Diari di Cineclub

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domenica 7 aprile 2019

IL SOVRANISMO DI SINISTRA E' UNA DERIVA, RILANCIAMO LA LOTTA PER UN'EUROPA SOCIALISTA




IL SOVRANISMO DI SINISTRA E' UNA DERIVA, 
RILANCIAMO LA LOTTA PER UN'EUROPA SOCIALISTA


Intervista a Marco Ferrando


Lontano da qualsiasi illusione circa la riformabilità dell'UE, il sito Il Pane e le rose non ha però mai sostenuto chi ne propugna il superamento per vie nazionaliste. Lo stesso fenomeno, attualmente in auge, del "sovranismo di sinistra", ci sembra foriero di pericolosi sbandamenti, a partire dal fatto che, richiamandosi a una sorta di "nuovo riscatto" dell'Italia o di altri paesi, pone in second'ordine - o cancella del tutto - il conflitto di classe. Per questo abbiamo intervistato Marco Ferrando, portavoce nazionale di quel Partito Comunista dei Lavoratori che da tempo è impegnato in una battaglia politica contro la suddetta tendenza. Uno sforzo evidentemente sostenuto da solide basi culturali, visto il carattere della conversazione che qui proponiamo, in cui il significato complessivo di falsa alternativa del "sovranismo di sinistra" viene evidenziato con dovizia di argomentazioni.

mercoledì 7 marzo 2018

UN TERREMOTO POLITICO - PRIMO BILANCIO DEL VOTO DEL 4 MARZO






UN TERREMOTO POLITICO 
PRIMO BILANCIO DEL VOTO DEL 4 MARZO



Il voto del 4 marzo costituisce un nuovo terremoto nella politica italiana, sia pure visto attraverso le lenti deformanti di una campagna elettorale.
Il primo dato fondamentale è il tracollo dei partiti che da anni garantivano la governabilità del capitalismo italiano. Il Pd lascia sul campo oltre 2,5 milioni di voti, Forza Italia 2,7. A questo si aggiunga che nel 2013 la coalizione di Mario Monti, centrista e borghese per eccellenza, aveva raccolto quasi 3,6 milioni di voti.

Quello che i commentatori politici chiamano il “centro”, ossia i partiti che la borghesia considera affidabili, si è letteralmente liquefatto. È impraticabile qualsiasi ipotesi di larghe intese basata su Forza Italia e il Pd.
Il capitale, italiano e internazionale, ha quindi per le mani il problema assai scottante di garantirsi un governo che risponda ai suoi interessi fondamentali, sulla base di un parlamento in cui i numeri non indicano chiare maggioranze. In questo crollo dei partiti che hanno governato per decenni c’è un elemento di profondo odio di classe che dobbiamo saper leggere al di sotto e al di là della demagogia dei 5 Stelle o delle campagne reazionarie della destra.

venerdì 15 dicembre 2017

IL PROGRAMMA DI "POTERE AL POPOLO" E LE NOSTRE DIVERGENZE







IL PROGRAMMA DI "POTERE AL POPOLO" E LE NOSTRE DIVERGENZE


L’appello “Potere al popolo” lanciato dal Centro sociale “Je so’ pazzo” di Napoli e dall’organizzazione politica a cui fa riferimento, i Clash City Workers, ha diffuso una proposta di programma per una lista alle prossime elezioni politiche.
Da più parti tale proposta viene definita, a seconda degli interlocutori, “anticapitalista”, “di rottura”, addirittura “di transizione al socialismo”. Possiamo comprendere le grandi speranze affidate in questo tentativo di “unità della sinistra” da parte di diversi sinceri militanti, ma purtroppo dobbiamo dire che tali speranze sono malriposte.
Nella proposta di programma, rintracciabile sul sito poterealpopolo.org, non c’è traccia di contenuti anticapitalisti o rivoluzionari. La parola “rivoluzione” non compare, e nemmeno “socialismo”, tantomeno “comunismo”. La proposta complessiva si colloca su un terreno “antiliberista” e riformista fin dai primi capitoli.

martedì 30 settembre 2014

GUERRA AL RENZISMO di Marco Ferrando



GUERRA AL RENZISMO
di Marco Ferrando




Matteo Renzi ha scelto la via della guerra al movimento operaio per nutrire le proprie fortune di aspirante Bonaparte. E' l'ora che il movimento operaio dichiari guerra al renzismo.

Non sarà Massimo D'Alema , già guida in altre stagioni dell'offensiva anti operaia, a salvare i lavoratori e l'articolo 18. Non saranno i vecchi trasformisti liberali a sbarrare la strada ai nuovi guappi reazionari. Al contrario: proprio il discredito della vecchia guardia PD ha spianato la strada al renzismo, che oggi usa oltretutto quel discredito come leva complementare del proprio attacco al lavoro ( il “nuovo” contro il “vecchio”). Ogni subordinazione del movimento operaio e sindacale alla dialettica interna al PD è dunque non solo infondata ma suicida.

Si impone invece una logica di classe indipendente: una mobilitazione autonoma e di massa dei lavoratori all'altezza della sfida lanciata. Una mobilitazione unitaria, radicale, prolungata, tanto determinata quanto determinato è il Capo del governo. Con un primo obiettivo incondizionato: difesa ed estensione dell'articolo 18, cancellazione del decreto Poletti e di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro. Dentro una piattaforma di lotta più generale: blocco dei licenziamenti, ripartizione del lavoro fra tutti con la riduzione dell'orario a parità di paga, cancellazione della riforma Fornero sulle pensioni, salario ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione.

CGIL e FIOM si assumano le proprie responsabilità, in quanto direzioni maggioritarie del movimento operaio.

Non bastano atti di “contestazione” simbolica- come propone Camusso- tanto più se l'obiettivo è conquistare il proprio diritto a negoziare l'arretramento dei diritti dei lavoratori con un capo di governo anti sindacale. Tanto meno sarebbero accettabili ulteriori ammiccamenti col renzismo- come ha fatto per mesi Landini- magari in una logica di scambio, sotto traccia, fra “bassa belligeranza” a difesa dei diritti e legge sulla rappresentanza sindacale. Questi ammiccamenti già hanno nascosto e abbellito la realtà del renzismo agli occhi di milioni di lavoratori. Vanno denunciati in tutta la loro gravità e archiviati.

E' giunto il momento di una battaglia vera.

CGIL , FIOM ( e tutti i sindacati classisti) promuovano un vero sciopero generale. Convochino in ogni luogo di lavoro assemblee unitarie dei lavoratori, in direzione di una assemblea nazionale di delegati eletti, che definisca piattaforma di lotta e forme di azione. Si rivolgano a tutta la classe lavoratrice e ai milioni di precari e disoccupati per una vera prova di forza contro il governo e il padronato.

La classe operaia può porsi alla testa di un vasto blocco sociale, organizzarlo e vincere.
L'alternativa non è lo status quo. E' un nuovo pesante arretramento del movimento operaio e di tutti gli sfruttati. Un arretramento sociale e sindacale: perchè l'abolizione dell'art.18, persino nella sua attuale versione menomata, significherebbe reale libertà di licenziamento illegittimo, senza neppure l'ingombro di un giudice. Un arretramento politico: perchè la vittoria di Renzi significherebbe lo sfondamento politico del renzismo quale punto di ricomposizione di un blocco reazionario, in una dinamica dirompente di teatcherismo populista.

Siamo ad un passaggio centrale della lotta politica e di classe in Italia.

Per questo il PCL svilupperà la propria proposta di lotta generale in ogni sede ( luoghi di lavoro e di studio, organizzazioni sindacali , manifestazioni, assemblee..)
Agirà innanzitutto tra i lavoratori e in ogni lotta per favorire lo sviluppo concreto dell'azione di classe contro il governo, dell'autorganizzazione di massa , dell'egemonia di classe sui movimenti sociali.
Parteciperà con le proprie forze e proposte ad ogni scadenza di mobilitazione, anche parziale e contraddittoria, che ci consenta di intervenire sulle masse sindacalmente attive e sui settori più avanzati della classe per sviluppare la loro coscienza politica in contrasto con le loro direzioni.
Sosterrà ogni iniziativa classista, anche limitata , che si ispiri all'unità di classe e/o che si muova in contraddizione con le burocrazie.

Di certo la battaglia contro il renzismo è e sarà un banco di prova cruciale per tutta la sinistra politica e sindacale.

30 Settembre 2014


dal sito Partito Comunista dei Lavoratori



La vignetta è del Maestro Enzo Apicella



giovedì 25 settembre 2014

SCUOLA: RENZI VA ALLA GUERRA



SCUOLA: RENZI VA ALLA GUERRA



La scuola che vuole Renzi e il suo governo è la stessa che voleva Berlusconi. La sua politica di populismo propagandistico nasconde anche per questo settore un disegno liberista e reazionario che mai nessuno è finora riuscito ad imporre. Ciò che occorre, come sempre, è una lotta all'altezza dell'attacco.


Le cosiddette linee guida per l'ennesima controriforma della scuola sono contenute in un opuscolo di 136 pagine, il cui titolo è già tutto un programma: “La buona scuola”. Evidentemente, nel giudizio degli estensori, la scuola italiana è ancora una cattiva bambina che va prontamente rieducata.

Premesso che gran parte di questo verbosissimo sproloquio è costituita da pure dichiarazioni di intenti, vaghe indicazioni di obbiettivi e fumose considerazioni sui metodi, soffermiamoci un momento ad analizzare i più recenti fatti che l'anno preceduta, e che ne costituiscono le premesse.

Come sappiamo, la perdurante crisi economica sta spingendo sempre di più i conti dello Stato verso il baratro. Il debito pubblico viaggia spedito verso i 2.200 miliardi, la ripresa non si vede, il PIL non cresce, i consumi crollano, di far pagare chi non ha mai pagato non se ne parla nemmeno, la troika incombe... e quindi che cosa rimane da fare se non tagliare ancora la spesa pubblica, a partire da scuola e sanità?

Da queste semplici considerazioni è facile che capire che ancora una volta la ”linea guida” è una sola, ed è la stessa delle riforme Berlinguer, Moratti e Gelmini: sopprimere posti, diminuire i salari, aumentare i carichi di lavoro.
Naturalmente, come solitamente succede in questi casi, si è fatta precedere la riforma con dichiarazioni “terroristiche”: fra giugno e agosto, nel corso di interviste, tweet e dichiarazioni pubbliche, il sottosegretario Reggi e la ministra Giannini sono arrivati a paventare il raddoppio delle ore di lezione a parità di stipendio per i professori, la eliminazione delle ferie, la libertà di licenziare e assumere da parte dei Presidi e cento altre amenità del genere.
È un trucco vecchio come il mondo, in molti libri di scienze delle finanze gli vengono dedicati persino dei paragrafi: quando un governo vuole prendere provvedimenti che vanno a peggiorare la situazione economica di una certa categoria di cittadini, è bene che preventivamente faccia circolare voci volte a prefigurare gli scenari peggiori immaginabili, di modo che quando poi la riforma effettivamente voluta sarà presentata, apparirà come “meno peggio” rispetto a quella temuta, e i cittadini colpiti la accoglieranno quasi con rassegnazione, se non addirittura con soddisfazione: “pensavo peggio!”

martedì 12 marzo 2013

IL "GRILLISMO" SPIEGATO ... AI GRILLINI di Enrico Pellegrini



IL "GRILLISMO" SPIEGATO ... AI GRILLINI
ANALISI DI UN "MOVIMENTO" REAZIONARIO
di Enrico Pellegrini*



Il “Movimento Cinque Stelle” rappresenta uno dei fenomeni a rilevanza di massa degli ultimi anni. Presentato come un insieme di legittime aspirazioni derivanti dalla conseguenza del “marciume” della politica, esso si configura come un’assolutà novità nel panorama politico italiano e come un effettivo strumento “liberatore” dai corrotti, dagli schiavi del sistema, dai ladri di stato, dal malaffare vagamente inteso ecc. La professionalità e la grande capacità artistico-comunicativa di Beppe Grillo agiscono da propulsore fondamentale e da catalizzatore mediatico per tutta una serie di istanze a cui ,dal palco, il comico genovese trova (apparentemente) sempre risposte e soluzioni adeguate (“via tutti!”). Il seguito di massa del suo “Tsunami-Tour” è un dato di fatto e coglie ,nel contempo, un elemento ineludibile: la totale assenza dei suoi eventuali interlocutori politici data la scelta di questi di non misurarsi sul suo stesso terreno (eccezion fatta per il centrosinistra a Milano).

Beppe Grillo è, dunque, il “Movimento Cinque Stelle” ma nulla di quanto si affermi e si pensi sulla natura continuamente dichiarata di libera e aperta discussione al suo interno esiste realmente. Le contraddizioni di un “movimento” che nasce e si sviluppa “libero” sono evidenti e si tramutano anche nel farraginoso programma ultrapopulista che dovrebbe rappresentare una carta d’identità precisa visti i consensi potenzialmente ricevibili in termini elettorali ma che non va oltre un serio “cimitero di buone intenzioni” dove trova posto tutto ed il contrario di tutto e dove questo “tutto” manca anche dell’approfondimento di temi sociali legati al disastro storico dell’oggi.
Alcuni punti essenziali su quanto detto.

mercoledì 21 marzo 2012

L'ANIMALISMO E' ANTICAPITALISMO di Marco Piracci





Non si può spezzare nessuna specie di servitù
senza spezzare ogni specie di servitù
Karl Marx

L'ANIMALISMO E' ANTICAPITALISMO
di Marco Piracci



Quale partito costruire nel XXI° secolo?


Non c’è alcun dubbio, la fase storica che stiamo vivendo segna il crollo di tradizioni consolidate che erano o sembravano dominanti. Si tratta di un disfacimento lungamente maturato che si muove lungo un percorso poco omogeneo. Abbiamo davanti vecchi e nuovi nemici dell'uomo: il sistema democratico globale dei paesi capitalistici, l'impero burocratico cinese e la Russia, finte istituzioni internazionali come l'O.N.U. che spargono morte e distruzione reprimendo ogni tentativo di autodeterminazione di popoli e comunità, cominciando guerre che non finiscono, devastando il pianeta e le sue risorse, rendendo incerto ogni aspetto della vita delle persone, dal cibo alla salute, fino ai diritti più elementari. Tutto ciò ci pone davanti a un bivio. O iniziamo a ripensare il senso e l'idea stessa di società e di umanità o ci accontentiamo di vivere nelle barbarie.
Come ha ben spiegato Giulio Girardi in "La violenza dei cristiani":

"Le masse si possono riconciliare con un sistema disumanizzato perché non sanno cosa sia essere uomo. Allora accettano di non esserlo".

Ma l'emotività umana ha bisogno di riscattarsi, di vedere ciò che si cela dietro le illusioni del sistema. Occorre dedicare molta attenzione alle problematiche inerenti la psicologia delle dinamiche sociali (come ha bene messo in evidenza il percorso della Scuola di Francoforte). Il risultato di una società spettacolarizzata è una realtà dominante che presenta come inevitabile l'oppressione e la sofferenza che ne consegue. Ciò che appare nel mondo sembra sovrastare gli uomini. Risulta spesso incomprensibile l'origine dello sfruttamento e delle tragedie quotidiane che ci affliggono, e ciò aumenta il rischio di rassegnazione e di adattamento.
E' la stessa oppressione che dichiarava inevitabile lo schiavismo, la subordinazione delle donne, la gerarchia delle etnie, etc.
Si tratta di guardare la società che ci circonda nei termini della possibilità, della trasformazione possibile. Una diversa umanità comincia dai tentativi di costruire realtà differenti.
Lottare contro il sistema oppressivo contemporaneo deve voler dire prima di tutto preservare la nostra umanità. Preservare cioè uno spazio che si sottragga alle logiche dell'individualismo e della meritocrazia, dalle quale origina poi l’oppressione capitalistica.


Le sinistre italiane


Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno
guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali

Theodor Adorno



Storicamente, le correnti di sinistra nascono per "portare avanti" gli interessi degli oppressi. Tradizionalmente le persone e le forze di sinistra si richiamano a questi interessi. I problemi sorgono (e dopo oltre due secoli di storia del movimento operaio mi sembra impossibile negarlo) quando si qualifica in quale modo si concepiscono questi interessi. Contrariamente alle convinzioni invalse per due secoli di discussioni, polemiche e scissioni, la questione non riguarda unicamente le strategie e le tattiche che devono venir adottate, ma i criteri stessi dell'identificazione tra le diverse tendenze e i loro referenti principali. E' un concetto che potrebbe apparire complesso ma che riveste un’ importanza profonda. Se nel '17 il problema per Lenin era quello della presa del potere, oggi il contesto socio-economico ci pone di fronte anche ad altri nuovi problemi. Ad esempio, durante la Rivoluzione Russa rivestiva un ruolo centrale la produzione di grano. Oggi quel grano è prodotto in eccesso. La lotta per l'aumento di produzione ha condotto l'umanità in un sistema economico nel quale oltre l'80% del prodotto è superfluo. Ed è interessante notare che anche in zone fortemente depauperate come molte regioni dell'Africa Centrale, si abbia una sovrapproduzione di beni alimentari. A tal proposito centrale è lo studio dei teorici della Teoria della decrescita (come Serge Latouche e Mauro Bonaiuti) che proprio questo principio mettono bene in luce (1).

Le prospettive di miglioramento che sono perseguite da parte delle varie formazioni, inserite negli schemi classici del socialismo non sono precisate in senso proprio. Non affondano le proprie radici sugli aspetti psicologici umani. Anzi, questi vengono dati per scontati, oppure vengono pensati e considerati in maniera del tutto generica. In altri termini, si considera il miglioramento come un fatto oggettivo legato unicamente alla sconfitta o al ridimensionamento degli oppressori, da raggiungere utilizzandone gli stessi mezzi. Non si pone invece al centro della riflessione chi sono, chi possono e vogliono essere le donne e gli uomini cui si rivolge, e di conseguenza che mondo vogliono costruire. Cercano cioè di muovere la gente su questioni esclusivamente contingenti piuttosto che recepirne i sentimenti e le ragioni più intime e provare ad indirizzarli complessivamente sulla via della trasformazione globale, attraverso la presa di coscienza. Si rimettono al giudizio delle masse, ma queste vengono considerate come numeri per il proprio potere, ovvero come coloro che affidano o delegano ai propri rappresentanti politici le speranze di cambiamento. E' lo stesso copione della rivoluzione borghese del 1789 in Francia: gli oppressi e gli emarginati sono gli spettatori di cui hanno bisogno gli attori politici per legittimare il proprio ruolo e farne le fortune. L'importanza della moltitudine consiste nel consenso che fornisce politicamente o sindacalmente, al massimo ed eccezionalmente negli scossoni che provocano le loro ascese a patto che siano riassorbibili ed adattabili alle soluzioni già previste (in questo senso riveste un ruolo esemplificativo quanto accaduto a Kronstadt). In nessun caso primeggia il protagonismo umano che le persone esprimono nella loro lotta. Ma proprio questo protagonismo è quello che sospinge la gente di sinistra, che le fa sentire di sinistra. E’ questo protagonismo che alimenta la loro voglia di lottare, di veder cambiare il contesto in cui vivono. Ma i dirigenti delle formazioni della sinistra italiana sono preoccupati esclusivamente del loro risultato politico. Per queste formazioni vale il principio secondo il quale tutto dipende dalle masse in lotta, l'ultima e decisiva parola spetta invece alla loro attività. Dietro la presunta fiducia incondizionata nelle masse si nasconde spesso la sfiducia profonda verso le capacità creative e costruttive connaturate all'uomo e alla donna, premesse e motivi decisivi di qualsiasi ipotesi di autoemancipazione. Invece, tutto dovrebbe dipendere dalle persone che vogliono autoemanciparsi facendo leva sui loro valori etici (diametralmente opposti a quelli dominanti). In questo quadro e solo in questo quadro, le lotte e le rivoluzioni sono davvero decisive. La Comune parigina del 1871 e alcuni passaggi della rivoluzione russa come il primo Soviet del 1905 e quello libero di Kronstadt ci mostrano come i Consigli possano essere un'espressione di alta comunanza, un embrione di potere inclusivo e diretto e non semplicemente strumenti della rivoluzione.

La tematica dell’animalismo e i limiti della sinistra italiana. Il caso del Partito Comunista dei Lavoratori.

In questo quadro, analizzare il ruolo svolto dalle sinistre liberali in Italia (in particolare Sinistra e Libertà e i Verdi) è di particolare importanza. La tematica dell’animalismo è esemplificativa dei forti limiti di queste formazioni. Per queste infatti l’animalismo è una semplice appendice settoriale della propria proposta. Si difende l’animalismo in un 'ottica buonista ma guai a volerlo inserire in una proposta politica organica complessiva (dove la tematica risulta impopolare e non conveniente in termini di riscontro elettorale). Sembrerà assurdo, ma formazioni costruite sulla base di associazioni settoriali (ambientaliste, animaliste, etc.) come nel caso dei Verdi, nel momento in cui devono presentare il proprio programma organico risultano profondamente contraddittorie e in molti casi anche repressive perfino nell’ambito specifico che vorrebbero rappresentare. E questo almeno per due ragioni:

  Vi è in queste formazioni una eccessiva preoccupazione per i risultati elettorali e il consenso immediato. Per questo aspetto una proposta realmente animalista risulterebbe controproducente;

*   In secondo luogo e soprattutto, queste formazioni cadono nei limiti di una visione liberale della società. L’oppressione capitalistica, le logiche individualistiche e meritocratiche, non solo non sono contrastate ma sono addirittura condivise. E’ il caso di SEL, un partito fondato sul MITO DELLA MERITOCRAZIA.

E così accade che SEL e Verdi risultino profondamente carenti nella proposta politica e che di fatto il loro ruolo nella lotta animalista sia profondamente negativo. In questo quadro non è un caso che l'impostazione più chiara e costruttiva emerga da una piccola formazione dell’estrema sinistra italiana: il Partito Comunista dei Lavoratori.
Il documento approvato nell’ultimo Congresso del PCL infatti esprime idee più chiare di quelle mediamente riscontrabili nell’ambiente delle sinistre italiane (SEL, Verdi, Rifondazione) e dello stesso attivismo animalista spesso insabbiato in prospettive contraddittorie e non realmente emancipative (neanche per gli stessi animali che si pretende di tutelare) .
Il documento del PCL invece, prova a ripercorrere alcune delle tappe concettuali imprescindibili per rendere effettiva la prospettiva della liberazione animale.
Tra queste vi è la constatazione che la storia del dominio e delle società gerarchiche si sia sviluppata a partire dalla domesticazione degli animali che, consentendo la produzione di un surplus di ricchezza e di energia, ha reso possibile la nascita delle svariate forme di discriminazione che storicamente si sono realizzate. E’ proprio il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi che ha poi prodotto il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ una tesi centrale, ma che fino ad oggi non ha trovato cittadinanza in altre formazioni politiche. Proprio da questo aspetto non è possibile prescindere se si intende costruire una società non oppressiva. Il documento, comunque, può e dovrebbe essere migliorato, ad iniziare dall'inserimento d'importanti aspetti quali ad esempio la critica, incredibilmente assente, degli allevamenti intensivi.

Quella animalista è insomma una tematica dalla quale è impossibile prescindere. Solo cambiano le sensibilità e le prospettive culturali umane sarà possibile costruire una società libera. Ma libertà è solo liberazione. E' necessario intraprendere percorsi di autoemancipazione e di autoliberazione, aver fiducia nelle capacità umane.
Solo allora sarà possibile distruggere ogni forma di oppressione, della quale il capitalismo è solo l’ultima e più tremenda incarnazione.



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NOTE

(1)  Si fa qui riferimento alla Decrescita declinata in senso anticapitalistico. In particolare si sottolineano quei punti della Decrescita spesso sottovalutati ad iniziare dal principio della Redistribuzione di Latouche che pone il limite minimo del reddito garantito per tutti a 1.000 euro e quello massimo a 3.000 euro. Per un approfondimento si rimanda al volume curato da Mauro Bonaiuti “Obiettivo Decrescita”, EMI, 2005.


dal sito  http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/

sabato 19 novembre 2011

PATTO DI CONSULTAZIONE CONTRO MONTI, MA ANCHE CONTRO IL CENTROSINISTRA


Intervista di Paolo Persichetti a Marco Ferrando, portavoce del PCL

Marco Ferrando, a nome del Pcl ha accolto favorevolmente la proposta di un «patto di consultazione permanente» tra tutte le forze che intendono opporsi al governo Monti, lanciata su queste pagine da Paolo Ferrero. Si tratta - ci spiega - di un passaggio «che è imposto dalla situazione e che noi accettiamo a prescindere, anche perché l'unità d'azione su obiettivi comuni, di lotta e di movimento a sinistra, è un elemento distintivo della nostra cultura e tradizione politica. A maggior ragione se interviene in uno scenario politico che rappresenta un salto in avanti dell'offensiva sociale e politica lanciata contro il movimento dei lavoratori e i movimenti di massa».


- Affrontiamo subito la novità introdotta dall'esecutivo Monti.

Siamo di fronte alla riunificazione politica e sociale del blocco dominante, è quindi del tutto evidente che contro questo governo di unità nazionale si deve costruire un patto di unità d'azione tra tutte le realtà, i movimenti e tutte le sinistre politiche, sindacali e associative.

- Cosa proponete?

Al primo posto c'è la necessità di chiarire una volta per tutte la questione del rapporto col centrosinistra e col Pd.

- Su questo punto dentro la Fds, e nell'area più larga della sinistra sociale e dei movimenti, ci sono posizioni diverse, ricche di sfumature. Per voi si tratta di una condizione o di un tema di discussione?

Non poniamo condizioni, siamo dentro il patto di consultazione a prescindere ma vogliamo un confronto aperto, largo, non solo fra stati maggiori, in cui ci riserviamo di dire quello che pensiamo dentro un quadro di confronto unitario. Ricordo che anche nel '95 si faceva tutti insieme l'opposizione al governo Dini, ma quell'opposizione prefigurò una ricomposizione del centrosinistra. Ebbene siamo fermamente contrari alla riproposizione di uno schema del genere, anche perchè il Pd per l'ennesima volta ha dato prova di non essere nemmeno una forza della sinistra moderata, e neanche un partito coerentemente democratico, al di là del suo nome. E solo un partito legato a doppio filo agli interessi dell'industria, delle banche, del blocco dominante.

- E gli altri punti?

Il fronte unico non deve essere un semplice cartello delle sinistre politiche, ma un fronte largo che coinvolga sinistra sindacale e movimenti per produrre una svolta radicale sul terreno della mobilitazione e della lotta. L'esperienza dimostra che non si riesce ad affrontare la crisi capitalistica procedendo ad ordine sparso con atti simbolici e scioperi rituali. Bisogna discutere insieme su come costruire un salto verso la radicalizzazione di massa delle iniziative di lotta: quando parliamo di vertenza generale, occupazione delle fabbriche e dei licei, costruzione di una cassa nazionale di resistenza, alludiamo a questa necessità. Infine non è più sufficiente continuare ad assumere come orizzonte il cosiddetto antiliberismo, quasi configurando la possibilità di una riforma sociale neokeynesiana del capitalismo. Il carattere strutturale della crisi ci dice che l'orizzonte deve essere apertamente anticapitalista e quindi deve toccare il tema dell'annullamento del debito pubblico verso le banche, i rapporti di proprietà nel settore finanziario e produttivo.

- Non vi è piaciuto il coro di sdegno sui fatti del 15 ottobre.

Il grosso problema del 15 non sono stati i cosiddetti black bloc ma la mancata assunzione di responsabilità da parte della direzione del movimento. Avevamo proposto una manifestazione che marciasse sui palazzi del potere rivendicando un diritto democratico praticato in tutte le capitali del mondo. Lo spazio che in quella giornata hanno preso alcune forme di lotta nichilista è stato direttamente proporzionale alla mancata assunzione di questa responsabilità.


da "Liberazione" del 19/11/2011

giovedì 29 settembre 2011

15 OTTOBRE: RIVENDICARE IL DIRITTO A MANIFESTARE SOTTO I PALAZZI DEL POTERE


15 OTTOBRE: RIVENDICARE IL DIRITTO A MANIFESTARE SOTTO I PALAZZI DEL POTERE

 di Marco Ferrando

Per il 15 Ottobre si annuncia, com'è noto, una grande manifestazione di massa a Roma, nel quadro della giornata di mobilitazione europea promossa dagli indignati spagnoli contro le politiche dominanti. E' una scadenza di grande importanza, come dimostra l'ampio spettro di soggetti coinvolti e l'attenzione che sta richiamando ovunque. Tutti i soggetti di fatto promotori della manifestazione, incluso il PCL, sono dunque impegnati a garantire il massimo successo di partecipazione popolare all'iniziativa e il suo massimo impatto politico.
Al tempo stesso, nel pieno rispetto del coordinamento unitario promotore che si è costituito, riterrei sbagliata ogni rinuncia pregiudiziale a rivendicare il diritto della manifestazione a dirigersi verso i palazzi del potere: Palazzo Chigi e Montecitorio. Una proposta già avanzata dal PCL in sede di coordinamento, che voglio qui riprendere e argomentare.

IN TUTTA EUROPA SI MANIFESTA DAVANTI ALLE SEDI DEL POTERE

In tutta Europa- tanto più in questa fase- le grandi manifestazioni di massa si dirigono verso le sedi del Governo e del Parlamento. Così ad Atene in piazza Syntagma, così a Madrid, così a Londra.. Ed è naturale: perchè “il popolo” manifesta contro “il potere”. Perchè questa scelta esalta la contrapposizione politica diretta alle rappresentanze degli industriali e dei banchieri, ai loro luoghi istituzionali, ai loro partiti ( di governo e di “opposizione”). Chiedo: perchè in Italia dovrebbe essere diversamente? E soprattutto: perchè dovremmo noi rassegnarci a questa “diversità”? Proprio la giornata europea di mobilitazione contro i governi non dovrebbe costituire il momento ideale per rivendicare anche in Italia il diritto riconosciuto e praticato nel resto d'Europa? Continuare a subire una lesione della stessa democrazia borghese, nel momento stesso in cui rivendichiamo “una democrazia reale” e alternativa sarebbe – mi pare- una contraddizione singolare.

IN ITALIA GOVERNO E PARLAMENTO SCUDO DELLA PEGGIORE REAZIONE

Per di più in Italia abbiamo di fronte il governo più reazionario d'Europa ( se si fa eccezione per l'Ungheria), il Parlamento più corrotto e addomesticato della UE, tra i più alti livelli di condivisione bipartisan delle scelte di fondo della BCE e dell'Unione, sotto la benedizione congiunta di Bankitalia e della Presidenza della Repubblica. Perchè dunque proprio in Italia si dovrebbe rinunciare a manifestare sotto i palazzi del potere?
E' una rinuncia tanto più incomprensibile in questo momento politico. La frattura tra potere politico-istituzionale e senso comune popolare non è mai stata così profonda. Il governo Berlusconi è in caduta libera di consensi. Il suo blocco sociale è in disfacimento. Il Parlamento è un simulacro di complicità e di impotenza, come rivelano i salvataggi spudorati dei più corrotti faccendieri di regime( Milanese). Manifestare oggi sotto Palazzo Chigi e Montecitorio avrebbe dunque un significato politico e simbolico maggiore che in tante altre situazioni ordinarie. Non sarebbe un gesto “ideologico” e minoritario, ma un atto di profonda sintonia col più vasto sentimento popolare ( che non va abbandonato al populismo qualunquista o reazionario). Perchè allora non rivendicare apertamente questo diritto?

I POTERI FORTI VOGLIONO UN RICAMBIO POLITICO “ORDINATO”. PER QUESTO DIFENDONO LA SACRALITA' DELLE ISTITUZIONI

L'argomento ( apparentemente “di sinistra”) secondo cui la manifestazione del 15 non è “contro Berlusconi” ma contro tutte le politiche dominanti in Europa; che “non siamo ansiosi di rovesciare Berlusconi per favorire un governo Montezemolo( o simili)”; che DUNQUE è secondario e “provinciale” dirigersi su Palazzo Chigi e Parlamento, mischia confusamente giuste premesse e conclusioni sbagliate.
Il rovesciamento di massa del “proprio” governo è oggi come ieri-in ogni Paese- non solo il più grande contributo alla propagazione internazionale della ribellione sociale, ma anche un bastone tra le ruote di ogni progetto di alternanza borghese. I poteri forti che stanno lavorando a rimpiazzare Berlusconi con un più diretto governo dei banchieri hanno bisogno di un quadro di pace sociale e di ordine pubblico. Di ritessere la concertazione con la Cgil ( ben ricambiati). Di disporre di una scacchiera sgombra da ogni irruzione di massa. Il loro terrore è che la crisi del berlusconismo e della seconda Repubblica possa trascinare con sé ripresa di conflitto e “disordine” di piazza.. Da qui il cantico della “solidarietà nazionale” attorno alle “Istituzioni”, propagato da tutta la stampa borghese e recitato solennemente da Napolitano. Da qui anche.. la difesa della “sacralità” del Parlamento, di Piazza Montecitorio, di Piazza Colonna, di tutti i luoghi istituzionali. Sino alle grida isteriche e bipartisan di fronte alla più piccola e innocua manifestazione di protesta davanti al Palazzo come è recentemente avvenuto.

UNA MANIFESTAZIONE STRAORDINARIA PER LA RIVOLTA SOCIALE

Per queste stesse ragioni una grande manifestazione di massa davanti a Governo e Parlamento, non è solo un diritto democratico, ma un atto politico che collide con tutta la logica dell'alternanza e dei poteri forti. Perchè è un atto che allude -fosse pure simbolicamente- alla prospettiva della rivolta sociale: l'unico fattore capace di rovesciare Berlusconi dal versante delle ragioni dei lavoratori e non dei banchieri, di spostare i reali rapporti di forza, di aprire la via ad un'alternativa vera.
Il punto vero è se vogliamo PROVARE a investire la manifestazione del 15 Ottobre in una prospettiva di reale ribellione di massa, nel cuore della crisi italiana ed europea, oppure se la concepiamo PREGIUDIZIALMENTE come una ordinaria manifestazione di propaganda: naturalmente importante, naturalmente di massa, ma destinata di fatto a lasciare le cose come stanno, al pari di tutte le tradizionali manifestazioni d'autunno. Questo è il bivio.

LIBERARSI DA UNA PREGIUDIZIALE RINUNCIATARIA

L'obiezione secondo cui non ha senso chiedere di dirigersi su Palazzo Chigi perchè “tanto non ce lo concedono”, ” rischiamo di aizzare estremismi e avventurismi” “non ci sono i rapporti di forza” ecc., riflette una psicologia politica rinunciataria. Se gli oppressi dovessero rivendicare solo ciò che “viene loro concesso” la storia umana avrebbe fatto pochi passi in avanti. Rivendicare l'”impossibile” è da sempre la condizione decisiva per ottenere “possibili” conquiste: così è stato per il diritto di sciopero, così è stato per il diritto di votare e manifestare. I rapporti di forza si modificano con la lotta politica e di massa, a partire dalla rivendicazione di ciò che è giusto. Non con la rinuncia a rivendicare ciò che è giusto nel nome “dei rapporti di forza”. E ciò è tanto più vero, concretamente, qui e ora: di fronte a un governo reazionario,profondamente indebolito, attraversato da una furiosa guerra per bande, sempre più odiato o detestato dalla maggioranza dei lavoratori e del popolo. Rivendicare pubblicamente il diritto a manifestare sotto i palazzi del potere, fare del prevedibile rifiuto del governo un caso di scandalo pubblico, potrebbe essere di per sé un volano di preparazione della manifestazione di massa contro un governo che “rifiuta ciò che si concede nel resto d'Europa”. Peraltro proprio il rifiuto pregiudiziale a rivendicare pubblicamente questo diritto,a premere per la sua affermazione, a preparare organizzativamente e unitariamente la gestione di piazza di questa rivendicazione, rischia questo sì di lasciare spazio a iniziative avventuriste “fai da te”, magari in ordine sparso, estranee ad una logica di massa, a scapito dell'impatto politico del 15 ottobre.

PREGIUDIZI COSTITUZIONALI E SPIRITO DI ROUTINE

In realtà le resistenze di alcuni settori a rivendicare un diritto democratico così elementare mi pare abbia un sottofondo politico, che sovrappone due elementi diversi.
Su un versante, agisce la lunga tradizione, tipicamente italiana, della mitologia costituzionale, che ha attraversato l'intero dopoguerra, e che ha seminato una cultura reverenziale verso le “istituzioni” dello Stato, maggiore che in altri Paesi  (per cui ad esempio la Presidenza della Repubblica è largamente venerata nella stessa ”sinistra radicale” anche quando sorregge l'odiato Berlusconi e chiede misure più severe i lavoratori).
Su un altro versante, anche in ambiti di “estrema sinistra”, opera uno spirito di routine, che fa della contestazione del potere uno spazio di propria caratterizzazione più che un investimento nella prospettiva di rivoluzione: per cui spesso il problema centrale di una manifestazione, al di là delle parole d'ordine formali, non è il suo investimento nell'azione di massa e nel suo sviluppo, ma solo la conquista di uno spazio d'immagine a livello mediatico e di una buona critica di opinione della stampa “democratica”. Utile magari in qualche caso per negoziare a futura memoria un accordo col centrosinistra, in altri casi a strappare solo lo scampolo di una benevola intervista. Ma sempre in un ottica segnata dall'interesse autoconservativo di un piccolo o grande “ceto politico”, non dall'interesse generale di una prospettiva di emancipazione e liberazione.
Questo retroterra culturale, sempre distorto, rischia di diventare tanto più conservatore nei momenti straordinari della vita politica e sociale : quando non si tratta di vivere di routine, ma di assumersi le proprie responsabilità di fronte a snodi politici di fondo. La crisi della seconda Repubblica e la “catastrofe” italiana, dentro la più grande crisi dell'Europa capitalista, è esattamente uno di questi momenti.

IN CONCLUSIONE

Parteciperemo dunque col massimo impegno alla manifestazione del 15 Ottobre, nel rispetto del suo spirito unitario e delle scelte che il coordinamento promotore - di cui siamo parte- farà. Ma senza rinunciare al nostro punto di vista. Senza rinunciare a proporre la massima combinazione di unità e radicalità. Senza rinunciare a lavorare perchè ogni manifestazione di questo autunno sia investita nella prospettiva di una sollevazione di massa per una svolta vera. Fuori e contro ogni forma di conservatorismo, e di ogni logica rinunciataria.

26 Settembre 2011


dal sito  http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c1:o57:e1

lunedì 8 agosto 2011

BANCAROTTA DEGLI STATI O BANCAROTTA DEI LAVORATORI? di Marco Ferrando


BANCAROTTA DEGLI STATI O BANCAROTTA DEI LAVORATORI?
ABOLIRE IL DEBITO PUBBLICO VERSO LE BANCHE

di Marco Ferrando

La questione del “debito pubblico” domina lo scenario internazionale ed europeo. Il clamoroso declassamento del debito americano, in queste ore, ne è una riprova.
I circoli dominanti e i loro partiti presentano il nodo del debito come “questione tecnica” inerente alla oggettività “naturale” delle “leggi economiche”. In realtà si tratta di una grande questione sociale e di classe che svela la totale irrazionalità del capitalismo e le dinamiche della sua crisi.
Vediamo meglio.

LE ORIGINI DEL DEBITO PUBBLICO NEGLI ANNI 80

L'esplosione del debito pubblico ha come sfondo l'esaurimento del boom economico postbellico. Lo sviluppo economico del dopoguerra, trascinato prima dalla ricostruzione , poi dalle spese militari della guerra fredda, aveva consentito- sia negli Usa ,sia in Europa- una progressiva riduzione del debito pubblico accumulatosi durante la guerra. L'esaurimento del boom all'inizio degli anni 70 ( con la crisi recessiva internazionale del 74-75) mutò radicalmente il quadro. Per contrastare la caduta del saggio di profitto, il governo americano e i governi europei inaugurarono una politica economica di riduzione progressiva delle tasse sulle voci del capitale: rendite, profitti, patrimoni. Fu l'epoca del Reaganismo e del Teacherismo. Ovunque le classi dirigenti furono alleviate degli oneri di “responsabilità sociale”. Ovunque le classi subalterne pagarono di tasca propria il beneficio dei possidenti, con una prima compressione delle protezioni sociali acquisite, in varie forme, nel ciclo precedente. Queste politiche capitaliste furono del tutto incapaci di rilanciare una vera crescita economica capitalista. Ma furono capaci di concorrere al dissesto dei bilanci pubblici, che non a caso videro dagli anni 80 una diffusa impennata del debito.

LE BANCHE INVESTONO NEL DEBITO PUBBLICO

Come finanziare l'erario pubblico, nel momento in cui si dispensavano sempre più i capitalisti dallo spiacevole onere di pagare le tasse? In parte, come s'è detto, aggravando la pressione( anche fiscale) sul lavoro dipendente. In parte- ecco il punto- indebitandosi sul mercato finanziario. Cioè mettendo in vendita titoli di Stato a un determinato tasso di interesse e relativamente appetibili ( anche per i benefici fiscali spesso concessi ai compratori). Chi erano i compratori dei titoli di Stato? Certo anche piccolo borghesi, pensionati, fasce di lavoratori, che ancora disponevano negli anni 80 e nei primissimi anni 90 di un qualche risparmio da investire. Ma i maggiori compratori divennero sempre più, a partire dalla metà degli anni 90, i cosiddetti “investitori istituzionali”: grandi banche ( private e pubbliche), compagnie di assicurazione, imprese industriali, cordate finanziarie. Dentro un mercato finanziario sempre più allargato su scala planetaria dal crollo del Muro di Berlino, dinamicizzato dalle nuove tecnologie informatiche, sospinto dal quadro di perdurante stagnazione economica produttiva. Proprio così: contrariamente al diffuso luogo comune riformista che dipinge il liberismo e la finanziarizzazione come progressiva emarginazione dello Stato dall'economia, fu proprio il mercato dei titoli di Stato a contribuire significativamente alla espansione del capitale finanziario negli ultimi 20 anni. E con esso del debito pubblico.

LO STATO PAGA I BANCHIERI

Debito di chi verso chi? Questo è il punto rimosso ( significativamente ) dal dibattito pubblico. Eppure è il punto decisivo. Se è vero come è vero che gli acquirenti dei titoli di Stato sono sempre più i grandi potentati industriali e finanziari, il pagamento del debito pubblico si riduce al pagamento degli interessi alle banche, alle assicurazioni, ai capitalisti. La crescita del debito pubblico è solo la crescita del versamento di denaro pubblico nelle tasche delle classi sociali dominanti. Che per di più sono quelle già sgravate progressivamente dal pagamento delle tasse e dunque responsabili del dissesto dei bilanci statali. E chi paga dunque il pagamento del debito pubblico? Naturalmente le classi subalterne, quelle già gravate dal grosso del carico fiscale, con un nuovo carico di sacrifici.

CRISI CAPITALISTICA E DEBITO SOVRANO. CRESCE LA RAPINA AL SERVIZIO DELLE BANCHE

Questo meccanismo infernale ha ricevuto una spinta ulteriore e abnorme proprio dalla grande crisi capitalistica internazionale iniziata nel 2007.
Cos'è successo? E' successo che la crisi di sovraproduzione mondiale e il crollo della piramide finanziaria hanno scosso alle fondamenta il sistema bancario internazionale, a partire dagli USA. Gli stessi Stati e governi che per anni avevano cantato ( ipocritamente) le lodi del liberismo quando dovevano giustificare tagli sociali alla povera gente, sono accorsi precipitosamente al capezzale delle banche versando loro una massa gigantesca di risorse pubbliche: pagate da un nuovo e più pesante attacco a sanità, pensioni, istruzione, lavoro, ma anche da una crescita enorme del debito pubblico. Cioè da un nuovo massiccio indebitamento dello Stato presso banchieri e capitalisti. E qui viene il bello: larga parte dei soldi regalati dallo Stato a capitalisti e banchieri sono stati da questi investiti non in produzione e lavoro ( data anche la crisi di sovraproduzione), ma nell'ennesimo acquisto di Titoli di Stato, cioè nel debito pubblico.
Ecco allora la contraddizione esplosiva: da un lato i bilanci pubblici sono sempre più dissestati dall'aiuto statale ai banchieri; dall'altro i banchieri, acquirenti dei titoli di Stato ( coi soldi regalati dallo Stato) pretendono da quest'ultimo assoluta certezza di pagamento degli interessi pattuiti. E dunque una politica di maggiore“rigore” della finanza pubblica. Ecco ciò che si chiama “ solvibilità dello stato”: l'affidabilità dello Stato nel pagamento dei banchieri. E come fa lo Stato a conquistarsi tale affidabilità? Approfondendo sempre più la rapina sociale commissionata dalle banche contro i lavoratori e la maggioranza della società. Una rapina che oggi conosce, in America come in Europa, una drammatica intensificazione. Sotto i governi di ogni colore. E con un'ampia corresponsabilità bipartisan.

DEBITO PUBBLICO E UNIONE EUROPEA

La crisi del debito sovrano investe in particolare l' Unione Europea. Perchè qui la crisi economica si somma con la crisi politica dell'Unione.
E' vero: il debito pubblico europeo è mediamente minore, non maggiore, di quello americano o giapponese. Ma a differenza degli Usa o del Giappone, che dispongono di un unità statale e di una Banca centrale di garanzia, la U.E. versa in una situazione esattamente opposta. E la contraddizione tra una “moneta unica” e l'assenza di un unico Stato genera un quadro caotico proprio sul terreno finanziario. Tanto più sullo sfondo di una divaricazione strutturale progressiva tra gli Stati capitalistici centrali dell'Unione ( in particolare la Germania) e gli Stati periferici mediterranei.
Il caso Grecia ha semplicemente fatto da detonatore di questa contraddizione esplosiva. Non solo ( e non tanto) per l'insolvibilità di fatto del debito greco presso le banche francesi e tedesche, grandi acquirenti dei titoli ellenici. Ma per l'assenza ,che quel caso ha evocato, di un meccanismo generale di garanzia dei titoli di Stato in Europa e dunque per le banche che li possiedono.
Il cosiddetto “ Fondo europeo salva stati” ( cioè salva banche) che formalmente è stato predisposto( dopo un estenuante contenzioso interno), non solo non ha risolto il problema, ma l'ha riproposto al massimo grado. Sia per i tempi lunghi della sua operatività, sia per l'esiguità dei fondi a disposizione, sia per la discrezionalità dell'eventuale intervento ( chi decide?), sia per il (parziale) coinvolgimento nel salvataggio delle stesse banche private acquirenti dei titoli. Ciò ha spinto e spinge una parte consistente di istituti finanziari internazionali ( anche europei) a disfarsi dei titoli di Stato europei, per ripiegare altrove. E questo fatto genera due fenomeni complementari. Da un lato un calo di valore dei titoli statali, e quindi del patrimonio delle banche che li possiedono, con una ricaduta restrittiva sul credito alla produzione; dall'altro una crescita dei loro “rendimenti”, cioè dei tassi d'interesse a cui sono venduti: perchè aumentando il rischio dell'insolvibilità del venditore ( lo Stato), il compratore ( la banca) pretende un maggiore guadagno.

CRESCITA DEI “RENDIMENTI” E PRATICA LEGALE DELL'USURA

Come si vede la pratica criminale dell'usura è moneta corrente delle relazioni economiche capitaliste. Non solo non è condannata dalla morale dominante, men che meno dalla legge, ma viene addirittura elevata a legge naturale dell'economia e dunque a ragione della rapina antipopolare. Quante volte sentiamo ripetere in Italia che il rialzo dei rendimenti dei “nostri” titoli di Stato costringe a un più virtuoso “rigore” ( contro i lavoratori)? Il fatto che magari il rialzo dei rendimenti sia dovuto a vendite massicce dei titoli italiani da parte della Deutsche Bank viene accuratamente rimosso. Meglio accusare ignoti e fantomatici “speculatori”, o l'impersonalità dei “mercati”, piuttosto che il cuore di quella fraterna Unione per cui si chiedono tanti sacrifici agli operai. Resta il fatto che in tutta Europa, il pagamento del debito alle banche strozzine è diventata la bandiera di una nuova mostruosa rapina. L'unica Unione che i capitalisti europei e i loro Stati hanno saputo realizzare è quella contro il proletariato continentale al servizio delle proprie banche.

DEBITO PUBBLICO E CAPITALISMO ITALIANO

La crisi finanziaria in Italia è figlia della crisi europea.
Certo, la questione del debito pubblico in Italia ha radici specifiche e lontane, connesse con la storia dell'unificazione nazionale, col particolare retaggio del parassitismo clientelar/burocratico della prima Repubblica, con i privilegi secolari del Vaticano in Italia (anche in fatto di esenzione fiscale), col carattere patologico dell'evasione fiscale delle classi proprietarie . Ma queste antiche radici - anch'esse peraltro legate alle caratteristiche strutturali del regime borghese, e alla sua particolare conformazione nazionale - non possono cancellare l'attuale natura prevalente del debito pubblico italiano: un debito sospinto e riprodotto negli ultimi 20 anni dalla dipendenza crescente dello Stato verso il capitale finanziario, interno e internazionale. Un debito dominato dalle banche.
La propaganda dominante che attribuisce il debito pubblico all'eccesso di concessioni ai lavoratori e agli strati popolari ( “siete vissuti al di sopra delle vostre possibilità”) non solo è totalmente falso ma capovolge esattamente i termini della questione. E' stata proprio la progressiva defiscalizzazione delle classi proprietarie, pagata dal peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ad accompagnare strutturalmente la crescita del debito pubblico. Basta guardare l'evoluzione del regime fiscale in Italia negli ultimi 20 anni e la parallela redistribuzione della ricchezza a vantaggio di rendite, profitti, patrimoni. Detassazione delle classi proprietarie, aumento del prelievo fiscale sul lavoro dipendente, espansione della grande ricchezza immobiliare e finanziaria e sua concentrazione in poche mani: questi sono i dati che hanno accompagnato la crescita del debito pubblico. Perchè? Perchè il vuoto dei conti pubblici( nazionali e locali) aperto dalla detassazione del capitale è stato compensato dal ricorso sempre più largo dello Stato all'indebitamento verso le banche. Le quali, prima beneficiate dai tagli fiscali, poi beneficiate dal pagamento degli interessi sui titoli, hanno anche per questo allargato la propria presa sul grosso della società italiana e dei suoi gangli vitali, allargando il processo di accumulazione di ricchezza. La struttura “bancocentrica” del capitalismo italiano è oggi riconosciuta dalla stessa stampa borghese.

CHI POSSIEDE OGGI IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO? LE BANCHE

Chi possiede oggi il debito pubblico italiano? Per il 50% banche, imprese, e istituti finanziari stranieri. Per l'altra parte banche, imprese, e assicurazioni italiane. Fuori da questi pacchetti proprietari restano davvero pochi spiccioli. Basta questo dato, pubblicamente riconosciuto, per capire chi intasca ogni anno gli 80 miliardi di interessi versati dallo Stato italiano sui propri titoli. Anche in questo caso è la detassazione del capitale ad aver finanziato il debito pubblico persino in forma diretta: i guadagni ricavati dal capitale grazie alle mille regalie fiscali dei governi di centrosinistra e centrodestra ( basti pensare all'enorme riduzione della tassa sui profitti industriali e bancari- dal 34% al 27%- realizzata dall'ultimo governo Prodi) sono finiti in parte nell'acquisto di nuovi titoli statali, e dunque nell'accaparramento di nuove risorse pubbliche. Il beneficio di classe ha finanziato la rapina di classe.
E lo stesso è avvenuto a livello di amministrazioni locali. Dove il taglio massiccio di trasferimenti pubblici dello Stato, (connessi al processo del cosiddetto “federalismo”), e l'esenzione fiscale delle classi proprietarie ( v. per ultima l'esenzione dell'ICI per le stesse abitazioni di lusso da parte del governo Berlusconi), hanno spinto i governi locali all'indebitamento sul mercato finanziario: sino a determinare la somma complessiva di circa 70 miliardi di interessi annuali da versare alle banche. Una somma quasi pari a quella versata dallo Stato centrale. E pagata com'è noto, anche qui, dal taglio sistematico dei servizi ( scuola, asili, trasporti locali..) oltre che dall'aumento di rette,tasse, tariffe.

LE RAGIONI DELLA CRISI ATTUALE DEL DEBITO ITALIANO

Perchè oggi il debito sovrano italiano è entrato in crisi? Perchè i “nostri” titoli di Stato sono investiti dalla bufera finanziaria internazionale? Per un insieme di ragioni di fondo. Tutte riconducibili, in ultima analisi, alla presenza del terzo debito pubblico del mondo ( 120% del PIL). Ma non riducibili a questo solo dato.
Il nuovo patto di stabilità europeo concordato nel marzo 2011 prescrive per l'Italia non solo il pareggio di bilancio entro il 2014 ( oggi anticipato), ma l'abbattimento di 900 ( novecento) miliardi di debito pubblico nei prossimi 20 anni ai fini del raggiungimento del 60% del PIL: significa ogni anno un'operazione finanziaria di 50 miliardi al netto del pagamento degli interessi sul debito. Questa operazione enorme di macelleria è già di per un'impresa titanica. Ma tanto più lo è in un quadro di particolare stagnazione produttiva ( l'economia capitalistica italiana è la più stagnante delle grandi economie europee), e alla vigilia di un possibile terremoto politico istituzionale interno ( connesso alla crisi della seconda Repubblica).
A ciò si aggiunge un particolare decisivo: a differenza della Grecia, del Portogallo o dell'Irlanda, che contano dopo tutto una massa debitoria relativamente modesta, e sono quindi passibili di “aiuto”, l'Italia registra un debito pubblico enorme in cifra assoluta ( 1800 miliardi a fronte dei 350 della Grecia) e un suo salvataggio sarebbe economicamente improponibile. Ma al tempo stesso un default dell'Italia- cioè della settima economia capitalistica mondiale- trascinerebbe con sé il crollo dell'Unione e dell'Euro, con un effetto domino sul sistema bancario internazionale.
Tutto questo eleva enormemente il “rischio” dei titoli italiani sul mercato finanziario. E dunque la pretesa di un rendimento più alto da parte delle banche strozzine creditrici. Ciò che determina a sua volta un ulteriore aumento del debito e del relativo “rischio”. Questa è la spirale che sta avvolgendo l'economia italiana.

CRISI DEL DEBITO PUBBLICO E CRISI DEI TITOLI BANCARI

C'è di più. E' vero che le banche italiane sono state meno esposte di altre sul mercato mondiale dei titoli tossici, e non sono coinvolte direttamente in bolle immobiliari esplosive come quelle spagnole. Ma è vero anche che sono molto esposte sul versante dei titoli di Stato di cui sono grandi acquirenti. Questo significa che un calo di valore dei titoli italiani si traduce direttamente in un calo patrimoniale delle banche. Mentre la crescita dei rendimenti dei titoli di Stato costringe le banche, per ragioni di concorrenza, ad alzare i rendimenti delle proprie obbligazioni, fonte primaria del loro autofinanziamento: il che significa una loro maggiore spesa di interessi proprio nel momento del loro indebolimento patrimoniale. La conseguenza di tutto questo è molto semplice: la crisi del debito sovrano trascina con sé la crisi dei titoli bancari italiani ( non a caso i più penalizzati dalle Borse). E la crisi dei titoli bancari si traduce a sua volta in un indebolimento del capitalismo italiano e della credibilità finanziaria dei suoi titoli di Stato sul mercato internazionale.

L'UNITA' NAZIONALE A SOSTEGNO DELLE BANCHE E DELLA LORO RAPINA

Ecco dunque la risultante d'insieme: i titoli di Stato italiani tendono a valere sempre meno e dunque a costare sempre di più alle banche acquirenti. E le banche, interne ed estere, pretendono come garanzia del loro “rischio”, cioè della solvibilità dell'Italia, una politica di massacro sociale ancor più severa e convincente. Tutta la drammatica stretta sociale e finanziaria di queste settimane, ( prima una finanziaria di 40 miliardi, poi il suo raddoppio di fatto in 10 giorni, poi l'anticipo del pareggio di bilancio deciso su pressione della BCE in 24 ore, poi ancora l'annuncio di nuove misure di rapina contro lavoro e pensioni..) sono solo l'affannosa rincorsa del ricatto usuraio delle banche e dei loro portavoce istituzionali. Oltrechè un cedimento alle pressioni dirette della BCE e dei governi francese tedesco, le cui banche sono molto esposte sui titoli italiani.
Il fatto che su questo signorsì ai banchieri sia scattata una grande unità nazionale tra governo e opposizioni liberali, e persino tra industriali e burocrazia CGIL ( sino alla scena umiliante di una Camusso rappresentata dalla Marcegaglia al tavolo col governo), misura solamente la comune subordinazione di tutti gli attori in commedia allo spartito del capitalismo italiano ed europeo. Il che non elimina contraddizioni interne e neppure possibili rotture tattiche ( anche per via del nodo politico irrisolto di Berlusconi). Ma chiarisce in modo definitivo che il pagamento del debito pubblico ai banchieri è la bussola attorno a cui ruota tutto l'universo politico dominante. Al di là di ogni confine di schieramento.

ABOLIRE IL DEBITO VERSO LE BANCHE: L'UNICA ALTERNATIVA REALE

Proprio per questo è necessario e urgente contrapporre alla bussola dominante un'altra bussola. Quella di un piano anticapitalista per uscire dalla crisi, che risponda unicamente alle esigenze del lavoro, contro gli interessi di Confindustria e banche. Un piano che chiami alla mobilitazione di massa straordinaria la classe operaia, la giovane generazione, tutti i movimenti di lotta. Un piano che abbia una radicalità uguale e contraria a quella dei piani padronali. Un piano che proprio per questo parta dalla rivendicazione elementare e unificante imposta dalla crisi: l'abolizione del debito pubblico verso le banche, interne e internazionali, sia a livello statale, sia a livello delle amministrazioni locali. In altri termini, il rifiuto di pagare gli interessi sul debito agli strozzini.
Non c'è altra soluzione. I capitalisti, i loro partiti, i loro governi, vogliono costringere alla bancarotta i lavoratori e i servizi sociali, per cercare di evitare la bancarotta del proprio sistema di sfruttamento. I lavoratori possono e debbono rivendicare la bancarotta dello Stato ( cioè il rifiuto di pagare gli usurai), per tutelare la propria condizione sociale e i propri diritti più elementari. Nessuna difesa del lavoro, della sanità della scuola pubblica, della previdenza; a maggior ragione nessuna rinascita sociale dell'Italia saranno realisticamente possibili, senza troncare il nodo scorsoio del debito pubblico. Cioè la dipendenza dalle banche. Solo questa misura potrà liberare una massa enorme di risorse pubbliche da investire nei beni comuni e in un grande piano del lavoro.

“Ma come faranno le banche a sopravvivere sul mercato” di fronte all'insolvenza dello Stato? Risposta: le banche dovranno essere nazionalizzate, senza indennizzo, e sotto controllo dei lavoratori, proprio per sottrarle alla logica del mercato, per unificarle in un unica banca pubblica sotto controllo sociale, che provveda al sostegno dei lavoratori secondo l'interesse pubblico, non alla loro rapina secondo l'interesse privato.

Ma cosa ne sarebbe dei “piccoli risparmiatori”? I piccoli risparmiatori sarebbero integralmente salvaguardati dalla banca pubblica, proprio all'opposto di quanto avviene oggi: dove la speculazione dei banchieri spesso travolge in primo luogo proprio i piccoli risparmiatori, più volte oggetto di truffe criminali ( Parmalat, Cirio, bond argentini..) da parte dei grandi azionisti delle banche private.

“Ma l'annullamento del debito pubblico e la nazionalizzazione delle banche non sono possibili nell'Unione Europea”. Se è per questo nell'Unione Europea dei capitalisti e dei banchieri non è “possibile” nemmeno tutelare il lavoro, la previdenza pubblica, i diritti sociali, come mostra l'esperienza pratica di ogni Paese. La verità è che solo il rifiuto dell'Unione delle banche e delle sue leggi può liberare le classi lavoratrici dalla dittatura del capitale finanziario e aprire una prospettiva nuova. Il rifiuto del debito pubblico e la nazionalizzazione delle banche vanno esattamente in questa direzione: quella di un Europa dei lavoratori. Del resto: è un caso che questa rivendicazione cominci ad affiorare in settori d'avanguardia del movimento operaio europeo o nel movimento degli indignati spagnoli?

GOVERNINO I LAVORATORI, NON I BANCHIERI: IN ITALIA, IN EUROPA, NEL MONDO

Il punto decisivo è un altro. L' abolizione del debito pubblico verso le banche e la loro nazionalizzazione sono incompatibili con la struttura capitalistica della società , con la natura dei governi borghesi di ogni colore, con le loro istituzioni internazionali, con la stessa natura attuale dello Stato. Non possono essere realizzate per via di una semplice pressione di movimento sui partiti dominanti, tutti legati a doppio filo al mondo degli industriali e delle banche ( e spesso presenti non a caso sui loro libri paga). Possono essere realizzate sino in fondo solo da un governo dei lavoratori, che ponga i lavoratori al posto di comando: da un governo che rovesci l'attuale dittatura degli industriali e dei banchieri per rivoltare da cima a fondo l'intero ordine della società capitalista, e costruire una società socialista. Una società che possa realmente decidere il proprio destino, senza dipendere dal gioco d'azzardo delle Borse, dall'anarchia del mercato, dalla legge del profitto.
Il nuovo acutizzarsi della crisi capitalistica, nel mondo, in Europa, in Italia, ripropone questa prospettiva rivoluzionaria come unica possibile via d'uscita.

Costruire in ogni lotta parziale il senso di questa prospettiva generale è il lavoro del Partito Comunista dei Lavoratori.

8 Agosto 2011

dal sito  http://www.pclavoratori.it/files/index.php

mercoledì 27 luglio 2011


PCL-PDAC: FRATELLI COLTELLI

di Stefano Santarelli



Nel pubblicare il documento del Partito comunista dei lavoratori  “A proposito del Pdac fenomenologia di una setta eravamo perfettamente consapevoli di entrare nella durissima polemica che caratterizza fin dalla loro nascita i rapporti fra queste due formazioni, rapporti che definire pessimi è un vero e proprio eufemismo.
Una situazione questa ben strana visto che sia il Pcl che il Pdac hanno un programma ed una origine politica comune. Per comprendere bene i rapporti che intercorrono tra questi due partiti siamo costretti a fare un breve cenno di storia.
Queste due formazioni costituivano fino al 2006 la tendenza di opposizione più coerente e più conseguente dentro Rifondazione comunista. Questa tendenza denominata “Progetto comunista” è stata per molti anni la vera alternativa dentro il Prc alla direzione di Bertinotti raggiungendo ampi consensi tra gli iscritti a Rifondazione.
Consensi e riconoscimenti che permisero, durante la formazione delle liste elettorali dell’Ulivo nel 2006, la candidatura ad un collegio senatoriale sicuro da parte della Segreteria nazionale di Rifondazione per Marco Ferrando nella sua qualità di massimo esponente di Progetto comunista.
Era questa la prima volta nella storia di Rifondazione che la formazione delle liste elettorali veniva aperta in modo formale anche alle minoranze congressuali.
Ma questa scelta della S.N. viene inesplicabilmente contestata dai membri del Comitato Politico Nazionale facenti riferimento proprio a Progetto comunista, ben 10 su 17, guidati da Francesco Ricci i quali volevano un candidato diverso da Ferrando per avere un ricambio politico.
Una tesi francamente risibile visto che Ferrando non aveva mai ricoperto incarichi pubblici dentro Rifondazione comunista. Infatti se era pacifico dare a Progetto comunista un collegio sicuro in lista, altrettanto pacifico era darlo al dirigente storico più rappresentativo di questa corrente.
E questo dirigente storico era Ferrando non certamente Ricci. E la Segreteria Nazionale decide proprio in questo senso.
Ma Ferrando è un personaggio scomodo e quando rilascia per il Corriere della Sera nel febbraio del 2006 una intervista sui fatti di Nassirya in cui esprimeva il diritto del popolo irakeno alla resistenza armata contro gli eserciti imperialisti, compreso ovviamente anche quello italiano, si scatena una durissima reazione da parte di tutto il quadro politico del nostro paese. Infatti sia da sinistra che da destra si chiede alla direzione di Rifondazione di togliere Ferrando dalle liste elettorali.
Una richiesta che viene esaudita immediatamente da Bertinotti.
E’ un atto questo antidemocratico per la vita interna di Rifondazione che vede la contrarietà delle altre correnti di minoranza: da Grassi per “Essere comunisti” a Malabarba e Cannavò per “Sinistra critica” e da esponenti della stessa maggioranza come Raul Mantovani.
Paradossalmente sono proprio favorevoli quei rappresentanti di Progetto comunista guidati da Ricci che daranno poi vita al Pdac e che non esprimono nessuna solidarietà a Ferrando.
La Segreteria toglie Ferrando da questo collegio senatoriale per mettere al suo posto la pacifista Lidia Menapace la quale eletta, da buona pacifista voterà in parlamento tutti i crediti e tutte le missioni militari tanto da meritarsi il soprannome di “Menaguerra”.
Ora la domanda da porre ai compagni del Pdac è se Ferrando come senatore avrebbe votato tutte queste operazioni militari, personalmente riteniamo che non avrebbe votato tali provvedimenti e fosse solo per questo sarebbe stato un parlamentare migliore della Menapace.
Ed è questo in fondo il peccato originale del Partito di alternativa comunista.
Nella metà del 2006 nascono quindi da Rifondazione comunista questi due partiti all’apparenza gemelli: il Pdac ed il Pcl. Entrambi si richiamano alla Quarta internazionale pur aderendo a due differenti correnti trotskiste. Sono due formazioni con un programma politico ed un patrimonio teorico simile che fanno apparire sin dall’inizio letteralmente incomprensibile tale divisione non solo per gli addetti ai lavori, ma per i suoi stessi militanti.
La loro separazione però non deriva, come abbiamo visto, dalla storia certamente travagliata del trotskismo, ma risale a questo scontro dentro il Comitato politico di Rifondazione comunista.
Questa profonda rivalità fa sì che impedisce al Pcl e al Pdac di potere arrivare, se non ad una unificazione di difficile attuazione, almeno ad una alleanza politica o ad un patto federativo che dir si voglia. Cosa questa che sarebbe stata la mossa più logica.
Oltretutto entrambe queste formazioni sono caratterizzate da un profondo elettoralismo, frutto di più di un quindicennio di entrismo nel Prc, che si scontra però con le attuali leggi elettorali che di fatto ostacolano la formazione di liste elettorali autonome.
Ovviamente un po’ di buon senso vorrebbe, lì dove è possibile, vedere l’unificazione di tali sforzi. Invece questi due gruppi, specialmente il Pdac, vedono nell’altro il vero nemico.
Certamente è veramente ridicolo che due partiti, se così li vogliamo chiamare visto lo scarso numeri di aderenti, con programmi simili ed in una situazione politica gravissima per i lavoratori ed i ceti più poveri del nostro paese si diano una battaglia così feroce paragonabile a quella dei poveri capponi di Renzo destinati alle pentole di Azzeccagarbugli.
Ora tale scontro non può vedere la nostra neutralità od indifferenza proprio perché riguarda due forze che si rivendicano alla migliore tradizione della sinistra rivoluzionaria.
E veniamo ai documenti che abbiamo pubblicato nel nostro sito.
Il Pcl pubblica una interessante analisi sul Pdac utilizzando la teoria della psicopatologia politica ideata da Roberto Massari.
Certamente “la scissione del 2006 non dipese da divergenze programmatiche” visto che entrambe queste formazioni si riconoscono nel programma della Quarta internazionale ed in fondo “la scissione dipese dalla volontà del responsabile organizzativo della AMR Progetto Comunista (nome della nostra frazione dentro il PRC) e del gruppo dei suoi fiduciari, di conservare ad ogni costo la propria funzione di comando in fatto di organizzazione contro i principi della democrazia interna e della collegialità delle decisioni.”
E’ questa una chiave di lettura che in fondo condividiamo della spaccatura provocata dentro la corrente di Progetto comunista e di cui le responsabilità maggiori sono proprio da addebitare al Pdac.
Ma non condividiamo la definizione del Pdac come setta.
Il Pdac non è una setta al contrario di Socialismo rivoluzionario o di Lotta comunista, la trasformazione di un soggetto politico in una setta non avviene in poco tempo. Infatti Sr o Lc si sono trasformate in una setta dopo un processo durato circa una decina d’anni.
Oltretutto i dirigenti ed i militanti del Pdac provengano da Rifondazione comunista di cui si può dir tutto tranne che è una setta.
Certamente non si può negare che il Pdac presenta dei sintomi estremamente preoccupanti con una organizzazione ultracentralista non giustificata dalla realtà della lotta di classe in Italia ed in cui l’avversario per antonomasia è divenuto il Pcl.
Il Pdac sta attraversando una crisi profonda che non viene neanche smentita dall’articolo di Ricci  Volgare attacco del Pcl al Pdac, infatti non è un segreto che alcune sezioni e dirigenti di questa organizzazione sono passati con armi e bagagli nel Pcl e francamente queste pesanti perdite non possono essere compensate dall’entrata in Alternativa comunista del giovane compagno Siciliani.
Tale situazione non viene affrontata dalla direzione del Pdac e quando non si affronta una situazione nei fatti la si nega.
Non vede la sua profonda crisi organizzativa e politica che l’attanaglia, ma invece accusa di riformismo e menscevismo il Pcl. E’ proprio vero che chi guarda la pagliuzza nell’occhio del fratello non vede la trave nel proprio occhio. (Mt 7.3)
L’accusa di riformismo e menscevismo che lancia il Pdac al Pcl è francamente ingiusta ed ingiustificata. Appoggiare criticamente Pisapia a Milano o votare Si ai referendum sono per esempio posizioni tattiche oltretutto anche corrette.
Ma le posizioni tattiche non sono sufficienti per definire una forza politica come riformista o peggio come menscevica. E francamente abbiamo trovato disgustoso mettere la fotografia di Ferrando insieme a quella di Bersani, di Di Pietro e della Bonino come ha fatto il Pdac nel suo giornale.
Ma cari compagni del Pdac credete veramente che Ferrando sia la stessa cosa di Bersani?
Certamente alcune critiche espresse da Ricci nel suo “Lo strano caso di un partito virtuale” sono fondate.
Vi è stato sicuramente un atteggiamento mediatico nel Pcl molto pronunciato che ha sicuramente contribuito ad una aspettativa di risultati che non hanno avuto purtroppo nessuna corrispondenza con la realtà. Purtroppo la costruzione di un partito rivoluzionario non è così veloce e l’attuale clima politico non è certamente tra i migliori e questo la direzione del Pcl aveva il dovere di dirlo con chiarezza, non farlo ha contribuito a provocare una profonda delusione fra i suoi iscritti e militanti.
Oltretutto vi è anche il problema della formazione dei quadri quasi tutti cresciuti in una formazione, questa sì veramente riformista come quella di Rifondazione comunista.
A questo punto da osservatori esterni al Pcl e al Pdac i quali non hanno nessuna intenzione di fare i “maestrini” proprio perché non hanno la presunzione di insegnare nulla a questi compagni, possiamo solo augurare e ricordare che in questa grave fase di debolezza ed impoverimento dei ceti medio-bassi del nostro paese che quindi provoca un aumento della proletarizzazione, una maggiore unità fra le forze anticapitaliste diventa non solo necessaria, ma doverosa.
A maggior ragione quando questa frattura, che non esprime nessuna seria argomentazione teorica o politica, riguarda due organizzazioni che si richiamano ad una delle migliori tradizioni rivoluzionarie come quella trotskista.

20/07/2011


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NOTE:

A PROPOSITO DEL PDAC: FENOMELOGIA DI UNA SETTA
http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2011/07/fenomenologia-di-unaltra-setta-il-pdac.html


VOLGARE ATTACCO DEL PCL AL PDAC
http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2011/07/il-pdac-risponde-al-pcl.html

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Sono Andrè Siciliani,quello che era entrato nel PDAC,ebbene comunico che io sono tornato sui miei passi e sn tornato nel PCL!!Comunque pure io desideravo e desidero un' unione fra PCL e PDAC,solo che finchè ci saranno i vari Ricci,Rizzi,Torre,Stefanoni è impossibile farla,visto che sentendo loro"il PCL è un partito menscevico che i bolscevichi hanno l' obiettivo di distruggere".Mi piace l' articolo!!


22 luglio 2011 02:00

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dal sito  http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/

venerdì 14 gennaio 2011





Relazione introduttiva di
MARCO FERRANDO

 al Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori





Pubblichiamo, sia pure con un breve ritardo dovuto a cause tecniche, la relazione integrale con cui Marco Ferrando ha aperto il 2° Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori.



Care compagne e compagni,

il quotidiano di Confindustria di fine anno ha scelto di celebrare Sergio Marchionne come l'uomo del 2010 con le seguenti parole:" La Fiat ha portato in Italia, finalmente le regole del mondo, piaccia o non piaccia le regole della modernità"
Bene.
La Fiom espulsa dalla Fiat come non avveniva dai tempi del fascismo.
Gli operai della Chrysler nell'America di Obama costretti a comprare coi propri fondi pensione un posto di lavoro con paga dimezzata e divieto di sciopero .
I giovani operai cinesi della Foxcon costretti a dichiarare, come condizione di assunzione, che rinuncieranno a suicidarsi e che le loro famiglie in caso di suicidio non chiederanno danni all'azienda.
Milioni di lavoratori europei sbattuti su una strada dopo decenni di sfruttamento o privati delle protezioni sociali perchè i loro soldi servono a finanziare quelle stesse banche strozzine che li impiccano a mutui insostenibili. Mentre le giovani generazioni sono private del diritto al lavoro- o a un lavoro degno- e
persino allo studio.
Intanto milioni di migranti, in fuga dalla fame o dalla morte prodotte dallo sfruttamento occidentale delle loro terre, trovano proprio in Occidente il bastone del ricatto e della discriminazione più odiosa, sotto la spinta di un veleno xenofobo e reazionario che in Europa non si vedeva da quasi un secolo.
Queste nuove regole del mondo moderno- tanto esaltate dai campioni della cosiddetta "borghesia buona"- ci parlano della crisi dell'umanità. Questa è la vera "catastrofe". La catastrofe non sta nei puri dati economici della crisi, su cui verrò, e tanto meno nell'improbabile "crollo" del capitalismo. La catastrofe sta nella sopravvivenza quotidiana del capitalismo: di un sistema sociale che ha esaurito ogni funzione storica progressiva e che trascina nel proprio fallimento la condizione dell'umanità, condannando il mondo ad una regressione storica.
Per questo la rivoluzione socialista internazionale è l'unico orizzonte realistico di progresso. E noi siamo orgogliosi di appartenere a quella corrente rivoluzionaria internazionale che non solo non si è mai arresa e non si arrende alle regole del mondo del capitale, ma le vuole rovesciare. Perchè l'umanità riconquisti il proprio futuro e innanzitutto il diritto a deciderlo.Perchè se i Marchionne hanno bisogno degli operai, gli operai non hanno bisogno dei Marchionne.
Ho voluto iniziare così l'introduzione ai nostri lavori perchè questa è la ragione della nostra stessa esistenza politica, e di riflesso la cornice di fondo del nostro Congresso e della sua riflessione. Che inquadra non a caso la nostra proposta politica in Italia dentro lo scenario della grande crisi capitalistica internazionale.

LA CRISI MONDIALE

La crisi capitalistica che da 4 anni investe il mondo , rappresenta la più clamorosa smentita non solo delle apologie liberali post-89, che annunciavano un futuro radioso dell’umanità, ma anche di quelle cosiddette culture critiche del riformismo che rappresentavano la cosiddetta globalizzazione quale nuovo capitalismo, capace di superare il ricorso ciclico delle crisi , le contraddizioni tra gli Stati nazionali, e dunque le categorie stesse del marxismo e dell’imperialismo.
Queste teorie, che ricorrevano alla rappresentazione dell’onnipotenza capitalista dell’”Impero” al solo fine di presentare come radicali le più minute ricette liberali come la Tobin Tax, sono state spazzate via dall’evidenza materiale della crisi.
Questa crisi è infatti la più clamorosa conferma di tutte le categorie analitiche del marxismo sul carattere anarchico del capitalismo e sulla sua fase storica di decadenza. Il crollo del muro di Berlino e dello Stalinismo non solo non ha rilanciato l' ordine mondiale del capitalismo ma ha amplificato tutte le sue contraddizioni.
La radice di fondo della crisi non sta nelle cosiddette politiche sbagliate degli ultimi 20 anni, come a dire che correggendo le politiche liberiste di eccessiva finanziarizzazione dell’economia, si potrebbe superare la crisi. In un certo senso questa teoria che accomuna liberal progressisti e riformisti capovolge l’ordine delle cose. La lunga stagione di espansione del capitale finanziario fu per molti aspetti non la causa ma il riflesso di una lunga crisi strisciante e al tempo stesso un suo mascheramento. Fu l’esaurimento del boom postbellico e il rallentamento dell’economia mondiale dalla metà degli anni 70 a creare un’eccedenza progressiva di merci e capitali, a sospingerli verso il mercato finanziario, a sostenere per questa via una domanda artificiale come tampone della crisi. Proprio per questo l’esplosione della grande bolla finanziaria non ha fatto che disvelare e al tempo stesso precipitare una crisi da lungo tempo incubata: una enorme crisi di sovrapproduzione, quella crisi di sovrapproduzione che per dirla con Marx:
" E' alla base di ogni crisi capitalista e svela l'irrazionalità di un sistema di produzione nel quale è il
massimo della ricchezza a produrre il massimo della miseria". Queste semplici parole di Marx illustrano la crisi attuale infinitamente meglio delle più sofisticate teorie degli intellettuali organici del capitale.

REALTA' E MITO DEL KEYNESISMO. IL FALLIMENTO DEL RIFORMISMO.

Il punto è che le ideologie liberal riformiste sono confutate non solo nell’analisi, ma anche nei rimedi.
Tutti coloro che a sinistra, per lungo tempo e ancor oggi, presentano l’intervento pubblico nell’economia capitalista come correttivo sociale del capitale e come fattore di soluzione della crisi, sbandierando la mitologia di Keynes e del New deal, falsificano la verità della storia e sono smentiti nel modo più clamoroso proprio dalla realtà di questa crisi.
Falsificano la realtà della storia perchè non fu il New deal di Roosvelt- che peraltro non creò alcun stato sociale in America- a salvare il capitalismo dalla crisi degli anni 30: fu semmai la gigantesca carneficina della guerra e la ricostruzione dalle sue rovine.
Ma sono soprattutto smentiti dalla realtà di questa crisi. Chi voleva mettere alla prova le virtù dell'intervento pubblico nell'economia del capitale è servito. Da 4 anni ci troviamo infatti di fronte, in America e in Europa, al più grande intervento pubblico degli stati imperialisti e delle banche centrali, a partire da quelli che fino a ieri recitavano il mantra di un intoccabile liberismo: al punto che la somma complessivamente investita è superiore a quella spesa nella seconda guerra mondiale. Eppure la realtà è stata esattamente opposta a quella immaginata dai cantori del keynesismo. Non un sostegno ai salari, al lavoro, alle protezioni sociali, ma un soccorso gigantesco alle grandi imprese e alle banche pagato dalla più grande offensiva contro il lavoro e le protezioni sociali degli ultimi 60 anni. E per di più un fattore esso stesso della riproduzione del meccanismo di crisi. Perchè l'iniezione di risorse pubbliche nel sistema bancario, attraverso l'acquisto dei titoli tossici non si trasforma in espansione del credito alla produzione, ma in nuova espansione della speculazione finanziaria. E perchè proprio il soccorso pubblico del capitale diventa per la prima volta nella storia un fattore di crisi del cosidetto debito sovrano, cioè di possibile insolvenza di intere organizzazioni statali.
Il fallimento della mitologia Keynesiana non poteva essere più completo.

LE NUOVE CONTRADDIZIONI INTERNAZIONALI

E tuttavia è importante cogliere una visione d'insieme dell'economia mondiale, che da un lato individui la contraddittorietà dei dati economici, e dall'altro ne misuri l'impatto sugli equilibri politici internazionali, fuori da una lettura uniforme e solo economicistica della crisi.
Siamo di fronte a un paradosso: se leggessimo i dati economici dell'economia mondiale complessivamente intesa nella loro apparenza, potremmo persino dubitare della portata e della continuità della crisi. Basti pensare che nel 2010 il PIL mondiale cresce del 4,8 %, e il commercio mondiale passa da un - 11% del 2009 a un +11% del 2010. Non sono esattamente i dati di un cataclisma. Ma il punto è che questi dati nascondono la contraddizione crescente tra i diversi comparti dell'economia mondiale, con enormi ricadute politiche. Si tratta della contraddizione di fondo tra la crisi profonda e la sostanziale stagnazione dell'economia dell'occidente e l'imponente sviluppo economico dell'oriente ( con l'esclusione del Giappone), in particolare della Cina.
Questa contraddizione non è nuova. Ma la crisi capitalista l'ha amplificata sotto il profilo economico ed ha acutizzato profondamente le sue conseguenze politiche. Al punto di trasformare il contrasto fra USA e Cina nel nuovo baricentro della politica mondiale.

IL DECLINO USA

Gli Usa restano sicuramente la principale potenza capitalista mondiale, a partire dalla perdurante supremazia militare. Ma dentro una dinamica di crisi crescente di egemonia economica e politica sulle relazioni internazionali.
Questa crisi non data da oggi. Ha radici strutturali, anche economiche. Ed è maturata sul piano politico proprio nella nuova fase storica post 89, quando il crollo dell'URSS, se da un lato ha enfatizzato la supremazia militare USA, dall'altro ha privato gli Usa di una rendita di posizione strategica negli equilibri mondiali.
Ma proprio per questo la crisi capitalistica attuale è per gli Usa, per alcuni aspetti, più pesante che nel 29.
E non dal punto di vista economico, ma dal punto di vista politico e strategico. Nel 29-33 la grande crisi colpì l'America nel momento della sua ascesa storica a scapito del vecchio Impero britannico.( E Trotsky capì con grande intelligenza che la crisi non avrebbe invertito la tendenza storica dell'ascesa americana). Oggi la crisi colpisce gli Usa nel momento della loro massima difficoltà di egemonia.E per questo rafforza la tendenza al declino. Sia sotto il profilo economico, dove quello che fu il più grande creditore della storia del capitalismo si è trasformato nel più grande debitore di quella storia, e per di più a diretto vantaggio della nuova potenza rivale. Sia sotto il profilo politico internazionale, dove il tentativo delle nuova Presidenza Obama di rilanciare l'egemonia americana in chiave multilateralista segna il passo su ogni terreno decisivo della politica mondiale: nel rapporto con gli imperialismi europei, in Medio Oriente, in Africa, nella gestione delle relazioni tra le valute come in ordine alle scelte energetiche e ambientali.
La crisi verticale della nuova amministrazione di Barak Obama, decretata dalla sconfitta elettorale di Novembre, è un riflesso indiretto della grande crisi americana. E questa crisi di Obama continuerà attraverso lo sfaldamento interno del suo blocco sociale di consenso: minato prima dai costi sociali del grande sostegno alle banche; ed ora aggravato dalla continuità dei regali fiscali ai ricchi pattuita con i Repubblicani.
E con la crisi di Obama esplode la crisi dell'Obamismo, la ricorrente suggestione ideologica che spinge la sinistra europea ad aggrapparsi al salvatore americano per sublimare le proprie sconfitte e responsabilità. Fu così con la socialdemocrazia europea nei confronti di Roosvelt negli anni 30. E così è stato oggi nei confronti di Obama persino da parte della cosiddetta sinistra "radicale". Con una differenza. Negli anni 30 la socialdemocrazia celebrava col New deal di Roosvelt la simulazione "riformista" di un imperialismo in ascesa. Oggi la sinistra cosiddetta radicale è giunta a salutare come "nuova speranza per l'umanità"- per citare testualmente le parole alate di Vendola- il Presidente della più grande potenza imperialista in declino e la sua politica di salvataggio dei banchieri. Confermando anche così, al di là delle parole, la propria subordinazione al capitalismo internazionale.

LA SCALATA DELLA CINA

Ma soprattutto il declino americano è misurato dall'ascesa della Cina sullo scenario mondiale. E' una questione centrale nel panorama internazionale. E' stata anche materia di discussione nel nostro stesso congresso, e lo sarà nella discussione internazionale del CRQI. E costituirà oltretutto un tema importante di confronto con altre forze e tendenze del movimento operaio internazionale e della stessa sinistra italiana: se solo si pensa che larga parte della Fed condidera la Cina un Paese socialista, che una nuova formazione come Sinistra Popolare saluta enfaticamente il Premier cinese nell'atto stesso del suo congresso fondativo, che nuove Associazioni politico culturali fondate da organizzazioni di estrema sinistra -tra cui la Rete dei Comunisti- vantano la pubblica benedizione dell'amica ambasciata cinese.
Dove sta il tragico paradosso di queste posizioni? Sta nel perfetto rovesciamento ideologico della realtà.
La Cina non solo è oggi un paese capitalista, che ha visto la progressiva mutazione di una burocrazia stalinista in nuova borghesia, che si regge su una proprietà largamente privata e sul supersfruttamento manchesteriano della propria giovane classe operaia. Ma è un paese che sta mettendo l'eredità del settore pubblico dell'economia e di un apparato statale totalitario al servizio di uno sviluppo capitalistico concentrato e straordinario: una sorta di capitalismo di Stato che proprio in ragione della potenza statale si candida a ripercorrere la via della rapidissima ascesa, nell'ultimo 800, del capitalismo tedesco o del capitalismo giapponese.
E' vero: questo quadro va bilanciato da fattori contraddittori, potenzialmente esplosivi. Il grattacielo cinese poggia tuttora su fondamenta incerte. I grandiosi scioperi operai del Guandong, che salutiamo come un fatto di straordinaria importanza per l'intero movimento operaio internazionale, indicano le potenzialità dirompenti di una ascesa operaia sugli equilibri interni della Cina e di riflesso sullo scenario mondiale. La stessa unità dell'apparato di regime, che sinora ha gestito la restaurazione capitalista, potrebbe essere messo a dura prova nel caso del precipitare di una crisi sociale. Ma questi fattori ed eventualità non possono nascondere la tendenza attuale, in tutta la sua enorme portata. Lo sviluppo cinese non solo non è stato travolto dalla crisi mondiale, ma si è rafforzato nella crisi, capitalizzando a proprio vantaggio le difficoltà dell'America e dell'Europa.
E' la crisi e il conseguente deprezzamento di azioni e titoli dell'occidente, a consentire lo straordinario schopping della Cina nell'economia mondiale con il passaggio da 1 miliardo a 56 miliardi di investimenti
esteri in Usa ed Europa nel solo quinquennio tra il 2004 e il 2009.
E' la crisi e l'enorme indebitamento pubblico dei paesi imperialisti a ridurre il loro spazio di manovra
verso i paesi dipendenti, favorendo la grande espansione cinese in Africa e in Asia, a caccia di materie prime a basso costo e soprattutto di terre coltivabili.
E' lo scarto tra la crisi occidentale e lo sviluppo cinese a ridurre il divario di potenza militare tra i tradizionali paesi imperialisti costretti a contenere le spese in armamenti, ed una Cina che accresce ogni anno il proprio dispositivo bellico e che ormai si avvia a rappresentare la più grande potenza navale militare del mondo.
E tutto questo su uno sfondo che già oggi vede la Cina come primo paese esportatore, primo produttore di supercalcolatori e di treni ad alta velocità, primo investitore in ricerca scientifica e tecnologica. E soprattutto come il paese detentore di un grande potere di condizionamento internazionale, attraverso il controllo del debito pubblico americano, l'investimento crescente nel debito europeo, e il possesso in semimonopolio di quelle cosiddette "terre rare" che sono oggi le materie prime decisive dell'alta tecnologia mondiale.
Certo: come abbiamo sottolineato nel testo congressuale, la Cina è ancora ben lontana, nonostante tutto, dal poter contendere direttamente agli Usa l'egemonia mondiale, a causa di diversi fattori tra loro intrecciati, a partire dalla non convertibilità dello Yuan e dell'accerchiamento strategico in Asia. Ma resta l'altra faccia della medaglia: il fatto che gli USA non possono dominare e piegare la Cina , nè come paese dipendente, nè come potenza rivale. Nell'85 l'America di Reagan ebbe la forza di imporre all'emergente Giappone la rivalutazione della sua moneta, spezzando la sua ascesa e votandolo al declino. Oggi l'America di Obama non ha la forza di imporre alla Cina la rivalutazione dello Yuan. Ciò che determina a sua volta il ricorso alla svalutazione del dollaro, una guerra internazionale tra le valute, un ritorno diffuso del protezionismo, l'approfondimento di tutte le contraddizioni mondiali.
Il declino americano e l'ascesa cinese segnano dunque, nel loro rapporto, la linea del fronte dello scenario internazionale, con potenzialità dirompenti nella prospettiva storica:inclusa la possibilità della guerra.

LA CRISI EUROPEA

L'Unione europea è il classico vaso di coccio della crisi mondiale e della tenaglia Usa- Cina .
La suggestione lanciata nel 2000 a Lisbona di un primato dell'Europa su scala internazionale entro il 2015 si è convertita 10 anni dopo nel suo esatto opposto. Non solo l'Unione Europea non ha capitalizzato a proprio vantaggio la crisi americana, ma il combinato della crisi internazionale e dell'ascesa asiatica ha marginalizzato come mai in passato il ruolo mondiale degli imperialismi europei.
Tutte le debolezze strutturali e politiche dell'Unione, già sottolineate e analizzate dal nostro primo Congresso, sono state aggravate e amplificate, dallo scenario mondiale.
E' ormai la struttura stessa della U.E. ad essere messa in discussione dalla crisi. Le colonne d'Ercole dei trattati di Maastritch e del Patto di stabilità sono state travalicate in un batter d'occhio dall'enorme espansione dei debiti pubblici dovuta al soccorso prima delle banche e poi degli Stati sovrani a rischio Default, come la Grecia e l'Irlanda, verso cui sono esposte le banche , in primo luogo tedesche. A sua volta, proprio la nuova produzione di debito pubblico, e gli strumenti straordinari approntati per la sua gestione, esaltano ogni giorno di più la contraddizione strutturale di fondo su cui l'Unione si appoggia: l'assenza di un Ente garante in ultima istanza del debito pubblico, dovuta all'assenza di un'unità statale europea. La federal Riserve americana è garantita dagli Stati Uniti. La BCE, il Fondo europeo di stabilità programmato sino al 2013, e infine il nuovo meccanismo monetario concordato per gli anni successivi, non sono garantiti e coperti da nessuna unità statale federale. Oltre ad avere una portata ridotta d'intervento. Ciò che rappresenta una mina esplosiva per il sistema finanziario europeo.
Di Più. Proprio nel momento in cui la crisi mondiale solleciterebbe un passo avanti dell'integrazione politica europea, si approfondiscono sotto il peso della crisi le contraddizioni interne al quadro continentale. A partire dalla riemersione storica, in forme nuove, della vecchia questione Tedesca.
Siamo di fronte ad una situazione singolare . In astratto la Germania è l'unico stato Europeo che potrebbe guidare un processo di Unificazione continentale. Nel concreto la Germania è oggi il principale fattore di divisione e contraddizione in Europa.
La Germania è oggi l'unico paese europeo che conosce una reale ripresa economica dopo la recessione del 2009, grazie ad una potente struttura industriale e all'ancoraggio decisivo col mercato asiatico . Ma ha un tallone d'Achille molto pericoloso: un'enorme esposizione bancaria verso il debito pubblico dell'Est europeo e dei paesi europei mediterranei. Questo nodo non può essere sciolto nè dall'espulsione di tali paesi dalla U.E., nè dall'abbandono tedesco dell'Unione ( soluzioni entrambe suicide per le esportazioni e le banche tedesche). E viene dunque affrontato in modo opposto: con una sorta di commissariamento finanziario strisciante delle banche tedesche sull'economia europea, con la concertazione di una disciplina finanziaria sempre più vincolante che moltiplica tutte le tensioni nazionali tra il cuore industriale del Nord Europa e i paesi europei mediterranei, tra la Germania ed altri paesi imperialisti, tra l'euro e le altre valute. Per di più con effetti economici restrittivi sul mercato continentale che rendono ancora più arduo l'abbattimento dei debiti pubblici. Per tutto questo è storicamente in discussione la stessa sorte della moneta unica.

PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA

Siamo dunque al fallimento conclamato di ogni vecchio europeismo. Sia dell'europeismo liberale che apertamente rivendicava l'Unità capitalisica europea. Sia dell'europeismo riformista e centrista, che alla coda dei liberali rivendicava e rivendica un Europa "sociale e democratica" su basi capitaliste: grazie ai sospirati ministeri " di sinistra" o alla pressione dei movimenti sociali, o a entrambi i fattori. Ancora una volta la realtà ha spazzato via queste fantasie configurando uno scenario opposto: Il massimo di divisione in Europa, il massimo di offensiva sociale antioperaia ,sotto le insegne di qualsivoglia governo europeo..
Tutte le mitologie di una possibile socialdemocrazia progressiva sud europea- da Yospin a Zapatero- regolarmente alimentate dalle cosiddette sinistre "radicali", anche italiane, sono state ridicolizzate, una dopo l'altra, dall'esperienza degli ultimi 15 anni. Ed oggi è proprio il crollo del mito Zapatero, ancora intoccabile a sinistra sino ad un anno fa, a liquidare la credibilità di ogni illusione. Quello che fu indicato anche in Italia, anche in Rifondazione, come il possibile faro di un centrosinistra progressista è quello stesso governo che spara sui migranti, liberalizza i licenziamenti, porta le pensioni a 67 anni, in un duro confronto con i lavoratori e i giovani.
E' la riprova che i lavoratori non potranno mai avere per amico il proprio governo cosiddetto"progressista", che è poi il governo dei propri sfruttatori, ma solo i lavoratori degli altri paesi.
Alla Fiat che in questi giorni spiega agli operai di Mirafiori che se non si piegheranno al ricatto ricorrerà agli operai serbi, polacchi, americani, va risposto che proprio gli operai serbi, polacchi, americani sono i migliori alleati possibili degli operai di Mirafiori: quando solo si libereranno di ogni illusione verso i Marchionne, quando si scrolleranno di dosso ogni rassegnazione, quando troveranno la via di una piattaforma di lotta internazionale unificante che superi ogni divisione di frontiera: per una ripartizione internazionale del lavoro attraverso la riduzione progressiva dell'orario, per l'esproprio delle aziende sfruttatrici, a partire dalla Fiat, perchè il potere passi nelle mani nel lavoro. " Gli operai non hanno patria" scriveva il Manifesto del Partito Comunista nel lontano 1848. Oggi questo appello è, se possibile, ancor più centrale di allora.
Ma per portare questa verità nella coscienza politica della nuova generazione operaia è necessaria un'altra direzione del movimento operaio europeo e un altro programma. Negli anni 20 i comunisti rivoluzionari d'Europa, dopo il massacro della grande guerra, lanciarono la prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d'Europa come l'unica possibile soluzione progressiva della crisi del vecchio continente.
Socialdemocrazia e Stalinismo respinsero o abrogarono quella parola d'ordine. E' il momento di riprenderla. Perchè solo rifondando l'Europa su nuove basi sociali è possibile unirla a vantaggio dei lavoratori.
Questo è il programma cui ricondurre le lotte di classe e le mobilitazioni sociali contro la crisi dei diversi
paesi europei. Questo è il programma europeo della nostra organizzazione internazionale e delle sue sezioni, come l'organizzazione del EEK in Grecia che ha svolto e svolge un intervento di prima linea nella lotta di massa del proprio paese, anche pagando il prezzo della repressione poliziesca. Unico partito della sinistra greca- non a caso- a rivendicare l'annullamento del debito pubblico verso le banche e a porre la prospettiva del potere dei lavoratori come alternativa reale alla crisi capitalista e alla miseria sociale. Ai nostri compagni greci e alla loro lotta- che è la nostra lotta- va il caloroso sostegno di questo congresso.

LA LOTTA DI CLASSE IN EUROPA. LIMITI E POTENZIALITA'.

In tutta Europa si alza lo scontro sociale.
Tutti i fattori della crisi mondiale si scaricano sulla classe operaia europea.
Gli effetti della crisi capitalistica, le ricadute della concorrenza asiatica, i costi sociali del sostegno alle banche e ai titoli sovrani, si sommano l'uno sull'altro sino a configurare il più violento attacco alle condizioni materiali della classe lavoratrice di tutto il secondo dopoguerra.
Dopo la lunga stagione della precarizzazione del lavoro, giunge l'offensiva frontale contro i diritti contrattuali, i sussidi sociali, le prestazioni pubbliche, con un vero salto di qualità. I lavoratori, i precari, i disoccupati, già spremuti da 20 anni di politiche di austerità, sono ovunque chiamati a pagare crisi e bancarotte del capitale. Con una differenza indicativa rispetto agli anni 90. Allora le classi dominanti d'Europa chiedevano sacrifici sociali nel nome della promessa ipocrita di una futura prosperità. Oggi le stesse classi dirigenti, poste di fronte al proprio fallimento, presentano i sacrifici come destino obbligato di un inevitabile declino, inscritto nelle nuove regole del mondo.
La reazione della classe operaia europea a questo salto dell'offensiva capitalista non è stata e non è lineare, ma anzi registra profonde contraddizioni.Nulla sarebbe più sbagliato, proprio da un punto di vista marxista, nascondere a noi stessi questa realtà. Anche perchè proprio il quadro contraddittorio della lotta di classe internazionale conferma nel modo più clamoroso il metodo marxista di lettura della complessità del rapporto tra crisi economica e lotta di classe.
Guardiamo anche qui al divario tra Asia ed Europa.
In Cina in particolare e in larga parte dell'Asia, assistiamo ad un'ascesa della classe operaia industriale, entro un quadro ancora frammentato, ma con fenomeni crescenti di radicalizzazione. Queste lotte non sono figlie della crisi, seppur si legano in qualche modo alla crescente spinta inflazionistica. Sono l'effetto, all'opposto di uno sviluppo capitalistico asiatico, esteso e concentrato, che ha accumulato enormi riserve di giovane classe operaia che chiede di partecipare alla ricchezza prodotta e rifiuta la rassegnazione delle precedenti generazioni.
Nell'Europa segnata dalla crisi, il quadro è sostanzialmente diverso. La crisi si è abbattuta sul corpo sociale di un mondo del lavoro non in ascesa, ma segnato da lunghi anni di arretramenti sociali e delusioni politiche. In questo contesto la crisi non solo non ha prodotto, in prima battuta, una reazione di lotta proporzionale alla gravità dell'attacco, ma ha teso ad ampliare fenomeni di disarticolazione e disorientamento nella classe, in particolare nella classe operaia industriale, naturalmente aggravati in modo determinante dalle direzioni politiche e sindacali del movimento operaio. Prova ne sia che nei due anni di recessione europea, 2008 e 2009, nei paesi chiave dell'Europa, pur in presenza di un attacco più feroce, il livello complessivo di mobilitazione del proletariato è stato inferiore a quello della prima metà del decennio.E' il caso della Francia e dell'Italia.
Ma nulla sarebbe più sbagliato che attestarsi su una visione statica della realtà.
Già nel 2010, dopo la crisi greca e il varo del nuovo piano finanzario europeo di lacrime e sangue, si sono moltiplicati i sintomi di una ripresa di lotte. Le grandi mobilitazioni di massa in Grecia, gli scioperi generali in Spagna, Portogallo, Irlanda, le manifestazioni della Fiom in Italia dopo Pomigliano, le ascese studentesche e giovanili in Gran Bretagna e in Italia, e soprattutto la lotta continuativa in Francia, in autunno, di milioni di lavoratori del settore pubblico e dei servizi, danno la misura su piani diversi, nonostante tutto, dell'instabilità del quadro sociale. Non è un caso.
Al di là delle oscillazioni contingenti dei livelli di mobilitazione, l'Europa è attraversata infatti da una contraddizione potenzialmente esplosiva. Infatti tutti i governi europei sono trascinati dalla crisi ad un'escalation progressiva dell'aggressione sociale al lavoro e alle giovani generazioni, nel momento stesso in cui non hanno più niente nè da offrire nè da promettere ai lavoratori e ai giovani. I loro blocchi sociali tradizionali d'appoggio sono minati o disgregati dalla crisi. Tutti i governi borghesi senza eccezioni, da Sarkosy a Zapatero, da Camerun a Berlusconi, da Merkel a Papandreu, attraversano una crisi progressiva di credibilità e di consenso. Gli stessi partiti dominanti su cui si reggono e le relative coalizioni sono percorsi da crisi o fratture di diversa ampiezza. La borghesia domina ma la sua egemonia si riduce. Qui sta la miccia di possibili esplosioni sociali, di brusche svolte della lotta di classe, di processi di radicalizzazione di massa, tanto più in un contesto in cui i tradizionali ammortizzatori sociali sono erosi dalla crisi e i tradizionali ammortizzatori politici, dalle socialdemocrazie ai partiti stalinisti, sono complessivamente più deboli che in passato come strumenti di controllo burocratico sulle masse.
La proccupazione crescente dei circoli dominanti europei per quello che essi stessi chiamano "il rischio sociale" ha qui la sua radice.

L'ITALIA: IL SALTO DELL' OFFENSIVA BORGHESE. LA VALANGA FIAT

E' in questo contesto generale che va inquadrato il caso italiano.
La situazione italiana riflette e condensa tutti i caratteri di fondo della situazione europea .Ma in forme particolari, e con dinamiche proprie.
Il quadro d’insieme in Italia può essere sintetizzato con queste parole:
IL MASSIMO DELL’OFFENSIVA SOCIALE CONTRO IL MONDO DEL LAVORO COINCIDE COL MASSIMO DEL DISORDINE POLITICO NEL CAMPO DELLA BORGHESIA.
E' questa la contraddizione che va indagata e razionalizzata.
Al pari di altri capitalismi europei, ma gravato da uno straordinario debito pubblico, e colpito profondamente dalla crisi mondiale sul lato dell’industria esportatrice, il capitalismo italiano sviluppa un salto storico della propria offensiva contro il lavoro.
Come in altri passaggi della storia italiana la FIAT prende la testa di un attacco frontale al movimento operaio, con l’obiettivo di scardinare il contratto nazionale di lavoro, di avviare la progressiva individualizzazione dei rapporti contrattuali, di "distruggere" in buona sostanza la FIOM. Prima l'attacco a Pomigliano, poi lo sfondamento a Mirafiori non sono un generico approfondimento, per quanto grave, dell'offensiva padronale degli ultimi vent'anni.Sono una drammatica soluzione di continuità.Sono un progetto reale di americanizzazione delle relazioni sindacali in Italia, in aperta rottura con lo stesso quadro della legalità borghese. Mai era accaduto, neppure negli anni 50, che il principale sindacato della classe operaia industriale, la Fiom,venisse espulso dalla rappresentanza sindacale delle principali fabbriche italiane in quanto non firmatario di accordi capestro. Questa linea di sfondamento ha certo una specificità Fiat, è sospinta da un'amministratore delegato sempre più attento agli interessi multinazionali dell'azienda che alle stesse strategie complessive del padronato italiano, e infatti è talmente dirompente da aver spiazzato gli stessi vertici di Confindustria. Ma al tempo stesso quest'azione di sfondamento Fiat apre un varco all'intera borghesia italiana, sposta in avanti la frontiera dell'intera offensiva confindustriale, apre una possibile dinamica a valanga capace, se non arrestata, di investire come un ciclone l'intero quadro dei rapporti di lavoro.
Parallelamente l'offensiva del governo contro il PUBBLICO IMPIEGO, la SCUOLA, l’UNIVERSITA’, la
SANITA’, la CONDIZIONE SOCIALE del MEZZOGIORNO dentro il progetto reazionario del federalismo mira a scaricare sulla classe operaia e sulle vaste masse popolari i costi sociali del cosiddetto debito pubblico, cioè, in termini meno tecnici e aulici, il costo dei 70 miliardi pagati ogni anno alle banche,
italiane e straniere, in termini di interessi sui titoli pubblici. Anche qui non si tratta di un'offensiva ordinaria, nè di soli tagli, per quanto imponenti. Il disegno Tremonti- Sacconi- Brunetta ha una valenza strategica: mira a liberare, dentro lo smantellamento del settore pubblico un nuovo spazio per il mercato finanziario e il business privato- dalla più avanzata aziendalizzazione di scuola e università, al nuovo mercato annunciato della sanità integrativa, al decollo massiccio del trasporto ferroviario privato-. e per questo punta alla privatizzazione progressiva dei rapporti di lavoro nell'amministrazione dello Stato e al ritorno delle famigerate note di merito . Siamo dunque, come nel settore industriale, ad un ulteriore salto di qualità . Anche qui col supporto decisivo dell'agenzia di servizio della Cisl, sempre più succursale distaccata del governo. Anche qui, dentro il varco aperto negli anni passati dalle politiche del centrosinistra, autentiche battistrada dell'offensiva odierna in tutti i settori decisivi, dalle pensioni alla scuola alle poste. Anche qui utilizzando ancor oggi il sostegno delle opposizioni parlamentari come nel caso del sostegno del centrosinistra al federalismo.

L' ITALIA: LA CRISI POLITICA BORGHESE

Ma, ecco il punto, la borghesia italiana si trova a compiere il salto della propria offensiva nel momento della precipitazione della propria crisi politica. La crisi congiunta del governo e delle opposizioni ne è l'espressione più evidente.
La crisi esplosiva del berlusconismo non solo smentisce tutte le rappresentazioni impressionistiche di un regime consolidato e compiuto, ma è fattore a sua volta di una più ampia destabilizzazione politica.
La crisi del berlusconismo è stata il prodotto di più fattori combinati. Certo la crisi capitalistica e i ristretti
margini di manovra del governo, a causa dei vincoli del debito pubblico, hanno eroso una parte della base sociale di consenso di cui il governo disponeva. Ma il fattore scatenante della precipitazione della crisi ha un’origine tutta politica. La clamorosa frattura sulla leaderschip tra Berlusconi e Fini, al netto di rivalità ed ambizioni personalistiche, riflette in ultima analisi il fallimento del Popolo della Libertà. Non è stato semplicemente il fallimento dell'unificazione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, se non di riflesso. E' stato essenzialmente il fallimento della costruzione di un partito conservatore di massa di tipo tradizionale, capace di unire diverse formazioni politiche e culture attorno ad una possibile rappresentanza dell’interesse generale borghese e a un equilibrio di leadership. Tutto ciò si è rivelato incompatibile col “berlusconismo”: un fenomeno anomalo e spurio della vita politica borghese, un impasto di familismo, aziendalismo, spirito di clan, megalomania cesarista, col contorno pittoresco di faccendieri e prostituzioni d’alto borgo, che ha rappresentato e rappresenta un tratto atipico della politica europea e della storia italiana del dopoguerra.Lo stesso grande capitale ha avuto ed ha un rapporto contraddittorio con Berlusconi. L'ha usato ciclicamente a piene mani contro i lavoratori e nei suoi propri interessi, e certo ha appoggiato questo suo terzo governo più di quanto avesse fatto nel 94 o nel 2001, in ragione della sua maggiore forza iniziale. Ma al tempo stesso non si è mai affidato al parvenù Berlusconi e al suo mondo. E non a caso in questi ultimi mesi l'indebolimento politico del governo ha spinto importanti settori dell'esthablisment a ricercare soluzioni alternative.
Ma la crisi profonda del berlusconismo si combina con la crisi parallela del campo parlamentare delle
opposizioni. E' questo un aspetto centrale della situazione politica, tanto più dopo la svolta del 14 Dicembre.
Queste opposizioni sono fondamentalmente unite nel tentativo di rimpiazzare Berlusconi con un governo del grande capitale a guida Bankitalia o simili, capace di fondare le proprie politiche antioperaie su una più ampia base parlamentare e su un possibile coinvolgimento concertativo della Cgil. Ma sono profondamente divise nel perseguire questo disegno, dentro una spirale senza fine di conflitti interni e contraddizioni paralizzanti. Basta osservare il campionario di questi mesi. Da un lato Il costituendo Polo della Nazione, che si candida a guidare il ricambio borghese a Berlusconi, è segnato sin dalla nascita da un contrasto decisivo di interessi tra UDC e FLI, in fatto di leaderschip, di rapporti col Vaticano, di progetti istituzionali, col risultato di ripiegare nell'adattamento critico al governo, su pressione di Confindustria e Chiesa. Dall'altro lato il Pd, ancora segnato dal fallimento del disegno bipartitico di Veltroni, appare un partito in cerca di autore: paralizzato tra la ricerca di un accordo di governo col Terzo Polo, di cui non esistono ad oggi le basi politiche, e la riproposizione del vecchio centrosinistra, che lo espone all'incursione di Vendola .Il tutto in un quadro di perdurante instabilità interna e di nuove possibili fratture.
La risultante d'insieme di questo scenario è molto semplice: nel momento della massima crisi del Berlusconismo, le opposizioni borghesi a Berlusconi consumano il proprio fallimento. Il 14 Dicembre la
Camera dei Deputati ha dato di questo fallimento una rappresentazione plastica. E questo fallimento, si badi bene, ha una radice, in ultima analisi, proprio nella natura borghese di queste opposizioni, nella loro dipendenza organica dagli interessi di Confindustria, nell'impossibiltà per la loro stessa natura di mobilitare le masse contro il governo e dunque di incidere sul suo blocco sociale. Se guardiamo bene persino la vicenda parlamentare del 14 dicembre è la cartina di tornasole di questa realtà, con risvolti grotteschi. Le stesse opposizioni parlamentari che avevano presentato a Novembre la mozione di sfiducia al governo, hanno regalato a Berlusconi un mese decisivo per consentirgli di varare la legge finanziaria di stabilità ( a vantaggio di scuole private e missioni di guerra) su comando degli industriali, delle banche, dell'Unione europea, della Presidenza della Repubblica. E il brillante risultato è che Berlusconi ha utilizzato il mese concesso per corrompere deputati dell'opposizione, capitalizzare le sue contraddizioni, capovolgere i rapporti parlamentari. E a sua volta questa imprevista salvazione ha regalato al governo un nuovo margine di manovra, sia sul piano parlamentare, sia nel rapporto coi poteri forti, prolungando la sua precaria sopravvivenza.
Ma resta il fatto che non c'è una base politica reale per la stabilizzazione della legislatura.
E se si andrà ad elezioni politiche anticipate - come vorrebbe la Lega ma non Berlusconi- vi si andrà
letteralmente al buio, senza nessuno sbocco realistico di un nuovo equilibrio politico ed istituzionale, ma
anzi con possibili effetti ancor più destabilizzanti.

LA CRISI DELLA 2° REPUBBLICA

L’intero scenario della crisi politica italiana in pieno svolgimento, suggerisce, al di là dei suoi passaggi
contingenti, una considerazione di fondo.
La crisi congiunta del berlusconismo e delle opposizioni non è solo la crisi, per quanto profonda, degli
equilibri parlamentari, ma riflette e trascina con sé la crisi della II Repubblica: la crisi di quella costruzione politico ed istituzionale, peraltro incompiuta, che ha attraversato vent’anni della storia italiana.
Sotto il profilo politico sta franando il vecchio bipolarismo sotto il peso del sostanziale fallimento politico
speculare della PDL e del PD. Due formazioni anomale rispetto al quadro europeo entrambe incapaci di
stabilizzare un partito centrale della borghesia italiana, con basi di massa, entrambe esposte al rischio
permanente di disgregazione.
A sua volta la crisi del vecchio bipolarismo si intreccia con una tendenziale crisi istituzionale. Il berlusconismo ha rivelato e amplificato tutte le contraddizioni tra i poteri dello Stato. Ha acuito il contrasto tra costituzione formale e presidenzialismo populista, governo e parlamento, Esecutivo e Presidenza della Repubblica, governo centrale e presidenzialismi regionali e locali, potere esecutivo e potere giudiziario.
In un quadro complessivo di instabilità di sistema, obiettivamente sconosciuto agli altri paesi imperialisti.
Ed oggi una crisi del berlusconismo senza sbocco risolutivo è un autentico manifesto della crisi della
Repubblica e un fattore di suo ulteriore aggravamento.
In buona sostanza: potremmo essere alla vigilia di un terremoto politico e istituzionale analogo per la sua
portata a quello che accompagnò nei primi anni 90 la crisi della I Repubblica. Con una differenza. Allora il processo di crisi dei vecchi partiti borghesi, la modifica delle leggi elettorali, la ricomposizione politica di
nuove forze - sospinto dal crollo internazionale dell'URSS e dall’ingresso italiano nell’Europa di Maastricht- trovò un fattore scardinante nella Magistratura borghese, un polo di ricomposizione politica nella costruzione del Centrosinistra, un riferimento trainante nella costruzione europea, una sponda sociale nella concertazione organica tra Confindustria e burocrazie sindacali, ben strutturate nei rispettivi blocchi sociali. Ebbe insomma un asse di svolgimento, e un binario di soluzione. Oggi la crisi politica e istituzionale si consuma in un quadro politico e sociale destrutturato, senza ancoraggio strategico, tra attori profondamente consunti dai propri falli menti o dalle proprie mutazioni. E per di più sullo sfondo della massima crisi europea , della più grande crisi capitalistica mondiale, di un nuovo indebolimento, in essa ,del capitalismo italiano.In questo senso la crisi della seconda Repubblica è, per alcuni aspetti, persino più profonda della prima.

LA SUBALTERNEITA' DELLE SINISTRE

Proprio questa crisi della II Repubblica evidenzia, una volta di più, la natura delle Sinistre italiane. Non dei loro “errori” o dei loro “limiti” ma della loro organica vocazione subalterna.
Le sinistre italiane non avanzano nessuna proposta indipendente di soluzione della crisi della repubblica.
Questo è il dato centrale. Non solo. Invece di inserirsi nella crisi italiana in funzione dello sviluppo di una
prospettiva autonoma; invece di riorganizzare un campo autonomo di forze sociali attorno a questa prospettiva, connettendo resistenza sociale e progetto anticapitalista, le rappresentanze sindacali e politiche della sinistra fanno esattamente l’opposto: usano la crisi borghese come possibile terreno di propria ricollocazione d’apparato al fianco della borghesia e dei suoi partiti “democratici”. E per questo disarmano una resistenza sociale incompatibile con questo progetto.
Tende a ripetersi, in forme diverse, quanto accadde 20 anni fa.
Venti anni fa, la crisi della I° Repubblica e dei suoi pilastri politici e istituzionali, spinse tutte le direzioni del movimento operaio ad un’accelerata deriva trasformista. La burocrazia CGIL si votò alla concertazione organica col padronato. Il gruppo dirigente del PCI avviò lo scioglimento del partito e la sua mutazione in partito borghese di governo. I gruppi dirigenti del PRC si subordinarono ciclicamente alle soluzioni borghesi di governo e alla concertazione sindacale, sino a votare in cambio di ministri i sacrifici e le missioni di guerra. Il risultato d’insieme fu uno solo: la sconfitta sociale del movimento operaio, la vittoria ripetuta del berlusconismo.
Vent’anni dopo, la crisi della II Repubblica ripropone con attori diversi la stessa commedia. Tutti i responsabili della sconfitta d'allora tornano, con passi diversi, sul luogo del delitto.
La maggioranza dirigente della CGIL tenta il recupero della concertazione col padronato proprio nel momento della massima offensiva padronale contro i diritti contrattuali. Non è solo una pugnalata alla
FIOM e alla grande piazza del 16 ottobre. E’ il tentativo di inserirsi nella crisi politica del berlusconismo in
funzione del ricambio politico borghese. In un certo senso è l’offerta di una sponda sindacale alla
borghesia italiana per proporle di cambiare spalla al fucile. Il fatto che questa linea venga riconfermata persino dopo il 14 dicembre, a fronte di un governo reazionario in provvisorio recupero dopo l'aggressione di Marchionne a Mirafiori, dopo l'allineamento di Marcegaglia a Marchionne, contro la proposta dello sciopero generale da parte dello stesso movimento di massa degli studenti, dà la misura di un corso strategico irriformabile che è e resta oggi come ieri il principale organizzatore delle sconfitte.
Con una differenza: oggi l'organizzazione della sconfitta è la merce di scambio non del ritorno alla concertazione, ma della sola speranza- forse vana- di riconquistarla.
Parallelamente, sul piano politico, avanza l’operazione di ricostruzione di una nuova socialdemocrazia
italiana attorno alla figura di Nichi Vendola. Le sue gambe sono ancora esili ed esposte a mille variabili.
Ma lo spazio politico di Sinistra e Libertà è reale : usare la crisi del PD per ricomporre attorno a sé una
socialdemocrazia di governo, socialmente radicata nella CGIL e alleata affidabile dei partiti borghesi, liberali e cattolici. Senonchè il vendolismo si spinge persino al di là di un orizzonte semplicemente socialdemocratico. Non si accontenta, se non in termini di un eventuale subordinata, di una "sinistra del centrosinistra", come puntava a fare Bertinotti. Punta davvero a guadagnare lo scettro dell'intera coalizione borghese. E cioè a conquistare il premierato di governo, la guida politica di fatto del capitalismo italiano. L'ossessiva richiesta delle primarie non è solo schermaglia tattica nelle contraddizioni del PD. E' la ricerca dell'investitura popolare per l'aspirante candidato democratico del fronte borghese, dentro l'accettazione delle regole populiste plebiscitarie della seconda repubblica, nonostante la loro crisi. E per onorare questa aspirazione Nichi Vendola combina la difesa formale dei metalmeccanici e la più sofisticata affabulazione retorica a beneficio dell'immaginario popolare, con gli ammiccamenti più scoperti alle classi dirigenti del paese. Apre alla Chiesa perchè sa che un premier rispettabile ha bisogno della benedizione dei vescovi. Moltiplica gli incontri con le associazioni confindustriali (come nel nord Est), perchè sa che un candidato premier è credibile se ha il lasciapassare o almeno la neutralità dei padroni. Giunge a condannare le contestazioni operaie radicali alla Cisl perchè sa che un premier rispettabile deve rispettare e gestire la concertazione. E siamo solo al piede di
partenza della corsa al premierato. Possiamo immaginare un eventuale punto d'arrivo. Questo è dunque il vendolismo: l'ennesimo spartito del trasformismo.Il Vendolismo è in fondo il sogno di un Bertinottismo finalmente compiuto: i voti operai, i ministeri borghesi. Ma con buona pace di Nichi Vendola, non è la nuova poesia della vittoria, ma la vecchia prosa della sconfitta. E noi che non abbiamo capitolato a Bertinotti, non ci facciamo incantare dal suo erede.
Infine il terzo attore è la neonata Federazione della Sinistra, attorno al PRC e al PDCI. A differenza di
SEL, non si tratta di un progetto organico, ma, prevalentemente, di un disegno di autoconservazione. E l'autoconservazione è affidata, ancora una volta alla ricomposizione col centrosinistra sul terreno del governo. Non inganni la rassicurazione francamente imbarazzante circa il “rifiuto” della Federazione di entrare nell’esecutivo. E' vero l'opposto: l'esclusione dal governo è la rassicurazione chiesta dal PD come condizione per imbarcare la federazione. E la federazione si rassegna – se così si può dire – a questa condizione pur di ritornare nel Centrosinistra; pur di partecipare alla maggioranza di sostegno del suo eventuale governo confindustriale ; pur di ottenere in cambio del patto coi partiti della borghesia , la riconquista dei seggi parlamentari. Siamo al tentato replay del 96-98, ma in peggio. Allora Rifondazione, che pur votò le peggiori politiche padronali di Prodi dall'interno della sua maggioranza,( a partire dal famigerato pacchetto Treu), non aveva un accordo stabile di governo col centrosinistra, con cui poi ruppe. Oggi la Federazione, pur di ottenere il rientro istituzionale, garantisce al PD e se occorre persino all'UDC un patto organico di legislatura. E questo nel momento stesso in cui PD e UDC spalleggiano la Fiat contro i lavoratori, e le sinistre sostengono i lavoratori contro la Fiat. Siamo all'eterna riproposizione di una politica scissa dai contenuti di classe. Il Congresso del PRC a Chianciano, rompendo con Vendola, aveva promesso solennemente “In basso a sinistra”. Due anni dopo ribussano, in alto e a destra, sulla scia di Vendola. Lungo la rotta sperimentata degli ultimi 15 anni. Noi non sappiamo quali saranno le fortune di questi disegni delle sinistre politiche e sindacali, peraltro subordinate a loro volta alle fortune altrettanto incerte dei partiti borghesi di centrosinistra cui si sono affidate.
Sappiamo solo che quei disegni ripropongono la subordinazione suicida del movimento operaio alle classi dirigenti, ai loro tentativi di ricomporre contro i lavoratori un nuovo equilibrio politico . Sappiamo che il solo perseguimento di quei disegni è già oggi il principale fattore di crisi dell’opposizione di classe e di massa cui infatti le sinistre non offrono alcuna prospettiva reale; sappiamo solo che l'impasse dell'opposizione di classe e di massa è, a sua volta, il principale fattore di tenuta politica della borghesia e di incoraggiamento della sua offensiva.

LA NOSTRA PROPOSTA POLITICA. VIA BERLUSCONI. SE NE VADANO TUTTI. GOVERNINO I LAVORATORI.

Per tutte queste ragioni, la nostra proposta politica e linea d’azione è l’esatto capovolgimento della linea generale delle sinistre italiane. Proprio partendo dall'interesse generale del movimento operaio. Se le sinistre riformiste lavorano a subordinare l’opposizione sociale e i movimenti di massa alla ricomposizione di un’equilibrio borghese, Il PCL rivendica la rottura coi partiti borghesi come condizione per liberare un’opposizione radicale che punti all’esplosione sociale e a un’alternativa di società e di potere.
Il nostro programma si basa su un bilancio di verità della storia italiana.
Le classi dirigenti hanno fallito, nella prima come nella seconda repubblica.
Tutte le loro promesse sociali si sono risolte nell'aumento dello sfruttamento, nella diffusione della povertà, nella privazione di futuro della giovane generazione.
Tutti i mali storici nazionali si sono aggravati, a partire dalla precipitazione della questione meridionale, da un'evasione fiscale delle classi proprietarie che sfiora ormai i 200 miliardi annui, da una criminalità organizzata sempre più incorporata al capitale finanziario e sempre più estesa nello stesso Nord. Mentre la promessa "Repubblica degli onesti" annunciata 20 anni fa dai cultori del maggioritario, si è risolta nell'ulteriore espansione della corruzione pubblica, nell'infinita giostra di comitati d'affari, lobbies, cordate e consorterie che attraversano tutto il sottobosco delle organizzazioni dello Stato, incluso il potere giudiziario, i più alti vertici della aziende pubbliche come Finmeccanica ed Eni, le vette dell'intoccabile arma dei carabinieri, il giro vorticoso dei grandi appalti pubblici e delle loro cricche, gli ambienti immancabili del Vaticano e dello IOR, vera lavanderia della finanza criminale.
Queste non sono deprecabili patologie, magari estirpabili con appelli morali, qualche sentenza giudiziaria, qualche nuova combinazione parlamentare. Questa è l'essenza stessa del regime borghese e della sua decantata "democrazia".
Un'alternativa è tale se spazza via questo mondo e la sua base sociale. E viceversa ogni soluzione della crisi politica ed istituzionale interna a quel mondo sarebbe un inganno per i lavoratori e una sconfitta delle loro ragioni.
Per questo abbiamo assunto e riproponiamo come parola d'ordine la cacciata del governo Berlusconi- in
ogni caso prioritaria - dal versante delle ragioni del lavoro e non di Montezemolo. Perchè la cacciata di
Berlusconi si trasformi nella cacciata delle classi dirigenti del Paese, dei loro partiti, delle loro istituzioni, a favore di un governo dei lavoratori.
"Que se vayan todos", che se ne vadano tutti,recitava il 14 dicembre in piazza uno striscione studentesco a Roma riprendendo la parola d'ordine della sollevazione argentina del 2001. Questa è la nostra stessa parola d'ordine. Perchè solo una Repubblica dei lavoratori può fare davvero piazza pulita di sfruttamento, oppressione, malaffare . Introdurre in ogni lotta parziale e in ogni movimento il senso diquesta prospettiva generale è la cifra della nostra politica quotidiana.

LA NOSTRA LINEA DI MASSA. UNITA' e RADICALITA'

E’ questa non solo l’unica linea e proposta capace di configurare una soluzione progressiva della crisi sociale, a fronte della crisi storica del riformismo. E' anche l'unica linea e proposta capace di sbloccare l 'attuale impasse del movimento operaio sul terreno della lotta di classe, in un passaggio decisivo.
La situazione del fronte di massa in Italia attraversa grandi difficoltà. Negli anni cruciali della crisi e della
recessione, le lotte aziendali di resistenza, anche radicali, a difesa del lavoro, non hanno trovato un punto di unificazione. Numerose sconfitte, in ordine sparso, a partire da Alitalia, hanno concorso a peggiorare i rapporti di forza complessivi. Mentre i successi parziali di alcune lotte emblematiche, dalla Inse all'Alcoa, non sono stati raccolti e investiti in una prospettiva generale di ripresa. Parallelamente si registra una situazione estremamente negativa nel pubblico impiego: dove a fronte dell'attacco sociale più pesante del dopoguerra, non si è prodotta nessuna risposta complessiva di lotta ed anzi si sono allargati, dopo il 2008, fenomeni ulteriori di passivizzazione, con ricadute negative sul livello complessivo dell'opposizione sociale. Il fatto che le gestione del conflitto sociale da parte della Cgil e delle sinistre sia la principale responsabile di questa situazione non cambia la sua natura.
E tuttavia la situazione sociale non è statica. Anche in Italia, come in altri paesi europei, abbiamo assistito in questi ultimi mesi ad una ripresa, seppur ancora disomogenea, delle mobilitazioni. La ribellione del NO a Pomigliano contro i diktat della Fiat. Il susseguirsi di sacrosante contestazioni operaie radicali ai sindacati venduti di CISL e UIL. La grande manifestazione di massa promossa dalla FIOM a Roma il 16 ottobre. La potente irruzione del movimento studentesco contro il decreto Gelmini dentro le stesse contraddizioni della crisi politica, misurano nel loro insieme, un fatto nuovo. Che ancora non trascina il movimento più generale delle masse , ma che indica un possibile principio di svolta cui guardano, con crescente preoccupazione, i circoli dominanti della borghesia italiana e tutti i loro partiti.
Ma a questo principio di ripresa non corrisponde una direzione adeguata e una proposta reale. Certo la
FIOM, per le sue posizioni di contrasto e come bersaglio centrale dell’offensiva padronale, è diventata di
fatto, per molti aspetti, un punto importante di riferimento e di aggregazione nello scontro sociale, come ha dimostrato l’enorme capacità di richiamo della manifestazione di ottobre presso l’insieme dei soggetti sociali dell’opposizione. E oggi la difesa incondizionata della Fiom dall'attacco congiunto di padroni, governo, PD, e persino dei vertici della Cgil, è il primo dovere di ogni militante di classe e il primo impegno del nostro partito. Ma con altrettanta franchezza diciamo che la proposta di linea che la Fiom avanza è nettamente al di sotto delle sue importanti responsabilità: oscillando tra un prezioso rifiuto della capitolazione a Marchionne , e il rifiuto di un salto generale di radicalizzazione dello scontro. Questo limbo non potrà reggere a lungo, di fronte al salto drammatico del livello stesso del conflitto. Senza una svolta si rischia una disfatta.
Per questo a tutte le forze dell’opposizione sociale, a tutte le sinistre politiche, sindacali, sociali, associative, di movimento il PCL avanza pubblicamente una proposta di svolta unitaria e radicale.

PER UN FRONTE UNICO DI CLASSE

In primo luogo avanziamo la proposta della più larga unità d'azione, in piena autonomia dal centrosinistra e da tutte le forze borghesi. Al fronte unico di tutte le forze dominanti contro il lavoro- che unisce nel sì a Marchionne i Berlusconi e i Fassino di tutta Italia- va contrapposto il più ampio fronte unico del proletatiato e di tutte le sue organizzazioni. Non si regge l'onda d'urto dell'offensiva dominante senza serrare le fila. E non si serrano le fila sul terreno della lotta senza liberarsi dell'abbraccio paralizzante, diretto o indiretto del centrosinistra o dell'illusione di condizionarlo. Per questo rilanciamo la proposta di un coordinamento nazionale permanente e autonomo di tutte le forze promotrici e aderenti della grande manifestazione nazionale del 16 Ottobre, sulla scia dell'esperienza in corso di " Uniti contro la crisi", e della manifestazione di massa del 14 Dicembre. Proponiamo che questo blocco si radichi e si strutturi anche su scala locale, in ogni realtà territoriale. Proponiamo che questo fronte si estenda alle forze di classe non ancora coinvolte: e per questo facciamo appello a tutte le organizzazioni del sindacalismo di base perchè abbandonino una posizione insostenibile di estraneità e demarcazione dalle manifestazioni di massa e dal fronte unico di lotta con la Fiom, come purtroppo è avvenuto il 16 Ottobre e il 14 Dicembre. Non ci si può defilare di fatto dal fronte unico contro la Fiat per i diritti di tutti.
Non si tratta di rimuovere le responsabilità della Fiom in ordine alla gestione delle lotte. Si tratta di assumersi le proprie responsabilità di fronte ai lavoratori. Non si tratta di difendere il proprio spazio dalla concorrenza reale o presunta di altre sigle, a scapito dell'unità di classe. Si tratta di sviluppare, dentro la più larga unità di classe il più ampio e libero confronto di posizioni e proposte.

PER UNA SVOLTA RADICALE DELLE FORME DI LOTTA

In secondo luogo proponiamo all'insieme delle sinistre, e tra le masse, una svolta radicale sul terreno dell'azione. Non si fronteggia la linea di sfondamento del padronato e del governo, senza contrapporle una forza di massa uguale e contraria. Questo è oggi il nodo centrale della lotta di classe in Italia. Lo diciamo da tempo: scioperi simbolici e ordinari, azioni centellinate e rituali , pure manifestazioni di denuncia e protesta, sono non solo un atto impotente di testimonianza, ma oltre una certa soglia persino un fattore di demotivazione di massa . Tutta l'esperienza di questi anni conferma questa verità. Si impone dunque una svolta nelle forme di lotta di organizzazione di azione.
Quando proponiamo, instancabilmente, una vertenza generale del mondo del lavoro, dei precari, dei
disoccupati, congiunta all’occupazione delle aziende che licenziano, al coordinamento nazionale delle aziende in lotta, alla costituzione di una cassa di resistenza; quando proponiamo alla base della vertenza, una piattaforma generale unificante che parta dalla rivendicazione del blocco generale dei licenziamenti, dalla difesa del contratto nazionale, della soppressione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro votate in 15 anni da Centrosinistra e Centrodestra; quando proponiamo su questa piattaforma una mobilitazione prolungata e radicale, mirata a piegare governo e padronato attraverso un'autentica prova di forza; quando proponiamo una grande assemblea nazionale di delegati eletti, in tutte le categorie, come sede democratica e di massa di promozione della vertenza, non avanziamo semplicemente una proposta “sindacale” più radicale. Avanziamo di fatto la proposta politica di una svolta di lotta che sia all’altezza di un livello di scontro qualitativamente nuovo. E che, sola, può riuscire e generalizzare i mille episodi dispersi di resistenza sociale oggi in corso, a partire dalle centinaia di aziende presidiate e occupate, ma anche dalle scuole e università in movimento dalle lotte di difesa dei servizi pubblici. Del resto solo la preparazione e organizzazione di un’autentica prova di forza contro governo e padronato può conseguire risultati, fossero pure parziali. Se il DDL Gelmini dovette inizialmente rinviare la discussione al Senato non fu solamente per le contraddizioni interne alla maggioranza: ma anche per l’effetto dirompente dell’onda d’urto di un movimento studentesco che aveva occupato scuole e università, presidiato stazioni, fronteggiato la forza dello Stato, creando un problema reale di ordine pubblico. E’ la misura indiretta di cosa potrebbe accadere se irrompesse sulla scena un’analoga azione di massa del movimento operaio e di milioni di sfruttati.
Per questo diciamo che lo scontro alla Fiat è un banco di prova decisivo.Sosteniamo pienamente lo sciopero generale promosso dalla Fiom per il 28 gennaio. Ma non è sufficiente. Occorre un salto di qualità nell'azione. Occorre darle continuità.Congiungerla col blocco generale degli straordinari.
Preparare l'occupazione degli stabilimenti Fiat. Promuovere ovunque un'aperta contestazione di massa di Cisl e Uil, come fu quella di piazza Statuto a Torino nel 62. Puntare apertamente a far saltare l'accordo, affinchè lo scontro con la Fiat si trasformi nel punto di ricomposizione di una ribellione generale capace di arrestare la valanga e rovesciare i rapporti di forza. Perchè questo è il bivio: o emerge la forza dei lavoratori, o vince la forza del padrone. A chi ogni volta ci richiama al realismo diciamo che esattamente questa è la realtà. E questo è vero anche sul piano politico più generale.
Riservare a Berlusconi il trattamento Tambroni del 1960: questa è e sarà la nostra proposta e la nostra linea di massa. Perchè solo un incendio sociale e politico che trasformi la rabbia diffusa in un aperta rivolta di massa può arrestare la reazione e aprire una pagina politica nuova. A chi ci dice che in una battaglia frontale si può anche perdere rispondiamo che è vero. Ma non c'è sconfitta peggiore di una battaglia non combattuta. Così è stato in tutta la storia del movimento operaio. Così è oggi. E in ogni caso solo una svolta radicale può vincere. Solo una svolta radicale di azione può ricomporre l'unità del fronte sociale, trascinare e polarizzare masse più larghe,infondere fiducia, incrinare il blocco sociale reazionario. Solo una svolta radicale può puntare a cacciare Berlusconi dal versante delle ragioni del lavoro contro ogni soluzione della crisi politica che punti a sostituire il Cavaliere con altri amici di Marchionne e Bankitalia.

PER UN PROGRAMMA ANTICAPITALISTA CONTRO LA CRISI

In terzo luogo proponiamo una svolta radicale sullo stesso terreno del programma.
Assistiamo a un clamoroso paradosso. La borghesia italiana ha un programma di soluzione della crisi contro i lavoratori e la maggioranza della società. I lavoratori non hanno un programma di soluzione della crisi contro la borghesia. Di più: la borghesia italiana che per vent’anni ha saccheggiato il lavoro, avanza un programma radicale di distruzione del contratto nazionale e di archiviazione dello stesso Statuto dei lavoratori. Mentre le sinistre politiche e sindacali “più radicali” si limitano, nel migliore dei casi, o a petizioni difensive o a suggerimenti “riformisti” magari mutuati da economisti liberali alla Krugman.
Ne consegue una situazione singolare: la borghesia che deve conservare il suo mondo è più radicale di chi dovrebbe rovesciarlo. Questa asimmetria di programmi non è solo la misura della subalternità del riformismo alla società borghese: diventa la sanzione della sconfitta sociale per milioni di lavoratori e di giovani.
Anche qui dunque proponiamo una svolta. Alla radicalità dei programmi borghesi, va contrapposta la radicalità uguale e contraria dei programmi operai.
Per questo abbiamo indicato nel nostro documento congressuale un programma d’emergenza contro la crisi che sottoponiamo all'attenzione e al confronto di tutta l'opposizione sociale.
Se i padroni chiedono un aumento dei carichi di lavoro, a fronte dell’attuale sovraproduzione,
rivendichiamo la ripartizione fra tutti del lavoro che c’è con la riduzione generale dell’orario a parità di paga, in modo che nessuno sia privato del lavoro.
Se il padronato pratica e annuncia una nuova ondata di licenziamenti rivendichiamo la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le aziende che licenziano o che attaccano i diritti sindacali, o che causano omicidi bianchi.
Se i padroni scaricano sulle condizioni sociali la propria evasione fiscale, rivendichiamo l'apertura dei libri contabili delle aziende, l'abolizione del segreto bancario,la trasformazione in reato penale dello sfruttamento del lavoro nero, un controllo operaio e popolare sul fisco che individui in modo capillare le frodi del capitale, una tassazione progressiva dei grandi profitti, rendite e patrimoni che restituisca innanzitutto alla società italiana i 300 miliardi di euro sottratti dalla rapina degli ultimi ventanni.
Se infine i governi promuovono un nuovo smantellamento della scuola pubblica, della sanità, dei servizi, per finanziare i 70 miliardi di interessi annuali sul debito pubblico da versare a banchieri italiani e stranieri, rivendichiamo l'opposto: l’annullamento del debito pubblico verso le banche per investire in scuola, sanità e servizi, finanziando un grande piano sociale di nuovo lavoro: ciò che richiede la nazionalizzazione delle banche e la loro concentrazione in un’unica banca pubblica, sotto controllo operaio e popolare.
Naturalmente questo programma non esaurisce il più vasto ambito di un programma di transizione. Ma ne riassume il senso in rapporto alla crisi e alla stretta che configura. Solo l’insieme di queste misure può realizzare un’uscita dalla crisi nell’interesse dei lavoratori. E solo un governo dei lavoratori può realizzare
tali misure. Solo un governo che sottragga al capitale le leve del comando. Solo un governo che ponga
al posto di comando la classe operaia e la sua autorganizzazione di massa. Questa è l’essenza del
nostro programma e della nostra proposta.

UN PROGRAMMA PER TUTTI GLI OPPRESSI E TUTTE LE DOMANDE DI LIBERAZIONE.
IL SUD E I GIOVANI.

E questo programma non si rivolge alla sola classe operaia. La centralità della classe operaia, a partire dalla classe operaia industriale è confermata da tutta l’evoluzione della crisi e dello scontro sociale. Non a caso l’attacco alla FIOM è il perno dell'aggressione avversaria. Ma noi siamo comunisti, non " operaisti". E proprio perché comunisti avanziamo un programma anticapitalista che si rivolge all'insieme delle masse oppresse e delle domande di opposizione: alle domande di liberazione della donna, alla larga massa dei migranti supersfruttati , alle forze dell’intellettualità e della cultura, agli strati diseredati delle periferie metropolitane, alle più larghe masse del meridione come alle domande ambientaliste e anticlericali.
Solo la classe operaia può dare espressione unificata a questo blocco sociale, come ha dimostrato simbolicamente ancora una volta la manifestazione della FIOM a Roma dove, non a caso, larga parte di quelle domande ed esigenze sono confluite. A sua volta solo un programma anticapitalista per il governo dei lavoratori può dare a quelle domande una risposta reale e non mistificatoria.
In questo quadro abbiamo posto e dobbiamo porre un’attenzione particolare alla condizione del Sud.
Non solo per ragioni legate alla sua storica oppressione. Ma perchè il Sud è oggi , più di ieri, un crinale di possibile frattura del blocco sociale dominante sotto la pressione congiunta dalla crisi capitalista,
dell’allargamento dell’Unione Europea e del disegno federalista della Lega.
Non è un caso che proprio nel Sud si registri oggi il massimo punto di crisi del blocco governativo di centrodestra, con autentici fenomeni di disgregazione, e insieme il massimo punto di crisi e trasformismo del blocco di Centrosinistra. A questo non si accompagna ancora una ripresa d’azione delle grandi masse meridionali. Ma le mobilitazioni sui rifiuti, le proteste negli ospedali, la difesa delle stazioni ferroviarie,- pur in ordine sparso- sono la punta emergente di un iceberg profondo di insoddisfazione popolare. Si tratta di evitare che questa insoddisfazione venga assorbita e distorta, come tante volte è accaduto,da suggestioni localiste, operazioni trasformiste, culture regressive.
Agire nel Sud come partito di classe mirato alla rivolta sociale e di massa contro lo Stato gendarme degli
industriali e dei banchieri del Nord: questa è la necessità che abbiamo posto nel nostro documento
congressuale, attraverso una specifica proposta di nostro orientamento nel meridione. La borghesia celebra i 150 anni della propria rapina nel Sud, nel momento stesso in cui radicalizza la propria oppressione sul Meridione. Noi diciamo che solo il movimento operaio può dare una prospettiva al popolo del meridione ponendosi contro la borghesia, la sua ipocrisia patriottica o le sue recite secessioniste. Se la loro bandiera è Cavour la nostra bandiera è Pisacane e Gramsci.
Così abbiamo la necessità di un'attenzione particolare al movimento studentesco.
Il movimento che nelle ultime settimane si è levato con un'accelerazione sorprendente non è solo un movimento degli studenti: è un movimento di giovani. Non contesta unicamente la controriforma Gelmini.
Si ribella a quella condizione di precariato a tempo indeterminato cui le classi dominanti e tutti i loro governi condannano la giovane generazione. Non a caso in questo movimento si è affacciata una generazione di giovanissimi, senza esperienza pregressa- spesso neppure quella del 2008- e perciò stesso libera dal peso delle sconfitte e segnata da energie fresche e preziose.
Il livello di coscienza politica è inevitabilmente limitato, com'è naturale nella fase iniziale di ogni giovane movimento, tanto più nel contesto storico attuale. E per questo vi trovano spazio fisiologico illusioni democratiche e istituzionali, magari riposte in un Presidente della Repubblica il cui unico ruolo è è quello di ammortizzatore sociale e di inganno politico.
Ma sarebbe un errore profondo confondere il livello dato della coscienza o le posizioni delle leaderschip con la dinamica e le potenzialità del movimento giovanile. Ben più che nel 2008, questo movimento ha fatto irruzione nella crisi politica e per questo ha maturato un interesse politico più diretto e diffuso.
Più che nel 2008 si manifesta nel movimento un sentimento spontaneo di solidarietà coi lavoratori e di ricerca di un blocco sociale col lavoro: favorito in questo dalla dislocazione più avanzata della Fiom e da un diverso rapporto con la Fiom delle stesse direzioni studentesche.
E infine ben più che nel 2008, migliaia di giovani hanno fatto diretta esperienza del confronrto di piazza con l'apparato dello Stato, a partire dalla giornata cruciale del 14 dicembre: dove non i fantomatici black bloc, o qualche scapestrato spaccavetrine, ma diverse migliaia di giovani che volevano dirigersi verso i palazzi del potere contro un governo salvato da deputati corrotti , hanno incontrato sulla loro strada la massa d'urto della violenza poliziesca. E giustamente si sono difesi, ed hanno replicato, com'è loro diritto, anche con l'uso della forza di massa, nella migliore tradizione del movimento operaio e popolare.
Ed hanno difeso con dignità questa scelta contro la campagna di criminalizzazione dei partiti borghesi e contro la dissociazione delle componenti più organicamente riformiste del movimento come i vertici
dell'UDU.
Tutto questo segnala potenzialità importanti .
Per questo la lotta per l'autorganizzazione democratica di massa del movimento; la difesa della sua autonomia dal centrosinistra e lo sviluppo della sua coscienza politica;la saldatura delle sue rivendicazioni immediate con un programma anticapitalista; la battaglia interna allo stesso movimento operaio per un programma di svolta e di mobilitazione che dia ai giovani una prospettiva di riferimento, sono tutti aspetti tra loro intrecciati di un lavoro di ricomposizione del blocco sociale anticapitalista. Che è inseparabile dalla riconquista di un'egemonia di classe sulla gioventù.

LA POSSIBILTA' DI CRISI RIVOLUZIONARIE. CAUTELA NELLE PREVISIONI. CAPACITA' DI AZIONE.

Più in generale, l’insieme dei fattori della crisi italiana – sociali, politici, istituzionali – delinea una base materiale di possibili esplosioni sociali per alcuni aspetti più ampia di quella esistente nella I Repubblica.
La I Repubblica borghese, nata dal tradimento delle potenzialità rivoluzionarie della resistenza, disponeva di un quadro capitalistico in sviluppo per larga parte della sua storia, di un grande partito borghese centrale, con base di massa, come la DC, capace di integrare nel capitalismo italiano ampie masse popolari del Nord e del Sud – della presenza del più grande partito stalinista d’Occidente, il PCI, quale potente strumento di controllo della lotta di classe e della sua subordinazione al quadro costituito.
Questo sistema combinato di forze non impedì la ciclica ascesa di grandi movimenti di massa che a più riprese sfidarono la stabilità borghese sino a produrre ripetute crisi rivoluzionarie e prerivoluzionarie: nel 48, nel 60, tra il 69 e il 76. Ma al tempo stesso riuscì a contenerle dentro le compatibilità del sistema borghese e dei suoi equilibri flessibili.
Il quadro della II Repubblica e della sua attuale crisi è profondamente diverso . La classe operaia italiana e i movimenti di massa hanno registrato negli ultimi 30 anni, ed in particolare nei due ultimi decenni, un arretramento rilevante di coscienza politica e posizioni sociali, per responsabilità preminenti delle loro direzioni . Ma, simmetricamente, anche l’ossatura politica e istituzionale della Repubblica borghese si è fatto complessivamente più fragile: per una crisi capitalistica che ha eroso le basi sociali del consenso e la stessa unità del blocco sociale dominante; per il fallimento della costruzione di un nuovo equilibrio politico d’alternanza, capace di rimpiazzare la struttura politica democristiana; per la scomparsa, per la prima volta dal dopoguerra, di una rappresentanza politica maggioritaria del movimento operaio – a seguito della lunga mutazione PCI-PDS-PD – capace di presidiare con la stessa efficacia il controllo del fronte sociale.
In questo quadro storico di fondo, al di là del contingente, sta in prospettiva lo spazio di esplosioni radicali.
Contrariamente a diffuse rappresentazioni, quelle sì “ideologiche”, che immaginano la rivoluzione come
mitologia letteraria, crisi verticali, anche rivoluzionarie, possono prodursi come brusche svolte dello
scenario italiano, come nello scenario europeo.
Non sta a noi prevedere tempi e dinamiche di possibili processi di radicalizzazione di massa che come insegna la storia, possono nascere dai fatti contingenti più imprevedibili e di diversa natura, economici e politici. E certo sarebbe metodologicamente sbagliato avventurarsi in previsioni facilone.
Ma sta a noi combinare la cautela delle previsioni con la capacità di uno scatto politico audace di fronte a possibili precipitazioni della crisi italiana.

L’INTERVENTO DEL PARTITO. PROPAGANDA, RADICAMENTO, DIREZIONE DELLE LOTTE

E in questo quadro generale che abbiamo provato a razionalizzare, con maggiore precisione, l’intervento di massa del nostro partito.
Il nostro intervento è innanzitutto, come abbiamo detto, un intervento di propaganda: ciò che significa in termini marxisti un intervento incentrato, in ogni lotta, sulla presentazione generale del nostro programma e delle nostre proposte politiche di fondo . Questo è e resta il tratto dominante della nostra politica: sia per i limiti attuali delle nostre forze, sia per il fatto che proprio per una piccola forza il suo programma generale può essere il principale fattore di riconoscibilità . Ed anzi questo aspetto della propaganda generale del nostro programma anticapitalista per un governo dei lavoratori va ulteriormente rafforzato di fronte al procedere parallelo della crisi capitalista internazionale e della crisi italiana, in tutta la loro profondità.
Ma, detto questo, non ci siamo limitati e non possiamo limitarci alla propaganda. Dobbiamo puntare ovunque possibile a radicarci nelle lotte e nei movimenti sociali; ad articolare nel vivo dei conflitti le nostre proposte generali ; a cercare di conquistare un ruolo rilevante in quelle lotte e, ove possibile, a prenderne la testa. Tutto ciò, come sappiamo, è sempre molto difficile per ragioni oggettive e limiti soggettivi . Ad oggi, il nostro giovanissimo partito non ha ancora vissuto l’esperienza di direzione di lotte importanti di richiamo nazionale. E tuttavia, in questi due anni, abbiamo fatto passi avanti, accumulando nuove esperienze preziose, seppur contingenti di intervento di massa: sia in situazioni di fabbrica e di resistenza aziendale ,come alla FIAT, alla Merloni, alla Sevel, ad Alitalia, all’Unilever, all’Alcoa; sia in contesti di movimento studentesco e di lotte nella scuola e nell'università come a Roma, Bologna, Cosenza, Ancona, Napoli, Reggio Calabria; sia in lotte di massa a base territoriale, come nella mobilitazione a difesa delle strutture ospedaliere in Basilicata, o nel movimento dei terremotati abruzzese, o tra gli alluvionati di Messina; sia in esperienze di fronte unico antifascista come in Toscana.
Per citarne solo alcune. E in alcune di queste esperienze non solo abbiamo guadagnato nuovi compagni al partito, ma abbiamo verificato come la crisi delle vecchie direzioni e il vuoto di proposta politica e sindacale possa aprire per il PCL uno spazio di inserimento superiore alle sue deboli forze.
Occorre dunque sviluppare e generalizzare questa tendenza di lavoro ponendo l’obiettivo del radicamento sociale, a partire dalla classe operaia, come obiettivo centrale dei piani di lavoro delle nostre sezioni e coordinamenti regionali
E tutto questo non semplicemente perché “si deve”, com’è naturale per un partito comunista. Ma per due
ragioni essenziali e di fondo, tra loro complementari.
La prima è che la conquista di un ruolo di direzione di una lotta può essere un veicolo di accelerazione della costruzione del nostro partito, un salto potenziale, piccolo o grande, del nostro profilo pubblico e nell’accumulo di nuove forze. A maggior ragione se quella lotta si configurasse (o divenisse) una lotta di
richiamo nazionale. Nella grande crisi americana degli anni 30, il piccolo SWP fece della conquista di un ruolo di direzione delle lotte dei camionisti di Minneapolis, un fattore di sviluppo nazionale del radicamento operaio del partito. Noi non abbiamo avuto ancora una nostra Minneapolis. Ma è essenziale protendere le nostre forze in questa direzione, cercando di entrare in ogni varco possibile.
La seconda ragione è che la conquista di una lotta alle nostre parole d’ordine – o anche solo un’influenza visibile delle nostre parole d’ordine in questa lotta – può diventare un fattore positivo di propagazione in più ampi settori di massa con ricadute preziose sull’intera dinamica della lotta di classe.
L’esplosione sociale del Maggio 68 in Francia con la relativa situazione rivoluzionaria, non si sarebbe prodotta senza il fattore d’innesco di un piccolo gruppo di trotskisti francesi nella fabbrica di Sud- Aviation, dove spinsero quella occupazione della fabbrica che costituì l’innesco della valanga. E' la misura dell’importanza del fattore soggettivo nella lotta, e di come, in condizioni particolari, anche un piccolo partito- o un piccolo settore d'avanguardia- possa svolgere un ruolo politicamente superiore alle sue dimensioni.
Ancora una volta la forte tensione verso il fine e la ricerca dinamica dello sbocco anticapitalista è e deve
essere il tratto caratterizzato del PCL e del suo intervento di massa in ogni lotta, piccola o grande.Con la
consapevolezza che, in ultima analisi, solo lo sviluppo del nostro partito dentro la lotta di classe può dare a questa lotta una prospettiva rivoluzionaria e liberatrice.

L’AUTONOMIA DEL NOSTRO PARTITO

Proprio l’ambizione del nostro programma e della nostra politica pone al PCL la necessità di padroneggiare la relazione tra due aspetti da sempre inseparabili della politica rivoluzionaria: la piena autonomia del partito, la politica di conquista della maggioranza delle masse. L’assoluta fermezza di principi. La massima flessibilità della tattica. Questa relazione è il cuore della tradizione leninista e della battaglia del bolscevismo, in Russia e su scala internazionale, all’interno stesso del movimento rivoluzionario, contro gli opposti pericoli dell’opportunismo e dell’estremismo. Il fatto che il nostro II Congresso si sia cimentato su questo nodo decisivo ricollega la nostra discussione alla storia del nostro movimento. E rappresenta un fatto di arricchimento della nostra costruzione e formazione.
La costruzione indipendente del PCL in quanto partito marxista e rivoluzionario è l’alfa e l’omega di tutta
la nostra politica e della nostra stessa esistenza.
La nascita e lo sviluppo dei partiti rivoluzionari è storicamente segnata dalla scissione col riformismo e col centrismo, attorno a principi discriminanti. Così è stato sempre. Così è stato ed è per il nostro partito.
Tutto il lungo processo di gestazione del PCL attraverso la battaglia di raggruppamento rivoluzionario in Rifondazione Comunista è stata segnata dalla progressiva demarcazione sia dal riformismo bertinottiano, sia dalle componenti staliniste, sia dal centrismo delle “sinistre critiche” interne. E questo spirito di scissione, come diceva Gramsci, ha animato il Congresso fondativo del nostro partito e la politica di questi anni, in tutte le scelte di fondo: contro le mille pressioni unitariste, reali o finte, che fuori di noi avrebbero voluto o vorrebbero dissolverci in un’indistinta “unità dei comunisti” con forze non comuniste.
L’abbiamo detto e lo ribadiamo pubblicamente qui: il comunismo non è un nome, un simbolo, una memoria, una critica del capitalismo o un’evocazione dell’immaginario; il comunismo è un programma di rivoluzione sociale per il potere dei lavoratori.
Questo programma è il fondamento del PCL e non può essere né rimosso né amputato, pena la liquidazione della nostra ragione politica. L’unità dei comunisti è tale se si realizza attorno a un programma comunista, non se lo rimuove.Pena l'eterna riproposizione di equivoci fallimentari. Per questo consideriamo il Partito Comunista dei lavoratori e il suo sviluppo come luogo e strumento dell’unità dei comunisti, contro tutte le suggestioni retoriche che nel nome dell’ unità verrebbero liquidare il nostro partito e il suo programma, nel nome di altri programmi e dunque di altri partiti e tradizioni: o quelle dello stalinismo stile KKE che chiama provocatori i giovani greci in rivolta, o quelle del bolivarismo chavista, o quelle di Porto Alegre e della cosidetta “democrazia partecipativa”, come proponeva Sinistra Critica poco prima di votare le finanziarie di Prodi.
Questa linea di demarcazione programmatica, quindi politica e organizzativa, non solo non va messa in discussione, ma va oggi consolidata. Va consolidata nella razionalizzazione interna di partito. Ma va consolidata anche in sede pubblica sviluppando una costante e attiva battaglia – politica, teorica, culturale – verso le formazioni riformiste e centriste, in tutte le sedi e occasioni di confronto. Tanto più oggi in un quadro politico segnato dall’obiettiva frammentazione dell’estrema sinistra e da una diffusa confusione politica nella stessa avanguardia di classe e di movimento.E soprattutto la nostra autonomia va ricondotta al quadro internazionale delle nostre radici e della nostra collocazione. Perchè la costruzione del nostro partito in Italia non è altra cosa dal lavoro di ricostruzione dell'internazionale rivoluzionaria, su scala mondiale e in ogni paese, attorno ai soli principi e al solo programma che abbiano retto la prova della storia: quelli del leninismo e quindi del trotskismo.

LA “CONQUISTA DELLA MAGGIORANZA” E IL RUOLO DELLA TATTICA

Ma per i rivoluzionari l’autonomia del partito e del suo programma non è un fine a sé. Non è uno steccato in cui recintarsi. E’ in funzione della conquista delle masse e innanzitutto della loro avanguardia alla prospettiva della rivoluzione. E' questo un punto centrale della riflessione del nostro Congresso.
Un’organizzazione centrista, antagonista, movimentista, che vive di soli obiettivi immediati, di dinamiche di movimento, di scadenze contingenti, non ha il problema della conquista della maggioranza. Perché non ha un fine generale da perseguire al di là della propria sopravvivenza o della difesa del proprio spazio. Ma un partito rivoluzionario, che si basa su un progetto generale che in ogni lotta immediata persegue un fine di rivoluzione, deve assumere la politica della conquista della maggioranza, come cardine della sua stessa identità: perché proprio la prospettiva del governo dei lavoratori richiede necessariamente la conquista delle masse politicamente e sindacalmente attive, senza la quale si ridurrebbe a evocazione retorica o utopia.
E, a sua volta, un’azione politica volta alla conquista delle masse, e innanzitutto dei loro settori più combattivi , seleziona un sistema di tattiche funzionali allo scopo: in relazione alle altre sinistre riformiste e centriste, in relazione all’intervento nei sindacati di massa, in relazione alle elezioni e ai parlamenti borghesi . Queste tattiche che la storia del nostro movimento ci consegna, non sono affatto una compromissione dei principi rivoluzionari. Sono in un certo senso l’opposto: la condizione decisiva per costruire una prospettiva di rivoluzione e lo stesso sviluppo del partito rivoluzionario e del suo programma rivoluzionario presso più ampi settori di massa e di avanguardia.
La proposta che abbiamo avanzato – e la discussione che abbiamo avuto – attorno alla tattica elettorale
sta tutta in questa cornice. E’ l’espressione su un terreno particolare, di una logica generale: come investire il nostro programma nella più ampia comunicazione di massa proprio al fine dell’allargamento della sua presentazione e dell’ampliamento della sua influenza. Proprio per questo partendo sempre, in ogni articolazione della tattica, da una premessa decisiva: l’autonomia irrinunciabile del nostro programma e la costruzione indipendente del nostro partito.
Fermezza dei principi e duttilità della tattica. Questa, come abbiamo detto, è la lezione più profonda del
bolscevismo. E per questo abbiamo voluto recuperare quella lezione con ripetuti riferimenti storici nello
stesso testo congressuale. E’ una scelta che rivendichiamo perché non costruiremo il futuro del nostro partito e del nostro progetto senza radicarlo nella teoria e nella storia del leninismo. E’ esattamente questo che ci distingue dalle altre sinistre e dalla galassia del centrismo. Sarebbe davvero paradossale se proprio nel nome di una tutela malintesa della nostra autonomia a sinistra, finissimo col cancellare o rimuovere proprio ciò che ci distingue : la continuità con la tradizione rivoluzionaria, nei suoi aspetti programmatici come nell’espressione tattica.
E tanto più sarebbe paradossale se nel farlo, dovessimo recuperare involontariamente, magari nel nome dell’aggiornamento della teoria, i più vecchi argomenti di quelle correnti estremiste contro cui Lenin e Trotsky svilupparono la propria battaglia. Quando Lenin, sulla base dell’esperienza della rivoluzione russa, rivendicò l’importanza della tattica in campo elettorale, sindacale, nel rapporto con gli altri partiti del movimento operaio, tutto l’estremismo obiettò, in forme diverse, che “ciò che era vero per la Russia arretrata non era valido per l’Occidente avanzato o che i tempi cambiati". Proprio Lenin ebbe buon gioco nel rispondere che la verità è opposta: se i bolscevichi dovettero usare l’arma della tattica per conquistare le masse in una Russia arretrata, a fronte di sindacati deboli, dell’assenza di una democrazia borghese, di concorrenti politici fragili, a maggior ragione l’importanza della tattica si sarebbe rivelata decisiva nell’Occidente avanzato, a fronte di illusioni istituzionali più radicate, di una democrazia parlamentare segnata da una lunga storia e tradizione, di pregiudizi borghesi assai più diffusi tra le masse, di burocrazie dirigenti del Movimento Operaio ben più sperimentate. Proprio a fronte della maggiore complessità della rivoluzione in Occidente, sarebbe stato infantile immaginare la politica rivoluzionaria come una semplice linea retta di propaganda e di denuncia, senza lo sforzo di comunicare alle masse, senza duttilità di manovra tattica, senza capacità di inserimento nelle contraddizioni avversarie.
Questa lezione di metodo sulla complessità della politica rivoluzionaria può essere recuperata ed aggiornata in relazione all'attuale contesto della nostra azione e costruzione. E' vero che il combinarsi della crisi capitalista , del crollo dello stalinismo, della crisi della socialdemocrazia, amplia storicamente lo spazio di una proposta rivoluzionaria. Ma tutto questo si intreccia contradditoriamente con l'arretramento della coscienza politica di massa, e di riflesso della sua stessa avanguardia sociale: al punto che la cesura tra programma rivoluzionario e coscienza di massa non è mai stata tanto profonda quanto oggi. Così, è vero che in Italia lo scioglimento del PCI e poi la crisi di Rifondazione hanno creato in definitiva un terreno più fertile per lo sviluppo del marxismo rivoluzionario. Lo stesso nostro partito è nato da questo nuovo contesto. Ma la crisi verticale della vecchia sinistra italiana non ha lasciato il vuoto. Così oggi la crisi del PD e di Rifondazione va liberando lo spazio di sviluppo del vendolismo presso nuovi settori del movimento operaio e della gioventù. Anche la Fed, nonostante la sua profondissima crisi conserva un volume nazionale di mobilitazione militante molto più ampio del nostro.
E persino fenomeni come il dipietrismo e il grillismo hanno trovato un loro spazio nella crisi di rappresentanza della sinistra presso ampi settori del suo popolo. Non costruiamo dunque il nostro progetto su un prato verde tutto per noi disponibile. Ma su un terreno impervio segnato dai cascami della crisi del riformismo, ingombrato da altri soggetti, vecchi o nuovi, spesso più robusti di noi, disseminato di ostacoli di ogni tipo: compreso lo scetticismo diffuso verso la stessa dimensione della politica in ampi settori di massa.
Proprio per questo è decisivo fronteggiare la mole di questi ostacoli, tanto più per un partito piccolo e giovane come il nostro, ricercando ogni possibile forma e canale di comunicazione di massa e dunque di
battaglia sul nostro programma.
Presentare regolarmente il nostro partito alle elezioni ovunque possibile, ricercando in ogni caso ogni possibile utilizzo dell'occasione elettorale per presentare le nostre proposte ai lavoratori e ai giovani .
Sviluppare il nostro lavoro nei sindacati di massa e in ogni sindacato, e così anche nelle organizzazioni
studentesche, nelle associazioni antifasciste, e in ogni ambito popolare progressivo. Articolare un nostro
specifico intervento di proposta e di sfida verso le sinistre riformiste e centriste, sul terreno della politica del fronte unico, anche al fine di evidenziare ed ampliare le loro contraddizioni in funzione del nostro sviluppo. Tutto questo non è un optional o un elemento accessorio. E' e deve essere un aspetto organico del nostro intervento di massa, per costruire coscienza di classe, sviluppare egemonia, spiegare la necessità della rivoluzione e del governo dei lavoratori, innanzitutto ai settori più avanzati delle masse. Non è altro dalla costruzione del nostro partito, quasi una sorta di diversivo politicista. E' al contrario un aspetto decisivo della nostra costruzione come partito rivoluzionario.

IN CONCLUSIONE

Per concludere, cari compagni e compagne,
la costruzione di un partito rivoluzionario è sempre- come tutti sappiamo - un'impresa molto complicata.
Non avviene mai per linea retta, ma lungo un inevitabile saliscendi di successi e insuccessi, di avanzate e ritirate, lungo la dinamica creativa e imprevedibile della lotta politica e di classe. Così è stato sempre per tutti i partiti rivoluzionari, a partire dal partito della rivoluzione russa. Così è stato e sarà per il nostro giovane partito.
Il nostro sviluppo e la nostra prospettiva non sono affidati unicamente alla giustezza delle nostre ragioni o alla bontà dei nostri programmi. Ma alla nostra capacità di incontro con quelli che saranno i processi di
maturazione dell'avanguardia di classe, con le esperienze di una nuova generazione operaia e studentesca, con le dinamiche di nuove crisi e scomposizioni che si produrranno inevitabilmente nel campo franoso dei partiti riformisti e centristi. Sarà quell'incontro a produrre un salto nell'accumulazione delle forze e un passo avanti della nostra costruzione.
Naturalmente non possiamo prevedere i tempi e le forme di quell'incontro. Infinite sono le variabili della lotta politica e di classe. Nè tutto dipende dalla nostra sola volontà. Ma certo da noi e solo da noi dipende la tenacia di un fine: la salvaguardia di un programma e al tempo stesso il suo investimento nella conquista attiva di nuove forze, nell'azione di egemonia alternativa fra le masse, nella costruzione del partito rivoluzionario. Senza la tensione organizzata di questa volontà, e di una politica dinamica che le corrisponda, anche le occasioni più favorevoli verrebbero inevitabilmente perdute. Con ricadute profondamente negative non solo per noi ma per il movimento operaio italiano.
Il Partito Comunista dei Lavoratori ha peraltro tutte le carte in regola per affrontare l'impresa. Per la prima volta, a novantanni esatti dalla nascita del Partito comunista d'Italia a Livorno, c'è un partito basato sul suo stesso programma. E' il nostro partito. Il nostro primo congresso l'ha fondato. Ora abbiamo il compito di costruirlo. Questo è il senso di fondo del nostro secondo congresso e della discussione certo più impegnativa che ci ha coinvolto e che ci coinvolgerà in questi giorni. E dell'azione politica dei prossimi anni.
C'è un'immagine di queste ultime settimane che trovo molto bella e che in qualche modo può forse simboleggiare la nostra collocazione e la nostra prospettiva. E' l'immagine della nostra bandiera in prima linea nella battaglia di massa del 14 dicembre a Roma in Piazza del Popolo, nelle mani di un nostro compagno operaio. Non c'erano altre bandiere di partito in quel frangente, non quelle di Vendola, non quelle di Rifondazione, o di altri. C'era la nostra bandiera. E' un piccolo fatto certo, ma emblematico.
Perchè è il nostro partito, e non altri, che proprio per il suo programma di rivoluzione può spendersi nel movimento di massa con coraggio nel momento della sua diretta contrapposizione allo Stato. La nostra
bandiera in quella piazza era dunque in qualche modo il riflesso del nostro programma. E' vero il 14
dicembre quella bandiera era solo un presidio di presenza, non un riferimento politico egemone.
Trasformare quella presenza simbolica in un progetto egemone, a partire dalla giovane generazione è il nostro compito. Per una 4° internazionale rifondata, Per la rivoluzione socialista mondiale.

 7 gennaio 2011
dal sito  http://www.pclavoratori.it/files/index.php
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