Diari di Cineclub

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venerdì 31 ottobre 2014

UN DIBATTITO DELLA QUARTA INTERNAZIONALE SULL'IMPERIALISMO






UN DIBATTITO DELLA QUARTA INTERNAZIONALE SULL'IMPERIALISMO



1) Caos geopolitico e relative implicazioni:

appunti per una riflessione collettiva


di Pierre Rousset



Il disordine climatico rappresenta un nuovo elemento strutturale provocato dal riscaldamento atmosferico d’origine umana (in questo caso, il capitalismo). L’attuale caos geopolitico costituisce anch’esso un elemento strutturale nuovo ingenerato dalla mondializzazione capitalistica e dalle scelte imposte dalle borghesie imperialiste tradizionali. In effetti il caos c’è, e ne sono profonde le cause.

Fin dal 2003 (perlomeno),[1] abbiamo cercato di afferrare le conseguenze in tutti i campi della mondializzazione capitalistica, ma oggi è indispensabile davvero cercare di fare il punto con maggior sistematicità sulle cause del caos geopolitico, sulle dinamiche della crisi in corso, nonché sull’attualizzazione delle risposte che occorre fornire a una situazione mondiale per tanti aspetti inedita. Questi appunti hanno lo scopo di affrontare queste questioni per alimentare una riflessione collettiva.[2] Non pretendono di essere esaustivi – altri argomenti sono affrontati in altri testi da altri compagni. Si basano spesso su analisi già condivise, ma provano a spingere più avanti la discussione sulle loro implicazioni: non ci si può limitare a ripetere sempre allo stesso modo quel che dicevamo in precedenza. A tale scopo, a rischio di semplificare eccessivamente delle realtà complesse, si “epurano” gli sviluppi in atto, perlopiù incompiuti, per valorizzare quel che sembra nuovo.

Imperialismi, tempi lunghi, tempi brevi e mutamento di quadro

I dibattiti di riferimento iniziali sull’imperialismo risalgono all’inizio del XX secolo, all’epoca del completamento (in Occidente) degli Stati nazionali e degli imperi coloniali – e della guerra imperialista per modificare la spartizione del mondo. Tutte le definizioni dell’imperialismo allora sistematizzate riflettono quel contesto geopolitico. Possono servire da utili “punti di riferimento”(incluso per misurare l’entità dei cambiamenti), ma soprattutto non da “norma”.[3]

Le rivoluzioni successive alla Prima e alla Seconda guerre mondiali hanno sconvolto il quadro geopolitico, con una nuova più complessa configurazione combinante le contrapposizioni rivoluzioni/controrivoluzioni, “blocchi” dell’Ovest e dell’Est (non semplicemente sovrapponibili alla contrapposizione precedente), decolonizzazione e zone d’influenze più o meno esclusive, rivalità inter-burocratiche (Urss/Cina) e inter-imperialistiche in seno a quel quadro…

L’implosione dell’Urss, poi il pencolare della Cina verso l’ordine capitalistico mondiale hanno rimescolato ancora una volta le carte. Ci torneremo. Il punto che mi preme sottolineare in questa sede è che lo “sviluppo organico” del capitale non è la spiegazione esclusiva, tutt’altro. I fattori esogeni hanno giocato per due volte un ruolo essenziale nella riorganizzazione mondiale. Ne va tenuto conto per capire le scelte delle borghesie imperialiste dopo l’implosione dell’Urss nel 1991 (la mondializzazione capitalistica).

Nell’arco breve di tempo (dagli anni ’90 ad oggi) si nota un cambiamento piuttosto radicale. In un primo momento le borghesie e gli Stati imperialisti hanno puntato alla conquista: penetrazione nei mercati dell’Est, intervento in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003)… Ci sono stati poi l’impantanamento militare, la crisi finanziaria, l’emergere di nuove potenze (Cina), le rivoluzioni arabe… e il tutto è sfociato in una perdita di iniziativa e di controllo geopolitici; oggi Washington reagisce più in clima d’urgenza di quanto non pianifichi l’imposizione del proprio ordine. Il problema è il nesso tra la svolta post-1989 (tempo lungo) e quella che si delinea alla metà degli anni 2000 (tempo breve), per valutare che cosa c’è di congiunturale o di strutturale nella situazione presente.

Quando le borghesie imperialiste si emancipano dal politico

Diciamo che, dopo l’implosione dell’Urss, le borghesie imperialiste hanno creduto che “fosse giunto il momento”: erano libere di realizzare il proprio sogno, e cioè un mercato mondiale con regole uniformi che consentisse loro di espandere a proprio piacimento i rispettivi capitali. Le conseguenze capitalistiche della mondializzazione non potevano quindi che essere molto profonde – per di più demoltiplicate dagli sviluppi che, nella loro euforia, le suddette borghesie imperialiste non avevano voluto prevedere.

1. Lo schema classico dei rapporti Nord-Sud o Centro-Periferia (il Nord esportatore di merci e il Sud di materie prime) è stato stravolto dall’internazionalizzazione delle filiere produttive e dai paesi del Sud che diventavano i principali esportatori di prodotti industriali (specie in Asia: la Cina “officina mondiale”). Pur se il predominio economico del “centro” perdura per altre vie, (elevata tecnologia, statuto del dollaro statunitense, finanziarizzazione, capacità militare degli Stati Uniti, ecc.), questi mutamenti hanno evidentemente implicazioni notevoli per il movimento operaio, ma anche per le stesse borghesie imperialiste: questo contribuisce a relativizzare l’importanza dei rispettivi paesi d’origine e facilita la loro emancipazione dal politico.

2. Costituire un mercato mondiale reso “uniforme” comporta infatti questa emancipazione. Le “forme adeguate” di dominazione borghese prodotte dalla storia specifica di paesi e regioni (compromesso storico di tipo europeo, populismi di tipo latinoamericano, dirigismo statale di tipo asiatico, clientelismo redistributivo di molteplici tipi…) vengono progressivamente de-legalizzate, poiché tutti erigono specifici rapporti col mercato mondiale, e quindi ostacoli al libero dispiegarsi del capitale imperialista. Tuttavia, rendere inoperanti queste forme di dominazione “adeguate” porta inevitabilmente a crisi di legittimità, o di ingovernabilità, tanto più che le aggressive politiche neoliberiste lacerano il tessuto sociale in un numero crescente di paesi. Quel che colpisce è che le borghesie imperialiste sembrano disinteressarsene, finché resti garantito loro l’accesso alle materie prime, ai centri di produzione, a vie e nodi della comunicazione, ecc. Al tempo degli imperi, occorreva garantire la stabilità dei possedimenti coloniali – come pure (anche se in minor misura) le aree di influenza nell’epoca della guerra fredda. Diciamo che oggi questo dipende dal luogo e dal momento… Muta il rapporto con il territorio. Diciamo ancora che, se i capi di Stato continuano a sostenere le “loro” multinazionali, queste ultime non si sentono più dipendenti dai loro paesi d’origine: il rapporto è più “asimmetrico” che mai.

3. Muta il rapporto con il territorio; e quindi con gli Stati. Questi, ad esempio, non sono più i copiloti di progetti industriali di grande portata (si veda lo sviluppo del nucleare in un decennio in Francia) o di infrastrutture sociali (istruzione, sanità, ecc.). Lo Stato deve contribuire ad instaurare le regole che universalizzano la mobilità dei capitali, aprire tutti i settori agli appetiti del capitale (salute, istruzioni, pensioni…), smantellare i diritti sociali e tenere ferma la popolazione. Oggi un capo di Stato è soltanto un semplice maggiordomo. Naturalmente, alcuni paesi restano più ugualitari di altri e gli Stati Uniti si consentono cose che non autorizzano altrove. Gli Stati Uniti conservano prerogative regali mondiali che altri hanno perso – o non hanno più i mezzi per averle.

4. La mondializzazione capitalistica porta così alle crisi per varie ragioni, una delle quali ha un posto particolare: una classe non domina più stabilmente una società senza mediazioni, compromessi sociali, legittimazione (d’origine storica, sociale, democratica, rivoluzionaria…). Le borghesie imperialiste liquidano secoli di “capacità pratiche” in materia, in nome della libertà di movimento del capitale; ma il sogno del finanziere è irrealizzabile. Sta finendo per sfociare in un permanente stato di crisi. È quanto già si verifica in intere regioni.

La peculiarità del capitalismo mondializzato sembra dunque quella di adattarsi a uno stato permanente di crisi economica: diventa consustanziale al normale funzionamento del sistema globale di dominazione. È allora il caso di modificare a fondo la nostra visione della “crisi” come un momento specifico tra lunghe fasi di “normalità” – e non abbiamo ancora finito di valutarne, di subirne le conseguenze.

I nuovi fascismi

Una delle principali conseguenze della fenomenale forza destabilizzatrice della mondializzazione capitalista è l’ascesa altrettanto spettacolare dei nuovi fascismi con base (potenziale) di massa. Certuni assumono forme relativamente classiche, ad esempio Alba dorata in Grecia, o si annidano in nuove xenofobie e in ripiegamenti identitari. Tuttavia, il fenomeno oggi dominante è l’affermarsi di correnti fasciste dai richiami religiosi (senza più il trittico “popolo/razza/nazione”). Si manifestano in tutte le “grandi” religioni (cristiana, buddista, induista, ecc.) Costituiscono attualmente una considerevole minaccia in India o nel Sri Lanka. Il mondo musulmano, quindi, non ha il monopolio in materia; ma è pur lì che ha assunto una specifica dimensione internazionale, con movimenti “multinazionali” come lo Stato Islamico o i Talibani (si veda la situazione in Pakistan) e reti che si connettono più o meno formalmente dal Marocco all’Indonesia, o (solo potenzialmente?) al Sud delle Filippine.

Si può discutere della definizione del concetto di fascismo. Questi movimenti non sono organicamente legati al “grande capitale” come nella Germania nazista, ma esercitano un terrore di tipo fascista, fin nella vita più quotidiana. Dove esistono, occupano la “nicchia politica” del fascismo – e ci pongono problemi politici nuovi (per le nostre generazioni) della resistenza antifascista su larga scala.

Il termine di Islam politico rimanda a un ampio ventaglio di correnti che non rientrano tutte nella stessa categoria, tutt’altro. Ma non molto tempo fa una parte significativa della sinistra radicale internazionale riteneva che l’ascesa del fondamentalismo islamico (ad esempio il talibanismo) avesse un carattere progressista e antimperialista. Ora, anche se si scontra con gli Stati Uniti, costituisce una temibile forza controrivoluzionaria. Grazie all’esperienza, ora sono più rare le correnti che conservano queste posizioni, ma il “campismo” resta presente in questo campo, come un riflesso condizionato: accontentandosi, ad esempio di condannare l’intervento imperialista in Iraq e il Siria (cosa che certamente va fatta), ma senza dire una sola parola su quel che fa lo Stato Islamico né chiamare a resistervi.

Questo tipo di posizioni impedisce di impostare con chiarezza l’insieme dei compiti di solidarietà. Richiamare la responsabilità storica degli imperialismi, dell’intervento del 2003, gli obiettivi inconfessati dell’attuale intervento, denunciare il proprio imperialismo non basta. Occorre pensare i compiti concreti di solidarietà dal punto di vista delle esigenze delle popolazioni vittime e dei movimenti in lotta. Prendiamo un esempio controverso: da questo punto di vista, si può essere contro l’intervento imperialista e a favore della fornitura di armi ad elevata potenza da parte dei nostri governi alle forze kurde: perché rifiutare di farlo? Non cerco di rifugiarmi dietro un argomento d’autorità, ma trovo il testo di Lev Tročkij del 1938,[4]che affronta proprio queste questioni, davvero interessante e utile ai nostri dibattiti di ieri (guerra delle Malvine, ad esempio) e di oggi.

I nuovi (proto)imperialisti

Le borghesie imperialiste tradizionali pensavano dopo il 1991 di penetrare nel mercato degli ex paesi cosiddetti “socialisti”, tanto da subordinarli naturalmente – domandandosi anche se la Nato avesse ancora una funzione rispetto alla Russia. Non era un’ipotesi assurda, come dimostrano la situazione della Cina alla svolta degli anni 2000 e le condizioni di adesione di questi paesi all’OMC (molto favorevoli al capitale internazionale). Ma le cose sono andate diversamente – e questo non sembra essere stato inizialmente o seriamente voluto dalle potenze costituite.

In Cina, si è formata dall’interno del paese e del regime una nuova borghesia, soprattutto attraverso la “borghesizzazione” della burocrazia, trasformatasi in classe possidente grazie a meccanismi che ora si conoscono benissimo.[5]Si è dunque ricostituita su basi autonome (eredità della rivoluzione maoista) e non come una borghesia di colpo organicamente subordinata all’imperialismo. La Cina è un nuovo imperialismo? Come per il concetto di fascismo, va precisato quel che si intende per imperialismo nell’attuale contesto mondiale. Per un verso, uso la formula di imperialismo in formazione (senza garanzie di successo).[6]Basti dire per il momento che la Cina è diventata una potenza capitalista per capire come la geopolitica mondiale contemporanea sia ben diversa da cinquant’anni fa. Vi torneremo nella relazione riguardante la situazione nell’Oriente asiatico.

I BRICS hanno cercato di muoversi di concerto sull’arena del mercato mondiale, senza grandi successi. I paesi che compongono questo fragile “blocco” non giocano tutti nello stesso campo. La Cina intende giocare nel girone dei più grandi. Lo vorrebbe anche la Russia, anch’essa membro permanente del Consiglio di sicurezza e detentrice ufficiale dell’arma nucleare, ma ha molti meno mezzi. Il Brasile, l’India e il Sudafrica possono probabilmente definirsi sub-imperialisti – un concetto risalente agli anni ’70 – e gendarmi regionali, ma con una notevole differenza: godono di una ben maggiore libertà di esportare capitali che non in passato. Si veda il “grande gioco” aperto in Africa con la concorrenza tra Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, India, Brasile, Sudafrica, Cina…

Due conclusioni su questo

1. La concorrenza tra potenze capitalistiche si ravviva soprattutto per l’affermazione della Cina, ma anche della Russia nell’Europa orientale. Si tratta certo di conflitti tra potenze capitaliste, dunque qualitativamente diverse da quelle della fase precedente. In passato, senza mai allinearci con la diplomazia pechinese, sostenevamo la Repubblica popolare (e la dinamica della rivoluzione) contro l’alleanza imperialista nippo-americana, e ci trovavamo, in questo senso, nel suo campo. Vedremo (nella relazione sull’Asia) fino a qual punto la geopolitica regionale sia mutata, il che richiede da parte nostra un posizionamento diverso, “anti-campista”.

2. Più in generale, per quanto riguarda la libertà di movimento dei capitali, alcune borghesie (ancorché subordinate) e alcune multinazionali del “Sud” possono utilizzare per sé le regole concepite dopo il 1991 dalle borghesie imperialiste tradizionali ai propri fini, rendendo più complicata che in passato la concorrenza sul mercato mondiale.

Espansione capitalistica e crisi ecologica

Il reinserimento del “blocco” sino-sovietico nel mercato mondiale ha consentito un’enorme espansione capitalistica, che è alla base dell’ottimismo delle borghesie imperialiste.

Ma è anche alla base della drammatica accelerazione della crisi ecologica. Non pretendo di dilungarmi su questo argomento, ma voglio semplicemente sottolineare qui:

1. È impossibile in questo contesto porre il problema della riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra solo al Nord – deve essere posto anche al Sud.

2. La regolazione del “debito ecologico” al Sud non deve favorire lo sviluppo capitalista mondiale e andare a vantaggio sia delle multinazionali nippo-occidentali insediate al Sud, sia di quelle radicate nel Sud (come l’agro-industria brasiliana, ecc.), cosa che non farebbe che alimentare sempre più crisi sociali e ambientali.

3. Resta pur sempre la necessità di una solidarietà “Nord-Sud”, ad esempio in difesa delle vittime dello sconvolgimento climatico. Tuttavia, c’è all’ordine del giorno una comune lotta “antisistemica” nei rapporti “Nord-Sud” dal punto di vista delle classi popolari; e cioè, una lotta congiunta per un’alternativa anticapitalista, un’altra concezione dello sviluppo al “Nord” ed al “Sud” (metto ovunque virgolette, perché l’eterogeneità del “Nord” e del “Sud” è attualmente tale che concetti come questi possono essere ingannevoli).

4. Se il punto di partenza è la lotta socio-ambientale per “cambiare il sistema, non il clima”, questa ha come zoccolo di base i movimenti sociali più che le specifiche alleanze sul clima. Mi sembra che occorrerebbe perciò ridiscutere l’articolazione tra le due cose. Se non si “ecologizza” la lotta sociale (sul modello di quel che si può fare in lotte contadine od urbane), l’espansione numerica delle battaglie sul “clima” resterà alla superficie delle cose.

5. Le conseguenze del caos climatico si fanno già sentire e l’organizzazione delle vittime, la loro difesa e autodifesa rientrano nel nocciolo duro della battaglia ecologica. Le conseguenze del super-tifone Haiyan nelle Filippine superano per ampiezza quello contro cui eravamo già in allerta: il futuro annunciato è diventato parte del presente. Questo ha conseguenze destabilizzatrici che vanno ben oltre le regioni direttamente colpite e determinano tensioni a catena (si vedano i profughi del Bangladesh e i conflitti con l’India sul problema dei migranti).

Un mondo di guerre in permanenza

La mia ipotesi è che non andiamo incontro a una Terza guerra mondale sul modello della Prima e della Seconda, perché non c’è un conflitto per la spartizione territoriale del mondo nel senso che questo aveva in passato. Ma i fattori di guerra sono molto profondi e diversi: nuovi conflitti inter-potenze, concorrenze sui mercati mondiali, accesso alle risorse, decomposizione delle società, ascesa di nuovi fascismi che sfuggono ai controlli dei loro genitori, conseguenze a catena del caos climatico e delle crisi umanitarie di grandissima ampiezza…

Questo vuol dire che siamo ormai entrati appieno in un mondo di guerre (al plurale) in permanenza. Che ogni guerra va analizzata nelle sue peculiarità. Abbiamo tuttavia bisogno di “punti fermi” per conservare una bussola in una geopolitica molto complicata: indipendenza di classe contro gli imperialismi, contro i militarismi, contro i fascismi e l’ascesa dei movimenti identitari “anti-solidali” (razzisti, islamofobi e antisemiti, xenofobi, castofobi, fondamentalisti e chi più ne ha più ne metta).

In questo contesto, il retaggio “campista” è particolarmente dannoso. Porta a schierarsi nel campo di un regime (Assad…) contro buona parte del popolo, o di una potenza capitalista (in Asia orientale: Stati Uniti in nome della minaccia cinese, o Cina in nome della minaccia statunitense… oppure della Russia o dell’Occidente, nel caso dell’Ucraina)… Ogni volta si abbandona una parte delle vittime (che si trovano a stare dalla parte cattiva), si alimentano nazionalismi aggressivi e si santificano le frontiere ereditate dall’era dei “blocchi”, mentre dovremmo appunto cancellarle.

Restiamo tributari di questa eredità più di quel che non pensiamo. Quando, in Francia, parliamo d’Europa, questo di fatto significa Unione Europea o nel migliore dei casi un Europa occidentale ampliata – ed è in questo quadro che elaboriamo delle alternative. Ma l’Europa è anche la Russia e vanno pensate alternative che comprendano entrambi i lati del confine russo-occidentale-europeo (o il Mediterraneo): Questo è un problema particolarmente importante in Eurasia, perché è il solo continente che sia stato così plasmato dallo scontro rivoluzione/controrivoluzione e dal faccia-a-faccia tra i “blocchi”.

I limiti della superpotenza

Gli Stati Uniti rimangono l’unica superpotenza mondiale – eppure perdono tutte le guerre che hanno intrapreso, dall’Afghanistan alla Somalia. A questo punto, non c’è da stupirsene! La colpa probabilmente è della mondializzazione neoliberista, che impedisce loro di consolidare (in alleanza con élites locali) conquiste militari temporanee.

Forse è altresì una conseguenza della privatizzazione degli eserciti, con le società di mercenari che svolgono un ruolo crescente, come le bande armate “non ufficiali” (paramilitari) al servizio di interessi privati (grandi imprese, grandi famiglie…). Decisamente, lo Stato non è più quel che era.

Ed è così che questa potenza, per super che possa essere, non ha gli strumenti per intervenire a pieno raggio in condizioni di instabilità strutturale. Le servirebbero imperialismi secondari in grado di spalleggiarla. Ma la creazione di un imperialismo europeo è abortita; Francia e Gran Bretagna hanno ormai capacità limitate; il Giappone deve ancora spezzare le resistenze civiche alla sua completa rimilitarizzazione.

Le guerre sono quindi destinate a durare, sotto molteplici aspetti. Dovremmo quindi occuparci di nuovo del modo in cui vengono condotte, in particolare dalle resistenze popolari, per capire meglio le condizioni di una lotta, la realtà di una situazione, le esigenze concrete di una solidarietà…

Chi dice guerre dovrebbe dire di nuovo antiguerra. Essendo le guerre molto diverse tra loro, il costituirsi di movimenti antiguerra in sinergia non è automatico. Lo sguardo militante sull’Europa (occidentale) sembra pessimista al riguardo, tanto il “campismo” ha eroso e reso impotenti le principali campagne impegnate su questo terreno. Ma movimenti antiguerra ve ne sono, soprattutto in Asia – e in Eurasia il superamento dei confini ereditati dall’era dei blocchi avverrà, credo, soprattutto su questa questione.

15 ottobre 2014



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NOTE


[1] Si veda la Risoluzione del XV Congresso mondiale della Quarta Internazionale reperibile in francese in ESSF (articolo 3973), Les résistances à la mondialisation capitaliste, une chance pour un nouvel internationalisme : http://www.europe-solidaire.org/spi...

[2] I contributi a questa discussione saranno collegati tra loro da DebateGeopol.

[3] Per una presentazione del problema si veda in particolare Michel Husson, “Notes sur l’impérialisme contemporain –Théories d’hier, questions d’aujourd’hui” [Appunti sull’imperialismo contemporaneo – Teorie di ieri, problemi di oggi].http://hussonet.free.fr/ncs14w.pdf

[4] Reperibile in francese in ESSF(articolo 32791). Un texte sur l’internationalisme pratique en temps de guerre : Il faut apprendre à penser. Conseil amical à l’adresse de certains ultra-gauches : http://www.europe-solidaire.org/spi...

[5] Si veda Au Long Yu, Cina’s Rise: Strength and Stability; Merlin Press, Resistence Books, IIRE, 22012 (parziale traduzione francese: La Chine: un capitalisme breaucratique. Forces et faiblesses, Sillepse, Parigi, 2014).

[6] Si veda ESSF (articolo 32424). Ambitions chinoises – Un impérialisme en constitution : http://www.europe-solidaire.org/spi...


La traduzione è di Titti Pierini. 


Questo dibattito sull’imperialismo nella riunione del 18 ottobre del Bureau della Quarta Internazionale era stato anticipato in agosto da un intervento di Michel Husson sulle stesse tematiche. Il testo originale francese è su: http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article32851


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2) “Imperialismo e geopolitica” - Contributo al dibattito


di François Sabado 



Negli appunti di Pierre Rousset o nel testo di Michel Husson sono state presentate le differenze tra l’imperialismo di fine XIX/inizi del XX secolo e imperialismo globalizzato dell’inizio del XXI secolo. Da parte mia, vorrei sottolineare due grandi differenze fra queste due epoche storiche:

- La prima consiste nel capovolgimento del mondo, con il cambiamento dei centri di gravità dell’economia mondiale (emergere della Cina e delle nuove potenze economiche in Asia),

- La seconda differenza concerne il movimento operaio organizzato. Era in sviluppo e in espansione – anche se era stata interrotta dalle guerre mondiali e dal fascismo – alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo. Subisce invece una crisi storica agli inizi del XXI secolo.

1. Capovolgimento del mondo

Occorre cogliere la portata di questo elemento. Non si tratta di un cambiamento o di uno spostamento congiunturale, con il ritorno alla normalità una volta passata la crisi… Per coglierne la portata, possiamo prendere come punto di riferimento i capovolgimenti in cui mutano i centri di gravità dell’economia mondiale, ad esempio nel 1760-1780 tra i Paesi Bassi e l’Inghilterra o, nel periodo tra le due Guerre mondiali, tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti… Tranne che, questa volta, si tratta di un cambiamento non solo continentale, ma di un altro mondo, in senso economico, sociale, politico e culturale… Un cambiamento in cui l’Occidente (Europa e Stati Uniti) che ha dominato il mondo dalla scoperta dell’America perde la sua egemonia a vantaggio di nuove potenze emergenti o di vecchie potenze che recuperano la propria forza a distanza di 4-5 secoli.

1.1. In questi nuovi rapporti mondiali, l’Europa declina, gli Stati Uniti perdono la propria egemonia economica, pur restando la prima potenza militare mondiale. Molto dipenderà dagli sviluppi della crisi negli USA. Ma l’incidenza dei paesi del G7 sul PIL mondiale, che era del 56% agli inizi degli anni ‘80, nel 2010 è soltanto del 40%. Le previsioni indicano che le curve di crescita tra gli ex G7 da un lato e, dall’altro, la Cina e le nuove potenze asiatiche nel futuro decennio si incontreranno; e, in termini di reddito medio pro capite questo potrebbe anche avvenire negli anni 2030-2040. Gli indicatori di crescita degli ultimi dieci-quindici anni – dell’8-10% circa per la Cina e l’India, di contro all’1-2% per l’Europa o del 2-3% per gli USA – o anche in termini di riserve mondiali, esprimono questi mutamenti.

1.2. In questa crisi si ridisegna la pianta del mondo e infuria la concorrenza.

Questi nuovi rapporti di forza portano a nuove tensioni economiche inter-capitalistiche o inter-imperialistiche che, in determinate congiunture, possono sfociare in conflitti militari. L’arretramento statunitense si traduce in una crisi della sua egemonia. Gli Usa rimangono la prima potenza mondiale, ma le sue posizioni si sono indebolite su tutti i terreni di guerra del pianeta. Sono mutati i rapporti di forza tra il nuovo ordine mondiale degli inizi degli anni ’90 e la situazione attuale.

1.3. È impossibile spiegare la crisi europea senza questo stravolgimento del mondo. L’UE intende allineare il mercato del lavoro europeo al mercato mondiale. Ma è proprio in Europa che la crisi può assumere forme di crisi di sprofondamento a causa, in sostanza, della sua debolezza nella concorrenza mondiale. La Germania resta uno dei principali paesi esportatori – 47% del PIL, Giappone 17%, Cina 15% - ma è anch’essa colpita dalla contrazione del mercato mondiale. Così, in risposta alla concorrenza mondiale, le classi dominanti europee intendono liquidare quel che resta dello “stato sociale europeo”. Ce ne è ancora troppo e, secondo loro, va smantellato; è la spiegazione dell’offensiva speculativa sui mercati europei – i “mercati”, che sono realtà materiali: i banchieri, i dirigenti dei fondi pensione, quelli delle multinazionali esigono l’aumento del tasso di plusvalore con il ribasso dei salari, la liquidazione della previdenza e assistenza sociale e l’aumento dell’orario di lavoro. Di qui la brutalità delle politiche d’austerità – adeguarsi al mercato mondiale della forza lavoro, trainato dalla forze sociali dei paesi emergenti – cosa che comporta la riduzione del potere d’acquisto di 10-15 punti percentuali negli anni a venire.

In più, però –ed è quanto imprime un carattere acuto, esplosivo alla crisi – il tipo di costruzione politica che l’Europa ha conosciuto aggiunge un problema: con le divergenze o traiettorie di divergenze economiche tra vari poli dell’UE (Germania e cerchia tedesca-Olanda, Austria, Europa del Nord, la periferia Sud dell’Europa – con la Francia in certo modo al centro)… I rapporti franco-tedeschi esprimono la realtà economica, politica e istituzionale dell’Europa, ma senza Stati europei, senza direzione, senza piani di sviluppo né risposte fondamentali alla crisi.

Questo capovolgimento del mondo, dunque, implica il declino dell’Europa, erode le basi della democrazia politica, le basi sociali ed elettorali dei grandi partiti tradizionali. Crea le condizioni per lo sviluppo di tendenze autoritarie. Lo vediamo nei rapporti tra la Troika e certi paesi dell’Europa del Sud. Ma lo vediamo anche nelle crisi politiche nazionali, dove l’estrema destra può essere proiettata in primo piano sullo scenario politico. Benché gli interessi della borghesia globalizzata non corrispondano a quelli di una scelta “nazionale protezionista” dell’estrema destra, può sopraggiungere un “incidente politico” e portare l’estrema destra alle soglie del potere..

2. Una crisi storica del movimento operaio

2.1. Non è possibile cogliere il nuovo ridispiegamento imperialista se non nei nuovi rapporti di forza tra le classi nelle metropoli imperialiste, contrassegnati dall’indebolimento storico del movimento operaio tradizionale. In questo quadro, quale è lo stato del movimento operaio, della sinistra? Ritenevamo (e la Quarta Internazionale non era la sola a pensarla così!) che la profondità della crisi economica avrebbe comportato una nuova dinamica di ricomposizione e di riorganizzazione del movimento operaio e dei movimenti sociali… Vi sono certo esperienze come quella di Syriza, nuovi movimenti come gli Indignati, ma c’è però uno scarto tra l’esplosività della situazione e la traduzione politica, organica di questi movimenti; nessun rafforzamento dei sindacati, dei partiti riformisti, della sinistra radicale, di quella rivoluzionaria… o di correnti di sinistra nelle grandi organizzazioni, e neppure l’emergere di nuove organizzazioni, tranne Podemos. Vi sono certo nuove forme di organizzazione, ma sono per il momento troppo instabili. Inoltre, retrospettivamente, vale a dire dall’inizio delle crisi capitalistiche, non vi è mai stata simultaneamente una crisi così profonda del sistema capitalista e un movimento operaio così debole per affrontarla (tranne congiunture in cui il movimento operaio era stato liquidato dal fascismo o dalle dittature militari).

2.2.Vari fattori incidono sullo stato del movimento operaio:

a) Le controriforme liberiste, dalla fine degli anni ’70, hanno provocato su scala mondiale un processo di ristrutturazione della forza lavoro, la sua individualizzazione, la sua precarizzazione, l’arretramento dei diritti collettivi, l’indebolimento delle organizzazioni sindacali. La deindustrializzazione ha liquidato decine di concentrazioni operaie. Per non parlare del cosiddetto settore “informale”! Operai e impiegati costituiscono oltre il 60% della popolazione attiva, ma non si tratta della stessa struttura sociale di prima. In Cina o in altri paesi asiatici, l’industrializzazione ha determinato un’espansione senza precedenti del proletariato, ma siamo solo all’inizio dell’organizzazione di movimenti autonomi dei lavoratori salariati, e anche là, in questa fase, non esiste sincronizzazione dei sindacati o associazioni o partiti in Europa, Stati Uniti e in Asia…. C’è arretramento in Occidente e solo fragili inizi all’Est…

b) Il bilancio del secolo scorso pesa sui problemi di formazione di una coscienza socialista rivoluzionaria: in particolare quello dello stalinismo sul breve XX secolo in cui, per milioni di persone, c’è stata l’identificazione dello stalinismo con il comunismo – un XX secolo che si è concluso con la globalizzazione capitalista neoliberista.

c) I partiti e le organizzazioni socialdemocratiche hanno conosciuto un mutamento sociale liberista, o, per dirla più esattamente, neoliberista. Conservano legami storici con la passata socialdemocrazia. Sono forze di alternanza, per cui devono distinguersi dai partiti di destra in funzione, anche qui, delle specificità nazionali, ma sono completamente integrati nella gestione della crisi. Non vi sono differenze fra la socialdemocrazia e i dirigenti della destra europea. I processi delle primarie e le somiglianze con il Partito democratico nordamericano vanno nella stessa direzione. Partiti sempre meno operai e sempre più borghesi… Quanto ai partiti post-stalinisti, sono ridotti al raggrinzimento settario, come il PCP o il KKE; oppure a stare al seguito dei partiti socialdemocratici; o, ancora, a resistere cercando di avere una politica cosiddetta “antiliberista, ma di gestione dell’economia e delle istituzioni capitaliste”. Partiti come il PS in Francia vanno talmente a destra da lasciare uno spazio a queste formazioni, che possono avere un loro ruolo finché non sono obbligati ad entrare direttamente al governo.

d) La combinazione dell’indebolimento del movimento operaio di fronte a più di tre decenni di attacchi neoliberisti, più la politica di decenni della sinistra offre margini di manovra alla borghesia mondiale per “gestire la crisi” rafforzando le posizioni dei mercati finanziari e approfondendo gli attacchi contro le classi popolari, oppure anche, nei BRICS, migliorando le condizioni materiali di milioni di persone… C’è sempre, per il capitale, uno sbocco per uscire dalla crisi se mancano le soluzioni operaie. Il problema è che i costo sociale, ecologico, umano della sua “soluzione” è sempre più terribile.



18 ottobre 2014

Traduzione di Titti Pierini

[1] Si veda su ESSF (articolo 33279), Le chaos géopolitique et ses implications : notes d’introduction pour une réflexion collective : http://www.europe-solidaire.org/spi... I contributi a questo dibattito saranno legati dalla parola chiave DebateGeopol.

[2] http://www.europe-solidaire.org/spi...

[3] http://hussonet.free.fr/ncs14w.pdf


dal sito Movimento Operaio


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