IL SOVRANISMO DI SINISTRA E' UNA DERIVA,
RILANCIAMO LA LOTTA PER UN'EUROPA SOCIALISTA
Intervista a Marco Ferrando
Lontano da qualsiasi illusione circa la riformabilità dell'UE, il sito Il Pane e le rose non ha però mai sostenuto chi ne propugna il superamento per vie nazionaliste. Lo stesso fenomeno, attualmente in auge, del "sovranismo di sinistra", ci sembra foriero di pericolosi sbandamenti, a partire dal fatto che, richiamandosi a una sorta di "nuovo riscatto" dell'Italia o di altri paesi, pone in second'ordine - o cancella del tutto - il conflitto di classe. Per questo abbiamo intervistato Marco Ferrando, portavoce nazionale di quel Partito Comunista dei Lavoratori che da tempo è impegnato in una battaglia politica contro la suddetta tendenza. Uno sforzo evidentemente sostenuto da solide basi culturali, visto il carattere della conversazione che qui proponiamo, in cui il significato complessivo di falsa alternativa del "sovranismo di sinistra" viene evidenziato con dovizia di argomentazioni.
In questa intervista ci concentreremo sulla sempre maggiore diffusione, in ambiti un tempo alternativi, del verbo sovranista. Precisando, però, che non si tratta dell'unica catastrofe che investe la sinistra europea...
È indubbio. Oggi, la sinistra europea di matrice riformista appare divaricata tra due forme di subalternità, la prima delle quali è la subalternità al quadro della concertazione imperialistica europea, che passa attraverso il mito di una riforma sociale e democratica dell'UE. Per questa via, ciclicamente ci si genuflette alle politiche controriformatrici, volte a demolire i diritti sociali, com'è accaduto a Rifondazione Comunista con gli esecutivi Prodi, al PCF con il governo Jospin e, in tempi più recenti, a Tsipras in Grecia e, per un breve periodo, a Podemos in relazione al governo con il socialista Sanchez. Quel che non si capisce o si finge di non capire è che le politiche di austerità sono connaturate alla fisionomia stessa dell'UE. Vi è poi un secondo filone che ha reagito all'inevitabile crisi del riformismo europeista proponendo una forma di riformismo nazionalista o sovranista: questa tendenza fa capo a Mélenchon e alla sua France Insoumise nonché, in Germania, a un movimento fondato da Sahra Wagenknecht: Aufstehen. In forma mediata, in Italia, ritroviamo questo discorso anche in settori di Potere al Popolo. Si cerca di capitalizzare il fallimento del riformismo europeista, però senza mettere in discussione il capitalismo e palesando subalternità alle tendenze ideologico-culturali delle destre scioviniste.
Ecco, questo ci interessa: il fatto che i sovranisti di qualsiasi tipo non svolgono un discorso anticapitalistico...
A ben vedere, il sovranismo di sinistra non fa che riproporre, sul piano nazionale, l'illusione circa un possibile compromesso di tipo progressista tra capitale e lavoro. Quel che non sarebbe ipotizzabile nel contesto dell'UE e della moneta unica, acquisirebbe concretezza con il recupero della sovranità nazionale, base per un nuovo intervento dello Stato nei meccanismi del mercato. Si tratta di un'ipotesi infondata, che rimuove il fatto che, sul piano mondiale, lo spazio del riformismo si è esaurito da tempo, in conseguenza di due fattori: la fine del boom economico post-bellico e il crollo dell'URSS. L'agenda dell'austerità non è dominante solo in Europa ma in tutto il pianeta. Essa si è imposta dopo la prima crisi strutturale del '74-'75, anche se, ovviamente, l'euro e i suoi meccanismi strutturali l'hanno rilanciata. In sostanza, quando Vladimiro Giacché, in un'intervista rilasciata a Fulvio Grimaldi (1), asserisce che l'euro sarebbe la base della svalutazione del lavoro, dimentica che questa precarizzazione avviene ovunque, anche sotto il sovranissimo dollaro o sotto la sovranissima sterlina. La stessa cosa vale per l'innalzamento dell'età pensionabile, che non è un fenomeno esclusivo dell'Europa unita: in Russia, il proposito di Putin di muoversi in questa direzione lo sta esponendo a un calo di popolarità. Così come generalizzata è la riduzione progressiva delle tasse alle imprese, col suo portato di tagli alla spesa sociale. Insomma, è il capitalismo la base delle politiche di austerità. Dunque, per superarle la rottura con l'UE può essere una condizione decisiva, ma a patto che essa si collochi in una prospettiva anticapitalistica. Oggi tale rottura è sostenuta anche da reazionari, come dimostra la Brexit, preceduta da una campagna incentrata sul ritorno del Regno Unito alla sua "antica grandezza". Chi ha assimilato la Brexit all'Oxi, ossia alla prevalenza del no nel referendum del 2015 sul piano della Trojka per la Grecia, ha preso una cantonata incredibile. Con l'Oxi si è manifestata una rottura verso l'UE incentrata sulle istanze di cambiamento e di rifiuto dell'austerità espresse da ampi settori giovanili e del mondo del lavoro. Tsipras, dunque, ha tradito una dinamica di tipo progressivo.
Queste forzature sono strettamente legate all'idea che l'Europa sia dominata da un solo paese: la Germania...
Un'altra idea sganciata dalla realtà e che si può spiegare, in fondo, con la rimozione della categoria di imperialismo, sia in generale sia, in particolare, come comprensione dell'imperialismo di casa propria. Nella rappresentazione di Giacché l'UE coinciderebbe con l'euro e con una conseguente politica economica sbagliata, ma in realtà l'UE non può ridursi a espressione giuridica di una moneta, essendo il risultato di una concertazione tra imperialismi. L'Unione nasce da una comune volontà di intervenire contro il proletariato continentale e dalla spinta capitalistica ad espandersi verso l'est Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Indubbiamente, in questo patto interimperialistico i rapporti di forza pesano: l'imperialismo tedesco risulta il più potente e ciò emerge chiaramente nei Trattati.
Ma contrariamente alla narrazione diffusa non è stata la Germania il primo paese ispiratore dell'Unione, bensì la Francia che - a partire da Mitterand - ha spinto verso la moneta unica continentale per imbrigliare il Marco tedesco, accettando come contropartita l'unificazione tedesca. Parigi si illudeva di poter essere egemone in virtù della sua superiorità politico-militare, ma tale ambizione non ha trovato corrispondenza nei fatti.
Ad ogni modo, in questa continua contrattazione, la Germania ha dovuto accettare, per dire, che la BCE adottasse il quantitative easing, un meccanismo di politica monetaria espansiva che è andato a vantaggio di paesi come l'Italia. Dunque, parliamo di compromessi tra imperialismi sovrani, da cui ognuno trae vantaggio in relazione alla forza che può esercitare.
Il discorso sulla burocrazia tecnocratica distaccata da tutto, che decide in barba agli Stati o magari ascoltando solo l'opinione tedesca, è un'altra bufala. Sin qui, tutte le scelte sono state concertate, anche con il contributo dell'imperialismo italiano.
Una nozione, quella di imperialismo italiano, che per i soggetti politici e culturali di cui parliamo è quasi un tabù...
Sì, la natura dell'imperialismo italiano è oggetto di una totale rimozione da parte della cultura sovranista. Eppure Lenin indicava l'Italia come imperialismo già nel primo '900, aggiungendo l'aggettivo "straccione", allora opportuno. Poi, lo sviluppo capitalistico degli anni '30 e, ancor di più, dei '60 ha portato questo paese a un rango da grande potenza economica. Ancor oggi, pur avendo perso pezzi del proprio apparato produttivo, l'Italia risulta essere la seconda manifattura industriale d'Europa. Ma non è solo questo a smentire l'assimilazione dell'Italia alla Grecia, proposta da Giacché. Il debito pubblico greco è posseduto dai capitali finanziari tedesco, francese, italiano ecc. Il che conferma il carattere semicoloniale di quel paese. Il debito pubblico italiano è detenuto principalmente da banche italiane, il che dà la misura di una persistente autonomia finanziaria. Non parliamo, poi, della proiezione internazionale del nostro paese, sempre più forte, e non solo in termini di missioni militari. In alcuni paesi balcanici (Albania, Romania, Serbia) l'Italia è la prima presenza imperialista, risultando seconda in Croazia. L'area balcanica, ricordiamolo, è un terreno competitivo tutt'altro che secondario. Così come centrale è oggi l'Africa, dove l'ENI è la prima grande azienda imperialistica in assoluto, superando persino i colossi cinesi. Peraltro, lo stesso recente Memorandum d'Intesa con la Cina sulla Nuova Via della Seta non mira solo - come contropartita per l'apertura dei porti italiani - a un ampliamento delle esportazioni sul mercato cinese. Legarsi alla filiera delle aziende cinesi può agevolare l'ulteriore espansione economica in Africa. Lo scontro con la Francia rinvia a questo: oltralpe vogliono mantenere le proprie posizioni in Africa. Laddove le critiche tedesche rimandano alla volontà di Berlino di consolidare le quote di mercato conquistate negli ultimi anni in Asia, senza esser turbati da temibili concorrenti.
Questo ci richiama alla mente il plauso di certi sovranisti di sinistra a Di Battista, in relazione alle sue invettive contro la politica francese in Africa. Come a dire che, se occasionalmente si torna a parlare di imperialismo, è solo per puntare l'indice contro quello degli altri paesi...
È tipico della storia patria: nei primi decenni del '900, la retorica del colonialismo italiano si alimentava attraverso la denuncia del colonialismo altrui, che impediva al nostro paese di "conquistare un posto al sole".
Gli intellettuali che denunciano solo l'imperialismo francese potranno pure autodefinirsi marxisti ma non fanno che palesare la propria subalternità all'imperialismo di casa propria. Di più, poiché per il "rilancio" dell'Italia si vede come necessario il rapporto con la Cina, si sconfina anche nella subalternità all'imperialismo cinese.
A tuo avviso, esiste un nesso tra questo approccio al tema dell'imperialismo e le posizioni sull'immigrazione, che in alcuni casi si approssimano a quelle delle destre?
Certamente, le posizioni sull'immigrazione sono un'altra espressione di subalternità. Nel caso di Giacché, la rappresentazione della destra viene assunta al 100%: egli parla in sostanza di un'invasione. Inoltre, nella già citata intervista, Grimaldi introduce pure un elemento complottistico che conferisce al discorso un sapore ancor più reazionario. Sul piano analitico, ciò è incredibile! Si rimuovono le ragioni materiali dei processi migratori, riconducibili al dominio imperialistico.
Dominio che, come si diceva, vede in prima fila la stessa Italia, attualmente impegnata pure nella corsa alle miniere di litio e di cobalto, utili per nuove produzioni come l'auto elettrica.
La stessa sollevazione algerina, in atto da settimane, non si limita a contestare l'autoritarismo del "sistema Bouteflika", rivolgendosi anche contro le ricadute materiali della dominazione straniera. Ossia, contro le politiche di austerità imposte, per conto delle potenze imperialiste, dagli organismi finanziari sovranazionali. Questi aspetti non si possono rimuovere. Noi non amiamo la retorica sull'immigrazione come espressione di libertà, che è l'opposto speculare del vade retro degli sciovinisti.
Il punto è che l'immigrazione è un dramma causato dall'imperialismo. Le politiche incentrate sui respingimenti e sul restringimento dei diritti non sono solo ingiustificabili, dato che questi processi sono stati innescati dai paesi respingenti, ma producono un allargamento dell'immigrazione irregolare, priva di qualsivoglia tutela e dunque tale da poter essere supersfruttata da imprenditori come, poniamo, quelli rappresentati dalla Lega di Salvini.
Quindi, con l'immigrazione parliamo di un altro tassello di una deriva che, a ben vedere, è complessiva, consistendo nella tendenza, tipica di diversi intellettuali, a legittimare il peggio del peggio sulla base di una fraseologia marxisteggiante. L'esempio più eclatante è quello di Diego Fusaro, che probabilmente ha scelto di esprimersi in questi termini per ottenere visibilità mediatica. Ma anche uno studioso di maggior levatura come Carlo Formenti, in alcuni dei suoi ultimi testi (La variante populista e Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista) sposa senza indugio le tesi sovraniste, abbandonando una lettura classista della realtà e facendosi coinvolgere nelle molte rimozioni qui citate, come quella relativa all'imperialismo italiano.
Hai appena nominato Fusaro, il sovranista più spregiudicato. Che ne pensi della sua condanna in blocco delle lotte per i diritti civili?
Alla base vi è una contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali che va respinta. Secondo i sovranisti, il femminismo, le mobilitazioni lgbt e, in generale, le ideologie libertarie, rientrerebbero totalmente nell'alveo del capitale globale transnazionale, che se ne farebbe scudo contro gli interessi nazionali. Si tratta di una lettura delirante, che si pone in un orizzonte culturale ultraconservatore. La logica da seguire è un'altra e rinvia a un'egemonia proletaria nei movimenti per i diritti civili, anche perché la piena realizzazione degli stessi è incompatibile con la salvaguardia del capitale.
Le ideologie liberalprogressiste, relegando i diritti civili nel quadro delle compatibilità vigenti, non possono che portare a risultati modestissimi, come dimostrano le unioni civili approvate in Italia dal centrosinistra. Ma chi separa gli interessi sociali dai diritti civili non fa che regalare l'egemonia su questo tema a forze come il PD e i suoi affini. Penso, ad esempio, a Marco Rizzo, che propone di continuo questo cliché: "la sinistra dei salotti si occupa dei diritti civili, mentre noi ci concentriamo sui proletari". Noi rifiutiamo questa cesura, così come quella tra oppressione di genere e movimento operaio, che non a caso la Rivoluzione d'Ottobre concepì in stretta connessione, tanto da portare con sé conquiste come la legalizzazione dell'aborto, poi venuta meno in seguito alla controrivoluzione stalinista.
È tutto molto chiaro. Ma c'è chi indica nel PCL l'alfiere di un internazionalismo astratto e perciò, in ultima analisi, incapace di scalfire le culture dominanti nel capitalismo globale...
Respingiamo con risolutezza queste critiche. Per 15 anni, come opposizione interna di Rifondazione Comunista, e poi per 12 come PCL abbiamo svolto una lineare battaglia classista contro l'europeismo riformista, denunciandone l'appiattimento sulle politiche di austerità.
Mentre noi eravamo impegnati in tal senso, i vari Ugo Boghetta e Marco Rizzo, oggi campioni verbali dell'attacco all'UE, partecipavano acriticamente alle illusioni riformiste. Il secondo in particolare, era dirigente di Rifondazione nel '97-'98, quando il governo di centrosinistra gettava le basi per entrare nell'euro e varava il Pacchetto Treu; poi, in seguito alla rottura con Bertinotti, ha sostenuto il governo D'Alema che bombardava la Serbia.
Per non dire del fatto che, al Parlamento europeo nel 2005, arrivò a votare i Trattati Europei.
Noi, invece, siamo sempre stati per la rottura con l'UE però su una base di indipendenza proletaria. Un ipotetico governo dei lavoratori, così come lo concepiamo noi, partirebbe anche da questi atti:
1) l'abolizione del debito pubblico verso il capitale finanziario;
2) la nazionalizzazione delle banche, unificate in un solo istituto centrale;
3) la cancellazione di tutti i trattati firmati con gli altri imperialismi in seno all'UE.
In sostanza, abbiamo sempre proposto una rottura diversa da quella legata agli interessi capitalistici nazionali, rivendicata da settori della piccola e media borghesia di casa nostra. L'idea che qualsiasi rottura con l'UE sia in sé positiva è profondamente sbagliata. Non si può prescindere dalla dinamica di classe che la produce. Il momento dell'Oxi, per dire, non era egemonizzato dal marxismo rivoluzionario, ma si basava su elementi progressivi: nel sentimento popolare di protesta pesavano le istanze giovanili e proletarie. Un altro conto sarebbe una rottura subalterna al Front National, alla Lega o all'AfD tedesca.
Bene, ma oggi questa battaglia di lunga data come intendete proseguirla? Come si può lavorare per una rottura con l'UE che non si confonda con quella agitata dai sovranisti?
Va puntualizzato che, proprio perché siamo per l'indipendenza di classe, intendiamo svolgere una duplice azione: contro l'UE, ma anche contro l'imperialismo italiano, al quale nei prossimi tempi dedicheremo sempre più attenzione.
Oggi, oltre alla persistenza dell'UE c'è una tendenza a sgomitare delle diverse potenze nazionali che va registrata e denunciata. Fatta questa precisazione, va detto che è nostro obiettivo sviluppare un lavoro comprendente almeno due livelli. Il primo riguarda la definizione di una politica classista in senso generale, tale da cementare la solidarietà tra i proletariati europei. È un piano, questo, che concerne le rivendicazioni materiali e dovrebbe tradursi in una piattaforma unificante nei singoli paesi e a livello continentale. Tra i suoi punti qualificanti: quel salario minimo europeo che non andrebbe lasciato ai populisti (noi pensiamo a un salario minimo intercategoriale di 1500 euro); la ripresa della battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro, che oggi dovrebbe coincidere con le 30 ore a parità salariale o, per meglio dire, in un quadro di aumenti salariali; la già citata abolizione del debito pubblico per reperire le risorse atte a rilanciare le politiche sociali. Ecco, questo è, se vogliamo, il nostro "europeismo". Carlo Formenti arriva a negare l'esistenza dell'Europa in quanto categoria politica, ma noi gli ricordiamo che, nel 1923, quando c'era tensione tra Francia e Germania per il controllo della Ruhr, l'Internazionale Comunista di Lenin e Trotsky lanciò con vigore la parola d'ordine dell'Unione degli Stati Socialisti d'Europa. Memori di questo esempio, riteniamo sia necessario creare le basi per unire il proletariato su scala continentale. Per quanto riguarda il secondo livello, esso rimanda a un serrato confronto strategico e lavoro comune con tutti i settori dell'avanguardia proletaria con cui vi siano affinità programmatiche e di principio. Non solo, quindi, con le realtà del trotskismo con cui siamo già in contatto (vedi Anticapitalisme et Revolution, in seno al Nouveau Parti Anticapitaliste francese).
Alla Terza Internazionale aderirono correnti di orientamento ideologico assai differente da quello dei bolscevichi, perché ne condividevano gli obiettivi di fondo. Ora, questa ricomposizione delle avanguardie europee potrebbe portare, in prospettiva, proprio alla ricostruzione della IV Internazionale.
3 Aprile 2019
Il Pane e le rose
Collettivo redazionale di Roma
Note:
(1) Intervista con un economista contro
dal sito Il Pane e le Rose
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