lunedì 24 gennaio 2011
LA DIMENTICATA GUERRA DI COREA
di Antonio Moscato
Pubblichiamo dai Quaderni della Fondazione Che Guevara, per gentile concessione della MASSARI EDITORE questo saggio di Antonio Moscato che si può anche trovare, in una versione leggermente diversa, nel sito dell'autore http://antoniomoscato.altervista.org/
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PREMESSA AUTOCRITICA DI OMAGGIO AL CHE
Quando lessi per la prima volta i riferimenti nei primi scritti di Guevara alla guerra di Corea, messa sullo stesso piano di quella del Vietnam, ammetto che avevo pensato si trattasse di una ingenua accettazione di un mito diffuso nel movimento comunista negli anni della formazione del Che: la Corea del Nord sarebbe stata vittima di un' aggressione del Sud, subito rintuzzata con tanto slancio da occupare gran parte delle repubblica meridionale ecc.
In effetti la realtà era più complessa e la guerra di Corea fu molto diversa da quella del Vietnam per vari aspetti: in primo luogo il peso preponderante dell'esercito regolare del Nord rispetto alla guerriglia, ma anche l'incoraggiamento dato dall'Urss staliniana per un'errata valutazione dei rapporti di forza internazionali, e anche per costringere la Cina, appena liberata, a impegnarsi in una lotta dura e pericolosa anziché sui problemi interni. Inutile dire che dal "campo socialista" il Vietnam fu frenato e non incoraggiato a lottare per la riunificazione.
Tuttavia il Che aveva colto un aspetto essenziale: quella guerra pur cominciata in modo discutibile e presentata con una propaganda "vittimista" poco verosimile, era una guerra legittima per la riunificazione di un popolo diviso non per sua scelta, e fu condotta con una tenacia tale da infliggere durissimi colpi al potentissimo esercito degli Stati Uniti.
Proprio in base a questa esperienza, molto probabilmente, i settori oltranzisti del Pentagono che progettavano di invadere la Repubblica popolare del Vietnam del Nord, restarono in minoranza. In definitiva fu una guerra che se localmente ha lasciato un pesantissimo strascico ed è stata pagata a carissimo prezzo dalla popolazione (del Nord, ma anche del Sud), ha contribuito a bloccare per decenni le velleità più aggressive dell'imperialismo.
Ricordarla oggi, è anche un modo per rendere omaggio alla lungimiranza del Che.
La guerra di Corea sembra sia stata del tutto dimenticata, anche se ha provocato almeno quattro milioni di morti. Mentre di quella del Vietnam arriva alle giovani generazioni almeno un pallido riflesso attraverso film e riferimenti generici nei dibattiti politici, di quella di Corea non si parla praticamente mai, forse anche perché quanto rimane della sinistra è imbarazzata dall’inequivocabile responsabilità dello stalinismo nel suo inizio, mentre la destra non ama ricordare (e meno che mai oggi, di fronte agli incerti esiti della guerra in Iraq) in che terribili difficoltà si trovarono gli armatissimi marines, che non riuscirono a stravincere, e dovettero accettare un compromesso imposto dalla maggior parte degli alleati rinunciando all’escalation atomica più volte preannunciata pubblicamente.
Dei tanti film prodotti su di essa a Hollywood, per giunta, neppure uno è sopravissuto a quegli anni per la troppo evidente rozzezza propagandista accompagnata da un non dissimulato razzismo.
Invece può essere utile ritornare su quell’episodio, che fornisce alcuni spunti per riflettere su alcune contraddizioni ricorrenti nella politica estera degli Stati Uniti, sulla difficoltà a concepire un’alleanza con Stati sovrani e non vassalli, e anche sulle difficoltà a affrontare una vera guerra prolungata, sia pure “asimmetrica”. A questa rilettura si presta molto bene il libro di uno studioso canadese, Steven Hugh Lee, dedicato appunto a La guerra di Corea (1).
Un libro attentissimo sia alla delicata questione delle divisioni interne all’establishment di Washington, sia ai conflitti degli Stati Uniti con alcuni degli alleati, in particolare con Canada e Gran Bretagna.
Gli antefatti della guerra
La Corea aveva avuto per tredici secoli un’esistenza sostanzialmente indipendente e abbastanza stabile sotto tre dinastie (si susseguirono la Silla dal 668 al 935, la Koryo dal 935 al 1392, e la Yi –o regno Choson- dal 1392 al 1910, sia pure sotto l’influenza culturale della Cina, con il cui Impero esisteva un rapporto di vassallaggio quasi simbolico. Nel XV secolo la Corea aveva raggiunto un livello notevole di civiltà: tra l’altro si era dotata di un originale alfabeto fonetico, che aveva permesso di realizzare la stampa a carattere mobili mezzo secolo prima di Gutemberg.
Nella seconda metà del XIX secolo il declino della Cina accelerato dalla Guerra dell’oppio del 1840-1842, aveva esposto anche la Corea alla penetrazione dei paesi imperialistici, e del Giappone, che appariva allora solo un loro prezioso ausiliario per il rapido intervento di repressione delle rivolte in Cina e nell’area, ma che si preparava ad assumere un ruolo di primo piano almeno a livello regionale.
Il Giappone, a cui prima gli Stati Uniti e poi le potenze europee avevano imposto dal 1854 una serie di “Trattati ineguali”, già nel 1876 imitava i suoi maestri imponendone uno analogo al Regno di Corea. Seguirono poi gli Stati Uniti nel 1882, Inghilterra e Germania nel 1883, Italia e Russia nel 1884, Francia 1886, Austria 1892, e perfino Belgio e Danimarca, rispettivamente nel 1901 e 1902. Ma era il Giappone che aveva messo l’ipoteca più grande sulla Corea: fin dal 1894 vi era intervenuto militarmente col pretesto di reprimere una rivolta contadina. Le proteste cinesi innescavano la guerra cino-giapponese, al termine della quale la Cina aveva perso del tutto Taiwan e le isole Pescadores, mentre il Giappone aveva conquistato posizioni in Manciuria e in Corea. Appoggiato da Stati Uniti e Gran Bretagna il nascente imperialismo nipponico sorprese il mondo sconfiggendo la potenza russa (che era stata considerata per tutto il secolo precedente una delle più forti d’Europa), e approfittò di quel successo per spazzare via la dinastia Yi, che regnava sulla Corea dal 1392. Il 27 luglio 1905 un trattato segreto con gli Stati Uniti (conosciuto poi come Katsura-Taft) dava via libera alla colonizzazione giapponese della Corea, in cambio di un analogo atteggiamento nipponico di fronte alla colonizzazione statunitense delle Filippine.
Nel 1910 la Corea veniva formalmente annessa al Giappone, dopo una spietata repressione di chi tentava di resistere (nel solo 1907-1908, secondo fonti giapponesi, furono uccisi 14.566 “ribelli” coreani). Tra il 1910 e il 1945 la dominazione giapponese fu durissima: il 46% delle terre, le migliori, vennero requisite per i coloni giapponesi, le industrie di beni di consumo annientate, mentre due milioni di coreani furono costretti a emigrare in Giappone dove lavorarono nell’industria bellica, mal pagati e discriminati.
Già il 1 marzo 1919, tuttavia, si ebbe una grandissima mobilitazione per l’indipendenza, promossa da trenta personalità con una dichiarazione inviata al governatore giapponese e letta in tutte le città: fu repressa nel sangue (con migliaia di morti), ma rappresentò un punto di riferimento per il futuro e vide emergere alla testa del movimento di resistenza i primi marxisti, che nel 1925 diedero vita al partito comunista di Corea.
Negli anni ’30 un settore del Partito comunista si legò alla resistenza cinese in Manciuria, dove fece preziose esperienze di guerriglia, mentre altri militanti, rifugiatisi in Urss entrarono come ufficiali nell’Armata Rossa.
Tra il 1937 e il 1945 c’erano stati sporadici episodi di guerriglia antigiapponese, poi esaltati dalla propaganda della Corea del Nord soprattutto per ingigantire il ruolo svolto da Kim-Il-Sung che dopo aver eliminato i suoi avversari nel partito, divenne di fatto “il fondatore della quarta dinastia” lasciando alla sua morte nel 1994 il mediocre figlio Kim Jong-il al potere in un paese dissestato. Ma di fatto il Giappone dalla corea non è stato cacciato da una lotta del popolo (come è accaduto invece in Vietnam), ma al momento della sua resa dopo Hiroschima e Nagasaki.
L’occupazione del paese avvenne da parte delle truppe sovietiche che scendevano dalla Manciuria, e da quelle statunitensi sbarcate a Sud per non lasciare l’intero paese all’influenza sovietica. L’intervento dell’Urss nella guerra col Giappone (più volte sollecitato da Roosevelt) era avvenuto tardivamente, quando già Truman aveva deciso, proprio come ammonimento all’Urss, il lancio delle atomiche su un Giappone già disposto alla resa.
Tuttavia il dilagare delle truppe sovietiche, che avevano al loro interno molti coreani, rifugiatisi da molti anni nella vicina Vladivostok, e la preoccupazione ben maggiore per il futuro della Cina, portarono Washington ad accettare come una necessità la spartizione della Corea in due zone di influenza e quindi per il momento di occupazione militare. Il confine provvisorio tra le due zone fu tracciato quasi casualmente lungo il 38° parallelo su una cartina da alcuni ufficiali statunitensi che non erano mai stati in Corea, e fu accettato poi da Stalin, anche se con scarso entusiasmo dei comunisti coreani.
Ovviamente i due embrioni di stato che si formarono al Nord e al Sud (e che saranno più tardi costituiti formalmente come Repubblica popolare di Corea e Repubblica di Corea), analogamente a quanto accadde nello stesso periodo nella Germania divisa, svilupparono una forte ostilità reciproca per ragioni sociali interne: attorno a Syngman Rhee, nel sud, si raccolgono non solo gli elementi più conservatori, ma anche i resti dell’amministrazione che aveva collaborato con l’occupazione giapponese,mentre il Governo del Nord incoraggia la formazione di comitati contadini in tutto il paese, e soprattutto nel Sud, dove vengono quotidianamente repressi.
L’inizio della guerra fredda si somma dunque a tensioni sociali e politiche preesistenti e prepara la miscela esplosiva per la deflagrazione del conflitto.
La responsabilità dell’inizio della guerra
Le infiltrazioni e gli attacchi reciproci (del Sud e del Nord) erano iniziate sin dal 1948, cioè molto prima che cominciasse la guerra vera e propria. Il conflitto era stato posto subito sotto “l’egida dell’ONU”, che aveva avuto un ruolo ipocrita avallando in pieno l’intervento degli Stati Uniti in quella che era di fatto una guerra civile, una lotta per l’unificazione del paese e, dal punto di vista della Corea del Nord, una prosecuzione della lotta antigiapponese (dato che nel sud, intorno al governo della Repubblica di Corea sotto la protezione USA, si erano raccolti molti collaborazionisti).
Ovviamente nelle ricostruzioni di comodo si sorvola sul fatto che il Giappone, che aveva oppresso la Corea per quaranta anni (dal 1905 al 1945), era diventato dopo la seconda guerra mondiale uno stretto alleato degli Stati Uniti, e questo pesava non solo nella propaganda comunista, ma nella stessa percezione del pericolo da parte della popolazione della Repubblica Popolare di Corea, nel nord.
Per giunta gli Stati Uniti si erano immischiati più volte nelle vicende della penisola: già nel 1871 avevano bombardato dei forti sul fiume Han, e altrettanto avevano fatto in anni successivi con vari pretesti. In varie fasi della penetrazione giapponese nella Corea (che portò nel 1894-1895 alla guerra cino-giapponese), gli Stati Uniti avevano sostenuto il Giappone, che dopo l’impresa del commodoro Perry del 1853 era diventato un loro protettorato di fatto, a cui erano stati imposti trattati ineguali, e a cui era stato vietato di mettere il naso nell’area che cominciava a interessare l’espansionismo degli USA. Ad esempio nel 1881 il governo giapponese fu costretto a rifiutare un trattato su basi di uguaglianza proposto dalle Hawai, che erano ancora (per poco!) uno Stato indipendente.
La penisola coreana fu conquistata durante la guerra russo giapponese; già nel 1905 il suo possesso fu riconosciuto al Giappone dagli Stati Uniti, in cambio dell’accettazione da parte giapponese della conquista statunitense delle Filippine avvenuta nel 1898 (insieme a quella di Cuba, Portorico e Guam) e fortemente contestata da una tenace guerriglia locale che – come a Cuba – aveva cominciato con successo da anni la lotta contro il dominio spagnolo. Il Giappone era stato fortemente tentato di appoggiare l’opposizione agli Stati Uniti ma preferì concentrare per il momento i suoi sforzi nell’assimilazione della Corea e delle parti della Manciuria in cui aveva messo piede.
Tutti gli osservatori non faziosamente filostatunitensi riconoscono oggi che l’episodio che dà inizio alla guerra vera e propria, il 25 giugno 1950, era stato preceduto da centinaia di attacchi anche delle forze militari del sud a varie regioni del nord, oltre che da infiltrazioni di guerriglieri provenienti dal nord in diverse regioni del sud, dove avevano appoggiato rivolte contadine represse poi nel sangue. (2) Il regime di Syngman Rhee d’altra parte si era distinto anche nella repressione della sinistra non comunista nel sud.
Certamente l’attacco (o contrattacco, come sostenne con scarsa verosimiglianza) del giugno 1950 fu un tentativo maldestro del regime di Pyongyang di dare un colpo definitivo ai tentativi di aggressione più volte praticati e teorizzati pubblicamente da Syngman Rhee, e fu incoraggiato da Stalin irresponsabilmente. Secondo molti commentatori voleva probabilmente impegnare in questa guerra il governo comunista della Cina (arrivato al potere da meno di un anno), bloccandone ogni velleità di costruirsi una politica indipendente. Molti autori hanno sottolineato che in quella fase Mao cercava – senza successo - un modus vivendi con gli Stati Uniti. Ma non occorrono informazioni speciali per capire che un paese uscito da decenni di terribile guerra civile avrebbe avuto bisogno di un periodo di tregua, e di normali relazioni commerciali per procurarsi attrezzature industriali e tecnologia.
Di armi invece non ne aveva bisogno, anche perché l'esercito nazionalista si era sfaldato lasciando nelle mani dei comunisti enormi arsenali forniti dagli Stati Uniti.
La guerra fu combattuta nella prima fase solo dagli eserciti delle due Coree, e si stava concludendo con una clamorosa sconfitta del sud (il cui dittatore era fuggito in Giappone con tutte le risorse auree del paese). Presto però intervennero a fianco (o meglio al posto) dell’esercito sudcoreano ingenti forze statunitensi, con qualche contingente inglese, australiano e canadese, e la presenza simbolica di diversi Stati tra cui l’Italia. Poté essere presentata come una guerra sotto “l’egida dell’ONU”, solo grazie a un gioco ambiguo della stessa URSS, che si assentò per molti mesi dal Consiglio di Sicurezza per protesta contro la non assegnazione alla Cina del seggio permanente lasciato a Taiwan, evitando così di bloccare col suo veto la decisione di riconoscere come legittimo il già avvenuto intervento degli Stati Uniti.
Hugh Lee riporta, per spiegare l’atteggiamento di Stalin, la sua autocritica sul mancato appoggio alla lotta dei comunisti cinesi, fatta soprattutto con i dirigenti jugoslavi che discussero a lungo con Stalin prima della rottura (in particolare a proposito della guerriglia in Grecia). Ma non c’è dubbio che il suo comportamento pose seri problemi alla Cina, che quando le truppe statunitensi arrivarono al fiume Yalu che segna il confine tra Corea del nord e Repubblica popolare cinese, fu costretta a inviare a sostegno dei comunisti coreani centinaia di migliaia di volontari.
Grazie all’ambiguità dell’ONU avallata dall’URSS la guerra fu presentata al mondo come una “azione di polizia” internazionale, e condotta con decisione sotto il comando del generale MacArthur, poi, dopo la sua destituzione perché le sue minacce avventate e troppo esplicite di invasione della Cina e di uso delle atomiche avevano suscitato le proteste di Canada e Gran Bretagna, dal generale Ridgway (soprannominato poi “generale peste” perché accusato –con qualche fondamento- di aver usato armi batteriologiche letali).
La Cina, praticamente costretta a intervenire con i suoi “volontari” (alcuni efficienti e sperimentati, tra cui molti coreani che avevano combattuto nell’Esercito Popolare cinese, mentre altri erano stati arruolati tra i resti delle armate nazionaliste sconfitte) fu sottoposta a una prova durissima, anche se militarmente efficace, che segnò i suoi rapporti futuri con l’Urss, a cui non perdonò di non aver sostenuto adeguatamente chi era stato mandato allo sbaraglio, e di non aver usato la sua forza di dissuasione per fermare le minacce di invasione statunitensi.
Il costo della guerra
La guerra costò carissima alle due parti. Ma, come era avvenuto nella guerra tra Iraq e Iran (scatenata inizialmente da Saddam, sia pure “per conto terzi”, ma protratta assurdamente per otto anni da Khomeini con la speranza di cancellare il “piccolo Satana”), anche in questo caso se la responsabilità maggiore dell’avvio fu del Nord e di Stalin, il protrarsi dei combattimenti anche dopo che era stato raggiunto un equilibrio di forze su una linea più o meno corrispondente al precedente confine provvisorio del 38° parallelo, va attribuita all’ostinazione degli Stati Uniti, che appoggiarono pienamente la pretesa di Syngman Rhee di cancellare il Nord. Non vi riuscirono, ma il 45% delle vittime si ebbe durante il lungo protrarsi delle trattative. Le perdite degli USA furono impressionanti, e invano si cercò di nasconderle all’opinione pubblica, che era stata inizialmente convinta della necessità di un “contenimento dell’Urss”, in base alla “teoria del domino”, ma fu poi gradatamente sempre più preoccupata e divenne anzi largamente ostile al proseguimento della guerra.
Nell’ultima fase della guerra, in realtà, le perdite erano state parzialmente ridotte mandando in prima linea militari sudcoreani direttamente inseriti nelle truppe statunitensi, e dando un notevole spazio in tutte le diverse armi anche a un gran numero di neri (nella seconda guerra mondiale vigeva invece ancora una sostanziale segregazione e i neri combattevano in formazioni separate), che lamentarono però nuove discriminazioni e soprattutto l’esposizione ai compiti più rischiosi, con la conseguenza di una maggiore percentuale di morti. Anche per questo molti di coloro che caddero prigionieri dei nordcoreani, circa il 30%, furono toccati dalla loro propaganda e la riferirono al ritorno in patria. Così le campagne sulle “terribili torture” e le “selvagge uccisioni di prigionieri” furono sostituite da quelle sul “lavaggio del cervello dei prigionieri”, che a un’inchiesta riservata dell’esercito risultarono prive di ogni fondamento. (3)
Analogamente a quanto accadde allora, oggi in Iraq si pensa di arruolare un po’ di iracheni anche nelle truppe di terra, in cui comunque ci sono già parecchi latinoamericani che combattono nella speranza di avere e fare avere alla famiglia la tanto desiderata cittadinanza statunitense. E muoiono tra i primi. Tanto più facilmente perché la loro preparazione militare è assolutamente insufficiente, e la loro motivazione morale assai scarsa.
Comunque durante la guerra di Corea l’atteggiamento dell’opinione pubblica statunitense si era modificato sempre più, nonostante il dilagare del maccartismo che vedeva ovunque i “complici dell’aggressione comunista”: i sondaggi nell’ultimo periodo rivelavano che più della metà degli interpellati davano un giudizio nettamente negativo sull’impresa. Un dato da meditare, oggi, per capire i futuri sviluppi della presenza USA in Iraq: nonostante l’equivalente odierno del maccartismo, con la soppressione dopo l’11 settembre e col pretesto del “terrorismo internazionale” di gran parte dei diritti democratici sanciti dal Bill of rights (come vuole fare anche in Italia il generale Tricarico), i democratici bellicisti di Truman furono sconfitti nelle elezioni presidenziali del 1952 dal più realistico generale repubblicano Eisenhower.
La fine della guerra e il suo lascito
La fine della guerra fu determinata da vari fattori: la morte di Stalin non fu in sé un fattore decisivo (Corea del Nord e Cina da tempo cercavano di trovare una via di uscita), ma coincise comunque con un riorientamento dell’economia sovietica da parte di Malenkov a favore dell’industria leggera (soprattutto beni di consumo), con una riduzione delle spese militari e quindi del possibile aiuto agli alleati.
In secondo luogo i dirigenti degli Stati Uniti vedevano con preoccupazione il protrarsi di una guerra che non riuscivano a vincere nonostante l’enorme sproporzione o “asimmetria”, come si dice oggi, dei mezzi a disposizione delle due parti, e soprattutto consideravano quella guerra insostenibile mentre si delineava la necessità di intervenire nel Vietnam, ben più importante strategicamente ed economicamente, e soprattutto ben diversamente sperimentato nella lotta contro giapponesi e francesi. Non a caso la conclusione della guerra di Corea si intreccia con la ritirata della Francia dal Vietnam in quella conferenza di Ginevra (aprile-giugno 1954) che gettò la basi per il successivo intervento statunitense nella penisola indocinese.
Due altri problemi sono invece lasciati al margine del libro di Hugh Lee: perché le due Coree hanno avuto successivamente sorti così diverse? Per certi aspetti il problema ha qualche analogia con la vicenda della divisione della Germania (che in più aveva l’eredità di un passato prevalentemente agricolo della parte orientale). Questo scarto fu aggravato dal feroce saccheggio voluto da Stalin, che fece pagare alla sola Rdt (in cui si erano concentrati gli antifascisti tedeschi) le riparazioni per i danni provocati dalla guerra di Hitler.
Nel caso delle due Coree al termine della guerra le distruzioni erano terribili da entrambe le parti, ma gli Stati Uniti aiutarono “generosamente” il Sud per farne un baluardo contro il comunismo, mentre la Cina aveva problemi enormi e non era in grado di fare altrettanto, e l’Urss –oltre a considerare secondario quello scacchiere- guardò con forte diffidenza la Corea del Nord troppo vicina ideologicamente e geograficamente alla Cina con cui dagli anni ’60 era esploso pubblicamente il grande conflitto latente da tempo.
Naturalmente ha pesato anche il fattore soggettivo della dinastia di Kim, sia per il suo gioco ambiguo tra Cina e Urss, sia per la rigidità con cui ha applicato il modello staliniano al paese, eliminando non solo i dirigenti provenienti dalle sinistre non-comuniste, ma anche quelli che nel partito e nel governo si erano opposti a Kim Il-sung per le più diverse ragioni.
Tra le conseguenze della Guerra di Corea, e del trauma che lasciò agli stessi Stati Uniti, risultati incapaci di ottenere quel che si erano proposti, cioè l’unificazione del paese sotto la guida di un anticomunista come Syngman Rhee, ce ne fu una in qualche modo positiva: durante la guerra del Vietnam le truppe statunitensi “si limitarono” a bombardare ferocemente e sistematicamente il Nord, ma si guardarono bene dall’invaderlo.
Ecco perché quando Guevara metteva sullo stesso piano le lotte dei popoli della Corea e del Vietnam non si sbagliava di molto: aveva in realtà intuito che proprio l’eroica resistenza delle truppe e della popolazione della Corea del Nord alle preponderanti forze Usa aveva inflitto un severo ammonimento a quella che già allora era la potenza imperialistica di gran lunga più forte e pericolosa.
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NOTE
(1) Steven Hugh Lee, La guerra di Corea, Il Mulino, Bologna 2003, trad. it. di Giuseppe Balestrino, pp212
(2) Molto dettagliata la ricostruzione che ne fa William Blum nel suo monumentale Libro nero degli Stati Uniti (il cui titolo originario è in realtà Killing Hope. Usa and Cia interventions since the 2° Word War (n.d.r.) con un aggiornamento di Nafeez Mosaddeq Ahmed, Fazi Editore, Roma, 2003, pp.65-80. Si veda anche Lo specchio del 38° parallelo, di Yi Hoyŏng, nell’ampio Dossier Corea pubblicato nel n. 1/1999 della rivista “Limes”, e il volume di Ernesto Toaldo, L’altra Corea, Editori Riuniti, Roma, 1978.
(3) Ampia documentazione su questi aspetti nel citato libro di W. Blum
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