LIBERTA' NON E' IL BURKINI
di Giuliana Sgrena
Perché Sì. Garantire, anche per legge, la parità, vuol dire respingere tutte quelle discriminazioni subite soprattutto nel mondo musulmano
Il burkini è una scoperta recente, fino a 10 anni fa non esisteva e non si sentiva il bisogno di un burqa da bagno. La nuova moda di costumi da bagno per musulmane è nata in occidente: inaugurata in Australia per musulmane bagnino, si è poi diffusa nel paesi del Golfo per poi raggiungere gli Stati uniti e infine in Europa.
Il burkini si è ben inserito nel fiorente mercato della moda islamica, promossa anche da stilisti famosi come Dolce e Gabbana, Valentino, Prada e da grandi magazzini come Mark & Spencer – che ha lanciato un proprio marchio -, H&M, Zara e Mango.
Una modest fashion il cui giro di affari nel 2013 ha raggiunto i 235 miliardi di dollari ed è in ulteriore espansione. Frequentando le spiagge di diversi paesi arabi e musulmani mi è capitato di vedere donne che si facevano il bagno con maglietta e pantaloni (Egitto) o con normali costumi da bagno in Algeria o Tunisia. Certo mi è capitato anche di vedere una saudita con velo integrale, calze e guanti, andare con un pedalò sul mar Morto mentre ascoltava i discorsi registrati di un imam.
Siccome il sole di Giordania era incandescente la ragazza con marito e cognato avevano approfittato della nostra tenda – una sorta di ampio ombrellone – per ripararsi: i maschi erano in costume e non si sono certo scandalizzati per il nostro bikini e tanto meno del fatto che la moglie di uno dei due grondava sudore e per bere doveva nascondersi dalla vista del pubblico per potersi alzare il velo. Forse ora porterà i burkini e magari per lei sarà un miglioramento, ma per tutte le musulmane che ho visto in costume nei loro paesi d’origine certamente no.
Dunque difendere il burkini facendo appello all’identità delle donne musulmane è una sciocchezza. Ma questa nuova «moda» fa parte di quel processo di reislamizzazione – di cui la Turchia è solo l’ultimo esempio – che vuole ricondurre la pratica religiosa al rigore e a un’ostentazione dell’appartenenza che penalizza le donne. A un’interpretazione fondamentalista dell’islam va ricondotto anche l’obbligo del velo che non è previsto dal Corano. E ora persino il burkini farebbe parte delle prescrizioni del Profeta!
Ma sono sempre i maschi – che non fanno certo il bagno con una jellaba firmata Mark & Spencer – a dettare legge. Una regressione nella libertà delle donne musulmane evidente anche nelle Olimpiadi: l’algerina Hassiba Boulmerka – medaglia d’oro nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 – non portava certo l’hijab. E non ha smesso di correre con i pantaloncini anche quando è stata condannata a morte dagli islamisti di casa sua. Sulle libertà conquistate non si può tornare indietro.
Sentire parlare – anche femministe – della libertà di portare il burkini mi fa venire in mente le donne afghane che quando si toglievano il burqa avevano il viso squamato, poi hanno scoperto le conseguenze: mancavano di vitamina D che si sviluppa con l’esposizione al sole.
La decisione di vietare il burkini presa da alcuni comuni della Costa azzurra, Corsica, Catalogna e anche da un hotel ad Hammamet ha fatto gridare allo scandalo. Le stesse proteste che seguirono l’approvazione in Francia della legge che vietava l’uso di simboli religiosi e che invece ha funzionato.
Vietare il burkini – secondo i «benpensanti» – alimenterebbe l’islamofobia. È esattamente il contrario. Sottolineare le differenze alimenta l’identitarismo che provoca scontri e ha portato persino a delle guerre (ricordate l’ex-Jugoslavia).
Difendere la dignità della donna garantendole la parità, invece, vuol dire respingere tutte quelle discriminazioni che la donna ancora subisce, soprattutto nel mondo musulmano. Vogliamo schierarci dalla parte dei fondamentalisti che considerano le donne impure e per questo le obbligano a seguire i loro diktat o vogliamo sostenere quelle che lottano per liberarsi da una religione invasiva dello spazio pubblico e politico perché non ha ancora avviato un processo di secolarizzazione?
Sostenere la «libertà» di portare il burkini vuol dire ignorare la condizione delle donne musulmane. Come mi ha detto un’amica algerina: «Noi non possiamo decidere nulla (matrimonio, divorzio, poligamia, eredità, etc.), è singolare che invece saremmo noi a scegliere di portare il velo» (o il burkini). Continuando di questo passo invece di progredire ci troveremo anche noi con le piscine aperte solo ai maschi (già ora c’è chi ritiene che non basti il burkini perché quando la donna esce dall’acqua lascia intravedere le forme), gli autobus separati – dietro le donne e davanti i maschi – e con l’apartheid nelle scuole.
Forse non saranno leggi o divieti a far crescere la consapevolezza delle imposizioni subite dalle donne, costrette a negare il proprio corpo per salvaguardare l’onore del maschio, tanto meno la tolleranza, ma un convinto e determinato impegno a promuovere quei valori universali che solo uno stato laico può garantire.
19 Agosto 2016
dal sito Il Manifesto
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
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