard Chase in Il romanzo americano e la sua tradizione (Einaudi, 1974) riferendosi al mito dell’uomo del west creato da J.F.Cooper: “Il mito è un modo per sanzionare e rendere significative quelle crisi dell’esperienza umana che sono al tempo stesso culturali e individuali: la nascita, l’iniziazione alla vita, l’amicizia ideale ma anche il matrimonio, la guerra contro il nativo e la natura, la morte infine”.
. “Il mito rende significative queste crisi mediante un appello emotivo alle tradizioni culturali dei poteri sovrumani degli eroi” (da Teresio Spalla. Western Sessanta. Ancci, 1983)

50 . Teresio Spalla. Tex sulle piste di se stesso, Giornale Pop del 29.06.2017 e Marxismo Libertario del 21.06.2017
. Teresio Spalla. Trascurando Tex la Bonelli perde credibilità, Giornale Pop del 12.09.2017
. Sauro Pennacchioli . Mauro Boselli rivela le vendite di Tex, Giornale Pop del 5.11.2017
. Marcello Toninelli. La perduta leggerezza del fumetto, Giornale Pop del 1.05.2018
. Marcello Toninelli. Le ultime cartucce del fumetto in edicola, Giornale Pop del 2.12.2018

51 . Ci si riferisce al barocchismo delle immagini dei lavori di Mario Bianchi che sovrastano (come ne “I romanzi a fumetti” che poi sono volumi cartonati, a colori, di 54 pagine a 8.90 € l’uno contro le 116, in bianco e nero, a 200 Lire dei tempi migliori) qualsiasi contenuto e praticano un fumetto che strizza l’occhio ad avanguardie già vecchie cent’anni fa.
. Vedi Frontera di Mauro Boselli e Mario Alberti n. 18 dell’ottobre 2015 e Cinammon Wells di Chuck Dixon e Alberti del settembre 2018 (ma chiamato in tamburino come “Tex Stella d’Oro”).
. Altro appunto possiamo fare al maxi-Tex n. 21 dell’ottobre 2017, Neuces Valley, dove l’infanzia e l’adolescenza di Tex è trattata con un tentativo di aderenza ai costumi e ai dettagli delle armi, ad avvenimenti effettivamente accaduti, in un Texas primordiale (come s’era sempre auspicato fosse il “passato di Tex” derivato per altro da un album tra i meno inventivi, appunto Il passato di Tex - n. 83 del settembre 1967 - e i successivi Il Re del rodeo e La costa dei barbari n. 85 del novembre dello stesso anno), ma senza una bussola storiografica e un afflato ideale veramente riusciti.

51 bis . La storia, negli album n°693 e 694 (Il ritorno di Proteus e Kit contro Kit) è del luglio agosto 2018 mentre Proteus era apparso fin dal n°86 e 87 (Rio Verde e Yuma del dicembre 1967 e gennaio 1968 ma risalente alla serie a striscia del luglio-agosto ’66) coi bei disegni di Guglielmo Letteri; quindi nel n°185 e 186 (Il giudice Maddox e L’uomo dai cento volti del marzo-aprile 1976) ancora tratteggiato da Letteri; poi nel n°316 e 317 (Il bisonte bianco e L’inafferabile Proteus del febbraio-marzo 1987) sempre raffigurato da Letteri e scritto da Claudio Nizzi.
. Riguardo a Kit scrive Luca Barbieri nella rubrica Wild West Chronicles (presente nell’albo cartonato n°12 della collana Tex . 70 anni di un mito edita da La Gazzetta dello Sport in 100 volumi di cui al momento siamo ancora al 51°) :
“E cresciuto, maturato, e ora Kit è perfettamente in grado di cavarsela da solo (…) Davanti a lui si aprono infinite possibilità : galoppare nelle assolate praterie (…) oppure combattere il crimine indossando una divisa da poliziotto nelle grande metropoli dell’Est….”
. E’ vero che il volume ai primi mesi del 2018 ma c’è da rifletterci su queste parole, specie se si pensa che, forse, si sta mettendo mano ad un progetto che era già stato preparato ma poi bocciato nel ’58.
Ma non è mai troppo tardi per commettere errori che il pur cospicuo numero di fallimenti di nuove serie avrebbe dovuto indurre il terzo della stirpe Bonelli, ora editore, circondato da consiglieri e suggeritori, ad evitare, forse a costo della fine della casa editrice così com’è stata ed è in parte ancora.
O forse è questo che vuole per procedere con altre iniziative.
A certi suoi dipendenti più giovani, che non amano il western per rifiuto generazionale e detestano il racconto a fumetti non ispirato alle grandi case americane di oggi, sembra che ciò non spiacerebbe.
Io stesso, conversando con uno scrittore della Sbe, molto conforme ai dettami direzionali come capita ai giovani di oggi, mi prometteva che la Sbe avrebbe gradualmente chiuso con il fumetto per trasformarsi in una produzione di film, serie tv e videogiochi.
E a lui, forse ignaro dei costi di una riconversione del genere e dei rischi economici rispetto a una casa editrice comunque ben lanciata, la faccenda piaceva. Infatti è un prolifico autore in svariate collane.
Buonanotte al secchio.

52 . E’ quello che accade nella storia contenuta negli album dal n°696 al 699 (Il ritorno del Maestro, Manhattan, Panico a teatro e Minaccia su New York, editi dall’ottobre 2018 al gennaio 2019, dove la polizia di New York (allora la più corrotta, reazionaria e violenta del mondo occidentale) così come il mondo di Buffalo Bill (precedentemente visto, soprattutto da Letteri come un simpatico ex pard immune dall’aspetto autoreferenziale del personaggio storico) e del suo autore Ned Buntline, sono visti, nel testo di Mauro Boselli e i disegni di Maurizio Dotti, con preoccupante ambiguità; e dove il povero Pat MacRyan, costretto a rimanere al margine dei primi tre episodi, è trasfigurato con la faccia di Superman, altro che Victor McLaglen.
. Solo le straordinarie, le bellissime copertine di Claudio Villa, che riescono con brillante talento ad utilizzare materiale inedito (le strutture in acciaio della New York della seconda metà dell’Ottocento) donano dinamismo e realismo concreto, fascino e richiamo, ad una vicenda con troppi personaggi, troppe sottostorie che si accavallano facendo perdere la bussola al lettore, e soprattutto con un eccesso di dialoghi, spesso obsoleto, caratteristico dell’ultimo Boselli.

53 . Accade, per la prima volta in assoluto, in un racconto – Golden Queen – di Luca Barbieri con disegni belli ed eleganti di Andrea Venturi, nel n°14/novembre 2018 della collana semestrale “Color Tex”, composta di 5 brevi storie di cui questa (a sua volta della serie non ufficializzata con Kit Carson giovane) è la 4°.



 


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